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Narrare il cambiamento climatico: approcci e riflessioni delle maggiori testate online italiane e il modello The Guardian

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di Scienze Politiche

Corso di laurea magistrale in Comunicazione d’impresa e politica delle risorse umane

TESI DI LAUREA

NARRARE IL CAMBIAMENTO CLIMATICO: APPROCCI E RIFLESSIONI DELLE

MAGGIORI TESTATE ONLINE ITALIANE E IL MODELLO THE GUARDIAN

RELATORE

Prof.ssa Emanuela MINUTO

Candidato

Tania BRUNO

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INDICE

INTRODUZIONE

1. IL CAMBIAMENTO CLIMATICO

1.1. La definizione di cambiamento climatico 1

1.2. Le cause del riscaldamento globale 3

1.2.1. Le emissioni di gas serra nell’atmosfera 4

1.2.2. Lo sfruttamento del suolo e le deforestazioni 8

1.3. Le conseguenze del riscaldamento globale 11

1.3.1. Lo scioglimento dei ghiacci e l’innalzamento del livello dei mari 11

1.3.2. L’acidificazione degli oceani 13

1.3.3. Gli incendi boschivi 14

1.3.4. Gli eventi climatici anomali 15

1.4. Le prospettive future 16

2. LA NARRAZIONE DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO DA PARTE DEI TRE PRINCIPALI QUOTIDIANI ITALIANI ONLINE NEL TRIENNIO 2015- 2017 2.1. Informarsi attraverso Internet 21

2.2. La metodologia 22

2.3. La narrazione di Repubblica.it 23

2.4. Il racconto del cambiamento climatico nel 2015 23

2.5. Il racconto del cambiamento climatico nel 2016 34

2.6. Il racconto del cambiamento climatico nel 2017 44

2.7. La narrazione del Corriere.it 49

2.8. Il racconto del cambiamento climatico nel 2015 49

2.9. Il racconto del cambiamento climatico nel 2016 53

2.10. Il racconto del cambiamento climatico nel 2017 56

2.11. La narrazione di LaStampa.it 59

2.12. Il racconto del cambiamento climatico nel 2015 60

2.13. Il racconto del cambiamento climatico nel 2016 65

2.14. Il racconto del cambiamento climatico nel 2017 71

2.15. La Conferenza di Parigi: i tre quotidiani online a confronto 76

3. THE GUARDIAN: UN MODELLO VIRTUOSO NELLA TRATTAZIONE DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO 3.1. The Guardian: alcuni cenni storici e le principali caratteristiche 80

3.2. Un modello virtuoso 80

CONCLUSIONI 94

BIBLIOGRAFIA 98

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1 Introduzione

Dal 1880, anno in cui la National Aeronautics and Space Administration ha lanciato il progetto di misurazione, la temperatura globale terrestre e degli oceani è aumentata di circa un grado Celsius, e ben diciotto dei diciannove anni più caldi sono stati registrati a partire dal 2001. All’aumento delle temperature, gli scienziati hanno osservato il manifestarsi di vari fenomeni: lo scioglimento della banchisa artica, che ha toccato nell’estate del 2012 il suo minimo storico; l’aumento del livello del mare che si aggira intorno ai 0,34 cm in più ogni anno; l’acidificazione degli oceani, ossia la decrescita del pH oceanico; gli incendi boschivi sempre più vasti e indomabili a causa della siccità più diffusa; il manifestarsi di fenomeni meteorologici sempre più estremi e anomali come gli uragani, le precipitazioni e le tempeste. Agli effetti diretti del riscaldamento globale, denominati appunto cambiamenti climatici, seguono importanti conseguenze sull’ambiente, sugli ecosistemi e sulle persone. Basti pensare ai danni provocati dall’innalzamento del livello del mare sulle coste, alle migliaia di ettari di vegetazione bruciati a causa degli incendi, ai danni agli ecosistemi marini e quindi alla pesca causati dall’acidificazione dell’acqua oceanica. La scienza, di cui saranno riportati e analizzati gli studi più importanti, è ora unita nell’affermare che il riscaldamento globale in corso deriva dall’attività antropogenica. Sono in particolare le emissioni di gas serra a riscaldare il pianeta. Se le emissioni di questi gas sono la causa dell’aumentare della temperatura globale, in questo lavoro saranno anche illustrati i settori produttivi e le attività dell’uomo dai quali questi gas vengono emessi in maggior quantità, al fine di comprendere le possibili soluzioni per la loro riduzione. Una parte del primo capitolo sarà poi dedicata alla trattazione degli accordi internazionali sul tema del cambiamento climatico fino alla Conferenza di Parigi del dicembre 2015. Visti gli allarmi degli scienziati e i tiepidi accordi tra i leader mondiali, lo scopo di questo lavoro è interrogarsi sull’effettiva presenza di un tema così importante nella narrazione da parte dei media. Questo lavoro prenderà quindi in esame la trattazione del fenomeno da parte delle tre principali testate online italiane: LaRepubblica.it, il Corriere.it e LaStampa.it. La scelta di analizzare il lavoro delle redazioni online delle testate deriva proprio dalla caratteristica principale del cambiamento climatico, ossia l’essere un fenomeno a lungo termine e che interesserà in particolare i giovani di oggi, i quali utilizzano soprattutto il web per informarsi. Nel secondo capitolo saranno quindi analizzati i contributi pubblicati dalle tre testate nel triennio 2015-2017 prestando attenzione all’aspetto quantitativo, ossia all’ammontare di contributi sull’argomento, allo scopo di valutare il rilievo assunto dal cambiamento climatico per ogni testata, e all’aspetto qualitativo. Sotto quest’ultimo profilo, verranno approfonditi i contenuti, lo stile narrativo e l’accuratezza nella scelta delle fonti. A fine capitolo verrà inoltre sviluppato un focus sulla copertura da parte delle tre testate della Conferenza di Parigi di dicembre 2015, meeting durante il quale sono stati negoziati gli Accordi sul clima, un importante documento di impegno da parte degli stati del mondo a ridurre le emissioni di gas serra per contenere l’aumento della temperatura terrestre entro fine secolo. Nello studio, oltre ad analizzare il singolo giornale, saranno messe in evidenza le differenze e le somiglianze nella trattazione del fenomeno tra le varie testate sotto vari punti di vista. Il terzo capitolo sarà invece dedicato alla trattazione del cambiamento climatico da parte della redazione online del quotidiano inglese The Guardian, preso in esame come caso virtuoso nella narrazione di questa tematica. Nell’analisi saranno messe in evidenza le modalità di

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trattazione, i contenuti, la scelta delle fonti e le firme giornalistiche del quotidiano, individuando così gli aspetti e i motivi per cui la testata può essere considerata un modello da seguire per quel che riguarda la trattazione di tale argomento.

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3 Capitolo 1

Il cambiamento climatico

1.1. La definizione di cambiamento climatico

L’Interngovernmental panel on climate change (IPCC), fondato nel 1988 dall’ Organizzazione metereologica mondiale (WMO) e dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), è un foro scientifico che ha per scopo quello di studiare il riscaldamento globale e il cambiamento climatico e ad oggi risulta il più autorevole gruppo di studio permanente ad occuparsi di queste tematiche, con il compito di rilasciare periodicamente rapporti di valutazione. La definizione di cambiamento climatico rilasciata dall’ IPCC è la seguente: “Climate change in IPCC usage refers to a change in the state of the climate that can be identified (e.g. using statistical tests) by changes in the mean and/or the variability of its properties, and that persists for an extended period, typically decades or longer. It refers to any change in climate over time, whether due to natural variability or as a result of human activity”.1 Come si può notare dalla definizione, l’IPCC fa riferimento sia ai cambiamenti avvenuti per cause naturali sia a quelli causati dall’attività umana. A questa definizione possiamo contrapporre quella data dalla United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC) nella quale si fa riferimento ai cambiamenti climatici causati dalla sola azione diretta o indiretta dell’uomo. Questa seconda prospettiva è sicuramente quella che più ci interessa poiché, come lo stesso IPCC ha dichiarato nel report del 2014, “Human influence on the climate system is clear, and recent anthropogenic emissions of green-house gases are the highest in history. Recent climate changes have had widespread impacts on human and natural systems.”2Già nel 2004, in uno dei suoi report, l’IPCC sosteneva non solo che il fenomeno del riscaldamento globale è conseguenza diretta dell’azione dell’uomo, ma anche che la comunità scientifica era giunta a un ampissimo consenso a riguardo, dichiarando che “Most of the observed warming over the last 50 years is likely to have been due to the increase in greenhouse gas concentrations”3, sfatando così il mito che il riscaldamento globale e i conseguenti cambiamenti climatici con i quali facciamo i conti facciano semplicemente parte dell’andamento climatico naturale, argomentazione spesso utilizzata dai governi per attuare politiche poco convincenti o addirittura controproducenti dal punto di vista ambientale. L’IPCC non è l’unico organo che da anni ha dichiarato come l’azione dell’uomo aggravi anno dopo anno la salute del nostro pianeta e le condizioni climatiche. Uno studio che ha analizzato novecentoventotto riviste scientifiche dal 1993 al 2003 ha rivelato che la comunità scientifica è compatta nel

