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Il ruolo delle sirtuine nella disfunzione endoteliale del paziente obeso.

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Academic year: 2021

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1 Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

____________________________________________________________

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE

IN MEDICINA E CHIRURGIA

Tesi di laurea

IL RUOLO DELLE SIRTUINE

NELLA DISFUNZIONE ENDOTELIALE

DEL PAZIENTE OBESO

RELATORE

Prof. Stefano Taddei

CORRELATORE

Dott. Stefano Masi

CANDIDATA

Camilla Cozzi

(2)

2

Sommario

1.

Riassunto analitico ... 4

2.

INTRODUZIONE ... 7

2.1 L’obesità... 7

2.1.1 Definizione dell’obesità ... 7

2.1.2 Epidemiologia ... 8

2.1.3 Complicanze secondarie dell’obesità ... 10

Associazione con neoplasie ... 12

Associazione con patologie respiratorie ... 12

Associazione con patologie gastrointestinali ... 13

Associazione con patologie del sistema endocrino ... 13

Associazione con patologie osteoarticolari... 14

Associazione con patologie neurologiche e psichiatriche ... 14

2.1.4 Obesità e malattie cardiovascolari ... 14

Complicanze cardiovascolari dell’obesità ... 14

Associazione con fattori di rischio cardiovascolari ... 15

Ipertensione ... 16

Insulino-resistenza e diabete ... 16

Dislipidemia ... 17

Sindrome metabolica ... 17

2.1.5 Trattamento dell’obesità ... 19

2.2 L’endotelio ... 21

2.2.1 Funzioni dell’endotelio ... 21

2.2.2 Definizione di disfunzione endoteliale ... 23

2.2.3 Studio della funzione endoteliale ... 24

2.2.4 Disfunzione endoteliale nell’obesità ... 25

Prime evidenze nei grossi vasi ... 25

Alterazioni funzionali e strutturali del microcircolo. ... 26

Meccanismi di disfunzione endoteliale ... 27

(3)

3

L’insulino-Resistenza ... 29

L’infiammazione ... 30

Le adipochine ... 31

Il ruolo di fattori vasocostrittori: Endotelina e Trombossano ... 32

2.3 Le sirtuine ... 32

2.3.1 Introduzione alle sirtuine ... 32

2.3.2 Sirtuine e metabolismo: ruolo nell’obesità ... 34

2.3.3 Sirtuine ed endotelio ... 36

3.

Scopo dello studio ... 38

4.

Materiali e metodi ... 39

4.1 Popolazione studiata ... 39

4.2 Prelievo materiale bioptico ... 39

4.3 Isolamento delle arterie e conferma della vitalità ... 39

4.4 Test di reattività vascolare ... 40

4.5 Rilevazione della produzione di anione superossido vascolare ... 41

Rilevazione dell’anione superossido tramite DHE ... 41

Protocollo ... 41

4.6 Analisi statistica dei dati ... 42

5.

Risultati ... 43

5.1 Caratteristiche cliniche della popolazione studiata ... 43

5.2 Struttura e studio funzionale del microcircolo ... 43

5.3 Influenza di Sirt-1 sulla funzione endoteliale e rimodellamento vascolare... 47

6.

Discussione ... 50

7.

Conclusione ... 54

8.

Ringraziamenti ... 55

(4)

4

1. Riassunto analitico

La malattia cardiovascolare è la principale causa di mortalità a livello mondiale.

Tra i vari fattori di rischio per malattia cardiovascolare, l’obesità rappresenta quello che, nel corso degli ultimi anni, ha incrementato maggiormente la sua prevalenza nella popolazione generale, raggiungendo le proporzioni di una vera e propria epidemia nei paesi industrializzati. La sua incidenza nella popolazione mondiale è andata aumentando progressivamente nel corso degli ultimi 30 anni. Attualmente si stima che 2 miliardi di persone siano sovrappeso e oltre 500 milioni di persone siano obese a livello mondiale. Secondo le proiezioni della World Health Organization (WHO), nel 2025 il 40% della popolazione generale sarà obesa con un 15% di persone affette da obesità severa.

Dato che la prima causa di mortalità nel paziente obeso è rappresentata da malattie cardiovascolari, l’epidemia dell’obesità ha avuto importanti ripercussioni sulle statistiche di mortalità cardiovascolare. Infatti, nonostante il miglioramento delle terapie che ha consentito un miglior controllo dei fattori di rischio cardiovascolare e una progressiva riduzione delle morti per cause cardiovascolari, nel corso degli ultimi anni questi trends si stanno attenuando, in concomitanza con l’incremento della prevalenza dell’obesità.

Lo sviluppo di disfunzione endoteliale è uno dei più precoci eventi nell’evoluzione della malattia aterosclerotica ed è strettamente associata con l’obesità. Essa si caratterizza per un cambiamento in senso pro-aterosclerotico delle funzioni endoteliali che favorisce un precoce rimodellamento dei grossi e piccoli vasi. Nel paziente obeso, i principali fattori che si ritiene possano indurre uno stato di disfunzione endoteliale sono lo stress ossidativo, l’infiammazione e l’insulino-resistenza. In particolare, un’incrementata produzione di stress ossidativo a livello della parete vascolare nel soggetto obeso riduce la biodisponibilità di ossido nitrico (NO), una molecola con potenti funzioni anti-aterosclerotiche. Tra queste, le più importanti sono il mantenimento di un tono vasodilatante, l’inibizione della proliferazione cellulare e della diapedesi dei globuli bianchi, oltre ad una regolazione dei processi coagulatori che si estrinseca attraverso un’inibizione dell’aggregazione piastrinica. Una sua diminuzione non determina solo una ridotta vasodilatazione ma, influendo su tutti questi processi, facilita lo sviluppo della patologia aterosclerotica e delle sue complicanze. Quindi, l’identificazione di fattori che possano essere coinvolti nella disfunzione endoteliale nel paziente obeso e la loro correzione precoce potrebbe rallentare o ridurre l’incidenza di patologia aterosclerotica e delle sue complicanze.

Nel corso degli ultimi anni, alcuni studi condotti su modelli animali hanno suggerito che le sirtuine possano essere coinvolte nella regolazione della funzione endoteliale. Le sirtuine sono enzimi con funzione di deacetilasi NAD+ dipendenti, inizialmente identificati nell’ambito degli studi sulla longevità. La loro elevata espressione a livello di diversi organi e tessuti è stata associata ad un allungamento dell’aspettativa di vita e ad una riduzione del rischio di diverse patologie cronico-degenerative legate all’invecchiamento, quali cancro, malattie neurodegenerative, metaboliche e cardiovascolari. Nell’uomo queste proteine sembrano avere un ruolo nel prevenire la senescenza cellulare.

Oltre alla loro attività di protezione nei confronti dell’invecchiamento cellulare, le sirtuine sembrano essere in grado di stimolare la produzione di NO a livello delle cellule endoteliali. In particolare, l’attività deacetilante dell’isoforma Sirt-1 sembra essere in grado di stimolare l’attività dell’ossido

(5)

5 nitrico sintetasi endoteliale (eNOS) incrementando la biodisponibilità di NO e migliorando la vasodilatazione endotelio-dipendente. Inoltre, Sirt-1 sarebbe anche in grado di modulare i livelli di stress ossidativo sia potenziando l’attività di enzimi antiossidanti, sia inibendo l’attività di enzimi pro-ossidanti, quali la NADPH ossidasi.

Partendo da queste evidenze sperimentali, questa tesi si è focalizzata sul possibile ruolo di Sirt-1 nel mitigare la disfunzione endoteliale osservata nel paziente obeso e se, questo potenziale effetto protettivo potesse dipendere da un miglioramento dell’attività di eNOS e risultare quindi in un incremento della biodisponibilità di NO.

