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Nelle mani della massa parlante. L'Italia di Tullio De Mauro tra slanci nuovi e antiche resistenze

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Academic year: 2021

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RIVISTA ITALIANA DI DIALETTOLOGIA

lingue dialetti società

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€ 42,00 ISSN 1122-6331

RIVIS

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ALIANA DI DIALETT

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RIVISTA ITALIANA DI DIALETTOLOGIA. Lingue dialetti società

«RID. Rivista Italiana di Dialettologia» è una rivista internazionale con referaggio anonimo (blind peer review), pubblicata annualmente.

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I dattiloscritti pervenuti alla rivista, anche se non pubblicati, non vengono restituiti. Registrazione presso il Tribunale di Bologna n. 4630 del 6.3.1978

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RIVISTA ITALIANA DI DIALETTOLOGIA Lingue dialetti società

anno XLI (2017), numero unico [= RID 41]

INDICE

7 Paolo D’Achille (Roma), Ricordo di Tullio De Mauro 17 Maria Teresa Vigolo (Padova), Ricordo di Alberto Mioni 19 Alberto Sobrero (Lecce), Ricordo di Corrado Grassi

RID/RICERCA Saggi e studi

27 Neri Binazzi (Firenze), Nelle mani della massa parlante. L’Italia di Tullio

De Mauro tra slanci nuovi e antiche resistenze

61 Marta Maddalon (Cosenza), Una nuova vita per il dialetto: il dialetto in

letteratura e l’allargamento del repertorio

87 Nicoletta Puddu (Cagliari), Influssi toscani e ‘mutamenti dal basso’ nel Condaghe di San Nicola di Trullas

107 Rosalba Nodari (Pisa), Spazio linguistico e spazio percepito: la

categorizzazione diatopica in un gruppo di adolescenti calabresi

131 Domenica Minniti Gonias (Atene), I grecismi nel sardo e il condaghe di

Santa Maria di Bonàrcado

147 Patrizia Sorianello (Bari), Sulla realizzazione prosodica delle esclamative

nominali in italiano

171 Stefano Bannò (Trento), Voci e scritture di prigionieri della prima guerra

mondiale

Testi e documenti

197 Federica Guerini (Bergamo), L’offuscarsi di quella mente un dì sì lucida e aperta. La malattia e la morte di Antonio Tiraboschi (1838-1883)

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RID/SCHEDARIO

223 0. Generalità, a cura di Immacolata Tempesta (Lecce) 245 5. Trentino, a cura di Patrizia Cordin (Trento)

261 12. Toscana, a cura di Neri Binazzi (Firenze) 321 15. Lazio, a cura di Paolo D’Achille (Roma) 385 21. Calabria, a cura di Patrizia Sorianello (Bari) 395 23. Sardegna, a cura di Nicoletta Puddu (Cagliari)

405 Notizie sui collaboratori 407 Istruzioni per i collaboratori

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NERIBINAZZI(Università di Firenze)

NELLE MANI DELLA MASSA PARLANTE. L’ITALIA DI

TULLIO DE MAURO TRA SLANCI NUOVI E ANTICHE RESISTENZE* ***

Abstract

Il saggio propone un percorso di lettura dell’opera di Tullio De Mauro foca-lizzato sulle riflessioni che, a partire dalla pubblicazione della Storia linguistica dell’Italia unita (1963), lo hanno reso una delle principali figure di riferimento de-gli studi linguistici italiani, mettendolo spesso al centro di vigorose discussioni, che anche in tempi recentissimi lo hanno interessato per l’impatto nella pratica e nella politica scolastica delle sue proposte in materia di educazione linguistica. L’opera di De Mauro viene ripercorsa individuando alcuni momenti che consen-tono di seguire il progressivo evolversi, nell’Italia postunitaria, del rapporto tra “lingua” e “massa parlante” che, dal punto di vista teorico, lo studioso individua come uno dei punti centrali della riflessione di Saussure, il capostipite della lin-guistica moderna della cui opera proprio De Mauro curerà l’edizione italiana. In particolare l’articolo si sofferma sul modo in cui la lettura di De Mauro delle vi-cende linguistiche del paese, dall’Unità a oggi, porta alla luce la compresenza, in cerca tutt’ora di sintesi, tra elementi che segnalano un’evoluzione del quadro so-cio-culturale ed elementi che invece sembrano rimandare a dinamiche di segno contrario.

Tullio De Mauro has been one of the main reference figures of linguistic stud-ies in Italy. His reflections have often set him at the centre of heated debates and recently his proposals on the subject of language education had an impact on both school practice and policy. This essay presents an interpretation of De Mauro’s work that focuses on the relationship between “language” and “speaker”. From the theoretical point of view, De Mauro identifies this relationship as one of the central points in the thought of Saussure, the acknowledged founder of Modern linguistics. The article focuses particularly on how De Mauro’s interpretation of the linguistic events of the country, from 1861 to today, unveils the still unresolved simultaneous presence of conflicting aspects. Indeed, elements that point to an evo-lution of the socio-cultural framework coexist with elements that apparently indi-cate the presence of regressive tendencies.

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Come si ricorderà, il grido di allarme sullo stato delle competenze linguistiche (in particolar modo di scrittura) degli studenti italiani, confluito nella famosa “Let-tera aperta dei 600 docenti universitari contro il declino dell’italiano a scuola”, venne lanciato, con particolare (e anche un po’ sospetta) coincidenza temporale, proprio nei giorni immediatamente successivi alla scomparsa di Tullio De Mauro. Proprio in quei giorni, del resto, la figura dello studioso sarebbe stata chiamata in causa, direttamente o indirettamente, come principale responsabile di un’educa-zione linguistica che nei fatti negava la grammatica in favore di una sorta di “spon-taneismo” assurto a pratica didattica ostinatamente non normativa, e all’insegna della quale, per l’autorevolezza del suo promotore, si sarebbero formate generazioni di docenti ideologicamente contrarie alla proposta di un insieme di regole in man-canza delle quali l’italiano degli studenti non poteva che ridursi progressivamente nello stato miserevole che era sotto gli occhi di tutti1. Ora che, con la sua

autore-volezza, la figura ingombrante di De Mauro se n’era andata, sembrava riprendere fiato un’Italia che da tempo, evidentemente, percepiva De Mauro e la scuola di pensiero a lui riconducibile come promotrice di una nefasta deregulation dell’edu-cazione linguistica.

Non era la prima volta che intorno alla figura di De Mauro fiorivano discus-sioni, si accendevano dibattiti anche aspri, si formavano schieramenti contrapposti. Era già successo, per esempio, all’indomani della pubblicazione della Storia

lin-guistica dell’Italia unita (1963), quando la comunità degli studiosi di lingua si

mo-strò impreparata (e in genere stupefatta) davanti all’assoluta novità di un metodo di indagine che, in modo assolutamente inedito per la disciplina, si proponeva di ricostruire il profilo linguistico dell’Italia postunitaria facendo massiccio ricorso a dati “extralinguistici” (indicatori socio-demografici; indagini statistiche): questo clima di generale stupore si declinò ora in entusiasmo per le nuove prospettive aperte, ora in uno scetticismo motivato dal rischio che, nell’approccio ai fatti lin-guistici, i “numeri” potessero far perdere di vista, immiserendolo progressivamente, il rilievo – da considerare invece prioritario – dell’analisi qualitativa2.

La spiegazione delle ricorrenti polemiche che ne hanno accompagnato i lun-ghi e ricchissimi anni di attività scientifica, sta in gran parte nel fatto che per Tullio De Mauro la riflessione sulla lingua, sia quando si è soffermata sulle sue strutture, sia quando ha osservato il suo ruolo come strumento sociale, ha rappresentato uno straordinario strumento conoscitivo, una chiave interpretativa che gli ha consentito di attraversare i suoi giorni, e quelli del mondo che negli anni lo circondava, in compagnia di una bussola che, opportunamente compulsata, rivelava da una spe-ciale prospettiva connotati e linee di cammino della società italiana nel suo com-plesso e nei protagonisti che di volta in volta si affacciavano alla ribalta. Per questa via, riflettere sulla lingua ha voluto dire per De Mauro interrogarsi sulla società che in quella lingua trovava riflesso e rappresentazione: proporre particolari linee di lettura della lingua voleva dire dunque scegliere una particolare prospettiva di

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letture delle dinamiche sociali e del loro modificarsi. In questo senso il titolo della sua opera più nota e fortunata, la già ricordata Storia linguistica dell’Italia unita, propone apertamente la lingua come modo di lettura delle fondamentali dinamiche sociali vissute dal paese nel periodo postunitario: e non a caso Laterza ha deciso di ripubblicare l’opera in occasione dei centocinquant’anni dell’unità d’Italia (dunque a più di cinquant’anni dalla prima edizione), a testimonianza di un immutato valore dell’opera come particolare documento di storia sociale. Attraverso la chiave di lettura della lingua, l’Italia unita ha potuto rivelare alcuni dei suoi connotati salienti perché la storia linguistica non è storia del modo in cui una lingua si modifica nel corso del tempo, ma è essa stessa, intimamente, storia sociale.