1 IPCC, Climate change 2007: Synthesis Report.Summary for Policymakers, https://www.ipcc.ch/site/assets/uploads/2018/02/ar4_syr_full_report.pdf, 2008

2 IPCC, Fifth Assessment Report, Climate Change 2014 Synthesis Report Summary for Policymakers, https://www.ipcc.ch/site/assets/uploads/2018/02/SYR_AR5_FINAL_full.pdf, 2014

3 J. J. McCarthy et al., Climate Change 2001: Impacts, Adaptation, and Vulnerability, Cambridge University Press, https://www.preventionweb.net/files/8387_wg2TARfrontmatter1.pdf, 2001

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ritenere il cambiamento climatico come diretta conseguenza dell’agire umano.4 Ovviamente, nel corso dei millenni il nostro pianeta ha affrontato diverse condizioni climatiche, tra cui l’ultima era glaciale 7mila anni fa. Questi cambiamenti sono stati causati da alcune piccolissime variazioni dell’orbita terrestre capaci di modificare l’ammontare di energia solare ricevuta dalla Terra. L’attuale cambiamento climatico differisce però dai precedenti: come visto prima, la causa non è naturale ma data dall’agire dell’uomo a partire dal ventesimo secolo.5 Lo ribadisce anche la Nasa: “Multiple studies published in peer-reviewed scientific journals show that 97 percent or more of actively publishing climate scientists agree: climate-warming trends over the past century are extremely likely due to human activities”.6 Entrando più nel dettaglio, dobbiamo chiederci in che modo l’agire umano degli ultimi cento anni sia stato in grado di innescare un cambiamento climatico di questa portata e quindi interrogarci sulle cause di tale fenomeno.

1.2. Le cause del riscaldamento globale

1.2.1. Le emissioni di gas serra nell’atmosfera

Per gas serra si intendono i gas capaci di bloccare il calore nell’atmosfera7, ossia i gas che partecipano all’effetto serra. Quest’ultimo è un fenomeno di per sé naturale e molto importante poiché è grazie a questo che la superficie terrestre gode di una temperatura gradevole, che altrimenti si aggirerebbe intorno ai -18 gradi celsius. I gas capaci di intercettare il calore emesso dalla superficie terrestre, i cosiddetti gas serra, sono:

• l'anidride carbonica (CO2);

• il metano (CH4);

• il protossido di azoto (N20);

• gli idrofluorocarburi (HFC);

• i perfluorocarburi (PFC);

• l'esafluoruro di zolfo (Sf6).8

Ma l’aumento della concentrazione di questi stessi gas nell’atmosfera ha alterato l’equilibrio energetico della Terra, e proprio per questo alla voce effetto serra tutti pensiamo a qualcosa di negativo. Nell’atmosfera attualmente la concentrazione di questi gas è superiore alla soglia accettabile o comunque a quella naturale. Perciò i gas, in concentrazione elevata, trattengono la radiazione solare in prossimità della superficie terrestre determinando l’aumento delle temperature medie al suolo e del mare e innescando così i cambiamenti

4 N. Oreskes, The scientific consensus on climate change,

ftp://soest.hawaii.edu/coastal/Climate%20Articles/Scientific%20Consensus%20Oreskes.pdf, 2005 5 https://climate.nasa.gov/evidence/

6 https://climate.nasa.gov/scientific-consensus/

7 https://www.epa.gov/ghgemissions/overview-greenhouse-gases 8 http://www.minambiente.it/pagina/i-cambiamenti-climatici

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climatici.9L’aumento delle emissioni di gas serra deriva da diversi settori economici, in particolare dalle produzioni industriali. L’aumento delle emissioni di gas serra sarebbe infatti già iniziato con la prima rivoluzione industriale: la concentrazione di CO₂ e di metano è in aumento dal 1750.10La fonte primaria di emissione di CO₂ nell’aria è l’utilizzo dei combustibili fossili, ossia combustibili, come gas, carbone, petrolio che si sono formati nel sottosuolo grazie a residui di piante e animali che risalgono a milioni di anni fa.11La loro combustione, motore di milioni di aziende e di persone in tutto il mondo, nonché principale fonte energetica, è la causa principale delle sovra emissioni di anidride carbonica e quindi prima causa del riscaldamento climatico. I combustibili fossili, detti anche idrocarburi, hanno un’altra caratteristica a loro sfavore: non sono rinnovabili. Eppure sono ancora al centro dell’economia globale: secondo l’EPA (United States Environmental Protection Agency) solo negli Stati Uniti, una delle grandi economie mondiali, più del 90% delle emissioni di gas serra deriva dalla combustione di idrocarburi.12Eppure i primi provvedimenti della Comunità internazionale sulle emissioni di anidride carbonica e degli altri gas serra risalgono al 1992 con gli “Accordi di Rio” o “Summit della Terra”13, la seconda conferenza mondiale sull’ambiente tra capi di Stato (la prima si era svolta a Stoccolma nel 1972), occasione durante la quale venne firmata la Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che dettava i principi a livello internazionale riguardo a tale tematica. Durante il summit, al quale parteciparono ben 175 capi di stato, si parlò per la prima volta dell’esigenza di ridurre le emissioni di gas serra per scongiurare il riscaldamento globale. Seppur non vincolante (la firma di tale trattato non implicava l’obbligo delle parti a ridurre le emissioni) il trattato, firmato dai rappresentanti delle nazioni presenti durante la conferenza, includeva la possibilità che gli stati potessero adottare successivi protocolli i quali invece avrebbero imposto limiti obbligatori alle emissioni. Nonostante la non obbligatorietà, il summit di Rio rappresentò una svolta epocale sulla questione ambientale, ponendo razionalmente in luce il problema delle emissioni come causa principale del cambiamento climatico. Riguardo ai protocolli, la Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici fu solo la premessa al più importante accordo degli anni Novanta: il protocollo di Kyoto del 199714. Il trattato venne redatto da più di 180 paesi ed entrò in vigore nel febbraio del 2005, a seguito dell’adesione della Russia e quindi del raggiungimento dell’adesione dei paesi produttori del 55% delle emissioni, criterio necessario per l’entrata in vigore del trattato. I criteri di riduzione delle emissioni erano diversi a seconda delle condizioni economiche e di sviluppo dello stato: i Paesi industrializzati dovevano ridurre le emissioni tra il 6-8% nel periodo 2008-2012, rispetto ai livelli di emissione del 1990 (gli Stati membri dell'Unione dovevano ridurre collettivamente le loro emissioni di gas ad effetto serra dell'8% tra il 2008 e il 2012); i paesi in via di sviluppo, seppur firmatari del trattato, non erano invece

9Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, Emissioni di gas serra, mutamenti climatici, futuro

dell’agricoltura, http://www.isprambiente.gov.it/files/pubblicazioni/rapporti/Rapporto_220_2015.pdf, 2015

10 United States Environmental Protection Agency, https://www.epa.gov/climate-indicators/greenhouse-gases, 2013 11 https://dictionary.cambridge.org/dictionary/english/fossil-fuel

12 United States Environmental Protection Agency, Inventory of U.S. Greenhouse Gas Emissions and Sinks: 1990–

1998, https://www.epa.gov/ghgemissions/inventory-us-greenhouse-gas-emissions-and-sinks-1990-1998, 2000

13 Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, Rapporto della conferenza delle Nazioni Unite

sull’ambiente e lo sviluppo,

http://www.isprambiente.gov.it/it/formeducambiente/educazione-ambientale/file-educazione-ambientale/eos/dichiarazione-rio.pdf, 1992 14 United Nations, https://unfccc.int/process/the-kyoto-protocol

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tenuti a diminuire le emissioni, per evitare un rallentamento nella loro crescita economica. Per quanto la scelta fosse comprensibile, questa rischiava di gravare pesantemente sulle speranze di salvare il nostro pianeta dal riscaldamento globale in quanto solo Cina e India emettono nell’atmosfera 3417045 migliaia di tonnellate di CO₂ (rispettivamente prima al mondo con 2806634 e terza con 610411, secondo i dati del 2014)15. Proprio nell’arco temporale tra la firma del protocollo e la su entrata in vigore, queste economie, crescendo a un ritmo spedito, hanno raggiunto livelli di emissione altissimi. Soprattutto di fronte al fatto che la seconda nazione più inquinante del mondo, gli Stati Uniti, non ha ratificato il protocollo e, pur partecipando ai summit precedenti e successivi a quello di Kyoto, non si sono mai impegnati in un cammino collettivo per la riduzione delle emissioni. Nemmeno Barack Obama, sostenitore di una politica ambientalista, ha ratificato e quindi aderito al protocollo; era stato invece firmato da Bill Clinton il 12 novembre 1998, grazie al sostegno del suo vicepresidente Al Gore, il quale ancora oggi è uno dei più grandi promotori delle politiche ambientaliste negli Stati Uniti.