Inoltre, sono stati eseguiti esperimenti per comprendere se il potenziale effetto positivo di Sirt-1 sulla funzione endoteliale potesse anche dipendere da una ridotta produzione di radicali liberi dell’ossigeno. A partire da biopsie di tessuto adiposo sottocutaneo sono state isolate piccole arteriole di resistenza di 20 soggetti obesi sottoposti a chirurgia bariatrica. La funzione endoteliale è stata studiata tramite micromiografia a pressione, prima e dopo incubazione con sostanze stimolanti l’attività di Sirt-1, ed è stata paragonata a quella di 15 soggetti di controllo sani. Inoltre, per poter capire la proporzione di recupero della funzione endoteliale dovuta alla capacità di Sirt-1 di ripristinare l’attività della eNOS, la stimolazione di Sirt-1 è stata ripetuta con inibitore specifico della eNOS (L-NAME). In 5 esperimenti su soggetti obesi e di controllo, porzioni delle arteriole sono state congelate in OCT, successivamente sezionate e, sui piccoli anelli ottenuti per sezione trasversale dello spessore dell’arteriola, è stata eseguita la colorazione con diidroetidio al fine di quantificare la quantità di anione superossido presente nella parete vascolare. Infine, in 2 soggetti obesi è stata eseguita un’incubazione con gp91ds-tat prima del congelamento dell’arteriola. Il protocollo di colorazione con il DHE è sgp91ds-tato quindi ripetuto su sezioni di vaso ottenute ancora una volta dopo sezione trasversale della porzione congelata. Nel soggetto obeso, abbiamo riscontrato, come atteso, uno stato di disfunzione endoteliale caratterizzato da una ridotta risposta vasodilatante all’acetilcolina (Ach) rispetto a quella riscontrata nel soggetto sano. L’incubazione con L-NAME ha dimostrato che tale stato di disfunzione endoteliale era, almeno in parte, legato ad una ridotta funzione della eNOS. L’incubazione con agonista specifico per Sirt-1 (SRT1720) era in grado di ripristinare la vasodilatazione indotta dall’ Ach, mentre aveva minimi effetti sulla vasodilatazione indotta dall’Ach nei soggetti di controllo. L’effetto positivo del SRT1720 sulla funzione endoteliale del soggetto obeso veniva comunque annullato con l’ulteriore aggiunta di L-NAME, suggerendo che la stimolazione di Sirt-1 era in grado di migliorare la funzione endoteliale stimolando l’attività della eNOS ed incrementando la biodisponibilità di NO. I vasi dei soggetti obesi presentavano produzione di più elevate quantità di anione superossido rispetto ai soggetti sani. La pre-incubazione con gp91ds-tat determinava una significativa riduzione dei livelli di anione superossido della parete vascolare.

In micromiografia, abbiamo inoltre riscontrato un aumentato rapporto media:lume e una maggior media cross-sectional area, nei vasi del soggetto obeso rispetto ai normopeso. Questi valori sono indicativi di un rimodellamento ipertrofico del vaso, che risulta tanto maggiore quanto maggiore è la proporzione di disfunzione endoteliale attribuibile a Sirt-1, quindi, presumibilmente, quanto maggiore è il deficit di attività di Sirt-1.

(6)

6 Questo suggerisce quindi che le sirtuine hanno un ruolo importante nel regolare la funzione endoteliale nel soggetto obeso. Tale funzione si estrinseca sia attraverso una stimolazione dell’attività della eNOS, che attraverso la modulazione dei livelli di stress ossidativo sulla parete vascolare. I risultati presentati confermano che i soggetti obesi hanno una precoce disfunzione endoteliale, la quale risulterebbe almeno in parte modulata da Sirt-1. Tale modulazione si svilupperebbe sia tramite un’azione diretta di stimolo sulla eNOS, sia attraverso una parziale riduzione dei livelli di stress ossidativo sulla parete del vaso. Se confermati in altri studi con numeri superiori di soggetti, i dati presentati suggerirebbero che farmaci capaci di stimolare Sirt-1 potrebbero ridurre il rischio di evoluzione della patologia aterosclerotica nel soggetto obeso.

(7)

7

2. INTRODUZIONE

2.1 L’obesità

2.1.1 Definizione dell’obesità

L’obesità è definita come un eccessivo accumulo di tessuto adiposo che può compromettere la salute1,

e rappresenta uno dei maggiori problemi di sanità pubblica a livello mondiale. Essa si associa infatti a numerose comorbidità, che coinvolgono diversi organi e tessuti del corpo. Le patologie più frequentemente associate all’obesità sono rappresentate da: ipertensione, diabete mellito di tipo 2 e dislipidemia. Inoltre, numerosi studi hanno descritto un incremento dei livelli di infiammazione e di stress ossidativo nell’obeso. Tali alterazioni legate all’obesità rappresentano importanti fattori di rischio cardiovascolare. Per questo soggetti con obesità sono a maggior rischio di patologia cardiovascolare, inclusa la coronaropatia aterosclerotica, la cerebropatia ischemica ed emorragica e l’arteriopatia obliterante degli arti inferiori. Inoltre, nel paziente obeso è stata osservata una maggior prevalenza di patologie respiratorie, quali l’asma e le apnee ostruttive del sonno. Infine, alcuni studi hanno mostrato un incrementato rischio di patologie neoplastiche2.

Dato che la patologia aterosclerotica ed il cancro attualmente rappresentano le cause più comuni di morte nei paesi industrializzati, la prevenzione dei loro fattori di rischio, ed in particolare dell’obesità, è diventata una priorità per i sistemi sanitari dei paesi maggiormente sviluppati3.

A causa delle sue comorbidità, l’obesità influenza anche la vita quotidiana e di relazione del soggetto, comportando problematiche non solo di tipo medico, ma anche sociali e lavorative4.

Il Body Mass Index (BMI), definito come il peso in kg diviso per l’altezza in metri al quadrato (kg/m2), è

la misura internazionalmente accettata per valutare il sovrappeso e l’obesità, grazie alla sua facile applicazione e alla sua semplicità5. Sulla base del valore del BMI, la WHO ha identificato le seguenti

categorie di sovrappeso/obesità1,6:

Tabella 1. Stratificazione della popolazione generale in base ai valori di BMI. (Fonte: WHO, 1995)1

Categorie BMI (kg/m2) Sottopeso < 18 Normopeso 18 – 24.9 Sovrappeso 25 – 29.9 Obesità > 30 I Grado (lieve) 30.0 – 34.9 II Grado (moderata) 35.0 – 39.9

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8 Questa classificazione è stata sviluppata considerando il rischio di comorbilità associato all’incremento del BMI e permette quindi di stratificare il rischio di sviluppare diabete mellito di tipo 2, ipertensione e malattia cardiovascolare, come mostrato nella Tabella 2, tratta dalle linee guida sulla diagnosi e il trattamento di sovrappeso e obesità del National Institutes of Health (NIH)6.

Tabella 2. Classificazione di sovrappeso e obesità rispetto BMI, waist circumference e rischio di diabete mellito tipo 2, ipertensione e malattie cardiovascolari. (Fonte: NIH, 1998)6

Rischio di patologia cardiovascolare, ipertensione e diabete mellito di tipo 2, rispetto al peso e al waist circumference

BMI (kg/m2) Uomo ≤ 102 cm Donna ≤ 88 cm Uomo > 102 cm Donna > 88 cm Sottopeso < 18 …. …. Normopeso 18 – 24.9 …. ….

Sovrappeso 25.0 – 29.9 Aumentato Alto

Obesità, classe

I 30.0 – 34.9 Alto Molto alto

II 35.0 – 39.9 Molto Alto Molto alto

III ≥ 40 Estremamente alto Estremamente alto

Soglie di BMI diverse vengono utilizzate nei paesi Asiatici, dove il sovrappeso corrisponde a valori di BMI compresi tra 23 - 25 kg/m2 e l’obesità ad un BMI > 25 kg/m2 7. La necessità di utilizzare diversi

valori di riferimento è dovuta all’evidenza che, nelle popolazioni Asiatiche, per ogni valore di BMI si riscontrano patologie croniche associate all’obesità (quali ipertensione, diabete mellito, dislipidemia)8

e una mortalità superiori9,10.

Inoltre, il BMI come valore assoluto non è utilizzato per i bambini e per gli adolescenti, dove solitamente il sovrappeso viene definito in base ai percentili ottenuti dalle curve di crescita standardizzate per sesso, età e BMI della popolazione infantile. Seguendo questo metodo di classificazione, il sovrappeso sarà definito come un BMI tra l’85° e il 95° percentile, mentre l’obesità come un BMI superiore al 95° percentile per età e sesso corrispondenti al soggetto in esame11.

2.1.2 Epidemiologia

L’obesità rappresenta un problema globale: la prevalenza di sovrappeso e obesità valutate congiuntamente è aumentata nel corso degli ultimi 33 anni (considerando l’intervallo 1980-2013) del 27.5% negli adulti e del 47.1% nei bambini, passando da 921 milioni a 2.1 miliardi di persone con BMI superiore a 25kg/m2 delle quali oltre 500 milioni obese12. L’entità del problema ha fatto parlare di

“epidemia”13 o “pandemia” dell’obesità14. Questo incremento è rappresentato nella Figura 1, che

(9)

9 Figura 1. Epidemiologia di sovrappeso e obesità. (A) Trends sesso-specifici della prevalenza di obesità in Bianchi Americani e Neri Americani. (Fonte: National Health and Nutrition Examination Surveys) (B) Trends sesso specifici in Inghilterra. (Fonte: Office of National Statics Health Survey for England) (C) e

(D) Trends di BMI suddivisi per sesso di 12 paesi Europei. (Fonte: Renehan, 2008)15

Nel 2014, secondo i dati della WHO, tra i soggetti di età > 18 anni il 39% dei maschi e il 40% delle femmine risultava sovrappeso, mentre l’11% della popolazione maschile ed il 15% della popolazione femminile risultava obesa16. Considerando i trends attuali, è stato stimato che nel 2025 la prevalenza

dell’obesità eccederà il 40% nella popolazione globale, con il 6% degli uomini e il 9% delle donne obesità affetti da obesità severa17.

