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Minoranze, zingari e diritti fondamentali dal punto di vista dei rom.

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Academic year: 2021

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Università Ca' Foscari Venezia

Corso di Laurea magistrale in Lavoro, cittadinanza

sociale, interculturalità Classe LM-87

Tesi di Laurea

Minoranze, zingari e diritti fondamentali

dal punto di vista dei rom.

Relatore

Ch. Prof. Zagato Lauso

Correlatore

Ch. Prof. Leonardo Piasere

Laureanda

Suzana Jovanovic Matricola 814495

Anno Accademico 2014 / 2015

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INDICE

Ringraziamenti... p. 4 Introduzione

1. Oggetto della ricerca... p. 5 2. Approcci …... p. 6 2.1. L'approccio giuridico... p. 6 2.2. L'approccio filosofico... p. 10 2.3. L'approccio sociologico... p. 23 2.4. L'approccio antropologico... p. 30 2.5. L'approccio psicologico... p. 34 3. Metodologie... p. 35 4. Struttura del testo... p. 39

Capitolo 1.

Fonti dei diritti umani

1.1. Caratteristiche generali... p. 41

1.1.1. Origine dei diritti umani... p. 41

1.1.2. Interpretazione... p. 41

1.1.3. Lo zoccolo ... p. 42

1.1.4. Obblighi per gli stati... p. 44

1.1.5. Garanzie interne... p. 46 1.2. Fonti internazionali... p. 47

1.2.1. Fonti adottate dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite... p. 47

1.2.2. Fonti derivate dagli istituti specializzati delle NU... p. 50 1.3. Fonti internazionali regionali... p. 51

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INDICE

1.3.2. Fonti dell'Unione Europea... p. 52 1.4. Legislazione nazionale... p. 54

Capitolo 2.

La tutela giuridico delle minoranze

2.1.Introduzione... p. 55 2.2. Il principio personalista... p. 58 2.3. Tutela indiretta delle minoranze... p. 64 2.4. Definizione di minoranza... p. 69 2.5.Diritti nazionali... p. 73 2.6. Immigrati... p. 79 2.7. Situazione giuridica degli zingari... p. 103

2.7.1. L'antiziganismo: un pregiudizio antico... p. 103

2.7.2. I rom sono minoranze nazionali?... p. 109

2.7.3. Diritti culturali... p. 116 Capitolo 3.

“Una Vita Bruttissima!” “Ma voi portate via i Bambini?! ”

Racconti dei rom, “europei da secoli”, delle sistematiche violazioni dei loro diritti fondamentali

3.1. Introduzione alla lettura delle interviste... p. 141

3.1.1. Chi sono gli intervistati?... p. 141

3.1.2. La lingua delle interviste... p. 143

3.1.3. Criticità/vantaggi rilevati durante le interviste... p. 144

3.1.4. Strumenti interpretativi delle narrazioni... p. 147

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INDICE

3.2. Voci inedite ... p. 153

3.2.1. Un intervista esemplare... p. 153

3.2.2. Diritti rivendicati dai rom... p. 165

3.2.3. Come vengono lesi i diritti dei rom... p. 171 3.3. Quale realtà accoglie i rom in Italia?... p. 212

3.3.1 Impatto con la società:... p. 212

3.3.2. Impatto con la Pubblica Amministrazione... p. 215 3.4. Situazioni a confronto... p. 228

3.4.1. Vita tutelata: Casi CES... p. 228

3.4.2. Vita autodeterminata: Caso di Brescia e Caso di Bari... p. 262 3.5. Consapevolezza dei rom... p. 271 3.6. Cosa rivendicano, infine, i rom?... p. 275 3.7. Come interpretare le rivendicazioni dei rom?... p. 286 3.8. Riflessione della Professoressa Zincone Giovanna un sulla cultura

e l'identità dei rom... p. 292 CONCLUSIONI

1. Risultati ottenuti dalla ricerca... p. 294 2.Temi da approfondire... p. 299 3. Criticità... p. 302 4. Osservazioni finali... p. 303 BIBLOGRAFIA... p. 304

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RINGRAZIAMANTI

Ringrazio le mie colleghe, la dott. Stefania Pontrandolfo, la dott. Mariana Agoni e la dott. Francesca Pagura per il grande aiuto che mi hanno dato nel raccogliere, trascrivere e revisionare le riviste citate in questo lavoro. Inoltre, ringrazio le stesse e la dott. Eva Rizzin per gli spunti di riflessione, le tante informazioni e la bibliografia che mi hanno fornito.

Un particolare ringraziamento la rivolgo ai professori che mi hanno fornito materiale prezioso per questo lavoro e in generale per le mie riflessioni: la Professoressa Stefania De Vido e il Professor Dino Costantini. Ovviamente, un grazie a tutti i professori del mio corso di laurea: li ritengo tutti bravissimi e intellettualmente molto stimolanti e capacissimi di aprire delle “finestre” di riflessione critica su ciò che ci circonda.

Ringrazio anche i due professori che mi hanno seguita durante la realizzazione di questo lavoro, il Professor Lauso Zagato ed il Professor Leonardo Piasere, per l'infinita pazienza che hanno avuto nel correggere il mio folle flusso di pensieri! Li ringrazio per avermi stimolato nuove prospettive di lettura della realtà e, allo stesso tempo, di aver lasciato libertà alla mia prospettiva e alla mia creatività.

Infine, un grandissimo grazie a mio amore! Grazie per la pazienza che hai avuto in questi ultimi tempi! E grazie per avermi nutrita amorevolmente in questo periodo di grandissimo stress!

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INTRODUZIONE

1. Oggetto della ricerca

L'oggetto di questo lavoro è il “disprezzo”1 della cultura dei rom da parte dei gagé.

Cerchierò di capire le ragioni delle discriminazioni e delle persecuzioni sociali a cui gli zingari sono sottoposti. Ovvero, cercherò di far emergere il fatto che esiste a livello sociale un “disprezzo” della cultura degli zingari che fa si che tale cultura sia dichiarata come non degna d'esistere. Percezione che è presente nel gruppo di rom di cui faccio parte (e che è presente in Italia da circa 50 anni) e che emerge nei gruppi “zingari” di più antica presenza in Italia, per esempio i sinti2 e che emerge anche dalle

interviste fatte ai rom provenienti dalla Romania immigrati in Italia di recente3.

Quindi, l'oggetto della mia ricerca è la verifica ed il recupero di indizi sull'esistenza o meno, in Italia, di un atteggiamento discriminatorio e persecutorio nei confronti degli zingari tale da essere classificato come genocidio. Ovvero, l'oggetto di questo lavoro è la misurazione del grado di “disprezzo” che vige nei confronti della cultura degli zingari e degli individui che manifestano pubblicamente tale identità. Possiamo, cioè, dire che il grado di disprezzo verso gli zingari e la loro cultura è tale da essere giunti a prassi e atteggiamenti sociali classificabili come genocidio e in particolare di

1 Tema che affronterò al punto “2.1 approccio filosofico”

2 Per approfondire il tema della percezione che hanno gli “zingari” del “disprezzo” che i gagé provano per la cultura dei rom, si veda Eva Rizzin, 2005-2006 , L’antiziganismo nell’Europa allargata: L’azione diplomatica e internazionale delle Istituzioni europee a tutela delle minoranze Rom, tesi dottorato Università’ Degli Studi di Trieste, 2006; Rizzin E., Tavani C., “Le normative europee ed internazionali contro la discriminazione”, in Vitale T. (a cura di), Politiche possibili. Abitare la città con i rom e i sinti, Carocci, Roma, 2009

3 Mi riferisco ai rom immigrati in Italia negli ultimi 10 – 15 anni e uso il termine “recente” per distinguerli dai rom presenti in Italia da periodi precedenti come appunto i rom del mio gruppo e i sinti che sono presenti in Italia da secoli. Per approfondire la presenza storica degli “zingari” in Italia si veda L. Piasere, I rom d'Europa. Una storia moderna, Editori Laterza; 2009, Roma-Bari