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La scelta di concentrarsi sulla riduzione delle emissioni di gas serra derivava innanzitutto dai moniti della comunità scientifica, nei report del 1990 e del 1992 dell’IPCC dichiarava: “We are certain of the following: there is a natural greenhouse effect...; emissions resulting from human activities are substantially increasing the atmospheric concentrations of the greenhouse gases: CO2, methane, CFCs and nitrous oxide. These increases will enhance the greenhouse effect, resulting on average in an additional warming of the Earth's surface.”17In questi due report, l’Intergovernmental Panel on Climate Change aggiunse che l’anidride

15 T. Boden, B. Andres, Ranking of the world's countries by 2014 total CO2 emissions

from fossil-fuel burning, cement production, and gas flaring, https://cdiac.ess-dive.lbl.gov/trends/emis/top2014.tot,

2014

16 In verde i paesi firmatari e che hanno ratificato il trattato, in blu gli Stati che lo hanno firmato ma non ratificato. 17

IPCC, Climate change: The IPCC 1990 and 1992 assessments,

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carbonica è responsabile per più della metà dell’effetto serra e che già agli inizi degli anni Novanta sarebbe stata necessaria una riduzione del 60% delle emissioni di gas serra per stabilizzarne la concentrazione rispetto ai livelli di quel periodo. Infine, nel report era inserita un’importante previsione riguardo l’innalzamento della temperatura terrestre nel XXI secolo: + 0.2- 0.5°C per decennio, rispetto ai valori del 1990. Ad oggi la temperatura terrestre è aumentata di 0.9°C rispetto al 1880, la banchisa artica si è ridotta del 13,2% per decennio, con un picco negativo durante l’estate del 2012.18Anche la temperatura degli oceani è ovviamente interessata dall’aumento della temperatura globale: un mare più caldo, significa un mare più “alto”. Infatti, all’aumento della temperatura dell’acqua, questa si espande, provocando l’innalzamento del suo livello.19 Altra causa dell’innalzamento dei mari è il rapido scioglimento delle grandi risorse glaciali del pianeta, dall’Antartide alla Groenlandia. Uno studio svolto dalla Nasa e da alcune università americane ha inoltre affermato che il ritmo di scioglimento dei grandi ghiacciai del mondo sarebbe aumentato, raddoppiando così la crescita del livello del mare entro il 2100.20 Secondo la Nasa, il livello globale del mare si è alzato di circa 20 cm rispetto alle prime registrazioni, iniziate nel 1880. Se la crescita dei mari dovesse procedere ai ritmi rilevati negli ultimi anni, le previsioni non sono per niente confortanti: il livello crescerà dai 30 ai 122 cm, provocando danni irreparabili a molte terre emerse, come vedremo nel prossimo paragrafo. A seguito del protocollo di Kyoto, gli stati firmatari si sono ritrovati periodicamente in occasione delle conferenze delle parti (COP) sul clima e i cambiamenti climatici, ma senza raggiungere risultati importanti e soprattutto rilevanti al fine di ridurre le emissioni per scongiurare l’aumento della temperatura. Le varie Cop susseguitesi negli anni dopo la Cop3, ossia quella di Kyoto, sono state un fallimento. L’unica tappa da segnalare è la Conferenza di Doha durante la quale gli impegni previsti dal protocollo di Kyoto sono stati prolungati fino al 2020. Dobbiamo attendere la Cop21 per poter tornare a parlare di importanti novità. Il 30 novembre 2015 si aprì a Parigi la ventunesima Conferenza sul clima alla quale parteciparono 196 capi di stato. L’accordo, sottoscritto da 196 paesi prevede: “l’impegno a dar seguito ai moniti dell’Onu, agendo con urgenza per contenere la crescita del riscaldamento globale entro i 2°C e possibilmente 1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali con una riduzione delle emissioni del 40-70% entro metà secolo in vista del traguardo “zero emissioni” entro fine secolo.”21 Altri aspetti importanti di tale accordo sono l’inserimento del principio di resilienza, vale a dire la capacità di adattamento agli impatti derivanti dal cambiamento climatico, in particolare con il fine di proteggere le minacce alla produzione alimentare; il rendere i flussi finanziari coerenti con un percorso che conduca a uno sviluppo a basse emissioni di gas ad effetto serra e resiliente al clima; l’appello al principio di responsabilità di ogni Stato ad attuare politiche in base alle diverse circostanze nazionali.22 La vera novità, estremamente rilevante a livello pratico nella lotta al riscaldamento globale, è il venir meno, dal punto di vista delle emissioni,

18 https://climate.nasa.gov/un 19 https://climate.nasa.gov/effects/

20 R.S. Nerem, B.D. Beckley et al, Climate change driven accelerated sea-level rise detected in the altimeter era, http://www.pnas.org/content/pnas/115/9/2022.full.pdf, 2018

21 A. Clô,“Energia e clima. L’altra faccia della medaglia”, Il Mulino, Bologna, 2017 22Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, L’Accordo di Parigi,

http://www.minambiente.it/sites/default/files/archivio/allegati/cop21/ACCORDO%20DI%20PARIGI%20Traduzione% 20non%20ufficiale.pdf, 2015

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della netta distinzione tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo, come era invece previsto nel Protocollo di Kyoto: anche paesi come Cina, India, Brasile hanno il compito di ridurre le emissioni di gas serra nell’atmosfera (anche se questi godono di maggior flessibilità). L’Accordo di Parigi fa affidamento sulla buona volontà dei firmatari, non è dunque vincolante. O meglio, la parte che fa riferimento ai principi, ossia alle regole comuni, sottoscritta dai 196 paesi, è un impegno vincolante, ma gli stati non sono tenuti a implementare i Contributi nazionali programmati (INDCs), lo strumento previsto dall’Accordo per attuare misure e politiche di riduzione delle emissioni, lasciate alla legislazione di ciascun Stato. L’Accordo è entrato in vigore il 4 novembre del 2016. Concludendo, è senza dubbio possibile sostenere che le emissioni di gas serra sono la principale causa del riscaldamento globale. I settori su cui sicuramente gli Stati dovrebbero intervenire sono in primis il settore energetico, quello industriale, quello alimentare e dei trasporti. Ma ad oggi, le risorse rinnovabili utilizzate per produrre elettricità sono appena lo 6,7%.23

1.2.2. Lo sfruttamento del suolo e le deforestazioni

Un altro fattore- causa del riscaldamento globale sono le massicce deforestazioni che interessano varie zone del pianeta. Come si impara fin dalle scuole elementari, la più importante funzione delle piante è quella di assorbire anidride carbonica (CO₂) e di emettere ossigeno (O) nell’atmosfera. È quindi molto semplice comprendere come il disboscamento senza controllo (e non è poi così raro anche quello illegale) possa andare ad influire direttamente sulla concentrazione di anidride carbonica nell’aria e a sbilanciare questo scambio di molecole che ha un ruolo fondamentale per la vita sulla Terra. Le foreste svolgono anche altre importanti funzioni: contribuiscono alla tutela della biodiversità, svolgono un ruolo fondamentale nella conservazione delle acque e del suolo (basti pensare al ruolo delle radici degli alberi, necessarie per scongiurare frane ed erosioni), assorbono il carbonio.24 Ritornando al disboscamento, attualmente, secondo un rapporto della Fao, dal 1990 a oggi sono andati perduti circa 129 milioni di ettari di foresta.25 Nel rapporto del 2015 l’Organizzazione per il cibo e l’agricoltura delle Nazioni Unite ha però evidenziato come i numeri della deforestazione siano diminuiti negli ultimi 25 anni di oltre il 50%. Il ritmo del disboscamento è però ancora troppo elevato per essere sostenibile, ma sicuramente questo rallentamento ha giovato dal punto di vista dei gas serra e quindi nella lotta ai cambiamenti climatici. A livello mondiale, i paesi che hanno visto ridurre sempre di più le proprie zone boschive tra il 2010 e il 2015 sono: Brasile, Indonesia e Myhanmar. In Brasile si estende il 65% dell’Amazzonia, la più grande foresta pluviale tropicale al mondo, per questo anche denominata “polmone del pianeta”. Dell’Amazzonia però, dagli inizi degli anni Quaranta del secolo scorso, più di un quinto della superficie boschiva è stato disboscato.26