A partire da questo, promuovere, come sarà cifra costante dell’attività di De Mauro, discussioni e interventi su modelli e pratiche di insegnamento della lingua (succederà, come vedremo, per le Dieci tesi sull’educazione linguistica e

demo-cratica) vorrà dire discutere e intervenire sugli assetti sociali consolidati – e per la

società civile questo vorrà dire interrogarsi, dibattere, schierarsi.

1. La lettura di Saussure

Tutto procede, evidentemente, dalla preliminare messa a fuoco teorica del-l’oggetto di analisi, la lingua, che De Mauro ottiene prima di tutto riflettendo a fondo sul padre della linguistica contemporanea, Ferdinand de Saussure, del cui

Cours de Linguistique Generale proporrà, nel 1967, la prima edizione italiana (a

sua volta il commento di De Mauro all’edizione, come si ricorderà, sarà incorporato nell’edizione standard del Cours, diventandone da quel momento parte integrante). Di Saussure De Mauro sottolineerà a più riprese l’importanza, a partire dal concetto di arbitrarietà del segno linguistico (cioè il carattere convenzionale, e non naturale, che in ogni lingua lega la sequenza fonica – il significante – al concetto – il

signi-ficato), dei riferimenti al tempo e soprattutto alla massa parlante come fulcri del

funzionamento di ogni lingua:

[G]razie alla penetrante analisi di Saussure, dall’arbitrarietà deriva una conse-guenza: la radicale socialità della lingua. Poiché i segni nel loro reciproco differen-ziarsi e nel loro organizzarsi in sistema non rispondono a esigenze naturali, ad esse esterne, l’unica valida base per il loro particolare configurarsi in questa o quella lingua è costituita dal consenso sociale. […] Nella concezione saussuriana della realtà lin-guistica, poiché l’organizzazione delle significazioni in significati è non meno arbi-traria dell’organizzazione delle fonie in significanti, il consenso sociale è tutto. L’uso che una società fa della propria lingua è la condizione per cui la lingua è viable, ca-pace di vita. (De Mauro 1983: XVII)

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Se l’individuazione degli aspetti sistemici – cioè il dato prettamente struttu-rale – consente di descrivere ciò che, in quanto invariante, soggiace al funziona-mento di una lingua, tuttavia quell’operazione non dice nulla sul modo in cui quella potenzialità diventa concreta produzione linguistica, dunque pratica sociale. De Mauro tornerà a più riprese su queste considerazioni, anche nelle sedi meno acca-demiche:

A un certo punto Saussure annota: «Quando voi avete descritto gli aspetti sistemici di una lingua, non avete ancora fatto niente». Avete descritto qualcosa che può vivere, ma non che sta vivendo e non ci state dicendo come vive. Cominciate a dircelo se met-tete in relazione questa descrizione con il tempo e con la massa parlante. Solo in rap-porto allo stato di una particolare massa parlante in un certo tempo voi cominciate a vedere come vive una lingua. Questo è un punto chiave. (De Mauro 2010: 112-113)

Non si tratta dunque di pensare astrattamente alla lingua come a un codice “depositato” presso i suoi utenti, ma come a un insieme di segni le cui caratteristi-che si definiscono nella prospettiva di esprimere un senso caratteristi-che è molto simile a una

forma di vita e dunque non può essere inteso, meccanicamente, come prodotto di

una sequenza fonica abbinata a un valore semantico:

Una visione solo ingegneristica, meccanica, calcolistica, non riesce a dare conto dello stato di cose linguistico. Aspetti diversi si condizionano vicendevolmente, come tralci di una vite che insieme si inarcano intrecciati e così si sorreggono l’uno sull’altro. (De Mauro 1982: 128)

Una lingua deve servire agli esseri umani per trasmettere e comprendere sensi, per comunicare e verbalizzare nelle situazioni più differenti, per discutere come adattarsi a tali situazioni sopravvivendo e sopravvivendo come esseri umani, cioè come esseri capaci, poi, di nuovi, altrettanto imprevedibili riadattamenti. Per rispon-dere a queste esigenze, le lingue non possono essere rigidi calcoli. (Ivi: 138)

In questa prospettiva il valore della produzione linguistica sta tutto in una ca-pacità di significazione che corrisponde a un «modo d’essere e di vivere in società», e che in quanto tale non si limita a gestire elementi di un inventario precostituito, ma «si dà essa le sue regole, i suoi limiti, i suoi strumenti» (De Mauro 1977: 247-248). Sono affermazioni che troviamo in un lontano contributo su Pasolini, figura su cui De Mauro tornerà a più riprese, e che lo affascina e lo interessa proprio per la critica rivolta ai linguaggi precostituiti, che portava Pasolini a ricercare con osti-nazione una lingua in grado di restituire intimamente, di volta in volta, connotati della realtà rappresentata che a sua volta, proprio in virtù della rappresentazione linguistica, poteva rivelare caratteri nuovi, inattesi.

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La prospettiva di esprimere senso è, in ultima analisi, ciò che costituisce l’in-contro tra la lingua come sistema virtuale e la “massa parlante”: al di fuori da quella prospettiva la lingua è un meccanismo improduttivo, allo stesso modo in cui il mare costituisce una vastità insondabile fino a quando la nave non lo percorre con i suoi itinerari.

Da questo punto di vista una determinata lingua può essere intesa pienamente come una “tecnica” il cui possesso garantisce cittadinanza. Al di fuori di questa funzione, d’altra parte, la lingua è un meccanismo fine a se stesso, che alla fine non funziona, perché, scrive De Mauro ripercorrendo i capisaldi della riflessione del suo maestro Antonino Pagliaro, «il ricorso a una tecnica collettiva, una certa lingua, […] fa degli individui persone d’una comunità ed essa, la lingua, vive e so-pravvive se e intanto che ciò avvenga». (De Mauro 2014a)

È dunque possibile, partendo dalla lingua, fare storia di una società perché il particolare inventario di una lingua è il risultato, storico e dunque dinamico, di una relazione tra codice e comunità finalizzata a esprimere un senso che corrisponde al particolare modo d’essere e di vivere di quella comunità:

Imparare una lingua significa immettersi in una tradizione che non è fatta solo di parole e frasi vuote, ma di parole e frasi che hanno il loro senso nel rapporto stretto con la complessiva tradizione e vita d’una cultura e d’una società. Accanto alle agen-zie istituzionali di istruzione, alle scuole, agli istituti di addestramento e formazione professionale, la lingua, e le sue parole, le loro risonanze e varie accezioni, sono una sorta di grande scuola parallela, una scuola impropria che tutti, per parlare e capire e farci capire, dobbiamo ogni giorno frequentare, diventando a un tempo maestri e scolari gli uni degli altri, imparando ad adattarci reciprocamente, e tutti insieme, ai bisogni espressivi e vitali della società entro cui, magari col proposito di mutarla a fondo, ci sostentiamo. (De Mauro 1982: 161)

2. Storia linguistica di una complessa unità

Occuparsi di una lingua significa allora, prima di tutto, chiedersi come una particolare massa parlante abbia vissuto e affrontato il problema del comunicare, cioè osservare dal punto di vista linguistico gli strumenti attivati per manifestare il proprio senso di comunità. L’idea che la produzione linguistica sia, in quanto tale,

strumento ed espediente di un modo di vivere, di comportarsi (cfr. De Mauro 1977:

253), conduce De Mauro a verificare il prodursi di cambiamenti linguistici laddove (e ogni volta in cui) ci fossero in atto profondi mutamenti nel modo di vivere: da questo punto di vista studiare la lingua è, intimamente, fare storia linguistica (e non storia della lingua), cioè analizzare le vicende di un determinato quadro storico assumendo come punto di osservazione la lingua.

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Nel caso specifico rappresentato dall’Italia postunitaria, si è trattato, per De Mauro, di individuare se e come i dati linguistici rendessero conto di una realtà so-ciale lentamente, ma progressivamente unitaria. Sta in questa prospettiva il ricorso, adottato per la prima volta con la Storia linguistica dell’Italia unita (SLIU, 1963), assolutamente inedito per gli studi linguistici in Italia, a una serie articolata di in-dicatori in grado di restituire, da diversi punti di vista, il profilo socio-demografico della realtà italiana all’indomani del 1861.