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genocidio culturale? La diversità degli zingari è talmente disprezzata che gli individui che vengono identificati, o che si identificano pubblicamente come tali, subiscono persecuzioni che mirano all'eliminazione in loro di tale identità al punto che la società sarebbe disposta ad eliminarli fisicamente pur di cancellare tale cultura? In particolare, mediante un approccio multidisciplinare (giuridico, antropologico, sociologico, psicologico e filosofico), nel terzo capitolo, metterò in discussione il concetto di personalità giuridica, derivato agli esseri umani dalla loro dignità di esseri umani, mediante una capillare analisi di casi di violazione dei diritti, in riferimento agli zingari. Ovvero, cercherò di dimostrare che la percezione degli zingari come popolazione priva di uno Stato, e quindi priva di una radicamento territoriale, porti a percepire gli zingari come soggetti privi di diritto; individui, cioè, privi di personalità giuridica. Tale percezione si intreccia al “disprezzo” che vige nei confronti della cultura degli zingari e ha l'effetto di una totale “svalutazione sociale”4 degli zingari

come persone che legittima una vera e propria persecuzione etnico-razziale nei loro confronti. Tra i gagé vige la percezione che gli zingari abbiano una forte identità di sé, ma il fatto che tale identità sia percepita come moralmente non degna d'esistere ha come conseguenza una vera e propria persecuzione razziale nei loro confronti. Nei confronti degli zingari, cioè, vige un riconoscimento negativo che li fa percepire a livello sociale individui che non hanno diritto ad esistere, in quanto portatori di una cultura socialmente disprezzata, e quindi, da eliminare, in qualche modo, dal proprio territorio.

2. Approcci

2.1. L'approccio giuridico

L'analisi della situazione in cui vivono i rom in Italia si basa su un approccio giuridico: uso, cioè, le teorie e gli approcci menzionati in questo capitolo per

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analizzare la normativa internazionale e nazionale, in materia di tutela degli individui e dei gruppi minoritari presenti negli Stati nazionali. Ossia, partendo dalla normativa internazionale e nazionale in materia di tutela degli individui e dei gruppi, ho cercato di capire quali fossero i limiti del diritto nazionale e internazionale in materia di tutela del diverso, del non cittadino o del cittadino percepito come “non appartenente” al corpo cittadino. Ho cercato, cioè, di capire quali fossero gli assunti teorici alla base dei limiti della normativa in materia di tutela dell'alterità e della diversità culturale/razziale e quali effetti hanno tali assunti sul comportamento di coloro che sono tutelati dalla norma e coloro che non ne son tutelati. In particolare, mediante l'approccio giuridico, ho preso in esame un'ipotesi delle cause che possono essere all'origine delle discriminazioni nei confronti dei rom e del perché essi non possono essere tutelati come minoranza nazionale: cosa li distingue, a livello giuridico, dalle altre minoranze presenti negli stati nazionali? Ho analizzato, inoltre, i diritti rivendicati dai rom, in questo caso i rom rumeni che ho intervistato, e come, invece, sono percepite loro rivendicazioni dai gagé. Sulla carta, i rom, essendo cittadini europei, sono tutelati al pari di tutti gli altri cittadini, di fatto, però, non lo sono.

Ovvero, analizzando la condizione/rivendicazione/persecuzione dei rom mediante un approccio giuridico,5 tento di analizzare il modello culturale che c'è alla base della

persecuzione degli stessi. Se il diritto è un prodotto culturale, non si può prescindere dal considerare il diritto espressioni di un preciso modello culturale.Stando a questo schema, le leggi sono tecniche messe in atto dalla comunità per tentare di rispondere alla vulnerabilità chiamata influenza, derivata dalle proprietà di apertura e rinnovamento della cultura. Le leggi, dunque, sono un tentativo di delimitazione di tale vulnerabilità. Ossia, il nesso tra diritto e cultura sta nel fatto che le leggi sono i

5 Date le caratteristiche della cultura umana definite dall'Antropologia, e se accettiamo tali caratteristiche, ossia che l'essere umano è un <<organismo bioculturale>> (Schultz, Lavenda 2010:17), dobbiamo anche tenere conto che tutte le sue azioni e pensieri costituiscono <<rappresentazioni simboliche complesse>> (ibidem): esprimono, cioè, la sua cultura.

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simboli mediante i quali una cultura esprime l'etica, la morale e le paure vigenti in quella determinata cultura. Esse esprimono il modo in cui una comunità tenta di tramandare la propria morale, la propria visione del mondo e il modo in cui tenta di tenere sotto controllo ciò che percepisce come proprie vulnerabilità. Le leggi sono simboli, espressioni di uno specifico dominio della cultura che ci indicano le risposte che ogni comunità umana elabora per marginare le caratteristiche storiche e modificabili della cultura nel tempo e nello spazio. Il diritto è, dunque, una <<pratica culturale che [organizza] la vita sociale>>6, secondo l'antropologia. Anche secondo le

scienze sociologiche7 le “istituzioni”, quale è il diritto, sono <<strutture e attività

cognitive, normative e regolative che danno stabilità e significato al comportamento. Procedure organizzate e stabili, regole del gioco>>8. Secondo le teorie

dell'istituzionalismo9 o meglio del neo-istituzionalismo, il diritto è il vivere sociale:

un'istituzione che regola, guida e limita il comportamento e la vita sociale delle persone10. <<L'onnipresenza>> delle regole, o norme, quelle che gli autori chiamano

“routine”, sono <<delle risposte all'incertezza >>11.

L'approccio teorico del neo.istituzionalismo propone di analizzare il ruolo delle istituzioni, le norme che regolano la vita delle persone. Ossia attraverso le istituzioni, che sono regole comportamentali, si può comprendere l'obiettivo dell'istituzione stessa mediante il comportamento degli individui che hanno prodotto tali istituti. Dunque, lo studio delle istituzioni e del comportamento che esse suscitano nelle persone è importante perché tali istituti sono, sì, realizzati dagli individui, ma gli

6 Ibidem: 17

7 March, Olsen 1989

8 Francesca Campomori, corso di Politiche pubbliche e sociali, Università Ca' Foscari Venezia, anno accademico 2014-2015

9 Maurice Hauriou, 1925 10 March e Olsen 1989

11 Teorema di Heiner, 1983 in Francesca Campomori, corso di Politiche pubbliche e sociali, Università Ca' Foscari Venezia, anno accademico 2014-2015

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individui agiscono sotto l'influenza delle istituzioni create da loro. C'è una reciproca e profonda influenza tra gli individui e le istituzioni 12.

Stando alle teorie del neo-istituzionalismo, al concetto culturale dell'antropologia, alle teorie del riconoscimento di Honneth, alla teoria del “biopotere” di Foucault e agli approcci teorici di Sayad e Basso, possiamo intendere il diritto, in quanto istituzione umana che detta una certa linea comportamentale, come una “metafora generativa” 13 del modo di relazionarsi tra gli individui. E dato che tali “metafore

generative” sono istituzioni istituite dall'istituzione Stato, ecco che, come dice Sayad, esse ci forniscono l'immagine che lo Stato ha di sé e del perché ha un potere così forte di naturalizzare negli individui anche pratiche, paradossalmente, antisociali e distruttive.

Per capire il potere persuasivo delle istituzioni e del perché spesso si ostinano a conservare pratiche poco sociali, bisogna fare ricorso alla teoria dell'azione che, è composta da quella che è chiamata teoria dichiarata e quella detta teoria in uso. Ovvero, uno psicologo dell'organizzazione, C. Argyris ed un sociologo dell'organizzazione, D.A. Schon (1998), studiano il modo di apprendimento delle organizzazioni e arrivano a sostenere che l'organizzazione è una teoria nella misura in cui ciò che gli individui devono apprendere viene incorporato in quella che viene chiamata teoria dell'azione . Ogni organizzazione ha in sé una teoria che guida l'agire degli individui: ha incorporate in sé tutto ciò che ritiene importante far apprendere agli individui, e il loro apprendimento si esprime dalle loro azioni. Quindi, se guardo come agisce un'organizzazione posso capire la sua teoria dell'azione. Ovvero, posso capire le sue teorie esplicite ed implicite. Questo è uno strumento importante nello studio delle scienze sociali perché ci consente di definire l'identità dell'organizzazione, capire i suoi scopi dichiarati e quelli reali e verificare se c'è uno scarto tra teoria dichiarata e teoria implicita. Questo è importantissimo, per esempio,

