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Vescovi e comuni: l'influenza della politica pontificia nella prima metà del secolo XIII a Ivrea e Vercelli

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Laura Baietto

Vescovi e comuni: l’influenza della politica pontificia nella prima metà del secolo XIII a Ivrea e Vercelli

[A stampa in “Bollettino storico-bibliografico subalpino”, C/2 (2002), pp. 459-546 © dell’autrice - Distribuito in formato digitale da “Reti Medievali”]

I. CONFLITTI E COLLABORAZIONE FRA EPISCOPATO E COMUNE A IVREA. - 1. La crisi dei rapporti fra

vescovo e comune durante l’episcopato di Giovanni. - 2. L’elezione del vescovo Pietro e l’ “esperimento” di Innocenzo III. - 3. L’episcopato di Oberto: il compimento del progetto pontificio. - 4. Il vescovo Obero e Gregorio IX: il conflitto fra episcopato e comune per gli statuti “iniqui” e l’usurpazione dei feudi vescovili (1227-1236). - II. I RAPPORTI FRA EPISCOPATO E COMUNE E LA PRESSIONE ESERCITATA DALLE FORZE POPOLARI A VERCELLI. - 1. L’azione del papato nel conflitto fra

comune e vescovo a Vercelli. - 2. L’esito della vicenda: Gregorio di Montelongo e l’alleanza fra il comune e il papato.

A Vercelli e a Ivrea i rapporti fra episcopato e comune, di per sé già naturalmente conflittuali in ragione della pretesa di entrambe le istituzioni a esercitare diritti e poteri di natura pubblica e patrimoniale sul territorio1, sono amplificati dal fatto che ancora nel Duecento i presuli non

soltanto risultano essere i formali titolari della giurisdizione su città e distretto in base ad antiche concessioni imperiali, ma pretendono di esercitare tali poteri investendo delle pubbliche funzioni i magistrati cittadini2. Questa particolare situazione conferisce ai conflitti fra episcopato e comune

nei due centri subalpini una dimensione strutturale che, nel secolo XIII, si innesta su altri motivi di scontro presenti in gran parte delle città comunali e connessi con la politica pontificia di difesa delle libertà della chiesa, con la lotta all’eresia e con la strategia delle alleanze nello scontro fra papato e impero. La tensione permanente che caratterizza i rapporti fra vescovi e città tende quindi ad accentuarsi a partire dai primi anni del Duecento, ovvero in concomitanza con le trasformazioni istituzionali legate alla profonda crisi degli assetti di governo consolidati all’interno dei comuni3.

Contemporaneamente sul fronte delle istituzioni ecclesiastiche, a partire dal pontificato di

1 La bibliografia sul ruolo dei vescovi nel periodo precomunale e di affermazione del comune è amplissima, ricordo qui

brevemente solo le opere che hanno segnato un punto di svolta nell’indagine di questi problemi: E. DUPRÉ THESEIDER,

Vescovi e città nell’Italia Precomunale, in Vescovi e diocesi in Italia nel Medioevo (secc. XI-XIII) (Atti del II convegno

di storia della Chiesa in Italia, Roma 5-9 settembre 1961), Padova 1964, pp. 55-109; G. DILCHER, Die Entstehung der

lombardischen Stadtkommune. Eine rechtsgeschichtlichen Untersuchung, Aalen 1967 ; G. TABACCO, La sintesi

istituzionale di vescovo e città in Italia e il suo superamento nella res publica comunale, in ID., Egemonie sociali e

strutture del potere nel Medioevo italiano, Torino 1979, pp. 397 -427; ID., Vescovi e comuni in Italia, in I poteri

temporali dei vescovi in Italia e Germania nel medioevo, a cura di C.G.MOR, H. SCHMIDINGER, Bologna 1979, pp. 263-282; R. BORDONE, Nascita e sviluppo delle autonomie cittadine, in La storia, a cura di N. TRANFAGLIA, M. FIRPO, Il

Medioevo, II, Popoli e strutture politiche, Torino 1986, pp. 426-460.

2 Sulle concessioni imperiali attestanti i diritti pubblici detenuti dal vescovo a Ivrea e a Vercelli ritorneremo nel

dettaglio più avanti, testo compreso fra le note 16-17 e 150-155. I poteri di districtio attribuiti dagli imperatori ai presuli a partire dal secolo X, talora estesi su aree identificate con il termine comitatus e complicati dal fatto che alcuni vescov i furono talvolta titolari ad personam di veri comitati, ha costituito l’oggetto di un acceso dibattito storiografico, che ha avuto come principali protagonisti Eugenio Dupré Theseider, Vito Fumagalli, Giovanni Tabacco e Giuseppe Sergi. La questione storiografica è ora efficacemente illustrata e commentata da G. SERGI, Poteri temporali del

vescovo: il problema storiografico, in Vescovo e città nell’alto medioevo: quadri generali e realtà toscane (Atti del

Convegno internazionale di studi, Pistoia 16-17 maggio 1998), Pistoia 2001, pp. 1 -16. La chiarezza sul significato da attribuire ai poteri pubblici esercitati dai vescovi nei secoli centrali del medioevo è indispensabile per affrontare il tema nel basso medioevo, quando l’uso da parte di alcuni presuli del titolo comitale assume caratteristiche del tutto differenti. Per questa fase più tarda:R. BORDONE, I poteri di tipo comitale dei vescovi nei secoli X-XII, in corso di stampa negli Atti del III Convegno di Pisa su Formazione e strutture dei ceti dominanti nel medioevo (18-20 marzo 1999).

3 Per l’affermazione del regime podestarile e le trasformazioni a esso connesse si veda: E. ARTIFONI, Tensioni sociali e

istituzioni nel mondo comunale, in La storia, 2: Il Medioevo: popoli e strutture politiche, a cura diN. TRANFAGLIA, M. FIRPO, Torino 1986, pp. 461-491. È ora disponibile anche una nuova e attenta sintesi condotta sulla base della bibliografia più aggiornata sull’argomento: É. CROUZET-PA V A N, Enfers et paradis. L’Italie de Dante et de Giotto, Paris 2001, pp. 121 -232.

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Innocenzo III (1198-1216), il papato si pone sempre più come il vertice di un mondo gerarchizzato e culminante in Roma, sia sul piano politico, sia su quello giurisdizionale. La riforma messa a punto dal pontefice è centrata in particolare sui vescovi, che rappresentano il tramite di azione del papato a livello locale e devono essere in grado di dare attuazione al progetto di tutela dei diritti ecclesiastici secondo le linee definite dalla politica romana4. Per questa ragione si intensifica il

controllo esercitato dal papato su di essi e si assiste alla progressiva definizione dei poteri del pontefice su traslazioni, rinunce e deposizioni dei presuli, fondati sulla plenitudo potestatis del papa e sul suo ruolo di vicarius Christi.

L’azione programmatica di Innocenzo III sull’episcopato finisce chiaramente per influenzare profondamente i rapporti intrattenuti da quest’ultimo con il comune: proprio il papato fornisce una chiave importante per comprendere appieno il complesso quadro delle relazioni fra episcopio e comune nel secolo XIII, il che conduce necessariamente a interrogarsi sul problema dei rapporti fra papato e comuni cittadini5. La prospettiva entro la quale si conduce questo studio mira

pertanto a cogliere l’interferenza fra tendenze politiche generali, progetti vescovili e comunali specifici e interventi della chiesa romana. Non si intende con questo negare la specificità delle vicende locali o stabilire meccanicismi e nessi strettamente causali fra la politica “generale” e le dinamiche locali, anche rilevanti ma circoscritte, messe chiaramente in luce da innumerevoli studi di storia comunale e vescovile. Ciò che qui si vuole sottolineare è la natura complessa e la pluralità dei livelli di interazione fra il piano generale della politica e le strategie politiche operanti a livello locale, che non permettono di tracciare sviluppi lineari, ma costringono invece a considerare i molteplici processi di integrazione fra i due ambiti.

4 Sulla concezione del rapporto papato-vescovi messa a punto da Innocenzo III si vedano almeno: il capitolo «Riforme

e innovazioni di Innocenzo III nella vita religiosa» in M. MACCARRONE, Studi su Innocenzo III, Roma, Padova 1972, pp. 223-337; ID., «Cura animarum» e «parochialis sacerdos» nelle costituzioni del IV Concilio Lateranense (1215).

Applicazioni in Italia nel sec. XIII, in Pievi e parrocchie in Italia nel basso medioevo (sec. XIII-XIV) (Atti del VI

convegno di storia della chiesa in Italia. Firenze 21-25 ottobre 1981), Roma 1984, pp. 81 -195, e ora in ID., Nuovi studi

su Innocenzo III, a cura di R. LAMBERTINI, Roma 1995, pp. 271-367. Fondamentale per i temi che qui più ci interessano K. PENNINGTON, Pope and bishops. The papal monarchy in the twelfth and thirteenth centuries, University of Pennsylvania 1984.