E così nella SLIU rappresenteranno un imprescindibile momento di riflessione e di analisi prima di tutto i dati su analfabetismo e scolarizzazione, nel loro rilievo in quanto tali e come spia di funzionamento e fruizione dell’agenzia istituzional-mente deputata all’insegnamento della lingua. La cifra, ormai celebre, del 2,5% di italofoni al 1861 (cosa che rese necessario distinguere, in forza di dimensioni fino ad allora inedite, tra italiani e italofoni), venne così a definirsi mettendo insieme il numero di coloro che avevano come lingua nativa una varietà “prossima” alla lingua nazionale codificata (prima di tutto i toscani, dunque, a cui parve convincente ag-giungere almeno i parlanti di area romana, sebbene “italiani” solo dal 1870), e quello di coloro che, fuori dalla Toscana e da Roma, potevano contare su un livello di sco-larizzazione sufficiente a garantire la competenza di una lingua italiana fino allora “straniera in patria”3. A sua volta, la valutazione del livello di scolarizzazione degli

italiani dal punto di vista quantitativo si sarebbe arricchita dei dati qualitativi, rica-vabili per esempio dalle prime indagini ministeriali (Matteucci 1864, Corradini 1907) sul diverso funzionamento delle scuole primarie in Italia (osservato conside-rando le direttrici città/ campagna; nord / sud, in termini di qualità e accessibilità delle strutture, di preparazione degli insegnanti, di evasione dall’obbligo, e così via). Allo stesso tempo, la valutazione dell’impatto della scuola sull’italofonia effettiva (cioè quotidianamente praticata) non poteva non tener conto di programmi di inse-gnamento che avrebbero a lungo proposto, quasi pervicacemente, modelli di lingua e di cultura del tutto astratti e lontani da ogni comune esperienza quotidiana4.

Alla considerazione in termini quantitativi e qualitativi del grado di funzio-namento della scuola, e della lenta ma progressiva erosione dell’analfabetismo che emergeva dalla considerazione dei censimenti, De Mauro aggiungerà poi lettura e analisi di indicatori che, rimandando in diverso modo e misura all’allargarsi degli orizzonti di riferimento dei parlanti, definiranno il costituirsi di un mutato quadro sociolinguistico. Alle percentuali di alfabeti e analfabeti, così – che risentiranno naturalmente del progressivo aumento della scolarità, che sarà impetuoso fenomeno di massa a partire dagli anni della media unificata5– a loro volta diverse tra città e

campagna, tra nord e sud, si aggiungeranno quelle dei lettori di quotidiani e perio-dici, o dei fruitori di cinema, radio e TV; si osserverà poi, dati statistici alla mano, l’impatto demografico prodotto dai grandi processi migratori, all’estero o interni alla penisola (con l’imporsi, per esempio, di inedite configurazioni del tessuto so-ciale delle grandi città in seguito agli imponenti fenomeni di urbanesimo attivati

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da industrializzazione e migrazioni interne). Per De Mauro sarà insomma decisivo soffermarsi, su tutto ciò che costituisce la condizione per l’affermarsi di Nuove

condizioni linguistiche (è il titolo del terzo capitolo della SLIU, quello

concettual-mente più innovativo): nel quadro progressivaconcettual-mente articolato della società italiana postunitaria le caratteristiche della competenza linguistica – cioè, in ultima analisi, il grado di diffusione, accanto ai dialetti nativi, di una varietà linguistica comune – rappresentano un elemento in grado di condizionare pesantemente il grado di cit-tadinanza degli italiani nel panorama mutato dei rapporti e delle consuetudini so-ciali, che a loro volta imporranno alla lingua “nazionale” una decisa virata in ter-mini di strumento comunicativo effettivamente spendibile nelle gamma ampia delle occasioni d’uso (non più solo elevate o libresche) proposte dalla vita contempora-nea, che giorno dopo giorno presentava uno scenario socio-antropologico sempre meno compatibile con il monolinguismo dialettale. L’attenzione a una pluralità di dati e di stimoli “extralinguistici” evidentemente riflette una visione della lingua non separabile dalla sua declinazione in comportamenti effettivi, che, come si è vi-sto, per De Mauro corrispondono a “modi di vivere” storicamente definiti, e al tempo stesso li esprimono. La pluralità di fonti prese in considerazione dalla SLIU per restituire nella sua complessità il profilo sociale e culturale di un’Italia di cui si stava parallelamente tracciando il profilo linguistico, è testimoniata dalla ric-chissima sezione dei Documenti e questioni marginali (pp. 265-468 dell’edizione 2011), articolata in ben 67 aree tematiche, con cui il testo dialoga continuamente. L’indagine sulla lingua, dunque, deve tener conto di un oggetto di indagine che, per la sua natura, intesse naturalmente rapporti con una realtà socio-culturale arti-colata e mai uguale a se stessa, i cui connotati possono essere restituiti solo com-pulsando una variegata gamma di indicatori. Da questo punto di vista l’approccio di De Mauro è stato avvicinato a quello proposto a suo tempo dallo storico Federico Chabod, e da allora conosciuto come “canone Chabod”, secondo il quale «[i]l me-todo storico […] non è una chiave che si adatti indifferentemente a qualsiasi ser-ratura, un che di inalterabile e di inalterato, il passepartout; è invece un delicato strumento ‘variabile’, che deve, appunto, essere ‘finito di adattare’ nei singoli casi, dall’intelligenza e dalla sensibilità dello studioso» (Chabod [1947]: LXVIII).

Per capire “la lingua che fa” nell’Italia postunitaria, bisognava insomma chie-dersi quali “modi di vivere” - cioè, in definitiva, quali persone - stavano affaccian-dosi alla ribalta della storia, e quali rapporti nuovi esse intessevano fra loro e con la realtà che li circondava.

3. Nuovi protagonisti: la lingua delle città e del mondo degli esclusi

Il modo in cui l’affermarsi di nuove prospettive individuali e di nuove rela-zioni sociali introduce la lingua in dimensioni comunicative che sollecitano un

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ag-giornamento delle sue caratteristiche, può essere efficacemente ripercorso nella let-tura che De Mauro propone dell’urbanesimo. La straordinaria crescita, per numero e dimensioni, dei grandi complessi metropolitani nell’Italia postunitaria, viene ri-condotta in larga parte ai processi di migrazioni interne che in Italia avevano pro-fondamente mutato, quantitativamente e qualitativamente, il quadro demo-antro-pologico dei complessi urbani. Preliminare, come sempre in De Mauro, è il rilievo per il quale la lingua è un congegno che da meccanismo virtuale diventa strumento concreto e funzionante solo nel momento in cui definisce la proprie caratteristiche in relazione alle necessità comunicative della comunità linguistica interessata: bi-sogna tener sempre presente, insomma,

che il segno linguistico è per sé morto e, se vive, vive della vita dei parlanti. Ciò significa che i modi di vita della comunità che adotta un idioma condizionano l’es-sere e il divenire di questo. In particolare, un fatto importante nella vita d’una società, come il suo minore o maggiore grado di urbanizzazione, non è certo irrelato alla vita dell’idioma o degli idiomi adoperati da quella società. (De Mauro 1965: 3)

Prima di tutto, il ragionamento sul ruolo delle grandi città nel processo di ita-lianizzazione consente a De Mauro di ripercorrere e di ribadire l’importanza dei fattori diretti e indiretti di unificazione linguistica: nelle città, infatti, è attiva più e meglio che altrove l’agenzia di promozione diretta dell’italofonia, cioè la scuola nei suoi diversi ordini e gradi; le città, poi, sono i luoghi degli uffici, della pubblica amministrazione, dove ogni cittadino può fare esperienza di contatto con la lingua “nazionale”; è soprattutto nella città, infine, che sono presenti cinema e teatri (ma anche locali in cui si sperimenta la visione collettiva della televisione).

Nelle 96 città italiane che nel 1961 avevano superato i 50.000 abitanti risiedeva nel 1861 il 17,2% della popolazione; nel 1961 vi risiedeva il 34% della popolazione, ossia l’urbanizzazione della popolazione italiana nel corso d’un secolo, ha dunque significato il raddoppio in percentuale di coloro che si trovano a più stretto contatto con le sorgenti dell’italofonia. Ciò vale (e perciò lo si è voluto stabilire) indipen-dentemente da ogni considerazione riguardante il perché e il come dell’urbanizza-zione. (Ivi: 13)

E non a caso, riflette De Mauro, gli alfabetizzati delle città superano in gran numero quelli che troviamo in campagna: il dato dei lettori di libri, quotidiani e periodici sta lì a ricordarlo e a ribadirlo. Per via diretta e indiretta, dunque, la vita di città promuove di per sé l’esposizione dei suoi abitanti ad una lingua “nazionale” con cui, volenti o nolenti, ci si trova a fare i conti.