12 Ibidem 13Schon, 1978

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nel riconoscere un fenomeno persecutorio dello Stato verso un gruppo: in mancanza di un'esplicita dichiarazione degli intenti che sono alla base di una determinata azione, se non sapiamo che c'è un livello da capire, non abbiamo gli strumenti per portarla alla luce il vero intento di tale azione14. In questo caso ha un ruolo importante

l'alterità. L'osservatore esterno può svolgere un ruolo di verifica del gap che c'è tra le due teorie e, se l'organizzazione è d'accordo, mettere in atto una riflessione critica che ne consente il rinnovamento mediante l'apprendimento. Ma date le caratteristiche della teoria dell'azione, ovvero di tenere piuttosto occultata all'attore la teoria in uso, è molto importante che ad osservarla siano degli esterni al fine di identificarne le perverse teorie in uso e mettere in atto una possibile consapevolezza delle proprie teorie implicite. Ma ciò è possibile solo se l'organizzazione consente al diverso da se stessa di osservarla e criticare le sue azioni. Gli consente, cioè, una libertà di osservazione, azione ed espressione. Quindi, il nesso tra democrazia – cittadinanza – diversità sta nella relazione: se manca la relazione con il diverso e il lasciargli liberà di osservazione, azione ed espressione al fine di imparare qualcosa da lui nella misura in cui corregge gli errori dell'organizzazione/istituzione, tale organizzazione non si può dire democratica e aperta al apprendimento e al rinnovamento e, quindi, è destinata a morire.

2.2. L'approccio filosofico

Il mio approccio filosofico consiste nel fatto che per poter comprendere le basi teoriche su sui si basano le relazioni tra umani, bisogna prima tentare di capire che concetto di uomo vige nella comunità che si va a studiare. Perché, come ci mostrano

14 Ne sono un esempio le presunte politiche di integrazione/ acculturamento degli zingari che mascherano la volontà di eliminare la loro originaria cultura a la loro visione del mondo. Cultura che abbiamo visto è incorporata negli individui ed essenziale per la loro sopravvivenza; ma le azioni di deculturazione mediante l'acculturamento forzato non possono essere dichiarati come “genocidio”, secondo la normativa internazionale vigente (Convenzione ONU per la prevenzione e la repressione del delitto del genocidio del 1948, art. 2), perché, ufficialmente, tali azioni non hanno “intenzione” di distruggere tale gruppo sociale, ma di migliorarne il potenziale umano. Non dichiarando la loro azione come intenzionalmente genocida del gruppo da acculturale e non mettendo in atto una sua diretta distruzione fisica, lo Stati che mette in atto politiche che costringono gli zingari o ad acculturarsi, secondo le categorie dello stesso, o a morire, dato che la loro cultura comprende strategie, vitali per loro ma non desiderate dallo Stato e, quindi, che non possono essere vissute, non può essere accusato di “genocidio”.

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le discriminazioni esistenti tra esseri umani, non tutte le comunità umane hanno la stessa idea di cosa si intende per uomo. O meglio, non a tutti gli esseri umani è riconosciuta tale dignità, come mostra il caso degli zingari. In merito a tale concetto farò riferimento alle riflessioni di A. Honneth. Nel suo testo, Riconoscimento e

disprezzo, l'autore inizia la sua riflessione partendo dal libro Il diritto naturale e la dignità umana, per portarci al “nocciolo” dell'“intuizione morale” presente nella

“tradizione giusnaturalistica” evidenziata da Ernst Bloch. Ovvero, la tesi di Bloch sarebbe quella che il giusnaturalismo mira a tutelare la dignità dell'uomo, che sarebbe un processo storico, quindi basato sulle relazioni umane contestualizzate sia dal punto di vista spaziale che temporale, da non confondere con il concetto di buona vita, che invece costituirebbe un'utopia. Honneth cita un passo che esprime la posizione di Bloch:

Le utopie sociali mirano soprattuto alla felicità, o almeno alla soppressione del bisogno e delle condizioni che lo conservano e lo producono. Le teorie giusnaturalistiche (…) mirano principalmente alla dignità, ai diritti dell'uomo, alle garanzie giuridiche della sicurezza o libertà, come categoria dell'orgoglio. Perciò l'utopia sociale si orienta soprattutto all'eliminazione della miseria, e il diritto naturale soprattutto all'eliminazione dell'umiliazione15.

Le teorie giusnaturaliste, da un lato mirano a far raggiungere all'uomo una buona vita liberandolo dal bisogno, possiamo dire che qui siamo in una prospettiva di riscatto sociale. Ma ciò che argomenta Honneth, è la posizione di Bloch in merito al diritto naturale come strumento per eliminare l'“umiliazione” dell'uomo non offendendone la dignità umana. Ossia, la dignità dell'uomo (e quindi la sua integrità socio- psico-fisica) è garantita solo se viene riconosciuta mediante un rapporto intersoggettivo. Possiamo, dire, trasferendo tale concetto filosofico in ambito giuridico, che tale dignità fa dell'essere umano un soggetto del diritto in quanto il suo essere un essere

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umano gli conferisce la facoltà di rivendicare la propria integrità. E qui siamo in una

prospettiva soggettiva- interna- in cui l'essere umano per non sentirsi “umiliato” deve sentirsi “adeguato” e riconosciuto dalle persone con cui entra in contatto in quanto, possiamo dire, al soggetto viene riconosciuta validità del suo pensiero e del suo agire. Pensiero e azione, quindi, che meritano continuità in virtù del fatto che si rivelano valide dal punto di vista umano, in quanto gli forniscono gli strumenti per affrontare la realtà che lo circonda.

Quindi, la propensione all'eliminazione dei bisogni sarebbe una <<tesi di sociologia della morale>>16 che considera le norme sociali un fatto storico, uno strumento

storico, che mira a raggiungere la salvaguardia della <<“dignità umana”>>17

mediante una<<tesi filosofico-morale>>18 che per sottrazione dell' <<“umiliazione” e

dell'“offesa” personale>>19 ci indicano cosa si intende per “dignità umana”. Ossia,

stando al concetto di dignità umana vigente in una comunità, la si può definire solo in base al grado di offesa e umiliazione a cui l'individui viene sottoposto. Solo vedendo quali diritti della persona sono lesi si può dire se la dignità umana della persona sia rispettata, mediante il riconoscere validità alle sue rivendicazioni, o è “offesa” e “umiliata”, mediante il non riconoscergli la facoltà di godere del diritto a rivendicare la validità del suo pensiero e del suo agire. Il riconoscimento di validità di rivendicazioni alle persone ne garantisce la integrità psico-fisica, ma il mancato riconoscimento di validità della sua dignità umana ne provoca la disintegrazione, prima, sociale e, poi, psico-fisica.

Inoltre, secondo Bloch, lo “spregio” e l' “offesa” sono categorie storiche che costituiscono la <<forza propulsiva pratica, all'interno del processo storico, della salvaguardia della dignità umana come obiettivo normativo>>20. Ovvero, il conflitto

che nasce dall'offesa e dallo spregio, a fronte di una richiesta di riconoscimento

16 A. Honneth, Riconoscimento e disprezzo. Sui fondamenti di un'etica post-tradizionale, Catanzaro, 1993, pag. 16 da 17 Ibidem

18 Ibidem 19 Ibidem 20 Ibidem

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dell'essere adeguati, è all'origine del progressivo miglioramento della condizione umana. In altri termini, non esiste l'offesa e l'umiliazione in sé, ma è un fatto soggettivo che attiva dei processi storici di cambiamento quando l'umiliato e l'offeso inizia a sentirsi tale in base al concetto di dignità umana vigente nella comunità in cui vive. La percezione di alcuni atteggiamenti e/o alcune situazioni come umilianti e offensive costituiscono i presupposti e gli elementi che danno all'individuo la facoltà di rivendicare la cessazione di tali atteggiamenti offensivi. Tale cambio di mentalità o di percezione di sé e della propria situazione di sofferenza e svantaggio, e quindi della rivendicazione del diritto a non essere offeso e umiliato, ha il suo riconoscimento nella norma che sancisce il riconoscimento della validità della rivendicazione dell'individuo.