5 Il rapporto fra comuni e papato è stato indagato dalla storiografia per lo più in collegamento con altri temi, quali le

relazioni fra papato e impero e la lotta all’eresia: si veda per esempio D. WEBB, The Pope and the Cities:

anticlericalism and heresy in Innocent III’s Italy, in The Church and Sovereignity, c. 590-1918. Essays in Honour of Micheal Wilks, a cura di D. WOOD, Oxford 1991, pp. 135-152. Fanno eccezione alcuni contributi incentrati su una sola realtà cittadina e relativi agli anni di pontificato di Innocenzo III: D. SAVOIA, Verona e Innocenzo III (Nuovi documenti

sulle chiese veronesi), in «Studi storici Luigi Simeoni», 35 (1985), pp. 81-140, 36 (1986), pp. 233-287; E. PETRUCCI,

Innocenzo III e i comuni dello stato della chiesa. Il potere centrale , in Società e istituzioni nell’Italia comunale: l’esempio di Perugia (secoli XII-XIV), I, Perugia 1988, pp. 91- 135;P. RACINE, Innocent III et la Commune de

Plaisance, in Les prélats, l’église et la société. XIe-XVe siècle. Hommage à Bernard Guillemain, a cura di F. BÉRIAC,

Bordeaux 1994, pp. 207 -2 1 7 ; A. BARTOLI LANGELI, Papato, vescovo, comune , in Una città e la sua cattedrale: il duomo

di Perugia, Perugia 1992, pp. 85-99; G.M. CANTARELLA, Innocenzo III e la Romagna, in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», LII, 1 (1998), pp. 33-72. Esistono tuttavia alcuni saggi che pongono il problema dei rapporti fra papato e comuni come oggetto di ricerca a sé stante: M. PACAUT, La Papauté et les villes italiennes (1159-1253), in Atti del

Congresso storico internazionale per l’ottavo centenario della prima Lega Lombarda (Convegno sui problemi della

civiltà comunale, Bergamo 4-8 settembre 1967), Bergamo 1971, ora in ID., Doctrines politiques et structures

ecclésiastiques dans l’Occident médiéval, London 1985, pp. 33-45; G. MICCOLI, La storia religiosa, in Storia d’Italia,

Annali II, Torino 1974, pp. 431 -1079, il rapporto papato-città è affrontato alle pp. 689-734; P. RACINE, Innocent III et

les communes italiennes, in Religion et culture dans la cité italienne de l’Antiquité a nos jours (Actes du Colloque du

Centre Interdisciplinaire de Recherches sur l’Italie, 8-10 novembre 1979), Université de Strassbourg 1981, pp. 73-83; A. RIGON, Il ruolo delle chiese locali nelle lotte tra magnati e popolani, in Magnati e popolani nell’Italia comunale, (Atti del XV convegno internazionale del Centro Italiano di Studi di Storia e Storia d’Arte, Pistoia, 15-18 maggio 1995), Pistoia 1997, pp. 117 -135; ALBERZONI, Innocenzo III e la difesa della libertas ecclesiastica nei comuni dell’Italia

settentrionale, in Innocenzo III urbs et orbis (Atti del Congresso internazionale in occasione dell’ottocentesimo

anniversario dell’incoronazione di Innocenzo III, Roma 9-15 settembre 1998), in corso di stampa, e ora in EAD., Città,

vescovi e Papato nella Lombardia dei comuni, Novara 2001, pp. 27 -7 7 . Sulla definizione e lo sviluppo di una politica

pontificia nei confronti dei comuni cittadini dell’Italia centro-settentrionale si veda: L. BAIETTO, Una politica per le

città. Rapporti fra papato, vescovi e comuni nell’Italia centro-settentrionale da Innocenzo III a Gregorio IX, tesi di

dottorato, a.a. 1998-2001, dattiloscritto presso il Dipartimento di Storia, sezione di Medievistica, Università degli Studi di Torino.

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L’innesto dell’azione pontificia sulle trasformazioni istituzionali connesse con l’avvento del regime podestarile conferisce agli anni che vanno dalla fine del secolo XII alla metà del XIII una dimensione di intensa conflittualità, innescata dalla necessità di ricomporre nuovi equilibri, dopo che quelli creati dagli assetti precedenti erano stati messi in crisi. L’azione del papato attraverso la deposizione dei presuli non sufficientemente attivi nella difesa dei diritti delle chiese e la pretesa di intervenire sulla legislazione comunale con la cancellazione delle norme antiecclesiastiche, proprio nel momento in cui gli statuti assumevano un ruolo portante nella concezione stessa del comune podestarile6, produce l’esplosione dei conflitti in forme nuove. Se la pretesa di intervento della

giustizia papale e delegata nelle vertenze fra comune e vescovo non conduce sempre a un’effettiva risoluzione delle dispute, è indubbio che ne determina un nuovo livello di definizione attraverso la descrizione dei conflitti con un linguaggio strettamente legato alla produzione giuridica e pubblicistica, alle concezioni ecclesiologiche e alla prassi giudiziaria. La capacità di scomporre un conflitto in una serie consequenziale di atti ed eventi, di imporre definizioni giuridiche, di applicare un quadro linguistico alla realtà, isolando le pretese contrapposte, i motivi di scontro e le argomentazioni delle parti finisce per produrre un mutamento nella natura stessa della causa e nella materia di lite.

I continui tentativi delle città di usurpare i diritti della chiesa si configurano nel linguaggio pontificio come infrazione della libertas ecclesiae7, ma sotto questa definizione si celano in realtà

diversi livelli di conflitto. A livello locale l’attacco alla libertà della chiesa è connesso con le strutture territoriali dei possessi ecclesiastici, implicanti l’esercizio di diritti pubblici e patrimoniali in quelle aree. Questo programma si attua attraverso il tentativo da parte dei comuni di sottoporre alla giustizia e alla fiscalità cittadina gli abitanti delle villae e dei castelli vescovili, di impadronirsi dei beni e dei diritti ecclesiastici e di limitare il processo inverso, ovvero l’acquisizione da parte del vescovo dei beni posti nel distretto. A un livello più generale le azioni dei comuni si scontrano invece con il diritto del clero di avvalersi del privilegio del foro e dell’esenzione fiscale. Nelle città in cui formalmente è il vescovo a detenere i poteri pubblici e a investirne i magistrati cittadini, come avviene a Vercelli e a Ivrea, si osserva un ulteriore livello di conflitto, causato dal tentativo dei comuni di sottrarsi a tale vincolo di dipendenza: in questo caso dunque al problema dell’infrazione della libertas ecclesiae, si affianca quello della rottura del legame vassallatico.

In questo contesto i casi di Vercelli e di Ivrea, pur accomunati dal punto di vista strutturale, rappresentano due situazioni molto diverse ed emblematiche. Mentre a Vercelli negli anni Quaranta il papato arriva a promuovere la vendita della giurisdizione vescovile al comune, a Ivrea si realizza quello che si può definire un esperimento di attuazione della politica sui vescovi di Innocenzo III, che contribuisce a perpetuare ancora in pieno Duecento un’effettiva subordinazione del governo comunale all’episcopio. Il papa interviene nel 1206 a deporre un vescovo ritenuto inefficiente e a imporre la nomina di un presule di sua fiducia, che imposterà una politica di recupero dei diritti ecclesiastici e di riaffermazione dei poteri pubblici dell’episcopio, tenacemente

6 Il comune podestarile si fondava su uno scambio di giuramenti fra podestà, ufficiali e cittadinanza incentrati sullo

statuto municipale che rappresentava il comune stesso nella sua capacità di autogoverno. Ciò avveniva al momento dell’avvicendamento del vertice esecutivo del comune, segnando e legittimando la delega dei poteri di governo al funzionario forestiero chiamato a reggere la città. Sulla funzione del giuramento nella costruzione giuridica e istituzionale del comune: C. STORTI-STORCHI, Diritto e istituzioni a Bergamo dal comune alla signoria, Bergamo 1984, pp. 181 -206; Pierre Michaud-Quentin, in relazione al comune podestarile italiano, segnala la natura collettiva del legame che si crea fra cittadini, podestà e statuti con il giuramento prestato dalla collettività al rettore appena entrato in carica: P. MICHAUD-QUANTIN, Universitas. Expression du mouvement communitaire dans le Moyen Age latin, Paris 1970, p. 236. Gerhard Dilcher mette in evidenza la sostanziale coincidenza di contenuti fra il giuramento prestato dai rettori e quello prestato dai cives, che conferirebbe un carattere contrattuale al fondamento comunale, ulteriormente sottolineato dalla reiterazione di tali giuramenti: DILCHER, Die Entstehung cit., pp. 149-150, 168; si veda a anche ID., I comuni italiani come movimento sociale e forma giuridica, in L’evoluzione delle città italiane nell’XI

secolo , a cura diR. BORDONE, J. JARNUT, Bologna 1988, pp. 161-193.