23 A. Clô, “Energia e clima. L’altra faccia della medaglia”, Il Mulino, Bologna, 2017 24 https://www.wwf.it/ambiente/foreste/valore_foreste/

25 http://www.fao.org/news/story/it/item/327556/icode/

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I fattori che hanno portato e portano tuttora alla deforestazione nelle varie zone del globo, con le loro relative cause e impatti negativi sull’ambiente, son ben riassunti in questa tabella del Wwf:

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Come si può vedere da questo schema sono dieci i principali fattori che hanno condotto l’uomo ad abbattere milioni di ettari di foresta. Nelle zone tropicali e subtropicali (ma non solo) sono innanzitutto l’allevamento di bestiame e l’agricoltura, in particolare quella su larga scala, le prime cause del disboscamento. Ovviamente anche le infrastrutture e l’espansione urbana giocano la loro parte, ma nel report della Fao “State of World’s Forests 2016” viene sottolineato come proprio nei paesi tropicali tra il 2000 e il 2010 ci sia stata una perdita annua di 7 milioni di ettari di foreste e un incremento di campi coltivati all’incirca della stessa estensione.28Per quanto riguarda gli allevamenti di bestiame, secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 2006, questo settore è responsabile del 18% delle emissioni di gas serra nell’atmosfera e quindi interventi di regolazione di questo potrebbero sicuramente contribuire a rallentare il riscaldamento globale.29 In particolare, l’industria zootecnica riversa nell’ambiente tre gas: l’anidride carbonica, il metano e il protossido di azoto. Questo avviene in due modalità: direttamente e indirettamente. Dal primo punto di vista, il bestiame rilascia metano attraverso i microrganismi partecipi nel processo di digestione animale e protossido di azoto attraverso la decomposizione del letame. Chiaramente, di fronte alla domanda di carne e derivati che è quintuplicata nella seconda metà del Novecento siamo di fronte a miliardi di capi di bestiame allevati per essere sfruttati e/o mangiati. L’emissione diretta non è la sola forma di emissione di gas inquinanti dell’industria zootecnica: le maggiori emissioni derivano dalla combustione di fossili per produrre i fertilizzanti usati nella produzione del foraggio, dal metano rilasciato dalla decomposizione dei fertilizzanti, dall’uso di ampi appezzamenti di terra per la produzione del

27 Wwf, Saving forests at risk,

https://c402277.ssl.cf1.rackcdn.com/publications/793/files/original/Report.pdf?1430147305, 2015 28 Fao, State of the world’s forests, http://www.fao.org/3/a-i5588e.pdf/, 2016

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foraggio e per l’allevamento del bestiame stesso, dai combustibili fossili usati nella produzione e nel trasporto dei prodotti animali.30Il 25% emesso è metano, direttamente dagli animali, il 32% emesso è anidride carbonica derivante dall’uso dei terreni, mente il 31% emesso è ossido di diazoto dal letame e dai liquami.31 Come accennato, l’allevamento si colloca drammaticamente all’interno del tema delle deforestazioni: ampi appezzamenti di terra sono necessari non solo per l’allevamento, ma in primis per la produzione del foraggio destinato agli animali. Un dato su tutti: solo nel 2004, negli Stati Uniti 253 milioni di tonnellate del grano prodotto è stato destinato al nutrimento del bestiame32. Secondo i dati della Fao, il 26% della superficie terrestre globale è occupata da pascoli di bestiame. Inoltre:

L’espansione dei pascoli destinati al bestiame è un fattore cruciale per la deforestazione, in particolare in America Latina: in Amazzonia, circa il 70 per cento dei terreni che in passato ospitava la foresta è impiegato per la pastura. Gran parte del restante 30 per cento, invece, è destinato alle piantagioni. Circa il 70 per cento di tutti i pascoli nelle zone aride è considerato terra degradata, soprattutto a causa delle cattive pratiche relative alla pastura. Pertanto, la gestione sostenibile dei pascoli, dei boschi e della vegetazione in generale è essenziale per la conservazione del suolo e, di conseguenza, per garantire il sostentamento rurale, il mantenimento della produzione di bestiame, la crescita della vegetazione, nonché per salvaguardare le materie prime del presente e del futuro.33

Un uso più giusto del suolo è quindi un argomento cruciale per la lotta ai cambiamenti climatici ma anche per altri temi a questo connessi come la sicurezza alimentare e la lotta alla fame nel mondo. Ai fini di questo lavoro è necessario chiedersi, a seguito di quanto detto, se l’opera di deforestazione sia sostenibile a livello ambientale. La deforestazione, nonostante sia diminuita negli anni, è ancora una delle principali cause del riscaldamento del pianeta: secondo la Fao “tra il 25 ed il 30 per cento dei gas serra che ogni anno vengono rilasciati nell’atmosfera – 1.6 miliardi di tonnellate – sono causati dalla deforestazione.”34È quindi più che auspicabile una pianificazione dell’uso del territorio a livello nazionale, ma soprattutto con la fissazione di limiti a livello internazionale (viste le numerose multinazionali che da anni sfruttano territori terzi per le loro produzioni ricorrendo alle deforestazioni e causando così un danno ambientale immenso). Queste compagnie sono note anche grazie a uno studio chiamato Forest 500 del Global Capopy Programme, un’organizzazione ambientalista che dal 2001 si occupa della distruzione delle foreste.35 In Forest 500 viene stilata la lista delle 500 aziende indicate come le responsabili della deforestazione, per la tipologia di bene che producono (in particolare i prodotti sotto accusa sono l’olio di palma, la soia, la carne e la pelle, il legname, la cellulosa e la carta) e per le modalità con le quali questi beni vengono prodotti. Ciò che è assolutamente necessario è che queste grandi aziende trasformino la loro produzione in chiave sostenibile, riducendo così drasticamente la

30 Fao, Livestock’s Long Shadow http://www.fao.org/docrep/010/a0701e/a0701e00.HTM, 2006 31 P. Thornton, M. Herrero, P. Ericksen, Livestock and climate change,

https://cgspace.cgiar.org/bitstream/handle/10568/10601/IssueBrief3.pdf?sequence=6&isAllowed=y, 2011 32 D. Pimental et al, Water Resources: Agricultural and Environmental Issues,

https://academic.oup.com/bioscience/article/54/10/909/230205, 2004

33 Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, Il suolo è fondamentale per la vegetazione

dalla quale si ricavano mangimi, fibre, carburanti e sostanze medicinali, http://www.fao.org/3/a-i4666o.pdf, 2015

34 http://www.fao.org/newsroom/it/news/2006/1000385/index.html 35 https://forest500.org/

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deforestazione, facendo un uso più intelligente del suolo e del territorio ed evitando così tutte le conseguenze del disboscamento.

1.3. Le conseguenze del riscaldamento globale

Come detto in precedenza, i cambiamenti climatici sono la diretta conseguenza del riscaldamento globale di cui abbiamo visto poco fa le cause. Si parla di cambiamenti climatici al plurale perché questi interessano diversi parametri ambientali e climatici come le temperature, le precipitazioni, le temperature degli oceani, la biodiversità, ecc. Per affrontare le conseguenze del riscaldamento globale e quindi tutte le sfaccettature del cambiamento climatico, è necessario analizzare gli effetti derivanti dall’attività antropogenica che, ribadisco, è stata identificata come la sola causa (con confidenza al 95%) dei cambiamenti climatici, secondo il rapporto dell’IPCC del 2013.