La prevalenza di sovrappeso e obesità risulta maggiore nei paesi sviluppati2 sebbene nel corso degli

ultimi anni un incremento si sia riscontrato anche in paesi più poveri. Recenti stime fornite dalla WHO suggeriscono che più del 50% dei 693 milioni di individui obesi vive in 10 stati: USA (paese con il tasso più alto di sovrappeso - 33.4% e obesità - 32.9%)5, Cina, India, Russia, Brasile, Messico, Egitto, Pakistan,

(10)

10 In Asia, tenendo in considerazione i diversi cut-off, è stato stimato che la prevalenza dell’obesità sia superiore al 20% sia per le donne che per gli uomini18.

I trends temporali mostrano un significativo incremento del problema obesità nei paesi in via di sviluppo o più poveri. Particolarmente allarmanti, in questo caso, sono i dati relativi alla diffusione dell’obesità nelle fasce di età giovanili della popolazione. Ad esempio, in America Latina l’incremento della prevalenza di obesità in bambini di età pre-scolare ha fatto sì che si raggiungessero valori paragonabili a quelli riscontrati nell’America del Nord, che si attestano intorno al 15%19.

Simili evoluzioni sono state osservate nelle regioni del Medio Oriente, quali Turchia, Iran, Emirati Arabi e nel Nord Africa, in particolare Algeria, Egitto, Marocco18,20.

In questi paesi, il cambiamento della dieta ha radicalmente cambiato le problematiche di salute legate al peso corporeo18. Infatti, mentre in passato erano predominanti patologie legate alla malnutrizione

(quali ritardo di crescita, alterato sviluppo neurologico, maggior incidenza di malattie infettive), la maggiore accessibilità al cibo ed il cambiamento nella composizione della dieta hanno portato ad un rapido incremento della prevalenza del sovrappeso e dell’obesità, con le conseguenze ad essi associate21.

Una differenza significativa tra i sessi nella prevalenza di obesità è riscontrabile tra paesi sviluppati e non. Infatti, mentre in questi ultimi il sesso femminile è più in sovrappeso del sesso maschile, nei paesi industrializzati sono gli uomini ad avere un BMI maggiore22.

Dal punto di vista sociale ed economico, è stato stimato che un obeso spende, ogni anno, il 42% in più in cure mediche rispetto a un normopeso23. La disabilità legata all’obesità è stata quantificata in 120.1

milioni di Disability Adjusted Life Years (DALYs)24 con una riduzione dell’aspettativa di vita calcolata tra

i 7 e i 10 anni25 e un totale di 4 milioni di morti all’anno direttamente attribuibili all’obesità26.

L’obesità infantile è relazionata strettamente alla salute dell’individuo. Vari studi dimostrano che l’80% dei bambini sovrappeso tra i 10 e i 15 anni diventeranno adulti obesi4 e, secondo dati forniti

dall’Harvard Growth Study, l’obesità in età infantile è un predittore di morbidità e mortalità in età adulta, indipendentemente dal successivo valore o cambiamento del BMI27. La prevenzione

dell’obesità in età infantile potrebbe quindi avere notevoli ripercussioni sull’aspettativa di vita adulta, oltre che sulla spesa sanitaria e qualità di vita della popolazione adulta. È stato stimato che una riduzione della prevalenza di obesità in età infantile pari all’1% potrebbe ridurre di 52.821 il numero di adulti obesi nel futuro, con un risparmio delle spese mediche di 586.3 milioni di dollari e un aumento del numero di Quality Adjusted Life Years (QALYs) di 47.12828.

La prevalenza di obesità in Italia risulta inferiore rispetto alla media dei paesi Europei. Circa 1 adulto su 10 risulterebbe obeso, mentre il 30-40% della popolazione sarebbe sovrappeso. Il sovrappeso e l’obesità infantile rimangono comunque problematiche importanti, colpendo il 30% dei bambini29.

2.1.3 Complicanze secondarie dell’obesità

L’obesità causa numerose complicanze che possono coinvolgere l’intero organismo e che possono determinare sia una significativa riduzione della qualità di vita, sia incrementare significativamente il rischio di mortalità. Un’associazione tra l’eccesso di peso ed un aumentato rischio di mortalità è stata confermata da diversi studi. Nel Framingham Heart Study, per esempio, è stato evidenziato come

(11)

11 l’aspettativa di vita di soggetti sovrappeso o obesi non fumatori sia, rispettivamente, 3 e 6 anni (7 anni nelle donne) inferiore rispetto a quella di soggetti normopeso non fumatori. Questo divario aumenta nei soggetti in cui vi era una concomitanza di obesità e abitudine al fumo25.

Risultati analoghi sono stati ottenuti da Flegal e colleghi, i quali, in una larga meta-analisi, hanno dimostrato come soggetti obesi avessero un significativo incremento della mortalità rispetto ai normopeso e come questo fosse soprattutto evidente nei soggetti con obesità di II e III grado30. Alcuni

autori, comunque, ritengono che definire il rischio di morte legato all’obesità unicamente sulla base del BMI possa rappresentare un’eccessiva semplificazione, non tenendo in considerazione importanti variabili aggiuntive quali, ad esempio, la distribuzione di adipe31.

Whitlock e colleghi hanno riportato che un aumento di 5 punti di BMI si associava ad un incremento del 30% di mortalità globale. Questo incremento di mortalità era dovuto per il 40% a cause vascolari, per il 50% a complicanze dovute a diabete mellito o ad alterata funzione renale o epatica. Un ulteriore 10% di morti era dovuto a cause neoplastiche32. L’esistenza di un legame tra BMI, cancro e mortalità è

stato analizzato anche nello studio di Reeves e colleghi che, prendendo in considerazione un’ampia popolazione femminile, hanno evidenziando come il 10-20% di neoplasie colonrettali, renali, pancreatiche e oncoematologiche potesse essere attribuibile all’eccessivo peso corporeo, percentuale che saliva fino al 50% considerando le neoplasie endometriali e gli adenocarcinomi esofagei33.

Già nel 1983, Hubert e colleghi avevano identificato un’associazione positiva tra obesità e mortalità per cause cardiovascolari, riportando una relazione tra BMI elevato e morte cardiaca in entrambi i sessi, indipendente da età, colesterolo, fumo, pressione sistolica e ipertrofia ventricolare sinistra34.

Più recentemente, uno studio su pazienti affetti da obesità severa (BMI > 40kg/m2) traeva le stesse

conclusioni e aggiungeva che le principali cause di mortalità risultavano essere quelle cardiache, seguite da morte per neoplasia e diabete. L’aspettativa di vita media si riduceva di 6.5 anni nei soggetti con BMI tra 40 e 44.9 kg/m2 ed addirittura di 14 anni in quelli con BMI > 45 kg/m2 rispetto ai soggetti

normopeso35.

Il legame tra obesità ed incrementato rischio di malattia cardiovascolare sembra svilupparsi sin dall’adolescenza. Nell’Harvard Growth Study, Must e colleghi hanno mostrato un incremento della mortalità globale e di quella dovuta all’aterosclerosi in adulti che da adolescenti risultavano sovrappeso27. Successivamente, riprendendo in studio la stessa popolazione, fu evidenziato che nelle

donne sovrappeso in età infantile si aveva un aumentato rischio di mortalità globale e per tumore mammario in età adulta36.

Da altri studi è emerso il dato secondo cui la mortalità sia relazionata non solo con il BMI, quanto e, talvolta, soprattutto, con la misura del girovita, in inglese “waist circumference (WC)”37. Questo valore

rappresenta una stima approssimativa del tessuto adiposo viscerale. Secondo alcuni autori, il grasso addominale sarebbe il maggior responsabile degli effetti deleteri dell’obesità, essendo relazionato ad una maggior insulino-resistenza e ad un maggior rischio cardiovascolare. Secondo quanto riscontrato dallo studio di Matsuzawa, questa relazione sarebbe attribuibile alla maggior produzione rispetto al grasso sottocutaneo di acidi grassi liberi (o free fatty acids - FFA) da parte del tessuto adiposo viscerale, condizione che favorirebbe l’acquisizione di un profilo metabolico pro-aterogenico38.

(12)

12 A sostegno di questa tesi, alcuni studi hanno riscontrato delle associazioni positive tra il deposito di grasso viscerale e l’ipertensione, la dislipidemia39, l’infarto miocardico40 e la cerebropatia vascolare41.