D’altra parte - ricorda De Mauro - il progressivo costituirsi, nell’Italia postu-nitaria, di grandi centri urbani va messo direttamente in relazione, più che

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all’in-cremento demografico “naturale”, all’inurbamento provocato dai massicci feno-meni di migrazioni interna che, in diverse ondate, hanno investito la popolazione italiana. E ancora volta, chiama a sostegno numeri e percentuali:

Dal 1861 al 1961 l’indice di incremento delle grandi città è più del doppio di quello della popolazione italiana nel suo complesso: se tra 1861 e 1961 [la popola-zione delle grandi città] fosse aumentata al ritmo della complessiva popolapopola-zione ita-liana, da 4.292.000 ab. dovrebbe esser passata a 8.197.000 abitanti; poiché invece nelle medesime grandi città troviamo 16.967.000 ab., cioè troviamo una popolazione più che doppia del prevedibile sulla base dell’indice medio di incremento, questo scarto, pari a oltre il 50% della popolazione inurbata, può essere assunto a indicare il numero di coloro che, vivendo nelle grandi città, non ne sono nativi, ma vi sono immigrati. (Ivi: 18)

Dunque, cifre alla mano

per lo meno un italiano su due, vivente oggi nei grandi centri, è un immigrato da altra zona, e […] per lo meno un italiano su sei ha lasciato un centro minore per andarsi a stanziare in una delle 96 grandi città. Possiamo dunque enunciare la sem-plice e fondamentale conseguenza linguistica di questi fatti: l’inurbamento ha ridotto di un sesto la base di parlanti delle aree prevalentemente dialettofone, ed ha raddop-piato il numero di coloro che, vivendo nelle grandi città, sono stati a più stretto con-tatto con le sorgenti dell’italofonia. (Ivi: 19)

Da un lato, con l’urbanesimo aumentano coloro che, per il fatto di vivere in città, entrano in contatto con l’italiano; d’altra parte la città è anche il luogo in cui, secondo De Mauro, parlanti provenienti da diverse aree geografiche sono costretti a trovare, tra loro e insieme ai nativi, soluzioni linguistiche di compromesso per poter comunicare. La necessità del comunicare (l’esigenza di significazione) com-porta insomma una sorta di osmosi tra le diverse tradizioni linguistiche in contatto:

Nella misura in cui gli epicentri dell’incontro tra correnti di popolazione di di-verso dialetto sono state le grandi città, a queste va riconosciuto un nuovo titolo per avere un posto di primissimo piano nella recente storia linguistica italiana. Non solo esse presentano la massima concentrazione di forze italianizzanti, non solo con la loro crescita hanno sottratto grandi masse ad ambienti prevalentemente dialettali immettendole in ambienti esposti all’azione di forze italianizzanti, ma, in quanto epicentri dell’osmosi demografica creata dalle migrazioni interne, hanno ospitato i primi tentativi di trovare nell’italiano un idioma comune a parlanti di dialetto diverso (Ivi: 21)

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Corrado Grassi rimprovererà a più riprese De Mauro di sottostare a una pe-rentorietà dei dati statistici che a suo parere rischiava di restituire una visione in certo modo edulcorata, “solidaristica”, dei rapporti tra nativi e nuovi arrivati, non tenendo in alcun conto dell’oggettiva gerarchia dei rispettivi ruoli sociali6. Nella

Torino del secondo dopoguerra che costituisce il riferimento principale della rifles-sione di Grassi, infatti, la progressiva “borghesizzazione” del proletariato locale rendeva quest’ultimo sostanzialmente indisponibile all’accoglienza, sociale e lin-guistica, nei confronti dei nuovi immigrati; insomma, con l’urbanesimo venivano a scontrarsi – e non a incontrarsi – modelli linguistici e socio-culturali di ben di-verso prestigio, cosa che avrebbe reso improponibile, almeno da parte dei nativi, ogni soluzione linguistica di compromesso:

“Com’è […] possibile attribuire agli immigrati nelle grandi città il prestigio cul-turale necessario a indurre i nativi a “mescolare i dialetti” o addirittura a passare dal dialetto alla lingua? L’apertura del millenario mondo contadino italiano verso una società di tipo nuovo avviene in presenza di un tale rivolgimento nella scala dei va-lori sociologici tradizionali, vale a dire in tali condizioni di inferiorità rispetto alla ormai adulta società industriale, che il comportamento sociologico e linguistico di questi cittadini d’adozione è a senso unico: accettare tutto senza nulla dare. Ignorare questa situazione coprendola con i dati statistici demografici che ci dicono che 1+1 fa 2 significa commettere un grave errore di valutazione storica del più importante fenomeno linguistico che si svolge sotto i nostri occhi” (Grassi 1965: 62).

Fin dall’inizio, come sappiamo, la discussione tra De Mauro e Grassi assunse tratti di polemica feroce, portando a un irrigidimento più che a una auspicabile sin-tesi tra le posizioni. Quello che oggi pare importante sottolineare è la “scoperta” della città – di per sé luogo centrale della società post-contadina – dal punto di vista delle condizioni linguistiche e sociali che essa propone e rappresenta7. Per la prima

volta ci si interrogava sulla ricaduta della dimensione urbana sul piano dei com-portamenti linguistici: in particolare, assumendo la lingua come strumento in grado di corrispondere all’esigenza di significazione della massa parlante, De Mauro in-terpretava la più spiccata italofonia delle città come il riflesso di un quadro socio-antropologico che, nelle città più che altrove, in quegli anni stava andando incontro, in modo repentino e tumultuoso, a un profondo, irreversibile cambiamento, impo-nendo in quanto tale un orientamento anti-dialettale (e in questo senso “italofono”) dei comportamenti. Per Grassi, invece, bisognava «chiedersi (…) che cosa vera-mente questa italianizzazione significhi, al di là della mera ed ovvia constatazione della sua esistenza. Fino a chiedersi, cioè, che cosa in questo cambio linguistico collettivo dal dialetto alla lingua gli Italiani possono aver perduto e che cosa, per contro, potrebbero acquistare» (Grassi 1965: 63), ponendo molta attenzione, per esempio, «alla brutalità con la quale certi modelli di comportamento sociologico e

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linguistico vengono oggi imposti a quegli strati popolari che per la prima volta si affacciano, del tutto disarmati e incapaci di rettamente discernere, ad una più ampia apertura culturale e sociale» (ibidem). Di lì a poco, del resto, proprio un antropologo come Luigi Lombardi Satriani rilancerà l’allarme sul pericolo, in termini di perdita d’identità, di un’italianizzazione linguistica tutta di superficie,

per cui è possibile sostenere che oggi la classe subalterna contadina sia in fuga dalla propria cultura e si stia sottoponendo ad un intenso sforzo di mimetismo cul-turale, nell’illusione che sia possibile eliminare la sua subalternità – che si esprimeva anche attraverso l’uso esclusivo del dialetto – camuffandola, senza intaccare in alcun modo le cause di essa (Lombardi Satriani 1974: 15).

D’altra parte, proprio nelle città De Mauro vedeva definirsi, in termini di ca-ratteristiche e consistenza, quelle varietà linguistiche di compromesso, gli “italiani regionali”, che corrispondevano, di nuovo, al ristrutturarsi delle necessità comuni-cative dei parlanti:

Le varietà regionali di italiano […] possono considerarsi, volendo dare una rap-presentazione sintetica del fenomeno, come una nuova risultante nata dal comporsi della tradizione linguistica italiana con le molteplici tradizioni linguistiche dialettali: in altri termini, esse si sono andate formando a mano a mano che gli ambienti abituati al monolinguismo dialettale (specie per quanto riguardava l’uso parlato) si sforza-vano di usare la lingua comune. Nell’adottar questa, i dialettofoni, in misura variabile da luogo a luogo, dall’uno all’altro strato sociale e dall’uno all’altro tipo di rapporti interindividuali, vi hanno inserito elementi lessicali del proprio dialetto d’origine e l’hanno piegata alle consuetudini fonologiche e sintattiche dialettali. […] Attraverso l’uso delle varietà regionali, dialetto e lingua, che erano nell’Ottocento due entità contrapposte, sono andate sempre più diventando quasi varianti d’una medesima tradizione. (De Mauro 1963: 142-143)

Da questo punto di vista le varietà regionali di italiano, a cui la nuova edizione della SLIU (1970) riserverà un ampio spazio documentario (e proprio la necessità di documentarle sarà uno degli impulsi decisivi per la nuova edizione), costitui-ranno l’esito vistoso di una diminuzione della forbice tra italiano e dialetti che, dal punto di vista della struttura linguistica, rappresenta e corrisponde all’imporsi – prima di tutto in città – di rapporti e condizioni sociali che sollecitavano uno “sforzo di usare la lingua comune”. La veste “regionale” dell’italiano effettivamente scam-biato è dunque l’esito naturale di un processo di italianizzazione linguistica che, più che come effetto di una scolarizzazione diffusa, va visto soprattutto come frutto dell’esigenza, avvertita (in alcuni casi probabilmente subita) da strati sempre più ampi e articolati della società, di allargare spettro e gittata della propria

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comunica-tività. Questa esigenza, evidentemente, oltre a confrontarsi con l’estrema eteroge-neità delle condizioni linguistiche di partenza dei parlanti (accomunate in pratica solo dalla competenza, nelle diverse realtà del paese, delle singole varietà dialettali), avrebbe fatto i conti a lungo, in chi andava a scuola, con una “lingua d’elezione” pensata soprattutto per la letteratura e in quanto tale incapace di aderire ed espri-mere efficacemente la quotidianità8.