1.3.1. Lo scioglimento dei ghiacci e l’innalzamento del livello dei mari

A causa delle temperature sempre più alte, anche le zone notoriamente più fredde del pianeta hanno iniziato a riscaldarsi: si fa riferimento all’Artide, all’Antartide, alla Groenlandia ma anche alle zone montuose morfologicamente caratterizzate dalla presenza di grossi ghiacciai, non da ultime le nostre Alpi, a cui accennerò più avanti. Per quanto riguarda l’Antartide e la Groenlandia, secondo le misurazioni della Nasa iniziate nel 2002, entrambe hanno perso ogni anno parte della loro superficie glaciale, contribuendo così alla perdita della criosfera globale. Dal 2002 questi territori hanno perso 127 giga tonnellate di ghiaccio ogni anno e la velocità di scioglimento è nettamente aumentata dal 2009.36Quello che sta succedendo al polo nord non è più confortante: nel 2017 le temperature artiche sono state le seconde più alte mentre il 2016 è stato l’anno più caldo dalla fine del XIX secolo. Il mare glaciale artico continua ad essere più giovane e fine rispetto al passato: il ghiaccio formatosi da più di un anno rappresentava nel 2017 solo il 21% del totale, rispetto al 45% del 1985. Il ghiaccio formatosi da più di 4 anni è praticamente scomparso. La temperatura del mare Artico nel 2017 è stata di 4°C più alta rispetto alla media.37La National Oceanic and Atmospheric Administration degli Stati Uniti ha dichiarato in una nota stampa che “le temperature in questa regione continuano ad aumentare ad una velocità doppia rispetto all’aumento della temperatura globale”.38Lo scioglimento dei grandi ghiacci influisce inoltre sulla Corrente del Golfo, che svolge l’importantissimo ruolo di mitigare le coste dell’Atlantico settentrionale. Il flusso della Corrente del Golfo è diminuito di intensità già dall’inizio della Rivoluzione industriale a causa del sempre maggior riversamento di acqua dolce nei mari, soprattutto nell’ Atlantico Settentrionale per via dello scioglimento dei ghiacci artici. In questo modo la corrente si indebolisce perché il mescolamento impedisce all’acqua di diventare sufficientemente densa da raggiungere i fondali. Il rischio è quindi che di pari passo a un complessivo riscaldamento globale, le zone dell’Europa occidentale si trovino

36 https://climate.nasa.gov/

37NOAA, https://www.youtube.com/watch?v=MvoFDZQKJHc&feature=youtu.be

38 https://www.noaa.gov/media-release/arctic-saw-2nd-warmest-year-smallest-winter-sea-ice-coverage-on-record-in-2017

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invece ad affrontare un clima più freddo per la sempre più debole Corrente del Golfo.39 Al rapido scioglimento dei ghiacci polari, va di pari passo quello dei grandi ghiacciai, come si evince dalle ultime misurazioni del World Glacier Monitoring Service che prendono in considerazione i due parametri chiave per capire l’andamento di un ghiacciaio: l’equilibrio di massa e la lunghezza/ estensione dello stesso. Questi ultimi dati, risultanti dal continuo monitoraggio di 130 grandi ghiacciai del mondo, confermano il trend negativo: la quasi totalità dei ghiacciai si sta ritirando.40Se si guarda ad esempio ai ghiacciai delle Alpi svizzere (proprio in Svizzera ha sede il World Glacier Monitoring Service) si nota come nel 2017 tutti i ghiacciai elvetici si siano ulteriormente ritirati.41La situazione è talmente grave che in un recentissimo studio dell’Università di Brema e dell’Università di Innsbruck è stato scritto nero su bianco che anche se le emissioni di CO₂ nell’atmosfera derivanti dalle attività umane si interrompessero nei prossimi anni, sarebbe comunque troppo tardi per ben il 36% del ghiaccio che ricopre il nostro pianeta che si scioglierebbe entro la fine del secolo.42

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Oltre alla perdita di luoghi dal fascino unico, le conseguenze dello scioglimento dei grandi ghiacci artici si riflettono in primis sulle comunità del nord del mondo che devono adattarsi ad un clima sempre più “normale” con pesanti impatti sulla pesca, settore di principale interesse economico ma anche di sussistenza per queste comunità e sull’ecosistema in generale. Oltre a imporre un drastico mutamento delle abitudini e delle attività commerciali delle popolazioni più a nord e alla perdita di flora e fauna, lo scioglimento dei grandi ghiacci e ghiacciai porterà inesorabilmente all’aumento del livello dei mari, fenomeno causato anche, come detto in precedenza, dall’aumento della temperatura degli oceani e quindi dalla sua espansione. Nel 2014, il livello del mare era di oltre 6 cm più alto rispetto alle misurazioni del 1993 e la sua crescita è di circa 0,34 cm ogni anno,

39 Woods Hole Oceanographic Institution http://www.whoi.edu/news-release/atlantic-ocean-circulation-at-weakest-point-in-more-than-1500-years

40 World glacier monitoring service, https://wgms.ch/latest-glacier-mass-balance-data/ 41Schweizer Gletscher, http://swiss-glaciers.glaciology.ethz.ch/glacierlist.html

42University of Innsbruck, Glacier mass loss passes the point of no return, researches report, https://phys.org/news/2018-03-glacier-mass-loss.html, 2018

43 Alaska, Parco Nazionale di Glacier Bay: il ghiacciaio Muir e il suo affluente Mc Bride nel 1941 formavano un’unica fronte alta più di 100 m. William Osgood Field, 1941. © Alaska and Polar Regions Collections & Archives, Elmer E. Rasmuson Library, University of Alaska Fairbanks. Fabiano Ventura, 2013 © Archivio F. Ventura

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ma senza un cambio di rotta, questo trend continuerà ad aumentare.44 L’innalzamento del livello dei mari è uno dei fenomeni climatici più tangibili, in particolare per molte popolazioni locali: basti pensare ai piccoli atolli, alle isole, ma anche a varie zone costiere, un esempio su tutti la nostra laguna di Venezia che potrebbe essere completamente sommersa per oltre 30 km verso l’interno entro il 2100 se l’innalzamento del livello del mare continuerà di questo passo. Nel 2015, il Direttore della Divisione Scienze della Terra della Nasa Michael Freilich, a seguito della pubblicazione di un report dell’Agenzia, ha dichiarato:

più di 150 milioni di persone, principalmente in Asia, vivono in zone situate a meno di un metro dall’attuale livello delle acque. Negli Stati uniti (…) in particolare la Florida risentirà di questi eventi. Alcune isole del Pacifico potranno essere completamente sommerse e alcune megalopoli come Dacca in Bangladesh, Singapore e Tokyo saranno gravemente toccate.45

1.3.2. L’acidificazione degli oceani

L’aumento delle emissioni di CO₂ derivanti dall’ attività antropogenica influiscono sugli oceani ma non solo dal punto di vista della temperatura: l’anidride carbonica, emessa sempre in maggior quantità, si riversa in parte anche negli oceani causando la decrescita del pH oceanico e quindi le acque marine attuali sono molto più acide rispetto al passato. In particolare, dall’inizio della Rivoluzione industriale, l’acqua marina è più acida di circa il 30%.46 Il fatto che l’acqua oceanica sia più acida ha importanti conseguenze soprattutto sulla flora e sulla fauna marina. Basti pensare alla Grande Barriera Corallina australiana: nel 2016 è stata dichiarata praticamente “morta” da un importante gruppo di studiosi poiché ha visto lo sbiancamento del 90% dei suoi coralli e la morte del 20%.47La causa principale è l’aumento della temperatura degli oceani ma di notevole gravità è anche l’acidificazione di questi. Da questa ne deriva la morte di tutti gli altri esseri viventi che si nutrono in prossimità delle grandi barriere, ad esempio le tartarughe. L’acidificazione degli oceani sta portando alla morte di migliaia di specie di erba marina e di pesci, distruggendo così non solo un ecosistema prezioso e portando all’estinzione molteplici specie animali, ma anche minando seriamente l’attività ittica da cui molte di queste zone dipendono, specialmente aree povere del mondo dove la pesca è la sola fonte di cibo per milioni di individui. Secondo un recente studio guidato dall’Università di Cardiff, che ha analizzato il pH dell’acqua marina degli ultimi 22 milioni di anni, gli oceani potrebbero diventare acidi come 14 milioni di anni fa, quando la temperatura terrestre era di tre gradi più alta. Questo potrebbe dunque ripetersi a causa del riscaldamento globale da attività antropogenica, distruggendo gli eco sistemi marini con la conseguente perdita di migliaia di specie di pesci.48 Anche qui vediamo come l’attuazione di politiche verdi al fine di mitigare il cambiamento climatico non sia solamente una scelta importante ma necessaria per evitare seri problemi di sicurezza

44 Noaa, https://oceanservice.noaa.gov/facts/sealevel.html

45 World sea level set to rise at least one metre over next 100-200 years, Nasa says, ABC, https://www.abc.net.au/news/2015-08-27/sea-levels-set-to-rise,-nasa-says/6728008, 2015 46 https://www.pmel.noaa.gov/co2/story/What+is+Ocean+Acidification%3F

47 https://www.youtube.com/watch?v=MFUyUvHvlYY

48 Ocean acidification to hit levels not seen in 14 milion years, Cardiff University,

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alimentare. Si torna quindi all’esigenza di diminuire drasticamente le emissioni di gas serra e in particolare di anidride carbonica per scongiurare uno scenario pericoloso, anche dal punto di vista economico.