Il tessuto adiposo addominale, secondo alcuni, rappresenterebbe la base fisiopatologica per la quale, a parità di BMI, l’uomo sarebbe a maggior rischio di eventi cardiovascolari rispetto al sesso femminile, in quanto più propenso all’accumulo di tessuto adiposo viscerale piuttosto che sottocutaneo42.

Numerosi studi sottolineano che la WC possa rappresentare un miglior predittore di mortalità rispetto al BMI39,43. Nonostante questo, il WC non rappresenta un sostituto del BMI, piuttosto potrebbe fornire

informazioni più dettagliate sullo stato di salute attuale e futura dell’individuo44. Queste indicazioni

hanno portato all’inserimento del WC all’interno della definizione della sindrome metabolica, identificando la presenza di obesità centrale definita con un girovita > 94 cm per gli uomini o > 80 cm per le donne. Differenti valori sono usati a seconda dell’etnia45.

Una parziale conferma che l’obesità sia in grado di aumentare il rischio di mortalità deriva anche da studi di follow up di pazienti sottoposti a chirurgia bariatrica. In particolare, nello Swedish Obese Subjects Study, soggetti sottoposti a chirurgia bariatrica avevano una riduzione del rischio di mortalità globale pari al 30% per BMI > 40 kg/m2 ed al 20% per BMI compresi tra 30 e 39.9 kg/m2. Le prime due

cause di morte restavano comunque gli eventi cardiovascolari (infarto miocardico, morte improvvisa e ictus) e il cancro46.

Associazione con neoplasie

Come accennato precedentemente, numerosi studi hanno evidenziato che il soggetto obeso presenta una maggior incidenza di neoplasie che possono coinvolgere vari organi e apparati. Tra quelle che risultano di maggior rilievo anche per la loro mortalità, abbiamo il carcinoma colon-rettale, l’adenocarcinoma esofageo (minore sembra l’associazione con il carcinoma a cellule squamose), neoplasie del rene, fegato e colecisti e, nella donna, carcinomi endometriale e mammario, soprattutto nel periodo post-menopausale33. È stato stimato che il 15-20% delle morti associate a neoplasie negli

Stati Uniti sono associate a sovrappeso e obesità47.

Nel caso di neoplasie colon-rettali, l’obesità è associata sia al carcinoma sia a lesioni preneoplastiche, quali gli adenomi sessili, rafforzando l’ipotesi di un suo ruolo patogenetico48.

Più conflittuali sono le associazioni riportate con neoplasie di altri apparati, come quelle pancreatiche, della colecisti, della cervice uterina e ovariche. Sembrano invece essere concordi i vari studi che hanno analizzato l’associazione tra obesità ed un maggiore rischio di patologie oncoematologiche, quali leucemia, mieloma multiplo e linfoma non Hodgkin47.

Associazione con patologie respiratorie

Frequente è l’associazione tra obesità e malattie dell’apparato respiratorio, anche se a tutt’oggi i meccanismi non risultano chiari.

L’obesità rappresenta il più comune fattore di rischio per la sindrome da apnee ostruttive del sonno (OSAS), condizione che comporta lo sviluppo di apnee notturne con sonno non ristoratore e, conseguentemente, sonnolenza e ridotta attenzione durante il periodo diurno. Sembrerebbe che anche pazienti con OSAS siano più a rischio di sviluppare obesità49, probabilmente a causa di un

(13)

13 fattore di rischio cardiovascolare di per sé, essendo associata a disfunzione endoteliale51 ed

ipertensione52; in presenza di obesità ed OSAS, il rischio di sviluppare la sindrome metabolica risulta

maggiore, arrivando ad una prevalenza del 60% in questi soggetti, con le conseguenze ad essa associate53.

La triade obesità, ipoventilazione e apnea viene definita sindrome obesità - ipoventilazione, o sindrome di Pickwick, con una prevalenza dal 20 al 30% nella popolazione obesa53. In questa patologia

si riscontra una grossa ostruzione delle vie respiratorie superiori, con ridotta risposta dei centri respiratori all’ipossia e all’ipercapnia, sviluppo di ipertensione polmonare, insufficienza cardiaca congestizia52 e aumento della mortalità54.

L’obesità risulta associata anche con altre patologie respiratorie ostruttive, quali l’asma, sia allergica che non3. L’obesità sembrerebbe infatti accentuare l’iperreattività bronchiale alla base della

patogenesi dell’asma e la concomitante presenza di obesità nel paziente asmatico si associa ad una maggior sintomatologia e ridotta risposta al farmaco55.

Nella relazione con la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), i risultati sono più incerti, avendo alcuni studi riscontrato come la prevalenza della malattia fosse maggiore in soggetti sottopeso o normopeso rispetto a soggetti sovrappeso. Non chiaro il ruolo dell’obesità nell’outcome della malattia cronica ostruttiva, poiché sembrerebbe che l’eccesso di peso sia associato ad una peggiore evoluzione in presenza di BPCO di grado lieve-moderato, mentre rappresenti un fattore protettivo in caso di BPCO severa. Questa relazione viene definita “paradosso dell’obesità” e ancora oggi non si hanno dei dati certi al riguardo56.

Associazione con patologie gastrointestinali

L’obesità, sia direttamente che indirettamente, è associata a malattia da reflusso gastroesofageo (Gastro-Esophageal Reflux Disease - GERD), steatosi epatica non alcolica (Non Alcoholic Fatty Liver Disease - NAFLD) e calcolosi della colecisti3.

Dato che le patologie sopramenzionate sono state associate ad un incrementato rischio di patologie nei relativi organi e tessuti, oggigiorno l’accento viene posto sulla loro possibile evoluzione a forme neoplastiche e quindi sulla possibile relazione causa-effetto obesità-carcinoma. Se infatti risulta più certa la sequenza che collega l’obesità con l’adenocarcinoma esofageo, sia in modo diretto sia indirettamente tramite la GERD e lo sviluppo di esofago di Barrett33,57, meno chiara è l’associazione tra

obesità, steatoepatite non alcolica (NASH) e epatocarcinoma (HCC), anche se una maggior incidenza di HCC è stata riscontrata in pazienti obesi58. Similmente, sembrerebbe che l’obesità possa associarsi a

un maggior rischio di carcinoma della colecisti, principalmente a causa dell’infiammazione cronica legata ai calcoli, ma dati al riguardo sono ancora insufficienti a causa della incidenza non elevata di questa neoplasia47.

Associazione con patologie del sistema endocrino

Subito dopo l’insulino-resistenza, che verrà trattata in un capitolo successivo vista la stretta associazione con il rischio cardiovascolare, la condizione più frequentemente riscontrata nella popolazione femminile obesa è la sindrome dell’ovaio policistico (PCOS). Questa condizione è caratterizzata da anovulazione, iperandrogenismo ed ovaio policistico ed è associata ad una

(14)

14 alterazione del profilo metabolico e lipidico. In queste pazienti si sviluppa insulino-resistenza, intolleranza al glucosio, diabete franco e si ha un alto rischio di patologie cardiovascolari. Non tutte le donne con PCOS sono obese e, viceversa, non tutte le donne obese sviluppano PCOS, evidenziando come vi siano altri meccanismi coinvolti59. Vari studi, comunque, sottolineano come la coesistenza dei

entrambe le condizioni sia associata ad una ridotta risposta alla terapia ormonale e ad un maggior rischio di patologia cardiovascolare. La perdita di peso, invece, si associa ad una riduzione dell’insulino-resistenza ed a una migliore risposta ovulatoria60.

In molte donne obese si riscontra una infertilità indipendentemente dalla presenza di un quadro franco di PCOS, suggerendo che l’obesità possa alterare l’asse ipotalamo-ipofisi-ovaie, riducendo le ovulazioni61.

Nell’uomo è riscontrata una riduzione della libido e disfunzione erettile, condizione che viene migliorata dalla perdita di peso e dall’utilizzo di metformina61,62.

Associazione con patologie osteoarticolari

Un’associazione tra obesità e patologie articolari è stata evidenziata inizialmente nel Framingham Knee Osteoarthritis Study, dove la riduzione di peso in donne obese affette da osteoartrite del ginocchio si associava ad un miglioramento del quadro sintomatologico63. Se la possibile relazione tra obesità e

osteoartrite del ginocchio è stata successivamente confermata in numerosi altri studi, evidenze più recenti suggeriscono un’associazione anche con patologie articolari a carico di altri distretti corporei come, ad esempio, l’osteoartrite della mano. Ciò suggerisce che, oltre alla possibile azione dovuta alla sollecitazione meccanica, possano esservi implicati altri meccanismi. Nel corso degli ultimi anni un’attenzione particolare è stata rivolta al possibile ruolo di adipochine circolanti che potrebbero alterare l’omeostasi del liquido sinoviale portando allo sviluppo dell’infiammazione articolare64.