Secondo Honneth, mettendo in atto un'analisi ermeneutica del testo di Bloch, emergerebbe ciò che <<gli è rimasto nascosto e che filosoficamente costituisce il punto centrale del suo libro>>21 :

se il concetto di dignità umana, della sua completa integrità, si lascia evincere solo approssimativamente dal ricorso alla determinazione dei modi dell'offesa e del dispregio personale, ciò vuol dire, rovesciando il discorso, che l'integrità delle persone umane dipende in maniera costitutiva dall'esperienza del riconoscimento intersoggettivo8.

Secondo Honneth, <<[n]ella sua opera, Bloch si serve inconsapevolmente di una

teoria normativa del riconoscimento reciproco22; poiché l'integrità dei soggetti umani

può essere violata da offesa e dispregio,[ in quanto l'integrità umana è] vista da Bloch come dipendente dalla approvazione e dal rispetto da parte dell'altra persona>>23.

Honneth chiarisce il rapporto che c'è tra “spregio” e “integrità umana” abbozzato da Bloch e pone una distinzione tra <<i vari modi con cui una persona può essere

21 Ibidem. 22 Corsivo mio 23 Ibidem, pag. 17

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“spregiata”>>24. Elabora “ tre forme elementari di spregio” dai quali risulta <<una

comprensione dell'insieme delle esperienze di riconoscimento cui la persona è rinviata se deve essere tutelata nella sua integrità>>25.

In questo testo Honneth mette in analisi il concetto di“umiliazione” formulato da Bloch e lo relaziona con il concetto di riconoscimento: passando per le <<tre forme elementari del dispregio>>26. Honneth riempie di contenuto il concetto di

“umiliazione” e di “dignità umana” e arriva a riformulare la filosofia morale di Bloch giunge ad un concetto di buona vita in cui i tre modelli di riconoscimento, speculari ai tre modelli di spregio, sono, secondo Honneth, elementi costitutivi della stessa: la

buona vita è tale solo se la persona viene riconosciuta nella sua integrità.

Ossia, Honneth sostanzia il concetto di “dignità umana” elaborando la sua tesi che sostiene che il riconoscimento degli individui sia necessario all'integrità dell'essere umano27. Quindi, possiamo dire che il non riconoscimento dell'altro è un'implicita

condanna della sua umanità e del suo modo di vedere il mondo, un'implicita condanna alla distruzione mediante l'offesa e l'umiliazione.

Cioè, il concetto di “dignità umana” è un un concetto filosofico che esprime “amore” per l'essere umano in quanto tale. Tale amore, però, non è fine a se stesso, ma mira a preservare l”'integrità” psico-fisica delle persone riconoscendo loro il diritto a non essere umiliate. Ha lo scopo di garantire alle persone apprezzamento di se stesse, fiducia in se stessi e negli altri. Ovvero, sulla base del concetto di “dignità umana” le moderne teorie filosofiche hanno elaborato il concetto di “teoria dell'intersogettività”28 per esprimere l'imprescindibilità delle relazioni tra individui al

fine di garantire loro quel benessere psico-fisico espresso dal concetto di “dignità umana”. Per raggiungere tale scopo, le società devono riconoscere agli individui, e ai gruppi sociali minoritari, un'attiva partecipazione alla comunità in cui vivono al fine

24 Ibidem. 25 Ibidem 26 Ibidem 27 Ibidem, p. 24 28 Ibidem, p.18

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di dare loro la facoltà di pretendere di non essere umiliati e offesi. Su questa base teorica, Honneth elabora tre modelli di riconoscimento che ha tre rispettivi modelli di “umiliazione”/“offesa” potenzialmente distruttivi della psiche e del corpo dell'individuo e dei gruppi umani.

I rapporti tra presone possono essere organizzati concettualmente in modo binario di “dispregio” a fronte del “riconoscimento”. Tale rapporto binario tra i due concetti ha a che vedere con il concetto di “integrità della persona”, in quanto essa dipende << dall'approvazione o riconoscimento di altri soggetti>>29. Ovvero, l'“offesa” e l'

“umiliazione”, derivata alla persona dal non essere riconosciuta dagli altri come persona degna di non essere offesa, lede profondamente la sua integrità psicologica e anche fisica. Tale umiliazione colpisce la persona nella stima che ha di sé30. Possiamo

dire che avviene un processo di spogliazione di identità dell'individuo; un processo di deprivazione e di depauperamento della dignità umana, dell'identità delle persone, del capitale umano che costituisce l'individuo in sé per se stesso e per gli altri mediante il negargli la facoltà di rivendicare diritti. Il riconoscimento della persona è sinonimo di integrità della stessa, mentre lo “pregio” (mißachtung)31 è una <<mutilazione

dell'essere umano>>, un' “offesa”, un'“umiliazione” in quanto essa può causare il crollo identitario di una persona. È, in sostanza, il mancato “rispetto” da parte degli altri: l'individuo, perdendo il rispetto degli altri, perde il rispetto di se stesso. Ma lo “spregio” delle persone si esprime in base al grado di violazione dell'integrità della persona; per esempio, l'umiliazione più grave per l'individuo è quella legata al rifiuto di riconoscergli i diritti fondamentali, ma esiste anche la <<raffinata umiliazione che consiste nell'allusione pubblica all'insuccesso di una persona>>32 o della sua

incapacità di lavorare, come avviene nel caso degli zingari. Il grado di “spregio” si misura in base all'analisi di quali tratti caratteristici della persona siano lesi o

29 Ibidem 30 Ibidem

31 Meda cit in Honneth1993, p.19 32 Honneth1993, p.19

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riconosciute. In altre parole, il grado di disconoscimento sociale si misura in base al potenziale che ha di sconvolgere il rapporto della persona con se stessa e che può arrivare al punto di <<privarla del riconoscimento di determinate pretese di identità>>33. La disintegrazione dell'identità umana, ovvero il non riconoscere alla

sua dignità umana il diritto di rivendicare la non umiliazioni che ne scalfiscono il benessere psico-fisico, si esprime mediante la negazione agli individui di pretendere di avere diritto a non essere umiliati.

Vediamo allora quali sono le tre forme di “spregio” secondo Honneth e perché sono cosi gravi.

a) Maltrattamento fisico:

consiste nel maltrattamento caratterizzato da <<violenza che toglie alla persona ogni possibilità di disporre liberamente del proprio corpo>>34. È una lesione della propria

“integrità fisica” nella misura in cui si perde l'autonomia del proprio corpo. Questo avviene, per esempio, quando la persona è torturata o subisce una violenza fisica. La tortura è un trattamento inumano e degradante perché è un dolore fisico che provoca una sofferenza psicologica. Avviene, cioè, una “vulnerazione fisica” mediante il dolore associato alla percezione di essere impotenti, totalmente in balia della volontà altrui senza potersi difendere, come avviene in caso di stupro o di tortura, appunto. Il “maltrattamento fisico” lede la fiducia che ha la persona nelle proprie capacità di disporre del proprio corpo. Questo, associato alla “vergogna sociale”, fa sì che la persona perda la fiducia in sé e nell'ambiente che la circonda 35. Questo tipo di

umiliazione e offesa lo possiamo mutuare anche per gli zingari che abbiamo intervistato. Infatti, possiamo dire che l'esclusione e la discriminazione sociale nei confronti degli zingari è caratterizzata da una segregazione sociale che impedisce loro di pretendere il diritto a non subirla e causa in loro la percezione di impotenza di

33 Ibidem p.20 34 Ibidem, p. 20 35 Ibidem p. 21

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disporre del proprio corpo a causa dei continui sgomberi forzati subiti per volontà della Pubblica Amministrazione. Sgomberi, che essi non possono contestare, e che si legano:

• ad una sofferenza fisica derivata dalla mancata opportunità di migliorare le proprie condizioni di vita per volontà dei gagé (i non zingari) che non li accettano e li costringono a condizioni di vita materiali pesantissime;

• alla violenza fisica, verso cui si sentono impotenti, messa in atto nei loro confronti dalle forze dell'ordine che eseguono gli sgomberi o in altre situazioni. Questo tipo di offesa è grave perché la sofferenza fisica fa incorporare nelle persone un senso di impotenza tale da favorire la percezione psicologica di non poter disporre di sé, e ciò porta alla totale demotivazione di rivendicare il diritto alla propria identità. Si lede l'autostima della persona e della fiducia che ha in sé. Le si fa incorporare l'idea che non può pretendere nessun rispetto di se stesso.