Da questo punto di vista, lo sforzo di impossessarsi “dal basso”, dunque con i propri mezzi, della lingua comune, che per la prolungata inefficacia della scuola (in termini di funzionamento, frequenza, programmi), ha probabilmente costituito in Italia la modalità più praticata di apprendimento, o comunque di familiarizza-zione con l’italiano, è stato visto da De Mauro come un fondamentale strumento di “svecchiamento” di una lingua ingessata nelle sue forme e funzioni.

Perché la vecchia lingua (…) diventasse in tutto il paese una lingua dotata anche di registri non aulici, non formali, ma colloquiali e popolari, era necessario che si realizzassero alcune condizioni ben precise. Una, anzitutto: l’incontro di grandi masse, legate fino ad allora al monolinguismo dialettale, e costrette dall’incontro a tentare di mettere da parte i rispettivi dialetti, cominciando a usare, per intendersi, gli elementi della lingua italiana a loro noti. Tale incontro avviene sull’onda di fe-nomeni demografici, di eventi spesso tragici e di lotte sociali che hanno prima scosso, poi travolto le strutture economiche su cui poggiavano la cultura e le società a base contadina e dialettofone dell’Italia ottocentesca e dei primi del secolo. (De Mauro 2014 [1970]: 68)

In questo humus sociale si colloca l’incontro tra De Mauro e le lettere spedite dalla semi-analfabeta “Anna del Salento” all’antropologa Annabella Rossi, colla-boratrice di Ernesto De Martino nell’indagine sul fenomeno del tarantismo pro-mossa negli anni Sessanta del Novecento, illustrata nel celebre La terra del rimorso (1961). Lo studio della scrittura di Anna avrebbe portato Tullio De Mauro a iden-tificare e isolare una particolare varietà sociale di italiano, l’ “italiano popolare”, descritta proprio come la ricaduta, sul piano della produzione linguistica, della ne-cessità di un semi-analfabeta di uscire dal monolinguismo dialettale (una nene-cessità che in questo caso era originata dalla richiesta della studiosa, che come sappiamo aveva invitato Anna a raccontarle le sue giornate di “tarantata”):

Anna del Salento ci fornisce il documento del modo d’esprimersi d’un incolto che, sotto la spinta di comunicare e senza addestramento, maneggia quella che otti-misticamente si chiama la lingua “nazionale”, l’italiano. Si tratta d’un documento di tipo raro, ma non isolato: la nostra tesi è che problemi e modi espressivi di Anna sono i problemi e modi espressivi di gran parte della popolazione adulta italiana. Questa scrittura si impone (o dovrebbe imporsi) all’attenzione d’una linguistica non

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archeologizzante o disumana come documento d’una modalità, d’una norma d’uso dell’italiano che può denominarsi “italiano popolare unitario”. (Ivi: 66)

Già nelle trincee della prima guerra mondiale, d’altronde, la ricerca di un co-dice comune era stata la risposta, artigianale ma efficace, alla primaria esigenza di comunicare:

La prima occasione in cui l’italiano popolare unitario si manifesta con massiccia continuità coincide con la tragedia della guerra mondiale. […] Piero Melograni ha di recente rammentato e mostrato che il peso della guerra di trincea ricadde essen-zialmente sulle classi contadine, cioè sulle classi più lontane dall’istruzione e dal-l’urbanizzazione, dalle fonti di italianizzazione della società italiana postunitaria. Al fronte si incontrava gente che fino ad allora aveva parlato solo dialetto. Né c’erano nuclei dialettali dotati di un tal prestigio da potere imporre il loro su altri dialetti. Così, anzitutto per capirsi, e poi per protestare coralmente o singolarmente, i contadini nelle trincee devono costruirsi la possibilità di esprimersi in un idioma comune. (Ivi: 72-73)

Assieme alla varietà di lingua in quanto tale, si affaccia qui la lettura dell’ita-liano popolare come lingua del riscatto sociale. La scoperta della comune apparte-nenza a una classe sociale subordinata, che nell’occasione della guerra mondiale riconosce il proprio destino di carne da macello, fa dunque cercare una lingua co-mune, che quel destino comune esprime e al tempo stesso denuncia. In assenza di una scolarizzazione diffusa, la definizione di un terreno linguistico “comune” pro-cederà prima di tutto espungendo ciò che, dei singoli dialetti, viene percepito come particolarmente idiosincratico, mantenendo invece quei tratti che non sembrano interferire negativamente con la trasmissione del messaggio.

La visione di una classe subordinata che diventa protagonista delle condizioni sociali e culturali in cui si trova inserita e in qualche modo e misura le modifica, orientandole verso una presa di coscienza di classe che trova espressione in una varietà di lingua in qualche modo “antagonista” rispetto all’ingessato italiano della tradizione scolastica, verrà riproposta, da De Mauro, nel valutare gli effetti “im-previsti” dell’esposizione delle masse diseredate al modello oggettivamente unifi-cante della televisione:

[C]on i tardi anni Cinquanta e con gli anni Sessanta un nuovo fenomeno inter-viene a trasformare radicalmente le condizioni non soltanto linguistiche ma culturali del paese: la televisione, concepita come strumento di governo, sortisce effetti im-preveduti. I ceti diseredati relegati in posizione subalterna dalla scarsa capacità di comunicare e di capire servendosi della lingua comune, trovano nella televisione quel che la scuola dello Stato aveva loro negato. Imparano a parlare l’italiano e,

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con l’italiano, imparano come è fatta la cultura dei cittadini, delle classi dominanti. (Ivi: 77).

Per la maggioranza degli italiani, tanto più per quelli senza titoli di studio, dunque, la televisione ha svolto funzioni di supplenza nell’apprendimento dell’ita-liano, di cui secondo De Mauro è necessario prendere atto senza preconcetti, o co-munque facendo prevalere considerazioni di buon senso:

Si suole piangere da destra e da sinistra su questo fenomeno: da sinistra si può lamentare che non siano state dovunque esperienze come la scuola di Barbiana (per poche decine di contadini del Mugello) a portare al possesso dell’italiano. Tuttavia, se oggi una larga possibilità di circolazione e comunicazione di persone e di idee è possibile, questo si deve al fatto che la televisione è stata scuola di lingua e di cultura, ha supplito alla secolare carenza di impegno nella scuola da parte della società ita-liana. (ibidem)

Tra coloro che devono ringraziare la TV, entra di diritto anche la tarantata Anna:

Come i contadini del Basento studiati da Lidia De Rita, Anna del Salento è tra i tanti protagonisti, solitamente mal noti o ignoti, di questo cammino verso un più sicuro possesso dell’italiano da parte dei ceti subalterni. Anche per Anna, dunque, come per i contadini del Basento, come per milioni di italiani, la televisione è servita a scoprire e ad acquisire una dimensione comune e, quindi, è servita da scuola di espressività e mezzo d’unificazione linguistica. (De Mauro 2104 [1970]: 78)

Addirittura l’impossessarsi dal basso della lingua, sostenuto dal ruolo di sup-plenza ricoperto di fatto dalla TV, avrebbe consentito alle classi subalterne di ri-manere immuni dal modello di italiano astratto e respingente promosso dalla scuola. Per questa via il modo di esprimersi di Anna racconta, alla fine, com’è fatta una lingua viva e vera, e «dunque, non è un italiano aberrante, “mal formato”. Rappre-senta un documento di come la maggioranza della popolazione italiana risolve negli anni Sessanta il problema di comunicare uscendo fuori dall’alveo dialettale»

(ibi-dem). Libero per necessità dalle pastoie dell’italiano scolastico, l’italiano delle

classi subalterne rivela, più che un’imperfetta competenza linguistica, puntuali con-notati di una lingua “progressiva”:

una volta che si liberi il testo dalle deformazioni superficiali della cattiva grafia e della punteggiatura, una volta che si recuperi, cioè, l’autentico periodo pensato e/o parlato che Anna ha mal reso nello scritto, la caratteristica (…) è la semplicità e l’immediatezza espressiva. Per Anna, diversamente dalle professoresse, il tempo

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non trascorre ma passa, la gente non ha moti di disappunto, ma scuote la testa,

piange o bestemmia, i figli sono maschi e non di sesso maschile ecc.

Nello squallore del suo ambiente e del suo paese, nella miseria, senza istruzione, Anna ha tuttavia almeno avuto la fortuna di non imbattersi nell’italiano professorale restandone soffocata. Attraverso i contatti con gli amici di Roma, il cinema, la tele-visione, ha lentamente imparato ad esprimersi in modo comprensibile e, nello stesso tempo, vivo e vero. Ha portato così anche lei una pietra all’affermazione dell’uso popolare unitario della lingua italiana (ibidem).