1.3.3. Gli incendi boschivi

Di fronte all’estate più calda dal 1920, l’Europa non solo ha visto il termometro segnare ben 2,16 °C più della media, ma è stata anche colpita da incendi di grosse dimensioni che hanno ridotto in cenere migliaia di ettari di boschi.49 A luglio è stata la volta della Grecia, dove intere cittadine sono state evacuate per scongiurare il peggio. Ma se la Grecia, paese dal clima mediterraneo e notoriamente piuttosto arido, è “abituata” a questo tipo di eventi (anche se non di questa portata distruttiva), nello stesso periodo anche la Svezia è stata colpita da più di 50 focolari, di cui alcuni nella regione più a nord, la Lapponia. Non sembra quindi un caso se solo un anno prima il Centro Comune di ricerca della Commissione Europea aveva pubblicato il Rapporto sul pericolo degli incendi boschivi in Europa per effetto dei cambiamenti climatici, riconoscendo così un importante nesso tra i due fenomeni. La scelta di istituire un gruppo di ricerca su tale materia è alquanto scontata: innanzitutto l’Europa è coperta per ben un terzo da foreste che però negli ultimi anni sono state oggetto di disastrosi incendi, concentrati in particolare nella parte meridionale del continente.50 Ciò che viene evidenziato nel rapporto è che all’aumentare della temperatura terrestre, a causa delle emissioni di gas serra, e quindi all’aumentare della temperatura anche nelle zone dell’Europa meridionale, i livelli di umidità saranno sempre più bassi; le regioni saranno così sempre più aride e quindi il pericolo di incendi boschivi causato da fattori climatici sarà sempre più elevato. Il 2018 è stata un’annata molto difficile anche per le foreste californiane, colpite dal più vasto incendio di sempre: cominciato il 27 luglio scorso nell’area di Mendocino, a nord di San Francisco e finalmente domato in toto solo il 19 settembre, questo incendio ha bruciato ben 459.123 acri, ossia circa 185.800 ettari (1.858 km² di foreste).51 Solo l’anno prima, nel dicembre 2017, il cosiddetto “Thomas Fire”, il secondo incendio più vasto, aveva colpito la California nelle zone di Ventura e Santa Barbara. Il fatto che zone miti come la California siano sempre più spesso e per periodi continuativi sempre più lunghi sotto la morsa delle fiamme è sicuramente da imputare alla vegetazione sempre più arida a causa delle temperature eccessivamente elevate e dalla mancanza di piogge e quindi di umidità. Con un paesaggio così arido, anche un semplice mozzicone di sigaretta o un piccolo guasto elettrico può scatenare un evento di enormi dimensioni, difficile da domare. Basti pensare al fatto che per domare completamente i due incendi del luglio 2018, poi unitesi in una sola lingua di fuoco, i vigili del fuoco e tutti i reparti impegnati nell’impresa hanno lavorato quasi due mesi.52 Di fronte a questi scenari estremamente pericolosi è importante sottolineare che gli incendi sono innescati prevalentemente dall’uomo: all’interno delle foreste è infatti molto difficile che si creino le condizioni per

49 T. Di Liberto, A hot, dry summer has led to drought in Europe in 2018, https://www.climate.gov/news-features/event-tracker/hot-dry-summer-has-led-drought-europe-2018, 2018

50 Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, http://www.pdc.minambiente.it/it/news-ed-eventi/incendi-boschivi-e-cambiamenti-climatici-i-nessi-i-rischi-e-le-strategie-di

51Incident Information System, https://inciweb.nwcg.gov/incident/6073/

52 United States Department of Agriculture, Mendocino Complex Information- September 15, 2018,

https://inciweb.nwcg.gov/photos/CAMNF/2018-08-01-1630-Mendocino-Complex/related_files/pict20180815-105303-0.pdf, 2018

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l’inizio di un incendio. Che gli incendi siano dolosi o frutto di negligenza, non c’è dubbio che queste siano le cause più comuni. Negli Stati Uniti, ad esempio, dal 2001 al 2017, sono stati ben 61.952 gli incendi causati dalla mano dell’uomo, di cui il 67% solo negli Stati del Sud-Est.53In Italia, Legambiente ha inserito il problema degli incendi dolosi nel Rapporto Ecomafia 2018: nel nostro Paese, molti incendi dolosi infatti sono di stampo mafioso, legati a interessi speculativi nell’edilizia o per la conferma o assunzione di operai forestali.54Tornando alla relazione tra incendi boschivi e cambiamenti climatici va sottolineato che questi ultimi sono spesso la causa della propagazione e maggior estensione degli incendi e quindi della sempre maggior difficoltà nel contenerli, fino ad arrivare a vere e proprie emergenze come quelle sopracitate della Grecia e della California. In generale, è possibile affermare che la relazione tra cambiamento climatico e incendi boschivi è a doppio senso: da una parte i cambiamenti climatici in atto, come le temperature elevate e la mancanza di piogge sono la concausa di molti incendi su larga scala; dall’altra parte il fumo proveniente da questi grossi incendi boschivi emettono loro stessi gas che incrementano il riscaldamento globale.

1.3.4. Gli eventi climatici anomali

L’aumentare della temperatura terrestre e degli oceani si ripercuote, come visto in precedenza, su molti meccanismi naturali: dalle correnti oceaniche, alle riserve di acqua, dalla disponibilità di ossigeno nei mari alla sopravvivenza di molte specie. Il riscaldamento globale è anche la causa di eventi climatici anomali e/o estremi. È quanto viene sostenuto dall’American Meteorological Society in un importante contributo del 2016: il cambiamento climatico derivante dall’attività antropogenica diventerà sufficientemente forte e potente da innescare eventi che andranno oltre i confini naturali.55E questi eventi anomali ed estremi stanno già avvenendo, come dichiarato dallo studio qui citato ma anche come mostrato dalla più recente mappa del mondo qui di seguito, fornita dall’Amministrazione Nazionale Oceanica e Atmosferica, dove sono evidenziati gli eventi climatici anomali del giugno 2018.

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53 National Interagency Fire Centre, https://www.nifc.gov/fireInfo/fireInfo_stats_human.html 54 Legambiente, https://www.legambiente.it/temi/ecomafia/incendi-boschivi

55 S. C. Herring, N. Christidis, et al, Explaining extreme events of 2016 from a climate perspective, http://www.ametsoc.net/eee/2016/2016_bams_eee_low_res.pdf, 2018

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Tra questi si annoverano condizioni climatiche già affrontante nelle pagine precedenti, come le alte temperature o lo scioglimento della banchisa artica, ma ci sono altri fenomeni che si sono rivelati più estremi e più pericolosi a causa del global warming. Come si vede dalla cartina, l’uragano Bud, che si è abbattuto sulle coste messicane, ha raggiunto la categoria 4 sulla scala Saffir- Simpson presentando venti fino a 215 km/h ed è stato il secondo più forte uragano del 2018. Il più forte è stato registrato nell’aprile 2018 sulla costa nord dell’Australia: il ciclone Marcus è stato disastroso, con venti fino a 260 km/h è stato inserito nell’ultima e più estrema categoria della scala Saffir- Simpson, la numero 5. Gli uragani (ma non solo, anche i fenomeni a questi connessi come i tifoni e le tempeste tropicali) rischiano di diventare sempre più potenti e quindi più distruttivi a causa del riscaldamento globale. In particolare, secondo gli studi più recenti, questi fenomeni si intensificherebbero del 2-11% mentre le tempeste tropicali dovrebbero causare il 10-15% di precipitazioni in più.57 Ripercorrendo gli episodi più critici e anomali della prima parte del 2018, è possibile delineare l’entità e la gravità degli altri cambiamenti a livello climatico in atto. L’andamento delle precipitazioni ad esempio rappresenta un altro campanello d’allarme secondo gli scienziati. Secondo il V rapporto dell’IPCC del 2013:

Le influenze antropogeniche hanno contribuito all'aumento osservato del contenuto di umidità atmosferica (confidenza media), alle variazioni su scala globale dei pattern delle precipitazioni sulla superficie terrestre (confidenza media), all'intensificarsi degli eventi di forte precipitazione sulle regioni terrestri, laddove i dati sono sufficienti (confidenza media), e ai cambiamenti della salinità dell'oceano superficiale e sub-superficiale (molto probabile). […] Sulla maggior parte delle aree terrestri alle medie latitudini e delle regioni umide tropicali, gli eventi estremi di precipitazione saranno molto probabilmente più intensi e più frequenti entro la fine di questo secolo, all'aumentare della temperatura superficiale media globale.58

Proprio nell’aprile del 2018, a seguito del passaggio dell’uragano Lane, le Hawaii sono state martellate da piogge torrenziali: 1262,13 mm d’acqua si sono riversati sull’arcipelago in sole 24 h, segnando il nuovo record di precipitazioni negli Stati Uniti.59 Nel marzo dello stesso anno, in Spagna le precipitazioni sono state di tre volte superiori rispetto allo stesso periodo negli anni precedenti. Il riscaldamento globale porterà dunque siccità in ampie zone della Terra e a tempeste e uragani in altre, con tutte le conseguenze del caso.

