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La Sindrome di Down: risorse e relazioni della famiglia. Indagine qualitativa presso l'Associazione Italiana Persone Down

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Academic year: 2021

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1 INDICE

Introduzione………. 4

CAPITOLO 1 La famiglia e il suo ciclo vitale………7

1.1 Cos’ è la famiglia? ………. 7

1.2 La famiglia e handicap ………. 11

1.2.1 La diagnosi neonatale e durante la prima infanzia ………13

1.2.2 Il legame di attaccamento ………. 14

1.2.3 Le conseguenze della disabilità all’interno della famiglia ……… 15

1.3 I Siblings ……… ………. 18

CAPITOLO 2: La Sindrome di Down. Tra miti e verità. ……….. 24

2.1 La famiglia con un bambino con la Sindrome di Down ………. 28

CAPITOLO 3 Le risorse necessarie per affrontare un handicap 3.1 La resilienza del singolo e della famiglia ………... 31

3.2 La capacità di Coping ………. 34

CAPITOLO 4 Lo studio ...… 51

4.1 Campione e campionamento……… 51

4.2 Materiali e metodi……… 52

4.2.1 Strumenti di raccolta dati ………. 54

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4.3.1 Esiti delle interviste ai genitori………. 59

4.3.2 Esiti delle interviste ai fratelli………72

4.4 Risultati……… 79

Conclusioni ………... 85

Bibliografia e sitografia ………... 88

Ringraziamenti ………. 90

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“…Ma dammi la mano e torna vicino Può nascere un fiore nel nostro giardino Che neanche l’inverno potrà mai gelare Può nascere un Fiore da questo mio Amore per te!” -Rino Gaetano, A mano a mano

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INTRODUZIONE

Sentirsi come dei “Pinguini nel Deserto”. Questa è la sensazione che

accomuna tutti i genitori e i fratelli di persone con disabilità. Si sentono spesso soli, spiazzati e impauriti all’interno di una società che,

purtroppo, ancora non è pronta ad accogliere la diversità. Il vissuto dominante nei confronti di un ragazzo disabile e della sua famiglia è, infatti, l’ambivalenza, accompagnata spesso da dei tentativi atti a superarla come l’evitamento, la

compassione e la banalizzazione. 1

La Sindrome di Down, pur essendo molto comune (è una tra le anomalie genetiche più diffuse al mondo), è ancora poco conosciuta. Negli anni, si sono poi diffusi vari luoghi comuni e credenze che, invece di aiutare le persone ad

avvicinarsi alla conoscenza della sindrome, le hanno allontanate dalla realtà. Si tende a provare pietà e compassione per i down che sono spesso considerati

degli eterni bambini “senza futuro”, persone che non possono crescere e imparare. Da quello che ho potuto notare, durante il mio tirocinio presso l’Associazione Italiana Persone Down, è tipico dei genitori chiedersi se, un

giorno, saranno in grado di lavorare, amare o vivere da soli. Involontariamente, sono proprio le famiglie a limitare la crescita dei ragazzi non

considerandoli mai autonomi e non in grado di dare ma solo di ricevere.

Ma essere genitori o fratelli di persone con disabilità rappresenta un limite o una risorsa? Essendo estremamente convinta del fatto che sia un’enorme risorsa e possibilità di crescita personale, nella mia tesi, ho deciso di provare come sia possibile raggiungere un certo equilibrio familiare nonostante le difficoltà che si presentano sistematicamente. Per far questo, ho deciso di specificare quali

1A.M. Sorrentino (2006), Figli disabili. La famiglia di fronte all’handicap. RaffaelloCortina Editore,

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5

sono i rapporti che si creano all’interno di una famiglia e di fare un confronto tra le strategie di coping adottate da parte dei genitori e di un ragazzo con la Sindrome di Down. Sicuramente, la nascita di un figlio Down rappresenta un vero e proprio Shock per tutta la famiglia e l’adattamento assoluto non esiste. È infatti importante considerare ogni situazione familiare lungo un continuum graduale che parte da una condizione negativa, di massima crisi ed arriva al massimo grado di stabilità. Tra un estremo e l’altro, esiste una quantità infinita di posizioni intermedie. Quando nasce un bambino Down, è impossibile prevedere quale sarà il suo livello di sviluppo cognitivo e relazionale all’età di vent’anni: non si può fare altro che mirare in alto, adoperarsi affinché il suo potenziale possa esprimersi, valorizzare i suoi talenti, pronti però ad accettare anche i suoi limiti.2