Associazione con patologie neurologiche e psichiatriche

Nel paziente obeso è stata riscontrata una prevalenza elevata di patologie psichiatriche, quali disturbo depressivo maggiore (DDM)65, fobia, ipocondria, somatizzazione e disturbo ossessivo-compulsivo66.

Nell’obeso sono state riscontrate una riduzione delle funzioni cognitive e un’associazione positiva con malattie degenerative quali il morbo di Alzheimer67; alcuni studi evidenziano come l’obesità possa

influire sulle funzioni cognitive fin dalla giovane età. In bambini obesi insulino-resistenti sono riscontrate riduzioni nelle capacità verbali e alterazioni EEG rispetto bambini normopeso68. Le cause

della possibile influenza dell’eccesso di peso sulle capacità cognitive sono ancora da definire nell’essere umano. Nel ratto, la riduzione delle capacità cognitive è stata associata ad un incremento dell’infiammazione neuronale, identificata da una elevata espressione di Nf-kB, TNF-α e riduzione dell’attività di enzimi ossidanti (glutatione perossidasi, superossido dismutasi)69.

2.1.4 Obesità e malattie cardiovascolari

Complicanze cardiovascolari dell’obesità

Uno tra i primi studi a trovare un’associazione positiva tra peso e malattie cardiovascolari fu quello di Hubert e colleghi, i quali seguirono per 26 anni i partecipanti al Framingham Heart Study che, al momento del reclutamento, non avessero accertata alcuna patologia cardiovascolare nota34. Nello

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15 studio citato, fu evidenziato che l’incremento di peso si associava ad un aumento di malattia coronarica, insufficienza cardiaca e morte cardiaca, con simili proporzioni nel sesso maschile e femminile. Non si osservava invece un legame con l’arteriopatia obliterante cronica periferica (AOCP). Correggendo l’analisi per gli altri fattori di rischio cardiovascolari, quali fumo, ipertensione, diabete, elevati livelli di colesterolo, l’associazione rimaneva altamente significativa, suggerendo che l’obesità potesse aumentare di per sé il rischio cardiovascolare e concludendo perciò che il trattamento della stessa rappresentasse un caposaldo nella prevenzione primaria delle malattie cardiovascolari34.

In un successivo studio di Kenchaiah e colleghi, condotto sulla stessa popolazione del Framingham Heart Study, fu evidenziato come nel paziente obeso si avesse una incidenza doppia di insufficienza cardiaca rispetto al soggetto normopeso e che ad ogni incremento di 1 punto del BMI vi fosse un concomitante aumento del rischio di insufficienza cardiaca pari al 5% negli uomini e del 7% nelle donne70. Alpert e colleghi hanno poi evidenziato come la probabilità di sviluppare insufficienza cardiaca

aumenti con la durata dell’obesità71.

L’obesità si associa anche ad un incrementato rischio di patologia coronarica aterosclerotica come evidenziato nell’INTERHEART Study da Yusuf e colleghi che, tra i vari fattori di rischio per infarto miocardico (tra i quali ipertensione, diabete, fumo, ridotta attività fisica), hanno evidenziato un ruolo particolarmente significativo per l’obesità addominale72.

Altri studi hanno mostrato un’associazione tra obesità ed incrementato rischio di ictus, sia ischemico che emorragico73,74 che, ancora una volta, sembrerebbe essere indipendente da altri fattori di rischio

cardiovascolare (ipertensione, diabete, colesterolo). In particolare, è stato suggerito che ogni punto di incremento del BMI sia associato ad un aumentato rischio di ictus ischemico del 4% e di ictus emorragico del 6%75.

Rispetto all’AOCP, i dati non sono concordi. Oltre allo studio di Hubert34, un’associazione positiva tra

obesità e AOCP è stata riscontrata da Huang e colleghi76, mentre Skilton non ha osservato la stessa

relazione, sebbene l’obesità rimanesse associata ad altri fattori di rischio per AOCP quali elevata glicemia e insulinemia a digiuno, il ridotto livello HDL plasmatiche e l’incrementata pressione arteriosa sistolica77 .

Importante sottolineare che alcuni studi hanno riportato un’aumentata aspettativa di vita e una riduzione delle complicanze cardiovascolari, quali la mortalità per scompenso cardiaco, in soggetti con precedente infarto miocardico ed un BMI > 30kg/m2 78,79. Le cause di questa associazione, nota come

“paradosso dell’obesità”, risultano ancora largamente sconosciute. Vi sono comunque dubbi riguardanti questi dati, soprattutto per quanto riguarda la durata del follow-up di questi pazienti (spesso limitati a 2-3 anni), oltre che sulla popolazione presa in considerazione (numero non significativo, BMI non elevato)80. Da sottolineare comunque come anche in queste controversie non

venga messa in dubbio la relazione causa-effetto tra obesità e malattia cardiovascolare, quanto l’impatto che può avere l’eccesso di peso una volta sviluppata la patologia stessa81.

Associazione con fattori di rischio cardiovascolari

L’obesità è associata a diverse condizioni cliniche che implicano un aumentato rischio cardiovascolare82.

(16)

16

Ipertensione

Dimostrata da numerosi studi è l’associazione tra ipertensione e obesità. Molti soggetti ipertesi sono sovrappeso o obesi e la prevalenza di ipertensione aumenta con l’aumentare del BMI sia nel sesso maschile che femminile, essendo 15% per BMI < 25kg/m2 e 42% per BMI > 30kg/m283. In caso di perdita

di peso, si riscontra una diminuzione nei valori di pressione sistolica e diastolica, anche se questo effetto sembra perdersi a lungo temine84. Sembrano esservi vari meccanismi che comportano il

possibile sviluppo di ipertensione in soggetti obesi, tra i quali i più importanti sarebbero un’alterazione nella regolazione delle resistenze periferiche, un’eccessiva attivazione del sistema simpatico e l’insulino-resistenza83.

Insulino-resistenza e diabete

Non vi sono controversie riguardo all’associazione, valida sia per il sesso maschile che femminile, tra obesità e insulino-resistenza e le sue manifestazioni cliniche, che vanno dalla sindrome metabolica al diabete mellito85,86. Sebbene i primi studi abbiano identificato una semplice associazione

epidemiologica, oggi l’obesità è considerata un vero e proprio fattore causale nell’insorgenza di diabete di tipo 287.

Tra i primi dati che hanno confermato l’associazione tra obesità ed insulino-resistenza vi sono quelli dell’Health Survey for England (HSE), che hanno mostrato come il rischio di sviluppare diabete per un soggetto obeso fosse il doppio rispetto ad un normopeso, sia quando l’obesità veniva definita sulla base del valore di BMI, sia quando veniva utilizzato quello della WC88.

Il ruolo causale dell’eccesso di peso nel definire il rischio di diabete di tipo 2 è quindi stato confermato anche da studi clinici di intervento, in cui si dimostrava come pazienti in grado di ridurre il proprio peso corporeo partendo da una condizione di sovrappeso avessero una riduzione a lungo termine dell’incidenza del diabete tipo 2. Nel Finnish Diabetes Prevention Study, una riduzione di 4-5 kg nell’arco di 4 anni si associava ad una riduzione dell’incidenza di diabete tipo 2 del 58% rispetto ad un gruppo di controllo89. L’effetto positivo della perdita di peso sul rischio di diabete si osserva anche nei

soggetti che hanno già sviluppato insulino-resistenza, quali coloro che hanno sindrome metabolica, o un test da carico del glucosio (OGTT) suggestivo di alterata tolleranza al glucosio (Impaired Glucose Tolerance – IGT) o, ancora, un’alterata glicemia a digiuno (Impaired Fasting Glucose – IFG)90.

Ulteriore conferma del ruolo fondamentale dell’obesità nel favorire l’insulino-resistenza deriva da studi condotti su popolazioni sottoposte a chirurgia bariatrica. In questi pazienti, dopo l’intervento chirurgico si assiste ad una completa remissione del quadro clinico di diabete, anche in pochi giorni dopo l’intervento83. Varie sono le ipotesi che sono state formulate per dare giustificazione degli effetti

positivi della chirurgia bariatrica sul metabolismo glucidico. Mentre alcuni studiosi puntano l’attenzione su un miglioramento del profilo secretivo delle incretine (peptidi prodotti a livello enterico che regolano la secrezione di insulina e glucagone dal pancreas)91, altri invece associano la scomparsa

del diabete alla massiva riduzione di peso che segue l’intervento, sottolineando ancora una volta il ruolo del tessuto adiposo nella regolazione del metabolismo glucidico92.