7 Sulle origini e gli sviluppi del concetto di libertas ecclesiae si faccia riferimento al lavoro di B. SZABÓ-BECHSTEIN,

Libertas ecclesiae. Ein Schlüsselbegriff des Investiturstreits und seine Vorgeschichte. 4.-11. Jahrhundert, Roma 1985;

ID., «Libertas ecclesiae» vom 12. Bis zur Mitte des 13. Jahrhunderts. Verbreitung und Wandel des Begriffs seit seiner

Prägung durch Gregor VII, in «Vorträge und Forschungen», XXXIX (1991), pp. 147 -175. Per l’affermazione e la difesa

della libertas ecclesiastica nei confronti dei comuni italiani si vedano: PACAUT, La Papauté et les villes italiennes cit.; ALBERZONI, Innocenzo III e la difesa della libertas ecclesiastica cit.

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attuata dai suoi successori. L’azione del papato sull’episcopato eporediese, che si colloca entro un più ampio progetto di rinnovamento delle gerarchie episcopali subalpine, prevede la messa a punto di nuovi strumenti di intervento: ai legati papali e alla giustizia pontificia delegata si affianca il nuovo istituto dei visitatores et provisores Lombardiae8, una commissione di ecclesiastici vicini

alle idee del pontefice, sulla quale avremo modo di tornare in seguito. Proprio sui visitatores converge quel legame fra politica e diritto, reso particolarmente evidente dall’azione legislativa di Innocenzo III, che si concretizza in un potenziamento della giurisdizione pontificia delegata e in un’estesa ridefinizione delle procedure. Le azioni affidate dal pontefice alla commissione di ecclesiastici lombardi si fondavano infatti sull’applicazione della procedura inquisitoria9, concepita

come uno strumento razionale e formalizzato di ricerca della verità, che permetteva di intervenire direttamente sugli ordinari diocesani con indagini segrete, prescindendo dalle rigide regole fissate dall’ordo iudiciarius1 0. Come sottolineato dal dettato dell’ottavo canone del IV concilio

lateranense, che segna il momento della fissazione del procedimento inquisitorio, dopo che esso si era andato definendo in modo graduale nella prassi1 1, era infatti molto arduo agire contro gli alti

gradi delle gerarchie ecclesiastiche con il normale processo accusatorio, perché si reperivano con difficoltà persone disposte ad assumersi l’onere di accusare un superiore potente1 2.

Innocenzo III dunque non solo cerca di mettere in pratica a Ivrea un modello di relazione fra papato e vescovi, ma vi sperimenta anche il funzionamento dei nuovi strumenti di intervento appena descritti. Se si considera poi che il comune eporediese non presenta una particolare differenziazione sociale e che al centro dei conflitti fra episcopato e comune c’è ancora un problema di affermazione dell’autonomia delle istituzioni cittadine e di effettivo controllo economico di diritti e beni comuni, diventa chiaro che la situazione eporediese costituisce il contesto adatto per attuare il progetto innocenziano di relazione fra vescovo e comune.

A Vercelli l’oggetto degli scontri con l’episcopato è quella parte del territorio comunale che costituisce il comitatus ancora sottoposto alla giurisdizione del vescovo. Il legame vassallatico che si crea fra vescovo e comune per l’esercizio del potere in quell’area contrasta tuttavia con le pretese di autodeterminazione politica e legislativa della città e con l’idea stessa del comune podestarile,

8 Sui visitatores: M.P. ALBERZONI, Innocenzo III e la riforma della Chiesa in «Lombardia». Prime indagini sui

“visitatores et provisores”, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 73 (1993), pp.

122-178; EA D., Chiesa e comuni in Lombardia. Dall’età di Innocenzo III all’affermazione degli ordini mendicanti, in

Civiltà di Lombardia. La Lombardia dei comuni, a cura di A. CASTELLANO, Milano 1988, pp. 33-52.

9 Non a caso la bolla pontificia, con la quale nel 1206 il papa rettifica le decisioni scaturite dall’inchiesta dei suoi inviati

sui presuli di Asti, Ivrea, Novara e Verona, costituisce la base della procedura inquisitoria e sarà in seguito conosciuta come la decretale Qualiter et quando. La prima parte dell’epistola compone il canone 8 del IV concilio lateranense e una parte più cospicua del testo confluisce nelle decretali, prima nella Compilatio terza e infine nel Liber Extra: J.P. MIGNE, Patrologia Latina saeculum XIII- annus 1216, tomi 214-217, I-IV Innocentii III Opera Omnia, Parigi 1855 (d’ora in poi PL), 215, cc. 777-781, n. CC; Conciliorum oecumenicorum decreta, a cura di J. ALBERIGO,P.P. JOANNOU, C. LEONARDI, P. PRODI, Freiburg-im-Breisgau 1962, pp. 213-215, can. 8; X. V, 1, 17.

1 0 Su origini, funzioni e innovazioni inerenti la procedura inquisitoriale si veda il fondamentale: W. TRUSEN, Der

Inquisitionsprozeß. Seine historischen Grundlagen und frühen Formen, in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für

Rechtsgeschichte, Kanonistische Abteilung», LXXIV (1988), pp.169-230. Il processo inquisitorio si fonda sulla mala

fama che di per sé non è certo una novità: ciò che muta è però la maniera in cui essa è attestata. Nel processo

infamante infatti, in caso di mancanza di confessione, bastava il giuramento purgatorio a far cadere l’accusa. Nel processo inquisitorio invece il giudice portava avanti un’inchiesta volta ad accertare la verità dei fatti, con strumenti di prova mutuati dal processo accusatorio e quindi centrati sulla prova testimoniale. Il giuramento continuava a essere impiegato, ma da solo non era più sufficiente a discolpare l’infamatus quando i sospetti erano gravi e c’erano prove testimoniali contrarie: op. cit., pp. 179-197, 229. Sui precedenti romanistici della procedura ex officiio, usata in maniera diffusa nei casi particolarmente gravi: Y. THOMAS, “Arracher la verité”. La majesté et l’Inquisition (Ier-IVe

siècle ap. JC), in Le juge et le jugement dans les traditions juridiques européennes. Etudes d’histoire comparée sous la direction de ROBERT JACOB, Paris 1996, pp. 15-41. Per lo sviluppo e i caratteri del sistema procedurale fondato sull’ordo iudiciarius: L. FAWLER MAGERL, Ordines iudiciarii and libelli de ordine iudiciorum, Turnhout 1994 (Typologie de sources du Moyen Age Occidental, fasc. 63), in particolare per le influenze degli ordines in Italia e nelle corti ecclesiastiche: pp. 79-85. Da ricordare anche il classico: A. M. STICKLER, Ordines iudiciarii, in Dictionnaire de

droit canonique, IV, Paris 1957, pp. 1132-1143, e ora in L’educazione giuridica, VI/2 cit., pp. 3-18. Un valido repertorio

degli ordines iudiciarii: L. FOWLER-MAGERL, Ordo iudiciorum vel ordo iudiciarius. Begriff und Literaturgattung, in

Repertorium zur Frühzeit der gelehrten Rechte, I, Frankfurt am Main 1984.

1 1 Conciliorum oecumenicorum cit., pp. 213-215, can. 8. 12 TRUSEN, Der Inquisitionsprozeß cit., pp. 188 sgg.