1.4. Le prospettive future

La risposta della comunità scientifica internazionale agli Accordi di Parigi è arrivata l’8 Ottobre 2018 con la pubblicazione da parte dell’IPCC di uno special report dal titolo Global warming of 1.5°C. Questo report ha come fine quello di analizzare l’impatto e le conseguenze se la Terra raggiungesse una temperatura di 1.5°C più alta rispetto ai livelli preindustriali, chiaramente in risposta all’obiettivo di non superare i +2°C o possibilmente il +1.5°C contenuto all’interno dell’Accordo sul clima del 2015. Questo report non solo ci dà la possibilità di verificare l’efficacia degli Accordi siglati ma è anche un utile documento per comprendere le dinamiche presenti ma soprattutto future legate al riscaldamento globale. Innanzitutto, gli scienziati hanno

57 https://www.gfdl.noaa.gov/global-warming-and-hurricanes/

58U. Cubasch, D. Wuebbles, Climate change 2013: The Physical Science Basis, https://www.ipcc.ch/site/assets/uploads/2018/02/WG1AR5_all_final.pdf, 2013 59 https://www.ncdc.noaa.gov/sotc/global/201804

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fatto notare come in alcune zone della Terra, popolate dal 20-40% dell’intera popolazione globale, si siano già raggiunte temperature oltre il +1.5°C e che queste abbiano già apportato profonde alterazioni al sistema naturale e a quello umano a causa di fenomeni climatici estremi, alluvioni, innalzamento del livello dei mari e perdita di biodiversità. Le più colpite da queste dinamiche sono state le popolazioni dei paesi a basso o medio reddito le quali hanno già dovuto affrontare problemi di sicurezza alimentare e quindi spesso conseguenti migrazioni e maggiore povertà. Le zone costiere o le isole sono le più colpite. Parlando di ecosistemi invece i più colpiti dai cambiamenti climatici sono le zone tropicali e l’Artico. In riferimento al principio di equità, il Rapporto parla anche della relazione tra cambiamento climatico e povertà, affermando che molte zone del mondo rischiano di diventare ancora più povere a causa dei cambiamenti climatici che andranno ad alterare attività come l’agricoltura, che dipende in particolare dai livelli di precipitazioni ad esempio, e da cui le popolazioni di queste aree dipendono, non solo a livello economico ma soprattutto per la loro sussistenza.60Richiamando direttamente gli Accordi di Parigi e in particolare i NDCs ossia i Contributi Nazionali Programmati, l’IPCC rileva che questi, estesi solo fino al 2030, non limiteranno il riscaldamento globale sotto la soglia del +1.5°C. È assolutamente necessario fare di più se si vuole raggiungere l’obiettivo di contenimento della temperatura e quindi scongiurare un innalzamento del termometro oltre questa soglia massima di tolleranza. Se l’aumento della temperatura terrestre procedesse secondo i ritmi attuali (ad oggi la temperatura è aumentata di circa 1°C rispetto all’età preindustriale), gli scienziati dell’IPCC hanno previsto che si raggiungerebbe la soglia del +1.5°C intorno al 2040 ed è quindi assolutamente necessario rallentare questa ascesa. Per tutti gli aspetti del cambiamento climatico, sia a livello globale che locale, nel report si indica come mantenersi al di sotto della soglia del 1,5°C e non dei 2°C sia fondamentale. Nel documento vengono infatti analizzati gli scenari possibili e viene sottolineato come l’impegno a ridurre le emissioni di gas serra per mantenere la temperatura a non più di +1.5°C sia la priorità, è su questa linea che i governi devono muoversi. Il messaggio è molto chiaro: dimentichiamoci l’obiettivo dei +2°C, perché porterebbe comunque a conseguenze irreparabili. Per raggiungere l’obiettivo, è necessario che le emissioni diminuiscano di circa il 45% rispetto ai livelli del 2010 entro il 2030 ma è allo stesso modo necessario adattare i nostri territori ai cambiamenti che comunque li interesseranno. Mantenere la temperatura entro i limiti del +1.5°C e non sopra i 2°C è il messaggio portante di questo report: perché i cambiamenti climatici sono già in atto ma la gravità dei fenomeni climatici dei prossimi anni dipenderà proprio da questo.61Facendo qualche esempio pratico, con una temperatura di 2°C più alta perderemo il 99% dei coralli ma il 10-20% ha la possibilità di sopravvivere se invece raggiungeremo l’obiettivo del +1.5°C; l’innalzamento del livello dei mari sarà di 10 cm più basso a una temperatura più contenuta; nel caso in cui la temperatura terrestre dovesse raggiungere i +2°C, il ghiaccio artico estivo avrà dieci volte in più la possibilità di sciogliersi, con la conseguente perdita dell’habitat naturale di orsi polari, balene e volatili artici; le ondate di calore estreme coinvolgeranno il 14% della popolazione

60M. R. Allen, O. P. Dube, W. Solecki, Global Warming of 1.5°C. Framing and Context, http://www.ipcc.ch/pdf/special-reports/sr15/sr15_chapter1.pdf, 2018

61 J. Rogelj, D. Shindell, K. Jiang, Global warming of 1.5°C. Mitigation Pathways Compatible with 1.5°C in the

Context of Sustainable Development,

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mondiale nel caso in cui il limite più basso venisse raggiunto, interesserebbe invece più di un terzo della popolazione mondiale nel caso in cui ci si avvicini ai +2°C. 62Il mezzo grado di cui si parla nel report è fondamentale per scongiurare uno scenario di povertà e distruzione ancora più grave di quanto non sia già in atto. L’IPCC, oltre ad indicare la necessità di una riduzione immediata delle emissioni, ha anche dichiarato che i paesi devono raggiungere modelli economici a zero emissioni entro il 2050 per non riportare il termometro a salire. C’è però un tassello di questo puzzle che manca e che è in grado di compromettere l’intero progetto: il mancato impegno da parte degli Usa a seguire un percorso comune nella lotta alle emissioni. Il 45° Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha infatti dichiarato a inizio estate 2017 di voler “uscire” dagli Accordi, visti come ingiusti e pericolosi per l’economia americana e per suoi contribuenti, definendo tale trattato come “an agreement that disadvantages the United States to the exclusive benefit of other countries.”63Quello che gli Stati Uniti stanno facendo non è realmente uscire dagli Accordi: l’uscita da un accordo internazionale prevede un iter di 4 anni che non è stato nemmeno presentato dagli Usa. Semplicemente, Trump non sta rispettando i parametri dell’Accordo di Parigi, d’altronde non è prevista nessuna sanzione per gli stati che non raggiungano gli obiettivi previsti, al di là dell’aspetto pubblico dell’inadempienza e/o fallimento. Ciò che preoccupa gli altri leader mondiale è il fatto che Trump sia in primis un negazionista del cambiamento climatico: si è sempre dimostrato estremamente scettico nei confronti della comunità scientifica con dichiarazioni scioccanti durante la campagna elettorale per la presidenza:” Il cambiamento climatico di cui Obama sta parlando è un inganno”64; “Parlare del cambiamento climatico come il più grande problema di questo Paese in questo momento, credo che sia ricolo […] non credo a quello che dicono (riferito agli scienziati), è solo una truffa”65; e infine un tweet del 23 luglio del 2013:“It’s freezing in New York, where the hell is global warming?.”66 Trump ha dichiarato che rientrerebbe negli Accordi ma a patto di negoziare nuove condizioni più favorevoli nei confronti del suo paese. Dopo l’uscita dell’ultimo report dell’IPCC è evidente che non ci sia alcun spazio per delle rinegoziazioni, anzi. Gli Stati firmatari, ossia tutte le nazioni del mondo, devono impegnarsi a ridurre le emissioni in maniera drastica perché il tetto dei +2°C non è più e non dev’essere l’obiettivo. Ridurre l’aumento della temperatura a massimo di +1.5°C è il traguardo. L’inadempienza degli Stati Uniti rischia quindi di gravare pesantemente sul futuro climatico del nostro pianeta. Resta la speranza che Trump decida di avviare politiche verdi e di ridurre le emissioni di gas serra come scelta politica nazionale, contribuendo così a mitigare il cambiamento climatico. Fino ad ora, non è andata così. Le motivazioni del Presidente americano per lasciare l’Accordo di Parigi, sottoscritto dal suo predecessore, si basano su motivazioni economiche e occupazionali: l’idea è che la limitazione delle emissioni è solo una scusa che le altre nazioni, in particolare la Cina, hanno trovato per mettere a repentaglio l’industria americana e a rischio milioni di posto di lavoro. Quello che in molti rispondono a Trump è che l’implementazione di nuove politiche di Green Economy porterà alla creazione di milioni di posti di lavoro, a far girare l’economia e