La patogenesi del diabete nell’obesità è da ascriversi allo sviluppo di insulino-resistenza e progressiva perdita di funzionalità delle cellule β pancreatiche, passando per un primo stadio di iperinsulinemia asintomatica, con IGT e possibile IFG. Entrambe queste condizioni sono definite pre-diabete e sono

(17)

17 associate ad una aumentata mortalità93. Durante la progressione, le cellule pancreatiche, sottoposte a

stress ossidativo e infiammatorio, perdono la capacità di produrre e secernere insulina, fino ad arrivare al quadro di diabete franco94.

L’indice maggiormente utilizzati in larghi studi epidemiologici, per definire la presenza e severità dell’insulino-resistenza è l’“Homeostasis Model Assessment of Insulin Resistance” (HOMA-IR), calcolabile con la formula:

(insulina plasmatica × glicemia a digiuno) / 22.595.

La resistenza agli effetti all’insulina è presente sia negli adulti che nei bambini96 ed è riscontrabile non

solo a livello di tessuto adiposo e muscolare, ma anche a livello endoteliale: da vari studi è emerso che proprio una riduzione nella sensibilità all’insulina è uno dei meccanismi alla base della ridotta funzione endoteliale nell’obeso, dove si nota una diminuita attivazione della via dell’NO e un’accentuata risposta della via dell’endotelina 1 (ET-1) in risposta all’insulina97.

Dislipidemia

L’obesità si associa spesso alla presenza di un alterato profilo lipidico, caratterizzato da un’aumentata quota di trigliceridi e una riduzione delle HDL, con sostanziale aumento del colesterolo totale98. Questa

associazione è stata riscontrata anche in adolescenti obesi96. La presenza di dislipidemia può

compromettere la funzione endoteliale, anche se il suo ruolo è maggiormente preponderante in soggetti normopeso rispetto ai soggetti obesi, dove altri meccanismi sembrano dare un contributo più significativo99. La patogenesi della dislipidemia sembra sia da relazionarsi all’insulino-resistenza, come

evidenziato dallo studio di Steinberger, dove il grado di insulino-resistenza correlava positivamente ai livelli di dislipidemia e, in particolare, con i livelli dei trigliceridi100.

Sindrome metabolica

Sia nell’adulto che nel bambino obeso la prevalenza di sindrome metabolica è maggiore nell’obeso rispetto al soggetto normopeso101,102. L’identificazione della sindrome metabolica si deve a Reaven che,

per la prima volta nel 1988, descrisse una stretta associazione tra diverse variabili potenzialmente legate ad uno stato di insulino-resistenza, identificando questa condizione clinica con il termine di “Sindrome X”103, successivamente denominata “Sindrome metabolica”. Vi sono oggi 6 definizioni

diverse della sindrome metabolica, nelle quali vengono presi in considerazione vari parametri la cui presenza comporta un aumentato rischio cardiovascolare. Oltre a pressione arteriosa, questi includono i trigliceridi e/o il colesterolo HDL, la presenza di insulino-resistenza identificata con uno stato di intolleranza al glucosio o di diabete franco e la presenza di indici di obesità generale o addominale, quali il BMI o il WC (Tabella 3)104.

La prevalenza della sindrome metabolica varia dal nella popolazione generale a seconda dei criteri considerati. Utilizzando i criteri del National Cholesterol Education Program: Adult Treatment Panel III (NCEP:ATPIII) la sua prevalenza in Italia è stimata intorno al 20%105, mentre sale al 40% negli USA

quando vengono utilizzati i criteri dell’International Diabetes Federation (IDF)106. Qualsiasi sia la

definizione adottata, comunque, la presenza di sindrome metabolica si associa ad un aumento del rischio cardiovascolare107. Nel caso di un soggetto obeso, vari sono i criteri che possono venire

(18)

18 circonferenza vita, la presenza di dislipidemia (aumentati i trigliceridi e diminuite le HDL) ed uno stato di insulino-resistenza107. La sindrome metabolica non si riscontra unicamente negli obesi, ma anche

nei soggetti normopeso, che possono soddisfare due o più criteri diagnostici e, quindi, presentare un maggior rischio cardiovascolare108.

In entrambi i due fenotipi, soggetto obeso con sindrome metabolica e soggetto normopeso con sindrome metabolica, è stata riscontrata una disfunzione endoteliale139, che segnala una precoce

alterazione dell’omeostati vascolare in senso pro-aterosclerotico, culminante in un aumentato rischio cardiovascolare e di mortalità104,109.

Tabella 3. Comparazione tra quattro definizioni di Sindrome Metabolica. WHO: World Health Organization; EGIR: European Group for the Study of Insulin Resistance; ATPIII: Adult Treatment Panel III; IDF: International Diabetes Federation; BMI: Body Mass Index; WC: Waist Circumference;

M: Maschio; F: Femmina; TG: Trigliceridi; HDL: High-Density Lipoprotein Cholesterol; BP: Blood Pressure. (Fonte: Ritchie, 2007)104

WHO (1999) EGIR (1999) ATPIII (2001) IDF (2005)

Diabete, IFG, IGT o insulino-resistenza (definita da iperinsulinemia

euglicemica), associata a due o più dei seguenti:

Insulino-resistenza

dimostrata da insulinemia a digiuno più due o più dei seguenti:

3 o più dei seguenti: Obesità centrale (rispetto valori riferiti all’etnia) più due dei seguenti: • BMI > 30 kg/m2 o waist-to-hip ratio > 0.9 (M) o > 0.85 (F) • Obesità addominale, dimostrata da WC ≥ 94 cm (M) o ≥ 80 cm (F) • WC > 102 cm (M) o > 88 cm (F) • TG > 1.7 mmol/L o in specifico trattamento • TG ≥ 1.7 mmol/L o HDL < 0.9 (M) o < 10 mmol/L (F) • TG > 2.0 mmol/L o HDL < 1.0 mmol/L • TG > 1.7 mmol/L • HDL < 1.03 mmol/L (M) o < 1.29 mmol/L (F) o in trattamento specifico • BP > 130/90 mmHg • BP ≥ 140/90 mm/Hg o trattamento antipertensivo • BP ≥ 135/85 mm/Hg o trattamento antipertensivo • BP ≥ 130/85 mm/Hg o trattamento antipertensivo

• Albuminuria > 20 µg/min • Glicemia a digiuno ≥ 6,1 mmol/L • Glicemia a digiuno ≥ 6,1 mmol/L • Glicemia a digiuno ≥ 5,6 mmol/L o diagnosi di diabete

(19)

19

2.1.5 Trattamento dell’obesità

Il trattamento dell’obesità, in quanto patologia sistemica, necessita di un approccio multidisciplinare. Questo vale soprattutto nei casi di obesità severa che richieda un intervento correttivo tramite chirurgia bariatrica. In questo caso le figure mediche che valutano e seguono il soggetto obeso comprendono il dietologo o nutrizionista, l’internista, il chirurgo e l’anestesista, lo psicologo e lo psichiatra, il cardiologo.

Indipendentemente dalla severità dell’obesità, il primo intervento mira ad un drastico cambiamento nello stile di vita del paziente, ponendo l’accento sull’alimentazione e sull’esercizio fisico. Questi due punti sono fondamentali per comprendere la personalità del soggetto e per valutarne la compliance e l’insight, che saranno importanti non solo nella malattia di grado lieve o moderato, ma anche in quella di grado severo che richieda un possibile intervento chirurgico.

L’approccio dietetico potrebbe migliorare non solo il peso corporeo, ma anche agire più direttamente sull’omeostasi vascolare modulando la funzione endoteliale 110. Ad esempio, in seguito ad un pasto

ricco in lipidi è stata riscontrata una ridotta vasodilatazione endotelio-dipendente111, mentre

l’ingestione di alte concentrazioni di lipidi e glucosio è associata ad un aumento dei radicali liberi dell’ossigeno (ROS)112,113, uno dei principali meccanismi correlati allo sviluppo della disfunzione

endoteliale e che rappresenta il primum movens nello sviluppo della malattia aterosclerotica. Altri studi associano la restrizione calorica (caloric restriction, CR) a un miglioramento della funzione endoteliale evidenziata da un’aumentata risposta all’Ach114. Questo si ritiene dovuto a diversi

meccanismi, tra i quali spiccano la riduzione della concentrazione plasmatica di glucosio115 e

l’aumentata attività della molecola Sirt-1116.