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fondato su un patto fra reggitore e cittadinanza che trova ragione in se stesso. A Vercelli fra gli anni Venti e Quaranta, accanto a una notevole crescita economica e demografica, si verifica un particolare sviluppo delle organizzazioni di stampo popolare, che conquistano il diritto di partecipare alle sedute del consiglio e segnano fortemente la politica cittadina di quegli anni, accentuandone i motivi di conflitto con il vescovo. Sul fronte della politica estera il comune è inserito organicamente negli schieramenti sovraregionali, attraverso il pressoché costante collegamento con Milano. L’obiettivo della politica vercellese, per tutta la prima metà del secolo XIII, resta quello di strappare la giurisdizione sul territorio dell’episcopatus al vescovo e proprio su tale questione si innesta un processo di ridefinizione degli assetti socio-politici interni. Anche qui, come a Ivrea, negli anni Trenta del secolo XIII si verifica un violento conflitto che ha come scintilla scatenante la promulgazione degli statuti antiecclesiastici: ma se a Ivrea l’azione del pontefice a sostegno del presule finisce per vanificare il tentativo del comune di conquistare un minimo di autonomia attraverso la libera espressione della capacità legislativa, a Vercelli il problema degli statuti iniqui si salda a quello della giurisdizione vescovile e allo strutturarsi delle parti socio-politiche interne. Nel comune eusebiano la capacità di tenuta e di reazione di fronte all’azione del papa e della giustizia pontificia delegata conduce addirittura a mercanteggiare con i rappresentanti del papato il passaggio della città al fronte leghista in cambio dell’acquisto della giurisdizione vescovile. A questo proposito bisogna ricordare che ai tempi di Gregorio IX (1227-1241) il progetto pontificio, che Innocenzo III aveva concepito e che Onorio III (1216-1227) aveva cercato di applicare, subisce alcune importanti evoluzioni. Senza essere cambiato nella sua formulazione, aveva tuttavia dovuto fare i conti con la realtà sulla quale cercava di intervenire e risultava estremamente complicato dal progressivo deteriorarsi dei rapporti con Federico II e dall’urgenza di ampliare il più possibile la rete di alleanze del fronte antiimperiale. Come risulta chiaro dall’azione del legato pontificio Gregorio di Montelongo nel periodo di vacanza della sede pontificia e poi dall’azione di Innocenzo IV (1243-1254), la guerra con l’impero determina un nuovo realismo politico da parte del papato, costretto a ridimensionare le questioni di principio, quali i concetti di libertas ecclesie, di plenitudo potestatis o il ruolo di vicarius Christi del papa, in funzione della necessità di soppesare gli equilibri di forza in campo, per poterne sfruttare al meglio il potenziale di alleanza. E l’alleanza di un comune come Vercelli, in piena espansione economica e demografica, era molto preziosa per il fronte leghista. Il suo passaggio alla parte imperiale fra il 1238 e il 1242 era stato dettato proprio dalla speranza di poter acquisire la legittimazione dell’esercizio dei poteri pubblici detenuti dal vescovo. A questo punto le ragioni della guerra e delle alleanze per il papato diventano più forti di qualsiasi problema di difesa dei diritti ecclesiastici e conducono ad attuare una politica spregiudicata e impensabile ai tempi di Innocenzo III.

1. Conflitti e collaborazione fra episcopato e comune a Ivrea

La prima attestazione del comune di Ivrea risale al 1171, vale a dire in netto ritardo se confrontata con altri casi subalpini quali Asti o Vercelli1 3. La tardiva visibilità istituzionale sembra dovuta al

fatto che gli sviluppi cittadini avvennero probabilmente per diretta concessione del vescovo, in un clima di cooperazione e di regolare svolgimento delle funzioni urbane legate alla difesa militare e alla ripartizione dei tributi1 4, nonché secondo una logica strumentale, in forza della quale il presule

avrebbe favorito lo sviluppo di una parziale autonomia comunale per proteggersi dall’espansionismo del potente comune di Vercelli1 5. A completare il quadro di stretta connessione

con l’episcopato, che dal primo comune si protrae fino al secolo XIII, intervengono la composizione sociale dei collegi consolari, costituiti in gran parte dai vassalli e dai collaboratori del

13 R. BORDONE, “Civitas nobilis et antiqua”. Per una storia delle origini del movimento comunale in Piemonte, in AA.

VV., Piemonte medievale, Torino 1985, pp. 29-61, in particolare p. 31; ID., Potenza vescovile e organismo comunale, in

Storia della Chiesa d’Ivrea dalle origini al XV secolo, a cura di G. CRACCO con la collaborazione di A. PIAZZA, Roma 1998, pp. 799-837, in particolare pp. 811 sgg. Sull’affermazione tardiva del comune eporediese e sulle sue conseguenze in termini di una mai raggiunta esplicitazione delle prerogative comunali si vedano le considerazioni di A. FALOPPA,

Dal Vescovo al Comune, in Ivrea Ventun secoli di storia, Ivrea 2001, pp. 123-146, alle pp. 140-144.

14 Il ruolo dell’organizzazione militare nella nascita del primo comune è sottolineato da F. PANERO, La grande

proprietà fondiaria della Chiesa di Ivrea, in Storia della Chiesa d’Ivrea cit., pp. 839-865, p. 859.

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vescovo in città, e il numero ristretto di famiglie che ricoprono le magistrature urbane1 6. Ciò mette

in luce una doppia forma di predominio, politica oltre che giuridica, dell’episcopio sulle istituzioni comunali. Dal punto di vista giuridico, l’origine dei diritti vescovili sul districtus risale a un diploma di Ottone III, il quale nel 1000 aveva concesso alla chiesa di Ivrea i poteri di districtio sulla città e su una fascia di tre miglia del territorio circostante, donandogli altresì le corti di Romano e Fiorano1 7. Non esiste invece alcuna notizia di un’investitura formale di Federico I, come

invece avviene per Vercelli e Torino.

A questo punto è forse opportuno chiarire la posizione di questo studio rispetto alle linee storiografiche finora affermatesi circa la lettura del rapporto fra vescovo e comune a Ivrea. Bisogna premettere che non è mia intenzione entrare nel merito della discussione sulle origini del comune eporediese e del connesso problema del peso avuto dal vescovo in quella vicenda. Per i motivi sintetizzati nel paragrafo precedente, centro di interesse di questo studio è in particolare l’arco cronologico della prima metà del secolo XIII. In questi anni il tema dei rapporti vescovo-comune non è sufficiente di per se stesso a esaurire la comprensione degli assetti di potere che si riscontrano nella situazione politica eporediese1 8. La storiografia ha finora cercato di muoversi

all’interno del binomio vescovo-comune accordando una preminenza ora all’uno ora all’altro dei due elementi1 9. Esistono tuttavia dinamiche regionali (i rapporti con Vercelli, i conti di Biandrate e

i marchesi di Monferrato, peraltro già considerati ampiamente nel lavoro di Renato Bordone2 0) e

di tipo generale (le politiche papali e imperiali, le trasformazioni istituzionali in certa misura generalizzabili all’intero mondo comunale italiano) che nella prospettiva di ricerca qui adottata permettono di comprendere quella che altrimenti apparirebbe come una situazione contraddittoria. Mi riferisco alla continua tensione fra il vescovo e il comune che oscilla strutturalmente fra conflitto e collaborazione: a seconda delle questioni politiche ed economiche cui si cercava di far fronte e dell’interferenza di uno o più di quei poteri “esterni” poteva prevalere fra le due istituzioni un rapporto di cooperazione o di scontro, fino a giungere in alcune situazioni alla compresenza dei due aspetti. Sembra insomma che la specificità del caso eporediese consista proprio in questo nodo non risolto, in quell’incerto equilibrio, capace tuttavia di costituire un

modus vivendi per i due poteri, fra accettazione della posizione di subordinazione giuridica al

presule da parte del comune e tentativi di emancipazione, soprattutto economica. Per il periodo

16 BORDONE, Potenza vescovile cit., pp. 811-817. Si veda a questo proposito il bilancio dell’indagine prosopografica nella

tesi di dottorato di A. FALOPPA, Società e politica alle origini del comune di Ivrea, dattiloscritto presso il Dipartimento di Storia, sezione di Medievistica, Università degli Studi di Torino 2000, pp. 234-240, sui caratteri della vassallità urbana pp. 245-255.

1 7 Diplomata regum et imperatorum Germaniae, Berlin 1956 (Monumenta Germaniae Historica, II/1), pp. 803-804,

n. 376 (1000): «Yporegiensi ecclesie omnem eiusdem civitatis districtum et publicam functionem atque forinsecus circumcirca per tria miliaria presentis paginae aureis litteris decoratae testimonio et auctoritate concessisse corroborasse et firmiter habendum statuisse cum curte una Romano dicta sub titulo acquisistionis sibi pertinente et altera Florano nominata». Come nota Renato Bordone: «si tratta di un falso costruito su un originale smarrito» (BORDONE, Potenza vescovile cit., p. 800, nota 1), datato 9 luglio 1000 e redatto a Pavia: J.F. BÖMHER, Regesta imperii II.3.2, Die Regesten des Keiserreiches unter Otto III. 980 (983)-1002, a cura di J.F. BÖMHER, M. UHLIRZ, Graz-Köln 1957, p. 769, n. 1384. Per il problema della giurisdizione vescovile sul comune di Ivrea si vedano BORDONE, Potenza

vescovile cit.; G.S. PENE VIDARI, Vescovi e comune nei secoli XIII e XIV, in Storia della Chiesa d’Ivrea cit., pp. 925-971. Il contesto politico in cui si colloca la concessione ottoniana al presule eporediese è illustrato in FALOPPA, Dal

Vescovo al Comune cit., p. 126.