Con quest’ultima affermazione l’aggettivo popolare sembra svincolarsi dal suo riferimento a una specifica, subordinata classe sociale, protagonista in quanto tale di particolari usi linguistici: nel realizzare e definire i connotati di una varietà linguistica dove le interferenze con la lingua parlata generano andamenti caratte-rizzati da semplicità e immediatezza, il “popolo” si fa promotore di un italiano che finalmente, per quelle caratteristiche, può rappresentare un riferimento trasversale, in questo senso non più solo popolare, ma nazional-popolare. Sottolineando il ca-rattere unitario di questa “nuova” varietà linguistica De Mauro, con un pensiero ri-volto senza incertezze ai Quaderni di Gramsci, sembra infatti salutare il progressivo consolidarsi di un senso di nazione sottratto all’ipoteca intellettuale e letteraria per diventare finalmente bene popolare, cioè pienamente collettivo e condiviso: la re-altà, effettiva e verificabile, dell’italiano popolare unitario, insomma, diventa te-stimonianza concreta, sul piano linguistico, dell’auspicata, ma in Italia storicamente inedita, saldatura tra popolo e nazione.

4. Pratiche linguistiche di cittadinanza: valorizzare l’Italia delle Italie

È a questo italiano progressivo, semplice ma non semplificato, riflesso di un bisogno di cittadinanza che muove dal basso, da garantire e sostenere anche attra-verso opportune pratiche di educazione linguistica, che De Mauro riserverà sempre attenzione e sponda. È un aspetto, questo, che va sottolineato e ribadito, anche alla luce del vero e proprio fuoco di fila a cui, proprio nei giorni immediatamente suc-cessivi alla scomparsa dello studioso, è andato incontro il presunto permissivismo a oltranza di una educazione linguistica che in Italia sarebbe stata a lungo informata (e, in pratica, “deformata”) da una prospettiva “spontaneistica” – quindi di per sé refrattaria all’indicazione di regole – che avrebbe costituito la ricaduta nefasta e d’altronde inevitabile di un apprendimento della lingua comune fin troppo celebrato da De Mauro come modalità che trovava successo (per i parlanti che vivevano quel-l’apprendimento come conquista di cittadinanza) e giovamento (per una lingua che, dopo secoli di vita per lo più letteraria ed elevata, si nutriva di andamenti più vicini al parlato) proprio perché procedente “dal basso”.

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Il rimprovero mosso a De Mauro (e a una scuola di pensiero che - si lamen-tava - avrebbe rappresentato il deleterio paradigma dell’educazione linguistica per la quasi totalità degli insegnanti in Italia) è che, informata fino all’eccesso dalla preoccupazione di non sovrapporre alle competenze linguistiche di base un modello di lingua astratto e lontano dalle effettive esigenze comunicative, la sua proposta didattica si limitava, di fatto, a riprodurre il meccanismo di apprendimento dell’ita-liano sperimentato, sul campo più che tra le aule, dagli strati socio-culturalmente svantaggiati della popolazione. Alla base del “cattivo italiano” manifestato dalle nuove e nuovissime generazioni di italiani (diplomati e anche laureati) ci sarebbe stata dunque quella generalizzata indifferenza ad intervenire sugli “errori” (cioè sull’esito dell’interferenza tra condizioni linguistiche di partenza e competenza guistica di arrivo) che, ritenuta cifra ormai costante della pratica di educazione lin-guistica, è stata individuata come l’inevitabile ricaduta, sul piano della competenza linguistica effettiva, della preoccupazione, sostenuta con convinzione da De Mauro, di non sovrapporre modelli precostituiti di lingua all’esperienza linguistica di par-tenza (procedendo cioè per accrescimento della compepar-tenza, e non per una sua so-stituzione con un modello codificato dall’alto).

Ma le critiche ad una pratica di educazione linguistica scolastica ricondotta agli insegnamenti e alle posizioni di De Mauro non considerano (o lo fanno in modo insufficiente) che proprio il “cattivo italiano” di tanti, troppi, italiani ha rap-presentato uno dei fondamentali punti di partenza per la redazione delle Dieci Tesi

per l’educazione linguistica democratica (1975), in cui i principi a cui doveva

ispi-rarsi la nuova educazione linguistica e le indicazioni per un nuovo curriculum for-mativo degli insegnanti (tesi VIII e IX) seguivano una critica serrata alla “pedago-gia linguistica tradizionale”: la quale non era una petizione di principio, ma muo-veva dalla constatazione dell’insufficiente livello di alfabetizzazione linguistica che tale pedagogia evidentemente promuoveva (o i cui limiti comunque non era in grado di risolvere).

Della pedagogia linguistica tradizionale noi dobbiamo criticare fermamente anzi tutto l’inefficacia. Dal 1859 esiste in Italia una legge sull’istruzione obbligatoria, che, dal decennio giolittiano, ha cominciato a trovare realizzazione effettiva a livello delle primissime classi elementari. Masse enormi sono passate da sessanta, settan-t’anni attraverso queste classi. La pedagogia tradizionale ha saputo insegnare loro l’ortografia? No. Essa ha sì puntato sull’ortografia tutti i suoi sforzi. Ma ancora, oggi, in Italia, un cittadino su tre è in condizioni di semianalfabetismo.9

Quelle lacune e quei difetti di scrittura che le recenti polemiche riconducono in ultima analisi ai cattivi effetti nella scuola di posizioni, quelle di De Mauro, lette sommariamente come un autorevole lasciapassare verso una didattica “senza re-gole”, sono invece, per De Mauro, frutto di pratiche didattiche tutte orientate a

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un’ossessione verso il bello scrivere che, nei fatti, non risolve l’ortografia e non produce chiarezza nei contenuti:

E non si creda che l’oscurità risponda sempre e soltanto a un’intenzione politica, all’intenzione di tagliar fuori dal dibattito i meno colti. Un’analisi di giornali di con-sigli di fabbrica mostra che in più d’uno il linguaggio non brilla davvero per chia-rezza. E non sempre la limpidezza del vocabolario e della frase è caratteristica pro-pria di tutti i comunicati delle confederazioni sindacali. Ora, è fuor di dubbio che gli operai e i sindacalisti non hanno alcun interesse a non essere capiti. L’oscurità, i periodi complicati sono il risultato della pedagogia linguistica tradizionale. La pe-dagogia linguistica tradizionale, dunque, non realizza bene nemmeno gli scopi su cui punta e dice di puntare. In questo senso, essa è inefficace.10

Nella sua indifferenza verso i meccanismi naturali che presiedono all’appren-dimento linguistico e verso l’espressività non verbale; nella valorizzazione pres-soché esclusiva della produzione scritta (verificata attraverso la pratica retorica del tema, e non, per esempio, nella capacità di prendere appunti)11, che ha per naturale

correlato una generalizzata disattenzione verso le competenze in ricezione, la “pe-dagogia linguistica tradizionale” svela per De Mauro i suoi connotati classisti, di pratica didattica che è prima di tutto strumento di esclusione sociale.

Andrà tenuto ben presente, a questo riguardo, che gli anni in cui maturano le riflessioni che troveranno sbocco nelle Dieci tesi sono gli anni del «tumultuoso processo di scolarizzazione» degli italiani di ogni ordine e grado, «una crescita ra-pida e disordinata» (Galfré 2017: 208) che avrebbe messo scuola e insegnanti di fronte alla realtà quotidiana di aule affollate di alunni di ogni provenienza ed estra-zione: entrambi – istituzione e docenti – sostanzialmente impreparati davanti a un mondo che portava con sé, come questione ineludibile, un’estrema varietà (e spesso un marcato dislivello) delle condizioni linguistiche di partenza. In questo clima le

Dieci tesi avvertono tutti i rischi, per la collettività, di una esclusione sociale

pro-mossa su base scolastica, e denunciano senza incertezze

ciò che si annida al fondo della pedagogia linguistica tradizionale: la sua par-zialità sociale e politica, la sua rispondenza ai fini politici e sociali complessivi della scuola di classe. Nella sua lacunosità e parzialità, nella sua inefficacia, l’educazione linguistica di vecchio stampo è, in realtà, funzionale in altro senso: in quanto è rivolta a integrare il processo di educazione linguistica degli allievi delle classi sociali più colte e agiate, i quali ricevono fuori della scuola, nelle famiglie e nella vita del loro ceto, quanto serve allo sviluppo delle loro capacità linguistiche. Essa ha svelato e svela tutta la sua parzialità e inefficacia soltanto nel momento in cui si confronta con l’esigenza degli allievi provenienti dalle classi popolari, operaie, contadine. A questi, l’educazione tradizionale ha dato una sommaria alfabetizzazione parziale

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(ancora oggi un cittadino su tre è in condizione di semi o totale analfabetismo), il senso della vergogna delle tradizioni linguistiche locali e colloquiali di cui essi sono portatori, la «paura di sbagliare», l’abitudine a tacere e a rispettare con deferenza chi parla senza farsi capire. Senza colpa soggettiva e senza possibilità di scelta, molti insegnanti, attenendosi alle pratiche della tradizionale pedagogia linguistica, si sono trovati costretti a farsi esecutori del progetto politico della perpetuazione e del con-solidamento della divisione in classi vigente in Italia. Senza volerlo e saperlo, hanno concorso ad estromettere precocemente dalla scuola masse ingenti di cittadini (an-cora oggi 3 su 10 ragazzi non terminano l’obbligo, e sono figli di lavoratori)12.