b) Privazione di diritti/emarginazione sociale:

Riconoscere alla persona il godimento dei diritti vigenti nella società significa riconoscerla come membro “a pieno titolo” della comunità e, come tale, riconoscerle il diritto di partecipare alle istituzioni della stessa con pari diritti agli altri membri della stessa36. L'offesa, in questo caso, consiste nella privazione (o limitazione)

dell'autonomia personale, che si combina al <<sentimento di non possedere a pieno titolo lo status di partner della comunità>>37. La gravita di tale offesa consiste nel

fatto che <<[per] il singolo, essere defraudato38 di pretese di diritti socialmente

vigenti significa venir leso nell'aspettativa di essere riconosciuto intersogettivamente come un soggetto capace di giudizio morale>>39. Avviene, cioè, una 36 Ibidem, p. 22

37 Ibidem. 38 Corsivo mio 39 Honneth 1993, p. 22

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“demoralizzazione” dell'individuo. Una perdita di rispetto di sé a causa di una sua totale alienizzazione, alterizzazione ed estraneizzazione rispetto alla società. La persona viene privata del riconoscimento di godere dei diritti che vigono nella società a causa di un giudizio morale negativo sulla sua identità; la persona viene catapultata in uno stato di depressione di sé. Avviene, cioè, che l'insicurezza istituzionale provochi nella persona un senso di incapacità etica che si sostanzia in una interiorizzazione dell'incapacità di orientarsi nel mondo. Tale demoralizzazione di sé deriva dalla perdita di stima di sé, dalla perdita della propria identità e dalla perdita della certezza di <<possedere quelle capacità morali di intendere e volere, che, a sua volta, è faticosamente acquisita soltanto all'interno di un processo di interazione sociale>>40.

c) “Svalutazione sociale”:

La svalutazione sociale per Honneth è il “negare valore sociale a singoli e gruppi”. È un atteggiamento sociale verso gli individui o i gruppi che l'autore definisce come lo <<svilimento sociale di modi di vita individuali o collettivi>>41 con cui si raggiunge

<<propriamente […] quella forma di condotta che l'attuale linguaggio ordinario chiama comunemente “offesa” o “disprezzo”>>42. Quindi si può parlare di

“disprezzo” sociale verso una forma di vita nella misura in cui a tale forma di vita viene impedito l'“onore” e la “dignità” di arrivare ad uno “status” sociale tale da consentire alle persone e ai gruppi sociali disprezzati di raggiungere una autorealizzazione secondo la propria volontà, secondo la propria capacità, secondo la propria identità e secondo il proprio punto di vista. Si nega loro il diritto di pretendere un riconoscimento di validità morale al loro modo di vivere, alla loro cultura:

40 Inidem, 22 41 Ibidem 22 42 Ibidem 22-23

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L'”onore” la “dignità”, [cioè] lo status di una persona, è da intendersi come il grado di considerazione sociale, che l'orizzonte culturale di una società, attiene al modo di autorealizzazione che una persona persegue. Ma la gerarchia sociale dei valori, se è tale da svilire singole forme di vita e modi di pensare a forme “inferiori”o “difettose”, toglie ai soggetti in questione ogni possibilità di ascrivere un valore sociale alle proprie capacità43.

L'inferiorizzazione del modo di vivere delle persone porta alla paralisi dei loro progetti di vita, in quanto essa è basata su un pregiudizio sociale che, se diventa ostinato, si trasforma in condizionamento. Il “disprezzo sociale” è grave perché consiste in un giudizio morale sulla vita disprezzata che è tale in quanto considerata non degna d'esistere. Ciò condiziona la capacità d'agire socialmente delle persone che ne sono colpite: viene condizionata la loro capacità di rinnovamento, di progresso e trasmissione del modo di vivere. Il disprezzo verso un modo di vivere blocca il progetto di vita del disprezzato nel senso che gli si impedisce di realizzare il suo ideale di vita e di trasmetterlo ai suoi discendenti. In altri termini, il “disprezzo sociale” verso una cultura, se è così ostinato da escludere socialmente i soggetti portatori di tale cultura, ha lo scopo di impedire la trasmissione di tale cultura. Si impedisce ai soggetti di far riferimento al proprio ideale di vita come a <<qualcosa [che è] dotato di significato positivo all'interno della comunità>>44. È, cioè, un

giudizio morale collettivo che toglie valore sociale alle capacità, morali e materiali, del disprezzato. Questa <<svalutazione sociale […] si collega, per il singolo, ad una perdita di rispetto di sé, cioè, a una perdita delle chance di potersi comprendere come un essere apprezzato nelle sue qualità e capacità caratteristiche [e gli si nega] un'approvazione sociale di una forma di autorealizzazione>>45. Possiamo dire che il 43 Ibidem 23

44 Ibidem 23 45 Ibidem 23

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“disprezzo sociale” verso gli individui o verso i gruppi è caratterizzato da una svalutazione così forte del loro modo di vivere (dalla loro morale alle loro capacità materiali) che essi sono percepiti socialmente come individui collocati in un perenne stato di infanzia, che fa di loro soggetti incapaci di intendere e volere. Soggetti che insistono nel loro modo di vivere senza rendersi condo che il loro modo di vivere è sbagliato. La gente li percepisce come individui che non hanno né la volontà né la capacità di migliorare il loro “status” sociale e li isola socialmente. Mediante questo processo di deprezzamento sociale dei soggetti si compie una loro totale alienazione rispetto alla società, ed il “disprezzo” nei loro confronti si esprime con la mancanza di solidarietà sociale nei loro confronti in quanto percepiti totalmente alieni ad essa. Le riflessioni di Honneth analizzano il rapporto che c'è tra la dimensione individuale e quella collettiva dell'individuo, mostrando che l'individuo è tale, ha coscienza di sé e percepisce una propria identità e integrità o meno, solo mediante una relazione sociale. Ci mostra, cioè, quanto sia importante per gli individui il loro contesto culturale e come, mediante una disprezzo sociale si possa compiere un “genocidio” senza mettere in atto un'esplicita e materiale distruzione dei corpi “appartenenti” al gruppo disprezzato.

La teoria di Honneth ci rimanda ad un approccio antropologico nell'analisi dei rapporti intersoggettivi. Infatti, non si può prescindere dalla dimensione antropologica dello studio dei rapporti umani per il semplice fatto che a non tenerne conto si rischia di cadere in un'eccessiva astrazione che ridurrebbe la complessità dei rapporti umani caratterizzati, appunto come lo esplicita Honneth, da relazioni multidimensionali.

Ciò significa che l'essere umano, è un essere sociale: ha bisogno della dimensione/relazionale-collettiva per realizzare se stesso. Il che significa che ogni individuo – o gruppi di individui – possono rappresentare un microcosmo che ci racconta del macrocosmo che lo circonda. Per questo motivo bisogna tenere in considerazione anche la dimensione culturale, sociologica e giuridica dei rapporti tra

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persone. La dimensione culturale- nel senso antropologico – va tenuta in considerazione perché ci racconta la concezione di uomo – e quindi di società – che ha un determinato gruppo e in che considerazione andrebbe tenuto il concetto di “cultura” al fine di analizzare, comprendere e dialogare con il diverso.

L'approccio sociologico, invece, ci consente di tentare di capire la cultura relazionale, giuridica e politica elaborata da una società. La teoria del riconoscimento si lega all'Antropologia per via della teoria interattiva della natura umana: per evitare che gli uomini diventino dei “rottami mentali”46 e <<Affinché gli individui umani sviluppino

quella che riconosciamo come la natura umana è necessario che essi vivano un'esistenza sociale e condividano una cultura>>47, come per esempio la cultura del

rispetto o non rispetto del diverso. Honneth e l'Antropologia concordano sul fatto che la natura umana è tale grazie all'interazione sociale e culturale caratterizzata dal riconoscimento.