18 Sono queste le conclusioni di FALOPPA, Dal Vescovo al Comune cit., p. 141, che costituiscono allo stesso tempo il

punto di partenza del presente lavoro: «La visione dinamica di un contrasto ineliminabile fra vescovo - come espressione di un potere legato al passato - e comune - come espressione debole di un potere nuovo che non riesce ad affermarsi - è (...) da rendere meno sistematica e da arricchire».

19 Mi riferisco al lavoro di Gian Savino Pene Vidari, che delinea una netta e indiscussa subordinazione del comune al

vescovo (PENE VIDARI, Vescovi e comune cit.) e agli studi di Renato Bordone (BORDONE, Potenza vescovile cit.; ID.,

“Civitas nobilis et antiqua” cit.) e Antonella Faloppa (FALOPPA, Società e politica cit;ID., Dal Vescovo al Comune cit.) i quali, in maniera fra loro diversa, cercano di sfumare una lettura così netta, introducendo alcuni correttivi derivanti dall’inserimento del problema nel contesto delle relazioni regionali subalpine e da un’accurata indagine prosopografica. Questi elementi consentono di cogliere le aspirazioni autonomistiche del comune e i tentativi - pur diversi e per alcuni versi limitati rispetto alle altre esperienze comunali subalpine e non - di affermare una propria figura giuridica e istituzionale che non si esaurisca nella dipendenza dal presule.

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preso in considerazione, ciò appare con maggior chiarezza se si considera il peso delle politiche pontificie applicate al caso di Ivrea.

L’intrinseca debolezza del comune eporediese è messa in luce dai frequenti tentativi da parte di poteri esterni di rivendicare una qualche forma di controllo sulla città: oltre alle mire del comune di Vercelli, la città e il vescovo si trovarono più volte a fronteggiare gli attacchi dei conti di Biandrate2 1. Nel 1193, nel difendersi dalle pretese avanzate da Ranieri di Biandrate, i consoli

dichiaravano di dovere la loro fedeltà al vescovo, al quale l’imperatore aveva concesso il

comitatum2 2. Il libello presentato dal conte chiedeva che i consoli e i cives di Ivrea gli prestassero il

giuramento di fedeltà «sicut olim fecerunt imperio» dal momento che egli si trovava nella posizione giuridica della «quasi possessio», derivante dalla concessione in feudo di tutti i diritti su Ivrea fattagli dall’imperatore. La responsio del sindaco di Ivrea si fondava sul chiarimento della posizione del comune nei confronti degli inquadramenti di potere superiori: «illa fidelitas fieri debeat imperatori ratione corone et imperii» e all’interno di questo rapporto si collocava la fedeltà vassallatica dovuta al presule dal momento che «prius imperator concesserat comitatum episcopo»2 3. La condizione di subordinazione delle magistrature cittadine al vescovo era dunque

pienamente assunta dal comune come la miglior difesa nei confronti di qualsiasi altra pretesa di esercizio della giurisdizione comunale. Attacchi così sostanziali all’autonomia cittadina da parte di soggetti istituzionali esterni non erano comuni in questo periodo, così come non comune era una chiara ammissione di derivazione della giurisdizione dall’investitura vescovile. Le altre città in questi stessi anni tendevano anzi a sottolineare la diretta discendenza della iurisdictio dalle concessioni imperiali e dalle acquisizioni della pace di Costanza. La causa del 1193 indica quindi che a Ivrea era ancora in discussione la pertinenza dell’esercizio dei poteri pubblici in città, fatto questo che spingeva le magistrature comunali a ripararsi sotto la protezione del vescovo, riaffermando e rafforzando l’attribuzione del districtus all’episcopio.

La subordinazione vassallatica al presule nell’esercizio della giurisdizione è ben lungi dall’essere messa in discussione anche nei conflitti che oppongono il vescovo e il comune fra la fine del secolo XII e l’inizio del XIII. Ciò è testimoniato peraltro nel 1210 dall’investitura vescovile concessa ai consoli, che comprende tanto il feudum di Ivrea, quanto la libertà di avvalersi delle proprie consuetudini2 4. Nel 1219 Federico, futuro imperatore, interviene a sancire nuovamente questo

stato di cose, riprendendo il diploma ottoniano e confermando all’episcopio i diritti sulla città2 5.

Contemporaneamente si rivolge ai cives eporediesi comunicando loro di aver investito il vescovo di «toto comitatu et iurisdictione civitatis» e intimando ai cittadini di desistere da ogni atto che si opponesse ai diritti del presule2 6. Il vincolo di fedeltà esistente fra le due istituzioni non è dunque

21 Sui conti di Biandrate si veda: G. ANDENNA, I conti di Biandrate e le città della Lombardia occidentale (secoli XI e

XII), in Formazione e strutture dei ceti dominanti nel medioevo: marchesi, conti e visconti nel Regno Italiaco (secc. IX-XII), Roma 1996, pp. 57 -84, pp. 58-59, per la vertenza del 1193 p. 80 sg. Per i tentativi dei Biandrate di

impossessarsi del comune di Ivrea si veda BORDONE, Potenza vescovile cit. pp. 822-825.

22 Il libro rosso del comune d’Ivrea, a cura di G. ASSANDRIA, Pinerolo 1914 (Biblioteca della società storica subalpina,

LXXIV, d’ora in poi BSSS LXXIV), pp. 121-123, n. 137: «Item dicebat quod non videbatur verum nec verisimile quod imperator concessisset ei predictam fidelitatem et si concessisset dicebat quod concessione de iure non valere. Cum illa fidelitas fieri debeat Imperatori ratione corone et imperii et quod prius imperator concesserat comitatum episcopo Yporiensis cui faciebant fidelitatem».

23 L. cit.; si veda per questo BORDONE, Potenza vescovile cit., pp. 821-822, 824-825; ID., L’influenza culturale e

istituzionale nel Regno d’Italia, in Friedrich Barbarossa. Handlungsspielräume und Wirkungsweisen des staufischen Kaisers = «Vorträge und Forschungen», 40 (1992), pp. 147 -168, in particolare pp. 148-168. Sullo stretto rapporto fra libertas cittadina e immediata dipendenza dei comuni dall’impero: ID., La società cittadina del Regno d’Italia.

Formazione e sviluppo delle caratteristiche urbane nei secoli XI e XII, Torino 1987, pp. 130-141.

24 BSSS LXXIV, pp. 163-164, n. 173 (1210): «in plena concione Obertus Yporiensis electus investivit sua propria manu

dextera (...) consules Yporegie (...) de toto eorum recto feudo et de omnibus eorum bonis usantiis et consuetudines».

25 E. WINKELMANN, Acta imperii inedita saeculi XIII-XIV, I, Innsbruck 1880, p. 130, n. 154; Le carte dell’archivio

vescovile d’Ivrea fino al 1313, a cura di F. GABOTTO, Pinerolo 1900 (Biblioteca della società storica subalpina, V-VI, d’ora in poi BSSS V e VI), pp. 120-121, n. 85. Sugli interventi federiciani del 1219 si torna oltre, testo compreso fra le note 110-116.

26 WINKELMANN, Acta imperii cit., pp. 130-131, n. 155; BSSS V, p. 122-123, n. 87: «Superius dicta auctoritate nostra

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per nulla svuotato di significato, tanto da spingere il vescovo a intitolarsi «episcopus et comes»2 7.

Nel corso del secolo XIII, come vedremo, è anzi riempito di contenuti nuovi che emergono dal sovrapporsi della questione della salvaguardia delle libertà ecclesiastiche a quella della subordinazione del comune all’episcopio. Dal momento che il comune non dà segno di voler mettere in discussione la subordinazione giuridica all’episcopio, in questi anni il rapporto fra vescovo e comune sembrerebbe confermarsi nel segno della cooperazione.

1.1. La crisi dei rapporti fra vescovo e comune durante l’episcopato di Giovanni

Anche il conflitto fra vescovo e comune che si registra fra la fine dell’episcopato di Gaido (1190/91-1198) e l’inizio di quello di Giovanni (1198-1206)2 8 non ha per oggetto la messa in discussione del

rapporto di fedeltà vassallatica fra vescovo e comune. La lite verte sulla spartizione dei proventi economici, senza intaccare i rapporti giuridici esistenti fra le due istituzioni. Ciò non significa che non si possa leggere attraverso questo episodio un tentativo da parte delle magistrature cittadine di guadagnarsi maggiori spazi di autonomia, ma sottolinea che una vera emancipazione dal vescovo non è ancora possibile, nemmeno in termini di pretese. La crisi dei rapporti fra vescovo e comune che si manifesta fra il 1198 e il 1206 è innescata da una politica vescovile poco attenta alla conservazione del patrimonio ecclesiastico2 9 di cui approfitta il comune per accrescere i propri

proventi economici e affermare il proprio controllo diretto su alcuni dei castelli dell’episcopato. L’operato di Giovanni mette in luce alcune debolezze nella gestione dei diritti della chiesa, che contribuirono ad allontanarlo dall’ideale di comportamento che Innocenzo III aveva disegnato per i vescovi. La sua politica non era per nulla conforme al programma di tutela della libertas ecclesiae ed è per questa ragione che nel 1206 fu deposto dai visitatores et provisores Lombardiae. Sebbene nella bolla che decretava la rimozione di Giovanni ci si limitasse a definirlo «insufficiens et inutilis»3 0, è possibile ricomporre il quadro degli elementi che devono aver condotto a questa

decisione: oltre ad aver ceduto al comune una quota consistente dei proventi in occasione del conflitto degli anni 1198-1200, egli si era mostrato negligente nella difesa dei castelli vescovili di Fiorano e di Burolo dai tentativi di appropriazione di Vercelli.