Nel ricondurre la necessità di una competenza linguistica sicura e articolata a un diritto di cittadinanza esplicitamente previsto dalla Costituzione come fonda-mentale modalità di inclusione sociale, e dunque nel denunciare come pericolosa pratica di esclusione tutto ciò che questo diritto ostacola, De Mauro ha ben presente l’esperienza di Don Milani. Le dieci tesi, infatti, sono pensate prima di tutto per non perdere per strada i tanti, troppi Gianni d’Italia, che espulsi dalla scuola per la loro incapacità di aderire a modelli linguistici elevati e astratti, perdevano progres-sivamente ogni capacità critica, ogni spessore civile.

Tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di lingua”. L’ha detto la Costitu-zione pensando a lui. Ma voi avete più in onore la grammatica che la CostituCostitu-zione. E Gianni non è più tornato neanche da noi. Noi non ce ne diamo pace. Lo seguiamo di lontano. S’è saputo che non va più in chiesa, né alla sezione di nessun partito. Va in officina e spazza. Nelle ore libere segue le mode come un burattino obbediente. Il sabato a ballare, la domenica allo stadio. Voi di lui non sapete neanche che esiste. L’abbiamo visto anche noi che con loro la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile. (Scuola di Barbiana 1967: 19-20)13

L’eco di Don Milani nelle Dieci tesi è insomma evidente e ricercata: in questo modo De Mauro si riconnette, abbracciandola idealmente e concretamente, alla de-nuncia sociale e alla conseguente pratica di intervento linguistico sperimentato nella scuola di Barbiana, che invece in un primo tempo, celebrando la TV come imprevi-sto ma decisivo mezzo di conquista della lingua da parte degli ultimi, lo stesso De Mauro aveva descritto, in modo un po’ liquidatorio, come esperienza illuminata ma di fatto irripetibile, dunque incapace di diventare pratica didattica diffusa.

Le Dieci tesi costituiranno il riferimento ideale e metodologico dell’attività del GISCEL (Gruppo di Intervento e di Studio di Educazione Linguistica), organi-smo che, attivo dalla metà degli anni Settanta nelle diverse regioni, si farà promo-tore di un dialogo tra ricerca universitaria e mondo della scuola di cui si

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percepi-vano insieme l’importanza e il crescente separatismo, e finalizzato, oltre che al-l’aggiornamento continuo degli insegnanti, all’individuazione di puntuali pratiche di educazione linguistica, che si sviluppassero a partire dall’attenta verifica delle condizioni linguistiche di partenza.

Un primo frutto di quell’auspicato dialogo è l’uscita, nel 1979, del volumetto

Lingua e dialetti, scritto a quattro mani da De Mauro con Mario Lodi, la cui pratica

di insegnamento nelle scuole elementari era in quegli anni riferimento diffuso di un innovativo modello di didattica attento a valorizzare il patrimonio linguistico e culturale che costituiva il retroterra di formazione degli alunni. Del resto, Lingua

e dialetti nasce proprio in concomitanza con la messa a punto dei nuovi programmi

della scuola media (che, insieme alle Dieci tesi, vengono riprodotti nell’Appendice del volume14), i quali rilevano la necessità di non far percepire scuola e società

come entità separate, promuovendo cioè un processo di formazione degli studenti intimamente collegato al mondo circostante. Condividendo questa preoccupazione dei programmi, De Mauro e Lodi delineano un percorso didattico in cui, a partire dalla necessaria messa a fuoco concettuale dei poli “lingua” e “dialetto”, gli inse-gnanti potessero attivare pratiche di lavoro finalizzate prima di tutto alla piena com-prensione, da parte degli alunni, del sistema linguistico che per secoli aveva intes-suto la realtà quotidiana, i suoi valori, le sue credenze:

Il dialetto è stato il mezzo con cui il popolo ha tramandato di secolo in secolo, per successive generazioni, il patrimonio tecnico, le esperienze esistenziali, le feste, i riti, i canti, le leggende, i proverbi, le filastrocche, le ricette e quanto fa parte della storia locale. Conoscere il dialetto è quindi possedere lo strumento per capire il mondo da cui siamo venuti e in cui siamo ancora immersi, non per limitare il nostro orizzonte, ma, al contrario, per collocare i fatti della nostra storia particolare nel quadro più ampio della storia e della cultura nazionale ed europea, che è fatta di tanti contributi particolari che lentamente si sono aggregati e stanno ancora aggre-gandosi. (De Mauro-Lodi 1979: 57)

Il capitolo X del volume dà puntualmente conto di proposte operative (inter-viste e loro rappresentazione; raccolta di proverbi e filastrocche; confronto tra brani in dialetto e in italiano) pensate per la scuola dell’obbligo (e a loro volta già pub-blicate, a partire dal 1970, nella Biblioteca di lavoro dell’editore fiorentino Man-zuoli). Ma l’attenzione da riservare in classe ai dialetti serve anche a capire un aspetto del “mondo circostante” che riguarda l’aspetto relazionale, in termini di ri-conoscimento e valorizzazione della diversità linguistica di cui, specialmente nelle nuove aggregazioni urbane, sono portatori i parlanti di dialetti “altri” (spesso anche tipologicamente lontani) rispetto a quelli tradizionali del territorio, che rischiano di veder ignorata la propria identità sociale a partire dalla negazione del repertorio linguistico di partenza. Per questo

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gli itinerari proposti nei capitoli precedenti non valgono solo tra campi e boschi, ma anche tra i palazzoni e nelle fabbriche. Anzi, valgono ancor di più in realtà urbane che, per la loro stessa mole e per la frammentazione dei quartieri e degli isolati, ri-schiano di essere realtà anonime e disgregate. (Ivi: 100)

È in questo clima che, per iniziativa di alcuni allievi di De Mauro, nasce anche il concetto di glotto-kit (cfr. Gensini-Vedovelli 1983), una procedura destinata agli alunni della scuola dell’obbligo ma estensibile anche ai progetti di formazione degli adulti, che, a partire dalla messa a punto di singole carte d’identità linguistiche (dunque della descrizione minuziosa del bagaglio di partenza dei discenti), proce-desse verso la definizione di un percorso di sviluppo “personalizzato” delle com-petenze e delle abilità necessarie a garantire un sicuro movimento degli scolarizzati nelle situazioni d’uso della lingua proposte dalla società contemporanea. L’atten-zione alle condizioni di partenza dei singoli, dunque, non prefigura nessuna con-cessione a un’alfabetizzazione linguistica condotta all’insegna dello spontaneismo, ma rappresenta il necessario punto di partenza per individuare percorsi di acquisi-zione e consolidamento di una competenza linguistica che solo in questo modo può diventare garanzia di cittadinanza e non, nel migliore dei casi, virtuosismo da esi-bire (o, all’opposto, vergogna da nascondere).

Del resto, l’attenzione e la valorizzazione del repertorio linguistico di partenza dovrebbe costituire un atteggiamento del tutto naturale nel quadro storicamente plurilingue della penisola, compatibile con un profilo di per sé plurale della realtà sociale italiana a cui tuttavia, secondo De Mauro, la classe dirigente (e intellettuale in genere) ha guardato, nella migliore delle ipotesi, come a un fenomeno di folklore, o altrimenti (pensiamo solo a Gramsci), come a un nefasto segno di provincialismo, con la vitalità del dialetto vista a un tempo come causa ed effetto della persistente mancanza di una cultura “nazionale”.