Oltre ad un possibile effetto sulla funzione endoteliale, il cambiamento delle abitudini dietetiche può ridurre i principali fattori di rischio cardiovascolare, portando ad una riduzione del peso corporeo117;

ad un miglioramento del profilo lipidico e metabolico del soggetto, con aumento delle HDL e riduzione dell’emoglobina glicata. Più incerto l’effetto sulle LDL, le principali molecole implicate nello sviluppo dell’aterosclerosi118. Gli effetti positivi del cambiamento delle abitudini alimentari sono potenziati

dall’associazione con l’esercizio fisico, che sembra avere effetti benefici addirittura superiori rispetto a quelli della dieta119,120. Come per l’approccio dietetico, l’esercizio fisico aerobico sembra essere in

grado di migliorare la funzione endoteliale, in modo anche indipendente dagli effetti sul peso corporeo e sugli altri fattori di rischio cardiovascolare121.

Purtroppo, i vantaggi derivati dalla dieta sono spesso temporanei in quanto il paziente obeso difficilmente è in grado di rispettare regimi dietetici per lungo tempo. Interessante citare a questo proposito la meta-analisi di Mann e colleghi, che evidenzia la difficoltà nel mantenere per lungo tempo il nuovo peso raggiunto, con pazienti che, quando incrementavano di peso nuovamente, potevano raggiungere valori superiori a quelli precedenti119.

Il ricorso alla chirurgia bariatrica è quindi sempre più frequente, sia per l’incremento della prevalenza di obesità che per il miglioramento in termini di risultati e sicurezza delle tecniche chirurgiche a disposizione122. La chirurgia bariatrica ad oggi rappresenta l’unico trattamento efficace a lungo termine

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20 A seconda della modalità con la quale agiscono, le tecniche di chirurgia bariatrica possono essere distinte in 3 categorie:

-

Tecniche restrittive: Bendaggio Gastrico Regolabile.

La riduzione di peso corporeo è secondaria alla diminuzione del volume dello stomaco, che comporta una ridotta assunzione di alimenti per senso di sazietà precoce e per l’alterazione nella produzione di ormoni gastrici (quali grelina e peptide YY) che sono coinvolti nel regolare il senso dell’appetito. Il bendaggio gastrico è la tecnica con minor perdita di peso ma non comporta alterazioni anatomiche dell’organo, potendo quindi rappresentare un intervento “ponte” per valutare la compliance del paziente alle successive norme igienico-dietetiche.

-

Tecniche malassorbitive: Diversione Biliopancreatica secondo Scopinaro; Duodenal Switch. In questi interventi viene sezionata la porzione distale dello stomaco, riducendone il volume ed è posticipato il contatto tra cibo ingerito ed enzimi biliopancreatici. Questa modifica del tratto gastrointestinale altera l’incontro tra il cibo e le anse assorbenti, riducendo il tempo di contatto e quindi l’assorbimento delle sostanze nutritizie. Sono interventi che inducono una grossa perdita di peso e frequentemente indicati per obesi severi.

-

Tecniche combinate (sia malassorbitive che restrittive): Sleeve Gastrectomy; Bypass Gastrico su ansa alla Roux (attualmente la tecnica più utilizzata).

Nel caso della Sleeve Gastrectomy, si esegue la resezione di circa i 4/5 dello stomaco lungo la grande curvatura, dando una riduzione volumetrica e, probabilmente, una modificazione ormonale. Anche il Bypass presenta vari meccanismi effettori: riduce il volume dello stomaco comportando una riduzione dell’ingestione dei cibi; ritarda il contatto degli alimenti con i succhi biliari e pancreatici e bypassa un’ingente porzione dell’intestino tenue, riducendo perciò l’assorbimento dei lipidi e dei carboidrati complessi. Sembra che anche l’alterazione nella secrezione degli ormoni enterali sia un altro meccanismo implicato. Il bypass induce una grossa perdita di peso e causa vari effetti collaterali da monitorare123.

La perdita di peso è variabile a seconda dell’intervento chirurgico, ma in genere va dal 50% fino al 60-70% del peso in eccesso, risultando permanente nel tempo123. Gli effetti sul peso si associano ad un

miglioramento del profilo metabolico e cardiovascolare del paziente124, come evidenziato dalla

riduzione dell’insulino-resistenza, della dislipidemia125, dell’incidenza di diabete mellito, dal diminuito

sviluppo di ipertensione126 e eventi cardiovascolari maggiori127,128. Da diversi studi è emerso che la

chirurgia bariatrica è associata anche ad un aumento dell’aspettativa di vita del paziente obeso46,129. Si

evidenzia inoltre una riduzione nell’incidenza delle apnee notturne e dell’osteoartrite46.

La chirurgia è associata ad un generale miglioramento non solo dei fattori di rischio cardiovascolare comuni, ma anche di quelli di più recente scoperta. Dopo interventi di chirurgia bariatrica, si riscontrano riduzioni della proteina C reattiva (PCR), dell’interleuchina 6 (IL-6), dell’interleuchina 18 (IL-18) e si osserva un incremento dell’adiponectina, ridotta nell’obesità. La concentrazione di tumor necrosis factor-α (TNF-α) non sembra invece modificarsi130. Oltre all’infiammazione vi sono studi che

(21)

21 hanno riscontrato un miglioramento della vasodilatazione endoteliale ed un aumento della biodisponibilità di NO, indicando che la chirurgia potrebbe ridurre la disfunzione endoteliale131,132.

Non da meno è l’efficacia sugli eventuali disturbi psichiatrici che spesso si accompagnano all’obesità. Vari studi hanno dimostrato come l’intervento chirurgico e la diminuzione di peso migliorino anche i quadri psicopatologici associati, quali depressione, binge-eating disorder133, facilitino l’aderenza alla

psicoterapia134 e ottengano un miglioramento della vita di relazione135.

Da sottolineare, comunque, che queste tecniche sono gravate da effetti collaterali. Innanzitutto, sono tecniche invasive e associate a un rischio di complicanze intra- e post- operatorie; alterano la normale fisiologia dell’apparato digerente, comportando effetti collaterali quali la “dumping syndrome” e il malassorbimento che possono portare a grossi disagi nella vita del paziente; necessitano di uno stretto controllo nutrizionale per evitare carenze di vitamine e sali minerali e per evitare che il paziente acquisisca comportamenti alimentari sbagliati; possono andare incontro ad un fallimento, comportando quindi la necessità di un reintervento (revisional surgery), con le complicanze a esso associate71,123.

In considerazioni di queste possibili complicanze, la chirurgia bariatrica dovrebbe rappresentare solo l’ultimo step nel percorso di un paziente obeso e come tale, essere riservata solamente ai casi più gravi. Le indicazioni a oggi accettate per la chirurgia bariatrica sono:

-

BMI > 40 kg/m2 oppure

-

BMI > 35kg/m2 associato a complicanze legate all’obesità, quali dislipidemia, diabete mellito

di tipo 2, ipertensione arteriosa, coronaropatia, insufficienza respiratoria, OSAS, artropatie gravi;

-

Età > 18 anni e < 65 anni136

Il paziente deve seguire uno stretto controllo pre-chirurgico per essere valutato come idoneo, percorso che lo porterà dapprima a seguire metodiche non invasive (dieta, esercizio fisico, farmaci) per ridurre il peso e infine, dopo un’attenta e globale valutazione medico-psicologica, all’eventuale intervento chirurgico. Dal momento che la chirurgia non risulta comunque esente dai rischi menzionati, è da considerare come sia la prevenzione dell’obesità il mezzo più efficace per ridurre le complicanze legate ad essa, le spese sanitarie e mediche e per migliorare la qualità di vita dell’individuo.

2.2 L’endotelio

2.2.1 Funzioni dell’endotelio

Lo strato di cellule che ricopre la parete vascolare prende il nome di endotelio. Se fino a pochi anni fa, l’endotelio veniva considerato solamente come una barriera tra il torrente circolatorio e gli altri elementi che compongono la parete vascolare, oggi risulta particolarmente evidente come esso possa svolgere numerose attività importanti nella regolazione dell’omeostasi vascolare, controllando il sistema della coagulazione, la diapedesi dei leucociti, il rimodellamento della parete vascolare e l’angiogenesi97.

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22 Queste funzioni vengono svolte grazie alla capacità di secernere numerose sostanze, delle quali la più conosciuta e studiata per il suo ruolo nel mantenimento del tono vascolare e per la sua implicazione nell’ambito della disfunzione endoteliale risulta essere l’NO97.

L’NO viene prodotto dall’enzima NO-sintetasi, di cui esistono tre isoforme: quella endoteliale (eNOS), la NO-sintetasi inducibile (iNOS), che si attiva durante l’infiammazione, e la NO-sintetasi neuronale (nNOS), localizzata nel sistema nervoso. L’eNOS metabolizza l’arginina producendo NO e citrullina. Per una corretta funzione necessita della presenza di un cofattore, la tetraidrobiopterina (BH4). In

condizioni di ridotto substrato o assenza di BH4, l’eNOS cambia la propria funzione e, anziché produrre

NO, favorisce l’accumulo dell’anione superossido (O2-) a livello della parete vascolare137.