1. La lite documentata per gli anni 1198-1200 traeva origine dal saccheggio del palazzo vescovile da parte degli Eporediesi alla morte del vescovo Gaido. Essi intendevano così rifarsi del mancato risarcimento delle spese che il comune aveva dovuto affrontare per aiutare il vescovo contro il conte Ranieri di Biandrate, il quale, dopo il fallito tentativo del 1193 di far valere i propri diritti per via giudiziaria, era passato alla via militare3 1. Il 25 luglio del 1200 si giunse a una composizione: il

nuovo vescovo Giovanni chiedeva la restituzione della metà dei beni e dei diritti (molaria e

comunia) che la chiesa era solita percepire insieme con il comune e che erano stati usurpati alla

morte di Gaido, la riconsegna degli oggetti rubati dal palazzo episcopale e l’immediata cessazione della riscossione della salaria da parte degli Eporediesi. L’accordo raggiunto prevedeva la concessione in feudo al comune di tre quarti dei proventi del commercio delle mole da macina e dello sfruttamento dei beni comuni, la cui riscossione doveva essere affidata a quattro incaricati (uno scelto dal vescovo e tre dal comune) che avrebbero provveduto anche alla ripartizione; agli Eporediesi sarebbe inoltre spettato il godimento quadriennale della salaria3 2. Se dunque il vescovo

aveva ceduto una quota rilevante dei suoi diritti al comune - bisogna infatti ricordare che i proventi

27 Per questa questione si veda PENE VIDARI, Vescovi e comune cit., pp. pp. 926-929. Renato Bordone nota che il titolo

di «episcopus et comes» che si attribuisce il vescovo di Ivrea ha il significato di «un titolo di prestigio, in gran parte svuotato di contenuti politici»: BORDONE, I poteri di tipo comitale cit. Alla luce delle considerazioni di Giuseppe Sergi, è importante sottolineare che la qualità di queste attestazioni tarde dei titoli comitali dei vescovi deve necessariamente accompagnarsi alla negazione della figura del “vescovo conte” per il periodo precedente:SERGI, Poteri temporali del

vescovo cit.

28 Sull’episcopato di Giovanni si veda M.P. ALBERZONI, Da Guido di Aosta a Pietro di Lucedio, in Storia della chiesa

d’Ivrea cit., pp. 193-255, in particolare le pp. 220-231.

29 Si veda PANERO, La grande proprietà fondiaria cit., pp. 861sgg. 30 PL, 215, cc. 777-781, n. CC.

31 BSSS LXXIV, pp. 159-163, n. 172. 32 L. cit.

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del trasporto delle macine, così come quelli derivanti dallo sfruttamento dei beni comuni costituivano la parte più rilevante delle entrate su cui Ivrea poteva contare3 3 -, d’altro canto,

introducendo un nuovo giuramento, aveva riaffermato la propria posizione di preminenza giuridica rispetto alle istituzioni comunali. Se aggiungiamo a questa considerazione il fatto che a quell’epoca la classe dirigente del comune eporediese era costituita essenzialmente dai vassalli cittadini del vescovo, si può affermare che, ferma restando la rinuncia economica, il vescovo si era preoccupato di preservare almeno una posizione di formale superiorità. L’escatocollo della copia della concordia destinata al comune presenta una particolarità: Guidone de Barbavaria, che all’inizio dell’atto risulta semplicemente come podestà di Ivrea, si definisce «potestas Yporegie et Episcopatus»3 4. Non è possibile dare una precisa interpretazione di tale definizione, dal momento

che non compare altrove. Renato Bordone vi vede un chiaro segno di sperimentazione3 5 che ben si

adatta alla crisi dell’assetto istituzionale dei comuni in quegli anni, crisi che nel caso di Ivrea è complicata dal rapporto di subordinazione feudale all’episcopio. Certamente questa denominazione ribadisce ancora una volta quella particolare commistione fra istituzioni comunali ed episcopato che caratterizza la situazione eporediese.

2. La seconda vicenda rilevante per comprendere il riassetto dei rapporti di forza fra comune ed episcopio all’inizio del secolo XIII riguarda il rifiuto del vescovo Giovanni di intervenire al fianco del comune nel recupero del castello di Fiorano, che rischiava di sfuggire al controllo eporediese. Nel 1205 il presule aveva venduto per otto lire segusine la quota di diritti e di beni appartenente all’episcopio sul castrum di Fiorano a un certo Filippo de Arondello, forse per far fronte ai debiti che premevano sulla sua chiesa. Il 27 febbraio dello stesso anno il podestà di Ivrea Gilberto Carosio, di origine vercellese, intimava al vescovo di restituire il denaro a Filippo e quindi di recuperare il castello che doveva rimanere «ad honorem Dei et beate Marie et hominibus Iporegie»3 6. Dato che Giovanni si era rifiutato di collaborare, il comune aveva provveduto

autonomamente al recupero, riuscendo anzi a entrare in possesso anche di altre quote del

castrum3 7. In questa occasione furono le magistrature cittadine ad assumersi l’onere di assicurare

che i castelli dell’episcopato non rischiassero di cadere nelle mani di forze nemiche o potenzialmente antagoniste, con chiara consapevolezza del fatto che nel caso eporediese l’honor del comune coincideva di fatto con quello dell’episcopio. Il podestà aveva sfruttato l’occasione di agire autonomamente, interpretando il rifiuto di cooperazione del vescovo come una liberatoria per acquisire direttamente le quote del castrum di Fiorano, senza che il presule potesse in futuro rivendicarlo e senza incorrere quindi nell’eventuale accusa di lesione dei diritti dell’episcopato. Pur essendo limitato nel suo pieno sviluppo dalla subordinazione al vescovo, il comune stava comunque cercando in quegli anni di dotarsi di un territorio direttamente dipendente che gli consentisse una maggior autonomia economica e militare.

3. Lo stesso disinteresse nella tutela del patrimonio vescovile dimostrato da Giovanni nella questione di Fiorano si ripropone a proposito del castello di Burolo, oggetto delle mire espansionistiche del comune di Vercelli in territorio eporediese. L’ingerenza verso Ivrea da parte della città eusebiana aveva radici nel secolo precedente: fin dal 1169 i cittadini di Vercelli erano esentati dal pagamento della curadia a Ivrea3 8 e ogni dieci anni gli Eporediesi erano tenuti a

33 BORDONE, Potenza vescovile cit. pp. 825-831.

34 BSSS LXXIV, p. 316, n. 339: «Signum manus suprascripti Guidonis Barbavarie potestatis Y poregie et Episcopatus et

Gregorii de Setyso eius assessore qui plures cartas unius tenore fieri rogaverunt».

35 BORDONE, Potenza vescovile cit. pp. 828-829

36 BSSS LXXIV, pp. 108-109, n. 127: «Dominus Gilibertus Garosus potestas Yporegie admonuit dominum Iohannem

yporiensem episcopum ut deberet reddere Philipho de Arondello libras VIII Segusinorum quas ab eo acceperat pro castello Florani et ut castellum remaneat ad honorem Dei et beate Marie et hominum Yporegie. Ipse dixit quod non redderet et inde potestas cartam fieri precepit».

37 BSSS LXXIV, pp. 166-167, n. 176: il 29 aprile 1205 Filippo de Arondello cede al podestà tutto ciò che aveva

precedentemente acquisito sul castello di Fiorano, vale a dire sia le quote acquistate dal vescovo «sive per feudum sive per censariam», sia quanto aveva comprato da Giacomo di Strambiniello.