Il provinciale cosmopolitismo endemico del nostro ceto intellettuale medio lo spinge ad ignorare, anzi a detestare i fenomeni della pluralità etnico-linguistica […]. La diversità linguistica è subcultura e folklore, appartiene al passato, e sottolinearne o esaltarne il significato è reazionario? Qualche anno fa, intellettuali intervenuti in un dibattito del quotidiano La Repubblica hanno convenuto su posizioni del genere: il mondo si va omogeneizzando, la pluralità idiomatica sarebbe una faccenda del passato, riguarderebbe gli “scialli neri”, le vecchine novantenni in cima a monti sperduti, non le magnifiche sorti progressive. (De Mauro 1987: XIII)

Da questo punto di vista i saggi raccolti nell’Italia delle Italie (1987) tratteg-giano il quadro di una realtà intrinsecamente plurale e plurilingue, in cui le lingue locali, espressioni di una società “viva e vera”, definiscono come tali il tessuto di una socialità condivisa che deve costituire il paradigma di riferimento anche per la

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dimensione collettiva, nazionale. In questo senso la riflessione sulle minoranze lin-guistiche (all’alba di una legge di tutela che si sperava imminente, e che invece si sarebbe fatta attendere fino al 1999) si salda idealmente alla valorizzazione di una poesia e di una drammaturgia dialettale che devono essere considerate non (nella prospettiva gramsciana) come retaggio di campanilismo ma come paradigma so-cio-linguistico di un senso di appartenenza che potrà essere “nazionale” non già promuovendo una forzata astrazione – linguistica e culturale – dall’Italia dei paesi, ma estendendo alla dimensione condivisa della nazione il rapporto tra lingua e so-cietà sperimentato quotidianamente nelle diverse aree d’Italia:

Il teatro dialettale circolante da un capo all’altro della penisola e, con Eduardo, fuori, in giro per il mondo europeo; il gag petroliniano dell’aulicità melensamente compiaciuta della sua incomprensibilità […]; la cauterizzante esibizione di aulicismi e cultismi da parte dell’impassibile maschera di Totò […] hanno giocato nello stesso senso del miglior teatro in lingua e, forse, perfino più efficacemente: nel senso di corrodere, ridicolizzandolo, il vecchio stile retorico ed esperantistico, di creare e far amare un modo di vivere la lingua più terreno, più quotidiano e realistico. (De Mauro 1987: 63)

Da questo punto di vista il recupero del dialetto friulano da parte di Pasolini appare come il modo per denunciare, sia pure indirettamente, l’incapacità della lin-gua italiana di esprimere concretamente (e dunque in modo credibile) il senso di intimità con il mondo reale:

Di fronte a questo italiano sentito per forza di cose soltanto come una lingua scolastica, parlata sempre su registri formali, di fronte al vuoto di affettività, la par-lata dialettale lo affascina con emozioni che egli amerà rammentare anche molti e molti anni dopo. Naturalmente Pasolini, adottando il friulano nelle liriche, sapeva bene di star avviando un’operazione di tipo colto e letterario e diceva che le parole friulane scritte da lui erano spesso «cercate nel Pirona». Ma appunto ciò mancava a chi, non nativo di alcune zone del paese, scriveva in italiano con intenti letterari: la possibilità di usare in chiave letteraria un patrimonio linguistico che fosse usato e vissuto anche nella vita affettiva, concreta, d’ogni giorno. Questa continuità gli pa-reva di trovare scegliendo, come lingua della poesia, il friulano materno e degli amici di Casarsa. (Ivi: 177)

In ultima analisi, perdere di vista il carattere plurale di un’Italia composta da tante Italie, sovrapponendo a questo articolato coro di voci e di costumi una regola di lingua e di cultura astrattamente uniformante, rischia di perpetuare quella di-stanza tra palazzo e piazza che pregiudica il definirsi di una prospettiva comune e condivisa che può definirsi solo a partire da riconoscimento e valorizzazione del

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carattere intrinsecamente composito del paese, come del resto aveva sottolineato già Fernand Braudel:

Riconoscere che il paese è un intreccio di paesi, che «ce nom d’Italie est une abstraction», se non si riconduce alla realtà delle Italie (…) è l’obiettivo di questi scritti. Se ciò venisse accettato e diventasse comune consapevolezza, si potrebbe aprire un varco importante per lo sviluppo civile e unitario del paese. Riconoscersi nella pluralità idiomatica e culturale come in un retaggio storico ancora vitale, anzi consono all’avvenire più moderno, è un passo forse non irrilevante per abbattere «uno muro sì grosso» «tra ‘l palazzo e la piazza». Nella consapevolezza comune, la distanza tra governanti e governati, tra l’Italia e le Italie, potrebbe scorciarsi fino a mutarsi in potenziale interscambio. (De Mauro 1987: XVII)15

5. Le parole degli italiani e gli italiani ancora senza parole

La pubblicazione, nel 1980, di Guida all’uso delle parole inaugura per Editori Riuniti la fortunata collana dei Libri di base diretta dallo stesso De Mauro, e con-cepita per garantire il più possibile la circolazione del sapere proprio a partire dalla scelta di adottare il lessico di base, cioè le poco più di 7000 parole del vocabolario italiano a più alta frequenza, di cui appunto nella Guida De Mauro propone un primo elenco (cfr. ora, per un aggiornamento, De Mauro-Chiari 2016). Lo spirito che accompagna questa operazione è, ancora una volta, quello di uno studioso della lingua che, dal proprio punto di osservazione, si rivolge all’Italia contemporanea come a una società di parlanti plurale e insieme solidale, espressa e tenuta insieme da una lingua intesa come indispensabile patrimonio relazionale e civile:

Tutt’intera una società, in tutte le sue classi, è costretta a ritrovarsi nell’uso delle parole. A tutti può accadere e accade di dover superare i limiti delle nostre abitudini verbali. Tutti possiamo trovarci ogni giorno nella condizione di metterci in rapporto, grazie alle parole, con persone che non avremmo mai pensato di avvi-cinare. Come già si è accennato, anche in materia di linguaggio troviamo la traccia della diversa condizione economica, scolastica, ecc., di chi parla e scrive. Ma le parole sono fatte in modo che, nel loro uso, sia possibile a tutti ritrovarsi per co-struire insieme, quando occorra, la soluzione comune a comuni problemi vitali. (De Mauro 1980: 100)

In questa prospettiva mettere insieme il vocabolario di una lingua significa restituire le coordinate dell’articolazione sociale di un paese e, al tempo stesso, del modo in cui una comunità si riconosce come tale, nelle sue diverse componenti, chiamate in quanto tali a interagire, a confrontarsi, ad arricchirsi nella relazione

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re-ciproca. Le cosiddette “marche d’uso” che De Mauro propone nella sua opera les-sicografica più imponente, il Grande Dizionario Italiano dell’Uso (GRADIT: 1999-2000), consentono di osservare con un particolare dettaglio le condizioni d’uso, e in ultima analisi la stratificazione sociale delle circa 250.000 parole raccolte, di cui di volta in volta si rilevano frequenza (distinguendo a sua volta tra lessico fonda-mentale; di alto uso; di alta disponibilità; obsoleto), ambiti (tecnico-specialistico; letterario), diffusione (comune; regionale; dialettale). Il lessico dell’italiano con-temporaneo, dunque, racconta un’Italia plurale che tuttavia può riconoscersi in un nucleo comunicativo assicurato dalle parole di altissima frequenza, che in Italia sono testimoniate già dai tempi di Dante116.

Opportunamente, De Mauro rileverà che il lessico della quotidianità più con-creta e in generale il lessico comune si è imposto, per l’italiano, nei secoli succes-sivi, con un’impennata nel Novecento. Da questo punto di vista la postfazione del

GRADIT, con il suo visitare – accompagnato ancora da cifre e percentuali – fasi,

strati e fonti del lessico italiano contemporaneo permette a De Mauro di affermare che quella che era un’antica lingua di elezione è finalmente diventata patrimonio condiviso della nuova comunità.

La nostra lingua comune, che Dante creava, il Machiavelli scriveva, il Ferrucci parlava” – così diceva retorico e commosso il napoletano Luigi Settembrini – ancora a metà del Novecento appariva al linguista fiorentino Emilio Peruzzi dotata di “un vocabolario nazionale per discutere dell’immortalità dell’anima, per esaltare il valor civile, per descrivere un tramonto, per sciogliere un lamento su un amore perduto”, ma povera o, anzi, priva di un vocabolario “comunemente accettato e univoco” per parlare e scrivere di cose quotidiane o in termini scientifici. Ebbene, non è più così. Intorno al vocabolario fondamentale e di base d’antica tradizione, il lessico italiano comune si è arricchito e integrato e si è esteso ad abbracciare nuovi domini. L’ita-liano è stato messo in grado di parlare in modo univoco anche della quotidianità e anche (…) di tecnologie e di scienze. (De Mauro 2000: 1183)17

Tutto questo, suggerisce De Mauro, è stato possibile per il moltiplicarsi e l’articolarsi delle condizioni e delle occasioni sociali che richiedono competenza e uso della lingua comune.

Nelle fabbriche e nei commerci, nelle industrie, nelle scuole, nei laboratori, nelle università, nelle redazioni dei giornali e periodici seri, che pure vi sono, nelle case editrici, nelle imprese, mentre base economica, reddito e attività produttive si anda-vano spostando dall’agricoltura all’industria, e, poi, ai servizi di intermediazione tecnologicamente più evoluti, nella Italia della Repubblica e delle istituzioni demo-cratiche è stato fatto anno dopo anno un immenso lavoro non solo di impossessa-mento della lingua comune, diventata ormai veramente tale, ma anche di

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