In sostanza, le conseguenze per le persone delle tre forme di “spregio” viste <<possono essere descritte come metafore che rimandano a stati di decadenza del corpo umano>>48. Ovvero, legando le teorie psicologiche relative alle relazioni

sociali al concetto di “dignità umana” e di “integrità degli individui” Honneth lega le tre forme di “spregio”/ “umiliazione” a tre forme di patologie. Alla prima forma di “sfregio” dell'individuo, il “maltrattamento fisico”, corrisponderebbe la “morte psichica” dell'individuo a causa del maltrattamento fisico che mediante il dolore fa incorporare all'individuo la sua impotenza di disporre del proprio corpo; alla “privazione di diritti/emarginazione sociale” corrisponderebbe una “morte sociale” dell'individui, o di gruppi, caratterizzata da uno stato di sottomissione sociale basata sulla privazione di diritti e sull'emarginazione sociale; alla terza forma di “sfregio”, la“svalutazione sociale” o “disprezzo sociale” corrisponderebbe il concetto di

46 Geertz 1973 in Schultz, Lavenda 2010, p 22 47 Ibidem

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“malattia” che sarebbe lo “svilimento culturale” di una determinata forma di vita. In particolare, quest'ultima forma di spregio che viene definita “disprezzo” sociale, è molto grave in virtù del fatto che tale malattia sociale si esprime con una sottomissione così grave dei disprezzati da non consentire di pretendere di non essere sottomessi e che porta ad una loro repressione. Una situazione che possiamo intendere come sinonimo di etnicidio o genocidio culturale nella misura in cui le persone, di generazione in generazione, vengono sottoposte ad un disprezzo sociale così forte che sono costrette a vivere in condizioni di vita tali che viene scalfita la loro integrità fisica e psicologica. Ciò avviene con il fine di impedire una trasmissione generazionale di tale modo di vita, causando la morte sociale degli individui. Ovvero, il “disprezzo” nei confronti di un gruppo ne decreta, potenzialmente, la morte. Si può arrivare ad “uccidere” un gruppo mettendo in atto delle strategie che portano ad un morte psicologica e ad una perdita di identità mediante un atteggiamento di disprezzo nei confronti degli individui che si identificano nel modo di vita disprezzato; ma gli si può provocare anche una morte impedendone la riproduzione biologica, per esempio portandogli via i figli, al fine di impedire loro di avere, fisicamente, dei corpi culturali.

Queste tre metafore di patologia sociale rimandano al <<dolore fisico o alla morte ed esprimono […] il fatto che le diverse forme di spregio hanno, per l'integrità psichica delle persone, lo stesso ruolo negativo delle malattie organiche rispetto alla

riproduzione del corpo49. Gli esseri umani sono minacciati nella loro identità

dall'esperienza dell'umiliazione sociale, così come lo sono nella vita fisica dalla malattia>>50. Quindi, la “prevenzione di [queste] malattie” sociali, ovvero garantire

alle persone una buona “salute psichica e la loro integrità di esseri umani, si ottiene con le garanzie sociali basate sui “rapporti di riconoscimento che possano tutelare i soggetti dallo spregio”51.

49 Corsivo mio

50 Ibidem 24; questa teoria ci rimanda, ancora una volta, alle teorie del “biopotere”/ tanatopotere” di Foucault, op. cit. 51 Ibidem

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Ora, per restare al caso di studio oggetto di questa tesi, gli zingari, come emergerà dalle interviste, subiscono tutte e tre queste forme di spregio, quindi possiamo sostenere che, se esse sono legate al riconoscimento agli individui della dignità umana da cui discende il loro diritto all'integrità psico-ficisa, agli zingari non viene riconosciuta tale dignità. Per tale ragione, ciò che si potrebbe definire come comportamento patologico sociale, nei loro confronti è considerato sano e virtuoso atteggiamento civico. Nel caso degli zingari, avviene un totale rovesciamento di tali teorie: la causa della malattia, l'atteggiamento disprezzante nei loro confronti che ha come effetto la malattia, viene presentato come l'effetto del legittimo disprezzo che vige nei confronti dei rom a causa della loro diversità, del loro modo di vivere e di vedere il mondo che, viene presentato come una malattia sociale da debellare52.

2.3. L'approccio sociologico

Questo lavoro applica la proposta di un “approccio politico” in materia di diversità culturale applicate da Basso e da Sayad nello studio del rapporto tra società maggioritaria e il diverso culturalmente.

L'approccio politico proposto dai due studiosi è importante per due dimensioni relazionali fondamentale per l'individuo: Basso propone una riflessione sulla relazione intersoggettiva tra lo Stato e gli individui considerati altro rispetto agli individui riconosciuti come legittimi componenti di uno Stato. Della riflessione del Sayad mi interessa, invece, il rapporto intersoggettivo tra gli individui, cittadini e non cittadini, soggetti al dominio di uno Stato. Entrambe le riflessioni si collegano alla dimensione collettiva dei soggetti, ai loro rapporti intersoggettivi nella loro dimensione sociale intesa come relazione civile e politica, da un punto di vista formale e informale. La loro riflessione è importante perché analizzando i rapporti intersoggettivi messi in atto dagli individui, e dagli individui e le istituzioni, i due

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studiosi ci forniscono uno strumento di analisi per poter valutare come viene considerata l'alterità in una determinata società. Ci danno gli strumenti analitici per capire che margine di libertà di movimento abbiano le persone “non appartenenti alla società maggioritaria”,che si pensa etnicamente omogenea, nelle relazioni intersoggetive. Inoltre, ci riportano a riflessioni antiche e fondamentali per l'uomo: ovvero, che l'uomo è tale solo nella sua dimensione relazionale. Ora, se la generale caratteristica dell'essere umano è quella di relazionarsi con gli altri esseri umani, e se la dimensione umana è per natura “politica” in quanto l'uomo è un animale sociale, perché le istituzioni collettive e di socializzazione chiamate “Stati” fanno di tutto per limitare le relazioni intersoggettive? Ovvero, se accettiamo la teoria del riconoscimento tracciata da Honneth, basata su delle dimensioni che costituiscono elementi dell'integrità individuale, rovesciando il riconoscimento in umiliazione mediante le tre forme di spregio da lui delineate, lo Stato, e la sua propaganda contro l'alterità, che si riflette sulle relazioni sociali, che ruolo ha nella disintegrazione degli individui? Basso e Sayad ci forniscono gli strumenti per valutare il grado di disintegrazione degli individui considerati esogeni messa in essere dalle pratiche anti sociali dello Stato. L'approccio di Basso e Sayad, intrecciato con quello di Honneth, ci consentono di valutare le azioni e gli strumenti utilizzati dallo Stato per controllare il rapporto tra autoctoni ed esogeni, e il grado di disintegrazione individuale e collettiva che tali azioni e strumenti provocano nell'alterità. Le loro riflessioni ci dicono che in mancanza di una riflessione critica di cosa sia e cosa debba essere quell'istituzione relazionale chiamata “Stato”, le società umane si possono trasformare in istituzioni comunitarie distruttive dell'altro e autodistruttive nella misura in cui le comunità umane negano all'altro e a se stesse una caratteristica fondamentale della specie umana: usare la cultura, o meglio la capacità di cultura, come strumento di vita, o di vita buona, degna dell'essere umano. Limitare le relazioni umane ai soli simili preclude la capacità creativa delle persone necessaria non solo e tanto alla loro sopravvivenza, ma al loro capacità critica. Limita la loro

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capacità di mettere in discussione le proprie categorie e di verificarne la validità. Le persone sopravvivono grazie alla cultura e alla loro capacità di rinnovare la loro cultura al fine di trovare le soluzioni di vita migliori in quel contesto in quel momento. Quindi, da un lato, il vietare le relazioni con l'alterità, ha lo scopo di controllare le azioni, il pensiero e la capacità critica degli “autoctoni”, dall'atro, mira a impedire all'altro di dimostrare agli autoctoni, e a se stessi, che le loro la loro visione del mondo è valida e potenzialmente da prendere in considerazione come alternativa di vita. Ecco cosa intendo per approccio antropologico della cultura: considerare la cultura come un sistema vitale per l'essere umano, che varia nel tempo e nello spazio, e vedere come questo strumento, indispensabile per la vita degli esseri umani, venga limitato nel suo rinnovamento. Nel libro Razzismo di stato (2015), Pietro Basso capovolge la tesi secondo la quale il razzismo sarebbe un processo che dal basso, dalle masse popolari ed ignoranti, sale verso l'alto, verso le classi colte. Infatti, nella prefazione al testo dichiara subito la sua posizione affermando che:

In Italia, in Europa, in Occidente l'ascesa del razzismo è da anni evidente. La rappresentazione dominante vede salire questo processo dal basso verso l'alto, e catalizza gli sguardi sulla diffusione a livello popolare di sentimenti e comportamenti di ostilità e disprezzo verso le popolazioni immigrate. Alle istituzioni si imputa, al più, di non fare abbastanza per contrastare simili sentimenti, o di alimentare incautamente con singole decisioni o atti a logiche di “intolleranza”. La tesi centrale di questo libro è, invece, che il primo propellente del revival del razzismo in corso è il razzismo istituzionale, e i suoi primi protagonisti sono proprio gli stati, i governi, i parlamenti: con le loro legislazioni speciali e i loro discorsi pubblici contro gli immigrati, le loro prassi amministrative arbitrarie, la selezione razziale tra nazionalità “buone” e nazionalità pericolose, le ossessive operazioni di polizia e i campi di internamento53.