38 Documenti dell’archivio comunale di Vercelli relativi ad Ivrea, a cura di G. COLOMBO, Pinerolo 1901 (Biblioteca

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prestare giuramento di fedeltà alle magistrature vercellesi per i due castelli di Bollengo e di S. Urbano3 9. Nella vicenda di Burolo il comune di Ivrea si trovava quindi a confrontarsi con un

potente nemico, che minacciava contemporaneamente il comune e l’episcopio. Giovanni tuttavia non diede alcun segno di voler intervenire a fianco delle magistrature cittadine nel tentativo di recupero di un castello di importanza strategica tanto per il comune, quanto per l’episcopato, detenuto fino ad allora da un canonico della chiesa eporediese. Il 27 agosto 1193 il canonico e suddiacono papale Aicardo di Burolo aveva venduto al comune di Vercelli la corte e il castello di Burolo con tutti i diritti pertinenti e i nipoti di Aicardo avevano poi ricevuto in feudo dai Vercellesi i beni precedentemente venduti dallo zio4 0. Appropriandosi di Burolo, che non si trovava lontano

da Bollengo, Vercelli aveva consolidato la propria posizione nella zona e di lì a poco aveva stretto la morsa: nel 1199 si chiedeva infatti ai Burolo, presentati come vassalli infedeli, di restituire il loro feudo4 1. La vicenda è ulteriormente complicata da una questione finanziaria: i Burolo nel 1200

risultavano debitori per una somma di 45 lire pavesi verso il prestatore vercellese Manfredo Bicchieri, fatto questo che costituiva un’altra via di pressione di cui poteva avvantaggiarsi il comune di Vercelli4 2. A questo punto il podestà di Ivrea si intromise nella questione e, al fine di

evitare che il castello finisse definitivamente nelle mani nemiche4 3, cercò di acquisire il controllo

delle altre quote di Burolo non detenute dalla famiglia di Aicardo (gennaio 1203)4 4. L’intervento

del comune di Ivrea non fu sufficiente e, a una nuova richiesta di versare una cauzione di mille lire segusine pena la perdita del feudo, Aicardo si appellò al papa4 5. Da questo momento in poi la lite fu

gestita prima dai giudici delegati pontifici4 6 e poi, data la natura feudale della causa, dal tribunale

dei pari di curia4 7. Sappiamo comunque che non si era ancora giunti a una soluzione nel 12074 8.

Ciò che stupisce in questa complicata vicenda è l’assenza di ogni intervento da parte del vescovo Giovanni. Sebbene non fossero direttamente in discussione i diritti della chiesa, al centro della lite si trovava pur sempre un membro del capitolo cattedrale e il controllo da parte eporediese del castello di Burolo rappresentava certamente un vantaggio anche per l’episcopato. Anche in questa situazione, come nel caso di Fiorano, il vescovo aveva dunque lasciato al comune il compito di combattere per mantenere il controllo dei castelli collegati a Ivrea e minacciati dai Vercellesi.

La politica poco attenta alla tutela dei diritti dell’episcopio seguita dal vescovo Giovanni finì per attirare l’attenzione di Innocenzo III, il quale, dopo aver affidato ai visitatores et provisores

Lombardiae il compito di condurre un’inchiesta al riguardo, nel gennaio 1206 ordinava la

deposizione del presule4 9. La commissione apostolica che agiva per conto del papa era composta

da Lotario, vescovo di Vercelli5 0, Gerardo da Sesso5 1, abate del monastero cistercense di Tiglieto e

39 Si vedano a questo proposito: G. S. PENE VIDARI, Vicende e problemi della «fedeltà» eporediese verso Vercelli per

Bollengo e Sant’Urbano, in Vercelli nel secolo XIII, Vercelli 1984, pp. 28-63; FALOPPA, Dal Vescovo al Comune cit., pp. 134-135.

40 BSSS VIII, pp. 34-35, n. 19. 41 Op. cit., p.41, n. 23.

42 Enrico di Burolo, col consenso di Aicardo, era mallevatore per la somma di 45 lire pavesi che Suriano di Albiano

aveva preso a prestito da Manfredo Bicchieri. Nel 1200 il debito non era ancora stato saldato e Aicardo si trovava quindi a dover pagare la somma di cui evidentemente Suriano non disponeva: BSSS V, pp. 48-49, n. 32.

43 Per questi fatti si veda: F. GABOTTO, Un millennio di storia eporediese, in C. NIGRA, G. DE JORDANIS, F. GABOTTO, S.

CORDERO DI PAMPARATO, Eporediensia, Pinerolo 1900 (Biblioteca della società storica subalpina, IV, d’ora in poi BSSS IV), pp. 71-72.

44 BSSS LXXIV, pp. 145-147, nn. 161 -162. 45 BSSS VIII, pp. 56-57, n. 30

46 Op. cit., p. 63, n. 36 (Innocenzo III nomina il vescovo di Pavia giudice delegato nella causa); p. 59, n. 34 (ottobre

1204: sentenza del vescovo di Pavia, favorevole ai Burolo); pp. 58-59, n. 33 (ricorso in appello del comune di Vercelli); pp. 59-60, n. 40 (censure ecclesiastiche comminate dal vescovo di Pavia contro Vercelli); pp. 61-63, n. 36 bis (Innocenzo III affida la causa al milanese Guglielmo Balbo, arciprete e suddiacono papale); pp. 65-66, n. 41 (sentenza di Guglielmo Balbo e passaggio della questione al tribunale feudale).

47 Tale soluzione è suggerita dallo stesso Innocenzo III: Op. cit., pp. 61-63, n. 36 bis (13 febbraio 1205).

48 Op. cit., n. 65, p. 87. Per tutta questa questione si veda anche ALBERZONI, Da Guido di Aosta cit., pp. 217-219 e p.

2 2 7 .

49 PL, 215, cc. 777-781, n. CC.

50 Lotario, succedette nell’episcopato vercellese ad Alberto, nell’estate del 1205, proseguendo una tradizione di buoni

rapporti fra la chiesa vercellese e il papato. Di origine cremonese, egli studiò diritto civile a Bologna con Giovanni Bassiano e insegnò presso lo stesso Studio; dopo il vescovado di Vercelli, nel 1208 fu trasferito alla cattedra

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prete Alberto di Mantova5 2, vale a dire da eminenti ecclesiastici molto vicini al pontefice e alle sue

idee, che infatti furono ricompensati con una brillante carriera ecclesiastica: Lotario sarebbe diventato prima arcivescovo di Pisa e poi patriarca di Gerusalemme, mentre Gerardo avrebbe accumulato le cariche di eletto novarese, cardinale e vescovo di Albano, arcivescovo di Milano e legato pontificio per la Lombardia. L’inchiesta degli inviati papali su Ivrea si inseriva nel quadro di un’indagine più ampia, rivolta oltre che al presule eporediese, anche ai vescovi di Asti, Novara e Verona e che pertanto si collocava a pieno titolo nel progetto innocenziano di potenziamento del controllo papale sulle gerarchie episcopali.

Il vescovo di Asti, Bonifacio, era rimosso in quanto «dilapidator notissimus et prodigus dissipator»5 3. Dalla documentazione locale si può dedurre che tale accusa deve essere stata

motivata dalla cessione in feudo al comune di Asti, nel 1198, di Masio (un porto fluviale), Rocca d’Arazzo e Azzano (due fortezze in posizione elevata), Isola (un luogo sul Tanaro) e un quarto del

comitatus di Serralonga «pro augmento feudi quod comune de Aste tenet ab Astensi episcopo»5 4.

L’investitura vescovile del 1198, ricordata in seguito come il «donum Bonifacii», segnava la fase conclusiva e culminante del processo di espansione giurisdizionale del comune di Asti ai danni dei diritti vescovili5 5. Con l’atto di investitura al comune il vescovo si era reso complice di tale

processo, mentre a opporsi erano stati i canonici e i vassalli vescovili, riuniti nel potente consortile dell’Astisio5 6.

Nel 1200 il tentativo dei Novaresi di sottoporre la chiesa a tassazione aveva dato origine a un duro conflitto fra il comune e il vescovo Pietro di Novara, che aveva richiesto un duro intervento sanzionatorio contro il comune da parte di Innocenzo III5 7. È probabile che a ciò si fosse aggiunta

una lotta interna allo stesso clero5 8, le cui spaccature avrebbero poi condotto il papa, nel 1209, a

arcivescovile di Pisa e infine, nel 1215, succedette al precedente vescovo di Vercelli nel patriarcato di Gerusalemme. Su Lotario si vedano:F. SAVIO, Gli antichi vescovi dell’Italia dalle origini al 1300 descritti per regioni. Il Piemonte, Torino 1898 (d’ora in poi SAVIO, Piemonte), p. 486 sg.;ALBERZONI,Innocenzo III e la riforma cit. pp. 145-150, in

particolare pp. pp. 145-150.