La diffusione dell’NO nelle cellule muscolari lisce della parete vascolare attiva la guanilciclasi, che produce GMP ciclico. Questo, tramite una cascata di secondi effettori, riduce la concentrazione di Ca2+

intracellulare, risultando in un effetto di rilasciamento della muscolatura liscia del vaso e quindi in una vasodilatazione.

Oltre alla funzione vasodilatatoria l’NO contribuisce a numerose altre funzioni proprie della cellula endoteliale: svolge la funzione di antiaggregante piastrinico, inibisce la proliferazione e la migrazione delle cellule muscolari lisce, inibisce l’espressione di molecole di adesione e l’adesione di monociti138.

Vari fattori stimolano la sintesi e il rilascio di NO. Lo shear stress dovuto al flusso sanguigno sulla parete della cellula endoteliale rappresenta un potente stimolo meccanico che induce attivazione della eNOS con conseguente incremento dell’NO. Oltre a fattori meccanici, esistono anche fattori endocrini quali: l’Ach, la serotonina, la bradichinina e le prostaglandine (PG)139.

Sebbene l’NO rappresenti la molecola più importante per la regolazione dell’omeostasi vascolare prodotta dall’endotelio, le cellule endoteliali sono in grado di produrre anche altri fattori vasodilatanti tra cui le PG, specie la prostaciclina (PGI2), ed il fattore iperpolarizzante di origine endoteliale (EDHF)140.

Inoltre, le cellule endoteliali sono in grado di secernere sostanze che favoriscono la vasocostrizione, tra i cui ritroviamo l’endotelina-1 (ET-1), il trombossano A2 (TXA2), ed i radicali liberi dell’ossigeno

(ROS). Questi ultimi hanno la capacità di reagire con l’NO riducendone la biodisponibilità141 (Figura 2).

Il tono vasocostrittore viene controllato dalle cellule endoteliali anche dopo stimolo da parte di sostanze ad azione endocrina e paracrina, quali, per esempio, l’angiotensina II (AngII)140 e l’insulina.

L’insulina, in specifico, legandosi al proprio recettore sulle cellule endoteliali, può tramite la via PI3K/Akt attivare l’eNOS e quindi produrre NO; tramite la via delle MAP chinasi MEK/ERK portare alla produzione di endotelina. Questa seconda via è detta mitogena in quanto oltre ad avere effetto vasocostrittore, promuove gli effetti di crescita mediati dall’insulina piuttosto che gli effetti metabolici e stimola l’espressione di molecole di adesione, quali VCAM-1 ed E-selectina97,142,143.

(23)

23 Figura 2. Sostanze vasodilatanti e vasocostrittrici dell’endotelio. Le principali sostanze vasodilatanti

(nella parte destra della figura) sono rappresentate da: ossido nitrico (NO), prodotto dall’ossido nitrico sintetasi endoteliale (eNOS) a partire dalla L-Arginina; fattore iperpolarizzante di origine endoteliale (EDHF); prostaciclina (PGI2). La sintesi di queste sostanze da parte dell’endotelio viene

promossa da stimoli meccanici quali lo shear stress e da sostanze endocrine che agiscono su specifici recettori (acetilcolina, serotonina, bradichinina). Tra i fattori vasocostrittori ricordiamo l’endotelina 1

(ET-1), l’Angiotensina II (Ang II) e il trombossano A2 (TXA2).

2.2.2 Definizione di disfunzione endoteliale

Il tono vascolare è quindi modulato da un delicato equilibrio tra sostanze vasocostrittrici e vasodilatatorie. L’alterazione iniziale di questo equilibrio è riscontrabile in condizioni di “disfunzione endoteliale”, che si caratterizza per una ridotta biodisponibilità di NO, con riduzione della vasodilatazione e sviluppo di uno stato pro-infiammatorio e protrombotico97. Questo stato di ridotta

risposta agli stimoli vasodilatanti è riscontrato in varie condizioni che aumentano il rischio cardiovascolare, quali l’invecchiamento, la menopausa, il fumo, il diabete, l’ipertensione, l’obesità e l’ipercolesterolemia144-146. Oltre alla ridotta vasodilatazione, quello che si osserva è anche un

incremento della produzione di citochine infiammatorie e l’espressione di molecole di adesione, processi che favoriscono l’ossidazione delle LDL, la diapedesi dei macrofagi e dei linfociti, promuovendo processi di aggregazione piastrinica e trombosi. Tali alterazioni rappresentano eventi precoci nell’evoluzione della placca aterosclerotica e delle sue complicazioni110,147. Per questo,

numerosi studi clinici hanno mostrato che la disfunzione endoteliale rappresenta un importante predittore di eventi cardiovascolari, sia nel soggetto senza evidenza di malattia aterosclerotica che in soggetti con ipertensione o malattia coronarica sintomatica97,137. Comprendere i meccanismi che

contribuiscono alla disfunzione endoteliale, quindi, potrebbe fornire importanti target terapeutici per prevenire l’evoluzione della patologia aterosclerotica e prevenirne le complicazioni.

(24)

24

2.2.3 Studio della funzione endoteliale

Poiché negli ultimi anni è stato compreso che la disfunzione endoteliale è centrale nell’evoluzione della patologia aterosclerotica, varie metodiche sono state portate avanti per studiare la funzione dell’endotelio, sia per lo studio dei vasi di calibro medio e grosso sia per lo studio dei vasi di piccolo calibro. Questi ultimi sono di fondamentale importanza. Mentre infatti le arterie più grandi sono principalmente arterie di conduzione, le arteriole con diametro < 300 µm sono i principali determinanti della resistenza locale e sistemica, ricevendo dal 70 al 90% della pressione arteriosa. Alterazioni a questo livello quindi oltre a compromettere la diffusione di gas e sostanze a livello microcircolatorio possono avere ripercussioni a livello della pressione sistemica148,149.

I metodi più usati per la valutazione della funzione endoteliale in vivo sono gli studi di reattività vascolare, basati sullo stimolare l’endotelio o tramite fattori che alterano lo shear stress (es. induzione di ischemia) o tramite l’iniezione di agonisti (es. Ach) o antagonisti, e quindi misurarne la risposta. Generalmente vengono studiati o i vasi dell’avambraccio (arteria brachiale e radiale) con stimolo meccanico o chimico e misurazione con ecocolordoppler. La funzione endoteliale può essere studiata anche a livello dei vasi coronarici, attraverso incannulamento locale delle arterie coronariche e infusione di sostanze vasodilatatorie o vasocostrittrici endotelio dipendenti138. Questo metodo è

comunque scarsamente utilizzato a causa della sua invasività. Una tecnica frequentemente utilizzata in quanto non invasiva è lo studio ecografico dell’arteria brachiale. Attraverso la misurazione della vasodilatazione indotta dallo shear stress seguente ad uno stimolo ischemico, definita flow-mediated dilation (FMD), è possibile ottenere informazioni attendibili della funzione endoteliale locale110,140.

Una metodica che consente di ottenere informazioni accurate relative alla funzione endoteliale a livello del microcircolo è la micromigrafia, che viene eseguita su piccole arterie ottenute tramite biopsia tissutale. Mentre nell’animale da esperimento il vaso viene isolato dal mesentere, nell’uomo viene isolato un vaso da una biopsia del tessuto sottocutaneo, eseguita in regione addominale o glutea, ottenuta durante chirurgia d’elezione. A partire dalla biopsia del tessuto, le arteriole di resistenza vengono isolate dal grasso periavventiziale e posizionate nella camera miografica, dove la vasodilatazione endotelio-dipendente indotta dall’Ach viene studiata in assenza o presenza di vari stimoli150,151.

La micrografia può essere eseguita secondo due varianti: a fili o a pressione152. Nella tecnica a fili

l’arteria isolata viene incannulata con fili d’acciaio di 40 µm di diametro alla camera miografica e viene o sottoposta a stiramento meccanico o mantenuta a stretch costante e stimolata a contrarsi153.

Successivamente, trasferita sullo stativo di un microscopio, viene valutato lo spessore della parete vascolare, gli spessori delle diverse tonache ed il diametro del vaso154.

Nel micromiografo a pressione, il vaso viene posizionato nella camera miografica: all’interno della camera sono presenti due microcannule, alle quali il vaso viene fissato con un filo di seta.

Una soluzione di Krebs consente di mantenere il vaso vitale durante gli esperimenti. Con l’ausilio di un microscopio ottico e di una telecamera, l’immagine del vaso è riprodotta su di un monitor mentre con un apposito software vengono eseguite le misurazioni degli spessori e del diametro del vaso. L’arteriola isolata deve avere determinate caratteristiche, che la rendono ottimale per lo studio152:

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