53 Pietro Basso, “Prefazione”, in Pietro Basso (a cura di), 2015, Razzismo di stato. Stati Uniti, Europa, Italia. Milano, FrancoAngeli, 2014. Pag. 9

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Con questa tesi, Basso scardina anche il principio filosofico fondato da Thomas Hobbes, dato per universale e ancora oggi vigente della natura umana come competitiva ed egoistica, espressa dalle frasi Bellum omnium conta omnes (la guerra di tutti conto tutti) e Homo homini lupus (ogni uomo è lupo per l'altro). Infatti, la tesi di Basso si avvicina di più alla posizione di un altro grande filosofo del passato, Alberico Gentili, che nella sua opera De iure belli (1588), tenta di teorizzare l'illiceità della guerra perché gli uomini sono, sostanzialmente, uguali nella misura in cui sono legati da un sentimento di affetto reciproco e amicizia. Data la natura non bellicosa dell'uomo, nello Stato di “natura” non ci sarebbe guerra. Secondo Gentili, l'uomo ha in sé degli istinti immutabili e ancestrali che spingerebbe gli esseri umani a unirsi. Quindi le guerre nascono quando gli uomini non seguono tale loro natura. Gentili, inoltre, formula il concetto di guerra giusta e guerra ingiusta. La guerra giusta è la guerra di difesa, che sarebbe un diritto innato dell'uomo; mentre la guerra ingiusta sarebbe la guerra di offesa e di religione54 Ciò che ci dicono Gentili e Basso è che la

“guerra”, le disuguaglianze e le discriminazioni sociali non sono tra le tendenze più immediate degli uomini, ma sono fatti derivanti dalle loro relazioni: sono fattori culturali, diremmo noi oggi. Ma la cosa interessante di Gentili è che delegittima la guerra intrapresa contro la religione, che è la tipica guerra mossa da uno Stato ad un altro Stato e agli individui. Gentili, cioè, legittima la libertà di espressione, di pensiero e di modalità di vita che in una parola possiamo sintetizzare come la legittimazione della diversità. Non è cosa da poco, dato che noi oggi discutiamo sulla legittimità della diversità e come essa venga combattuta addirittura istituzionalmente, come ci mostra il testo di Basso, di Sayad e Gentili. I tre autori ci invitano a riflettere sul rapporto tra istituzioni e individui amministrati da tali istituzioni. Invitano gli individui a riflettere sulle categorie propagandate dalle istituzioni come giuste e ad

agire, dal basso, contro quelle considerate ingiuste perché scardinano o distorcono 54 https://it.wikipedia.org/wiki/Giusnaturalismi

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l'identità individuale e di gruppo a scapito dell'identità statale. Nel suo testo, La

doppia assenza (1999), Sayad parla di <<oggettivazione del “pensiero di stato”, una

forma di pensiero che riflette, mediante le proprie strutture (mentali), le strutture dello Stato, che così prendono corpo>>55. Ossia, l' “oggettivazione del 'pensiero di

stato'” viene usato dall'autore per proporci una riflessione sul concetto di nazione- nazionale - nazionalismo messe in relazione con il fenomeno dell'immigrazione, per dirci che il pensare politico dell'essere umano membro di uno Stato nazionale, la sua “visione del mondo”, sono fortemente influenzate da quello che è “lo spirito dello stato”56. Le persone sottoposte, dalla nascita, all'autorità dello Stato agiscono secondo

il “pensiero di stato” che determina il loro modo di “pensiero dello stato”:

Le categorie sociali, economiche, culturali, etiche – non parleremo mai abbastanza del posto che la morale occupa nella percezione che si ha del fenomeno dell'immigrazione – e, […] politico, con cui pensiamo l'immigrazione e più in generale tutto il nostro mondo sociale e politico, sono certamente e oggettivamente ( ciò a nostra insaputa e, di conseguenza, indipendentemente dalla nostra volontà) delle categorie nazionali, perfino nazionaliste57.

Con queste parole Sayad ci fornisce un metodo di ricerca sociale che considera il fenomeno dell'immigrazione come un fatto sociale “totale”, che coinvolge tutte le categorie sopra citate sia nel paese di emigrazione che quello di immigrazione: è una proposta di lavoro che considera l'alterità sotto diversi aspetti, misurandone il grado e le caratteristiche di integrazione, ma è anche un modo di studiare le caratteristiche dello Stato attraverso il rapporto che esso ha con l'alterità:

55 Pag. 367; Parafrasando le parole di Sayad, possiamo citare un altro grande pensatore delle relazioni Stato-cittadini-stranieri, Foucault (1975) che ci invita a riflettere il ruolo che ha lo Stato nel far prendere corpo, nel far

incorporare, negli individui il suo pensiero distruttivo dell'altro. Ovvero, il suo “biopotere”. 56 Sayad,1999. pag. 368

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si può dire che pensare l'immigrazione significa pensare lo stato e che “lo stato pensa se stesso pensando all'immigrazione”. E può essere una delle ultime cose che si scoprono quando si riflette sul problema dell'immigrazione e si lavora sull'immigrazione, mentre bisognerebbe senz'altro incominciare da lì o, perlomeno, esserne consapevoli prima di cominciare. Ciò che così si scopre è la virtù segreta dell'immigrazione ed è forse la migliore introduzione alla sociologia dello stato. Per quale motivo? Perché l'immigrazione rappresenta il limite dello stato nazionale, quel limite che mostra ciò che è intrinsecamente, la sua verità fondamentale. Lo stato, per sua natura, discrimina e così si dota preventivamente di tutti i criteri appropriati, necessari per procedere alla discriminazione, senza la quale non esiste stato nazionale58.

Ciò che emerge dalla tesi di Sayad è che il pensiero discriminatorio dello “straniero” è così radicato nel pensiero dei cittadini, viene cioè naturalizzato, che qualsiasi trattamento discriminatorio (sociale, politico, civile, economico, giuridico o culturale) di colui che è considerato “non-nazionale” viene considerato “legittimo” dai nazionali grazie a quella che l'autore chiama la “funzione diacritica dello stato”. Se si vuole studiare il rapporto dello Stato nazionale con l'alterità, con la diversità rappresentata dalle altre culture, si devono studiare il rapporto che lo Stato nazionale ha con l'immigrazione, in quanto essa rappresenta la forma di alterità considerata dallo Stato nazionale come la più pericolosa perché intaccherebbe la sua <<purezza o perfezione mitica>>59. Lo Stato nazionale avrebbe naturalizzato nei suoi cittadini

l'idea che la completezza della nazione si realizza solo se l'ordine nazionale e caratterizzato da una <<omogeneità totale […] su tutti i piani: politica, sociale, economica, culturale[...]>>60 Dato che l'immigrazione è un “fatto sociale totale” – che 58 Ibidem, pag. 368/9

59 Ibidem pag. 369 60 Ibidem

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implica lo studio di diversi domini sociali - e visto che essa mette a nudo l'immagine che ha lo Stato di sé e dell'altro e dato che influenza anche il modo di pensare e di agire dei nazionali, Sayad propone di “denaturalizzare” il modo “naturale” in cui viene pensato lo Stato e di “ristoricizzare” lo Stato ricordando le motivazioni della sua nascita e del suo esistere. Così com'è adesso, lo Stato nazionale ha fallito il suo scopo e, dato che col tempo ha assunto le caratteristiche di una potente entità astratta che ha fine solo a se stessa stravolgendo la sua ragion d'essere, cioè di mantenere la pace sociale mediando le istanze delle diversità- e le naturali e vitali relazioni umane basate sullo scambio e reciproca influenza culturale.