51 Gerardo da Sesso era di origine reggiana e prima di diventare abate di Tiglieto era stato canonico a Parma. Nel 1209

fu eletto e confermato vescovo di Novara, ufficio di cui non ottenne mai la consacrazione; nei primi mesi del 1211, pur mantenendo anche la carica di eletto di Novara, è attestato come vescovo eletto e cardinale di Albano e in questo stesso periodo è nominato legato pontificio per la Lombardia. A tali cariche si aggiunse anche quella di arcivescovo eletto di Milano. Nel 1211 Innocenzo III affidò a Gerardo un’importante e delicata legazione in Lombardia, durante la quale fu affiancato dal vescovo Sicardo di Cremona, altro personaggio di stretta fiducia del papa. Come legato pontificio fu incaricato di occuparsi del «negotium imperii», questione di grande rilievo per la politica papale nei confronti dei comuni dell’Italia centro-settentrionale. Su Gerardo si vedano:SAVIO, Piemonte cit., p. 273 sg.;MALECZEK, Papst und

Kardinalskolleg cit., p. 125; R. AUBERT, Gérard de Sesso ou Sessio, in Dictionnaire d’histoire et de géographie

ecclésiastiques, 20, Paris 1984, pp. 798-799; M. CIPOLLONE, Gerardo da Sesso vescovo eletto di Novara, Albano e

Milano, in «Aevum», 60 (1986), pp. 223-239; ID., Gerardo da Sesso, legato apostolico al tempo di Innocenzo III, in «Aevum», 61 (1987), pp. 358-388; ALBERZONI,Innocenzo III e la riforma cit., pp. 150-156.

52 Prete Alberto di Mantova fu attivo soprattutto all’interno della propria città, dove si occupò in particolare di riforma

della vita regolare. Per conto della città di Mantova svolse alcuni incarichi diplomatici, mediando nel 1204 con Ravenna, nel 1205 con Bologna e nel 1207 con Faenza. Si veda: ALBERZONI,Innocenzo III e la riforma cit., pp. 157-160.

53 PL, 215, cc. 777-781, n. CC.

54 Codex Astensis qui de Malabayla communiter nuncupatur, I-IV, a cura di Q. SELLA, P. VAYRA, Roma 1880, II, pp.

353-354, n. 292 (26 maggio 1198).

55 Per il processo di costruzione giurisdizionale del comune di Asti si vedano:R. BORDONE, Una valle di transito nel

gioco politico dell’età sveva. Le trasformazioni del potere e dell’insediamento nel comitato di Serralonga, in

«Bollettino Storico Bibliografico Subalpino», LXXIII (1975), pp. 109-179; ID., Città e territorio nell’Alto Medioevo. La

società astigiana dal dominio dei Franchi all’affermazione comunale, Torino 1980; ID., Il castello di Belotto. Processi

di trasformazione del territorio del comune di Asti nel basso medioevo, in «Rivista di storia, arte, archeologia per le

provincie di Alessandria e Asti”, 96 (1988); E.C. PIA, Il territorio di Asti tra XII e XIII secolo. Processi e strumenti di

organizzazione nel confronto con signori e città del Piemonte centro-meridionale, dattiloscritto presso la Sezione di

medievistica del Dipartimento di Storia, Università di Torino 2000.

56 Sulla politica seguita dall’aristocrazia vassalla del vescovo si veda: R. BORDONE, L’aristocrazia militare nel territorio

di Asti: i signori di Gorzano, parte I, in «Bollettino Storico Bibliografico Subalpino», I, LXIX (1971), pp. 357-447, II,

LXX (1972), pp. 489-544.

57 PL, 214, cc. 876-7, n. VI.

58 Il Savio cita una lettera del papa del 17 ottobre 1200 in cui si esorta il clero a non partecipare alle ingiurie che si

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intervenire nella designazione del nuovo presule Gerardo da Sesso5 9. La situazione dell’episcopio

novarese era insomma assai complessa; di qui l’ordine di Innocenzo III ai visitatores di condurre ulteriori indagini sul comportamento di Pietro di Novara, probabilmente allo scopo di verificare al di là di ogni dubbio la sua conformità con il progetto pontificio di tutela della libertas ecclesiae. Il caso del vescovo Abelardo di Verona era in apparenza diverso, perché era stato lo stesso presule a chiedere di poter abbandonare la carica. Innocenzo ordinava quindi ai visitatores di recarsi sul luogo per verificare le effettive motivazioni della richiesta e, nel caso essa fosse risultata motivata, per occuparsi della sua successione. Le ragioni che spingevano il vescovo di Verona a voler rinunciare alla carica dovevano essere connesse in parte con problemi disciplinari inerenti il clero secolare e regolare e in parte con le usurpazioni della giustizia ecclesiastica e della giurisdizione vescovile da parte del comune6 0. Anche in questo caso nel 1206 il papa ordinava che si svolgessero

ulteriori indagini. Non così per Giovanni di Ivrea, per il quale l’esito dell’inquisitio, verosimilmente centrata sulla cessione dei proventi economici al comune e sulla mancata tutela dei castelli, era stato sufficiente a decretarne la deposizione6 1.

In tutti e quattro i casi i visitatores svolgono quindi indagini sulle condotte tenute dai vescovi in momenti di acceso confronto con i comuni, confermando che la commissione rappresenta uno strumento di attuazione del progetto di tutela della libertas ecclesiae voluto da Innocenzo III, strettamente coordinato al rafforzamento del controllo papale sui presuli. I risultati dell’inquisistio, che arrivano a decretare la deposizione di due dei vescovi indagati, forniscono una misura della capacità di incidenza sulla realtà locale che la politica innocenziana stava assumendo. La deposizione del presule da parte degli inviati pontifici e la successiva nomina da loro guidata del successore segnano una profonda rottura nelle consuetudini di gestione locale delle nomine ecclesiastiche e nella relativa autonomia di cui fino ad allora gli episcopati avevano goduto nell’amministrazione delle diocesi e nell’impostazione dei loro rapporti con i comuni. Il peso che questa crisi deve aver avuto nella società eporediese è sottolineato dal fatto che tutto ciò che concerne la deposizione del presule è stato completamente espulso dalla documentazione eporediese, con una sorta di «damnatio memorie»6 2.

Oltre alla cessione di diritti al comune nel 1200 e alla mancata tutela dei castelli, deve aver pesato nel giudizio dei visitatores la difficile situazione economica e finanziaria in cui versava la chiesa eporediese. Alcune notizie in merito ci sono pervenute attraverso la domanda di rinuncia inoltrata alla sede apostolica dal successore di Giovanni, Pietro, che ci è riferita dalla risposta di Innocenzo III: parecchi beni della diocesi erano già stati pignorati, mentre altri erano stati dati in pegno per ottenere dei crediti e correvano quindi il rischio di subire la stessa sorte; infine i proventi derivanti dai pedaggi non permettevano alla chiesa di sostentarsi6 3. In quest’ultima affermazione si può

leggere un riferimento ai diritti su molaria, comunia e salaria, concessi per tre quarti in godimento al comune dal vescovo Giovanni, in modo che alla chiesa non ne restasse che un quarto: evidentemente una quota insufficiente a far fronte al mantenimento e al funzionamento dell’istituzione, specie se, come afferma Pietro, questo era praticamente l’unico reddito rimasto. Tutti questi elementi devono aver condotto il vescovo di Vercelli, l’abate di Tiglieto e prete Alberto di Mantova a giudicare l’operato di Giovanni non soddisfacente dal punto di vista della tutela dei

59 CIPOLLONE, Gerardo da Sesso vescovo eletto cit., p. 224.

60 Nel 1202 il vescov o di Verona si era lamentato con il papa per la dissolutezza del clero diocesano: PL 214, cc.

986-987, n. XXXIII. I visitatores dovevano infatti aver emanato delle constitutiones per correggere gli eccessi dei chierici, ispirate alla riforma dei costumi del clero intrapresa da Innocenzo III, perché, sempre nella lettera del 1206, il papa conferma tali capitoli. Fra le disposizioni si ribadiva inoltre che i chierici non potevano essere chiamati a rispondere davanti ai tribunali secolari. Per il conflitto fra episcopato e comune di Verona all’inizio del secolo XIII: SAVOIA,

Verona e Innocenzo III cit., pp. 257 -261, e ora anche ALBERZONI, Innocenzo III e la difesa della libertas ecclesiastica cit., pp. 67 -7 0 .

61 PL, 215, cc. 777-781, n. CC.

62 L’Ughelli ha addirittura fatto il nome di un vescovo Bernardo che non compare in alcun documento. Questi avrebbe

subito al posto di Giovanni, il procedimento infamante della rimozione dalla diocesi: F. UGHELLI, Italia sacra, IV, Venetiis 17192, cc. 1069-1070. L’errore era già corretto in SAVIO, Piemonte cit., pp. 208-209. Cfr. anche ALBERZONI, Da

Guido di Aosta cit., p. 231.

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