62 V. Masson- Delmotte, et al, Global warming of 1.5°C. Summary for Policymakers, http://report.ipcc.ch/sr15/pdf/sr15_spm_final.pdf, 2018

63 https://www.youtube.com/watch?v=iLXGb0OiOPg

64 https://www.youtube.com/watch?v=yqgMECkW3Ak&t=61s 65 https://www.youtube.com/watch?v=uGEzFbRl-g8

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ovviamente a mitigare il riscaldamento globale. Lo stanno già facendo molte grandi industrie americane che, nonostante il cambio di presidenza, hanno continuato ad investire in energie rinnovabili e pulite.67 Certamente senza l’impegno puntuale e la collaborazione di uno degli stati più inquinanti al mondo, la sfida posta dall’IPCC diventa ancora più difficile. Non sono altrettanto confortanti le ultime notizie che giungono dal Brasile, dove Jair Bolsonaro è diventato il nuovo Presidente. Durante la sua campagna elettorale ha più volte dichiarato che intende ritirare il Brasile dagli Accordi di Parigi, perché ritenuti dannosi all’economia e allo sviluppo brasiliano, e di eliminare il Ministero dell’Ambiente tra i dicasteri del suo governo, accorpandolo con quello dell’Agricoltura. La drammaticità di queste dichiarazioni sta nel fatto che, come detto in precedenza, in Brasile si estende il 65% della foresta Amazzonica, già in passato martoriata dalle deforestazioni a scopo produttivo ma che negli ultimi anni aveva ricevuto la protezione e la cura necessaria, come ad esempio progetti di rimboschimento su larga scala. A questo proposito, il nuovo Presidente ha dichiarato al contrario che è sua intenzione riaprire appezzamenti di foresta a industrie private.68 Non è possibile sapere se Bolsonaro rispetterà gli impegni presi e se effettivamente la sua politica sarà così antiambientalista ma di certo non è un buon punto di partenza, di fronte a una problematica che dovrebbe andare al di là degli interessi nazionali. Alcuni studiosi sono inoltre preoccupati per l’ascesa di gruppi di estrema destra in Europa, dichiaratamente scettici riguardo alla veridicità del cambiamento climatico. Un gruppo di ricerca presso l’Università svedese di Chalmers ha condotto uno studio dimostrando una correlazione tra conservazionismo, xenofobia e negazione del cambiamento climatico. Questo studio mostra come l’ascesa di gruppi di estrema destra in Europa abbia contribuito ad aumentare lo scetticismo riguardo al cambiamento climatico. Martin Hultman, professore associato di Scienze, tecnologie e studi ambientali, a capo della ricerca ha dichiarato:

These parties are increasing in significance. We see it in Denmark and Norway, in Britain with UKIP, and Front National in France. But also, in Sweden, with the Sweden Democrats’ suspicion towards SMHI (Swedish Meteorological and Hydrological Institute), their dismissal of the Paris Agreement and of climate laws, and in their appraisal of climate change denier Václav Klaus as a freedom-fighting hero”.69

Una buona notizia arriva invece dal governo cinese che dal 2008 ha attuato politiche produttive a minor emissioni tanto che oggi è il paese numero uno in termini di green economy. Grazie agli importanti piani a lungo termine per lo sviluppo di energie rinnovabili, la Cina è attualmente il leader mondiale nella produzione di energia solare ed eolica.70 Al di là delle dinamiche nazionali, positive o negative, una cosa è certa: con l’ultimo report dell’IPCC, la comunità scientifica internazionale ha senz’altro messo per iscritto quali siano le prospettive future e come ogni paese possa contribuire nella lotta al cambiamento climatico che è reale e di cui vediamo già dagli ultimi anni i suoi effetti. Negare l’evidenza e fuggire da responsabilità così grandi, in nome

67 https://cleanedge.com/reports/2017-US-Clean-Tech-Leadership-Index

68 T. Waldron, C. D’Angelo, Brazil’s election could deal a crushing blow to combatinf climate change, Huffingtonpost.com, https://www.huffingtonpost.com/entry/brazil-election-jair-bolsonaro-climate-change_us_5bc62b71e4b055bc947ae270?guccounter=1, 19 ottobre 2018

69 https://www.chalmers.se/en/departments/tme/news/Pages/Climate-change-denial-strongly-linked-to-right-wing-nationalism.aspx

70A. Engels, Understanding how Cina is championing climate change mitigation, https://www.nature.com/articles/s41599-018-0150-4.pdf, 2018

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della crescita economica, non solo causerà enormi conseguenze climatiche a livello globale, ma sarà la stessa economia che ne soffrirà. Insistere nel dimostrare che il cambiamento climatico è una delle più grandi minacce all’economia globale e locale potrebbe rivelarsi la strategia vincente per ottenere l’impegno necessario per mitigare il fenomeno.

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21 Capitolo 2

La narrazione del cambiamento climatico nel triennio 2015-2017 da parte dei tre principali quotidiani italiani online

2.1. Informarsi attraverso Internet

Prendendo i dati di giugno 2016 come anno e mese medio, forniti da Audiweb, una società milanese nata con lo scopo di raccogliere dati statistici riguardanti l’audience su Internet nel nostro paese, è possibile individuare quali siano i quotidiani online più letti. A giugno 2016 questa era la classifica della media giornaliera di utenti unici, della media di visitatori giornalieri delle homepage e della media giornaliera delle pagine viste, dati che sommano la navigazione desktop e mobile:

1. LaRepubblica.it 2. Corriere.it 3. LaStampa.it71

Nonostante la televisione rimanga al vertice delle fonti informative, usata a questo scopo quotidianamente dal 68,8% degli italiani, ben il 41,8% della popolazione ricorre a Internet per leggere le news ogni giorno e questo è un valore in costante crescita, che va soprattutto a discapito della carta stampata. A questo proposito, un dato alquanto eloquente riguarda la raccolta pubblicitaria: tra il 2012-2017 si registrano riduzioni nella raccolta pubblicitaria di tutti i mezzi tradizionali, mentre l’online cresce di oltre il 46%. Prediligono l’informazione online gli utenti appartenenti alla fascia d’età 25-34 anni e alla fascia d’età 60-64 anni. Ma in generale è intorno alla fascia 25-44 che si concentra un maggior utilizzo di internet a scopi informativi.72 La centralità dell’informazione online è un dato inequivocabile e incontrovertibile, alla quale solo la televisione sembra resistere. L’accesso alle news online è inoltre cambiato nel tempo: se in un primo momento, gli utenti accedevano a queste soprattutto attraverso i siti dei quotidiani e attraverso le testate online, ora anche i motori di ricerca e i social network giocano un ruolo importante. L’accesso all’informazione attraverso i motori di ricerca e i social network rappresenta oggigiorno la principale voce di accesso: secondo l’ultimo report dell’Agcom, il 36,5% della popolazione accede alle informazioni attraverso questi due canali, secondo una tendenza già segnalata nelle precedenti osservazioni.73Facebook è il primo social network in Italia per questo scopo: viene utilizzato per informarsi dal 30% della popolazione. Riguardo alle notizie, questa piattaforma ha una particolarità che non può essere trascurata: “i contenuti informativi prodotti da organizzazioni editoriali e utenti assumono la stessa rilevanza visto che l’algoritmo (EdgeRank) alla base della news feed ordina e presenta i contenuti da mostrare sulla base di caratteristiche quali la prossimità dei contenuti (valorizzando i

71 http://www.audiweb.it/dati/sintesi-dei-dati-giugno-2016.html

72 Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, Report annuale 2018 sull’attività svolta e sui programmi di lavoro, https://www.agcom.it/documents/10179/11258925/Relazione+annuale+2018/24dc1cc0-27a7-4ddd-9db2-cf3fc03f91d2, 2018

73 Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, Rapporto sul consumo di informazione,

https://www.agcom.it/documents/10179/9629936/Studio-Ricerca+19-02-2018/72cf58fc-77fc-44ae-b0a6-1d174ac2054f?version=1.0, 2018

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