Così come viene oggi naturalizzato, lo Stato nazionale non solo mette in forte dubbio la sua natura democratica esercitando quello che Basso chiama “razzismo di stato”, ma limita e riduce drammaticamente le capacità di sviluppo e rinnovamento culturale di coloro che considera i suoi cittadini. Le pratiche nazional-razziste e non democratiche messe in atto dagli Stati non solo appaiono come antisociali e autodistruttive, ma provocano anche un'allarmante incapacità culturale derivata, in primo luogo, dal mancato scambio culturale e, in secondo luogo, dal mettere in atto una forma di socializzazione (educazione di massa) che inibisce la capacità critica delle persone. Ovvero, le attuali forme di Stato in cui viviamo potrebbero essere accusate di genocidio universale– quelli che sono chiamati delicta iuris gentium- nella misura in cui impediscono lo scambio, il pieno sviluppo umano e culturale mediante la divisione dei popoli? In gioco c'è una delle capacità fondamentali dell'umanità per la sua sopravvivenza e sviluppo: la cultura e il suo rinnovamento e aggiornamento al fine di garantire la sopravvivenza alle persone. Ciò ci porta a fare una seria riflessione sul concetto di cultura in senso antropologico e cosa essa rappresenti per l'uomo, ed in particolare, sul rapporto tra diversi, e che spazio c'è per le relazioni interculturali negli Stati nazionali.

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2.4. L'approccio antropologico

Uso l'approccio antropologico, in questa sede, per applicare ai miei studi il concetto di cultura che vige in antropologia. La precisazione va fatta perché ho constatato che in molti ambiti sociali vige un concetto di cultura piuttosto riduttivo e degradante quando si parla di immigrati e soprattutto quando si parla di rom. Più di una volta mi è capitato di sentir dire dalla popolazione e da rappresentanti dello Stato frasi del tipo: <<i rom non hanno cultura... è questo il problema dei rom.... sono privi di cultura...>>. Anzi, spesso mi sono sentita dire <<sono infantili, devono sviluppare la loro cultura, hanno una mentalità infantile, il loro cervello è come quello di un bambino di dodici anni, sono come dei bambini da accompagnare per mano, non hanno la capacità di studiare... tu... tu... sei un'eccezione, e che gli zingari...ma sono diversi dai rom? Hanno la cultura di vivere in condizioni umane che nemmeno i bangladesh vivono più cosi...perché non cambiano?>>. Ho sentito dire da ragazze della mia età, che non sono mai entrate in contatto con un rom, cose come <<gli zingari...? io li farei annegare tutti nel canale...>>. La questione cultura non riguarda solo i rom, ma anche i gagé nella misura in cui odiare i rom è ormai un fatto culturale per i gagé. Ma se la cultura è la capacità creativa e relazionale degli esseri umani, bisogna esplicitare il fatto che la relazione gagé/rom è un fatto culturale per entrambe le parti: se la loro relazione di oggi è frutto del loro retroterra culturale, di una relazione forgiata nel tempo dalle relazioni tra individui, tale relazione forgerà -dato che le relazioni umane sono lo strumento di rinnovamento culturale – anche quella che sarà la loro cultura del futuro, che a sua volta influenzerà il loro comportamento. Ciò che intendo dire è che il concetto di cultura ci serve per capire che le condizioni dei rom non dipendono solo da loro e dalla loro non volontà di migliorare, ma l'atteggiamento dei gagé nei confronti dei rom influenza fortemente le condizioni di esclusione sociale e di povertà dei rom. Quindi, ciò che mi spinge a esplicitare il

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concetto di cultura a cui mi riferisco è il fatto che la cultura influenza ogni ambito dell'esistenza umana: filosofico, sociale, giuridico, politico, famigliare, relazionale ecc. Anche se generalmente vengono considerati separatamente gli ambiti sopra elencati, non si può prescindere dall'inserirli nella più ampia e onnicomprensiva sfera della cultura. Certo, tali ambiti si possono approfondire singolarmente, ma solo dopo che si è esplicitato che li si fa rientrare nel più vasto concetto di cultura.

La definizione di cosa sia la cultura, ossia, una riflessione e una definizione teorica esplicita di cosa sia la cultura è piuttosto recente e risale all'antropologo inglese E. B. Tylor. L'antropologo, nel testo Primitive culture, non solo diede una svolta al concetto di cultura ampliandolo, ma lo equipara al concetto di “civiltà”. Lo studioso, infatti afferma che la <<“cultura o civiltà” [è] “ quel tutto complesso che comprende conoscenza, credenza, arte, morale, leggi61, usanze e qualsiasi altra facoltà o abitudine

acquisita dall'uomo in quanto membro della società”>>62. La definizione di Tylor non

è casuale e si colloca nell'Inghilterra Vittoriana caratterizzata dall'espansione degli imperi coloniali europei. L'antropologia, infatti, nasce in questo periodo come necessità di rispondere all'antico problema di come comportarsi con la diversità. Questa scienza sociale nasce da un'esigenza morale di giustificare la sottomissione e l'annientamento del diverso che, però, in un certo senso, era simile al conquistatore-sterminatore. L'antropologia, dunque, aveva lo scopo di dimostrare scientificamente l'inferiorità dei popoli conquistati. <<In questo modo gli antropologi divennero gli esperti ufficiali di quelle società i cui membri pativano, come “primitivi”, una terrificante denigrazione razzista, e i cui modi di vita venivano compromessi dal contatto con la “ civiltà” coloniale occidentale>>63. L'antropologia, doveva

giustificare e legittimare l'annientamento dei “selvaggi” e di tutto il “mondo primitivo”. Ma, data una caratteristica fondamentale dell'uomo, il libero arbitrio 64 61 Corsivo mio

62 1871 cit, in Schultz, Lavenda 2010:30 63Schultz, Lavenda 2010:30

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ovvero la capacità critica dell'uomo di esaminare l'ambiente che lo circonda e scegliere di agire in base alle sue considerazioni e percezioni, alcuni antropologi si rifiutarono di seguire tale progetto criminale di annientare la diversità mediante la sua inferiorizzazione, svalorizzazione e demoralizzazione e decisero di <<denunciare tali pratiche e a dimostrare la falsità dello stereotipo di “primitivo”>>65. Tra questi

antropologi “ribelli” c'era, appunto Tylor che con la sua definizione mirava a << sfumare la differenza tra “ civiltà” e “cultura” e incoraggiava il punto di vista per il quale i “primitivi” possedevano facoltà e abitudini che meritavano rispetto>>66. I

“primitivi” dunque, avevano una “cultura”, erano razionali e avevano una morale, in una parola, <<non erano meno pienamente umani delle persone “civili>>67. Ma, a

quanto pare, l'incoraggiamento di Tylor non ha avuto tanto successo. Infatti, pur teorizzando, implicitamente, ciò che noi oggi chiamiamo relativismo culturale prevalse un distruttivo e genocida etnocentrismo68.

Da quanto detto sopra si capisce che “cultura” ed “essere umano” sono quasi sinonimi, nel senso che non esiste cultura senza un corpo biologico e non esiste corpo biologico umano senza una capacità astrattiva e creativa. Per “colpa” di questa interdipendenza tra organismo biologico e capacità simbolica, gli antropologi definiscono gli esseri umani “organismi bioculturali” per esprimere la vitale necessità degli uomini di apprendere il contesto in cui vivono ed elaborarlo in modo creativo per poter sopravvivere in esso incorporandolo. La cultura, quindi, è sinonimo di essere umano nella misura in cui le capacità di astrazione, trasmissione, memoria, reiterazione, innovazione, selezione, codificazione simbolica, sono incorporate negli esseri umani e si presentano all'esterno sotto forma di un <<insieme di comportamenti e di idee acquisite dagli uomini in quanto membri di una società>>69 65 Ibidem:30

66 Ibidem 67Ibidem 68 Ibidem:25 69Ibidem:14

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