Da settembre 2014, ho iniziato ad andare, più volte alla settimana, all’Associazione Italiana Persone Down di Pisa, inizialmente come tirocinante e poi come volontaria. L’associazione si pone tra gli obiettivi quello di permettere a tutte le persone con la sindrome o patologie affini di raggiungere una propria autonomia e un pieno sviluppo mentale e sociale attraverso un

rapporto di fiducia e di rispetto che s’instaura con gli operatori e i volontari. In generale, comunque, nel rispetto della legge 104/19923, i principi da garantire

sono molti tra cui quello di riuscire a diffondere più informazioni possibili sulla sindrome e anche di aiutare le famiglie ad affrontare e gestire la nascita di un figlio down. È stata e continua a essere una delle esperienze più belle della mia

vita che mi ha dato tanto sia a livello umano che professionale. Soprattutto, mi ha permesso di conoscere una nuova e diversa realtà.

2 Associazione Trisomia 21 Onlus (a cura di E. Gucci) (2009) Chi lo legge questo libro? Persone e

sindrome di Down. Polistampa, Firenze.

3 Legge 104/1992: Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone

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6

Ho pensato di iniziare la mia tesi dedicandomi alla definizione di famiglia. Cosa è la famiglia e quali sono i legami che la contraddistinguono e la rendono unica? Come può reagire di fronte ad un handicap? In più, avendo deciso di non concentrarmi solo sul classico e già ampiamente discusso rapporto tra genitori e figli, ho pensato di dedicare una parte di questo capitolo anche al punto di vista dei Siblings (fratelli o sorelle di persone disabili.) In questo modo, ho potuto specificare come la relazione fraterna con un ragazzo disabile non sia necessariamente negativa ma che possa diventare motivo di crescita per entrambi.

Nel secondo capitolo, ho deciso di approfondire l’argomento base della tesi: la

sindrome di Down. Cosa è e quali sono i miti che la riguardano?

Come si comportano i genitori di bambini down?

Nel terzo capitolo, mi sono, invece, soffermata sulle strategie fondamentali che vengono adottate da parte delle persone per affrontare l’handicap, come la

resilienza e il coping. Mentre la resilienza può essere come una serie di capacità

interiorizzate, il coping è associato ad attività di fronteggiamento di eventi complessi che hanno il loro epicentro in situazioni legate alle difficoltà degli individui.

Per la mia indagine qualitativa, dal quarto capitolo in poi, ho deciso di fare delle interviste ad alcune famiglie (genitori e fratelli) che ho potuto conoscere durante il mio periodo di tirocinio. Grazie alla loro disponibilità, ho approfondito alcuni aspetti fondamentali delle reazioni che si innescano al momento della nascita di un bambino down.

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CAPITOLO 1

LA FAMIGLIA E IL SUO CICLO VITALE

Negli anni, la famiglia ha subito numerose variazioni. In molti paesi l’idea di famiglia tradizionale si sta lentamente sgretolando con l’aumentare di diverse tipologie di famiglia in base al tipo di relazione e al numero dei membri che la compongono. Sono sempre più diffuse le famiglie di fatto, allargate e famiglie separate o divorziate.

1.1 COS’ È LA FAMIGLIA?

“La famiglia è una struttura molto articolata. In maniera assai generica può essere definita un’unità di cooperazione, basata sulla convivenza, avente lo scopo di garantire ai suoi membri lo sviluppo e la protezione fisica e

socioeconomica, la stabilità emotiva, il sostegno nei momenti difficili. Fondata su un’alleanza di adulti, la famiglia ha, tra i suoi compiti cardinali, la

generazione e l’allevamento della prole.” 4

È un sistema vivente, aperto sia verso l’esterno sia verso l’interno e caratterizzato da un’autonomia intrinseca del sistema familiare nelle relazioni tra i membri, una flessibilità e dalla possibilità di cambiamento e riorganizzazione della struttura che può essere stimolata sia dall’interno sia dall’esterno del sistema. La famiglia è considerata, quindi, come uno dei luoghi che può maggiormente influenzare l’individuo sia durante le sue prime fasi di vita ma anche in seguito in quanto, attraverso essa, entra in contatto con la realtà sociale che lo circonda.

4 A. M. Sorrentino (2006) Figli disabili. La famiglia di fronte all’handicap. RaffaelloCortina Editore, Milano.

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Oltre a essere un sistema, è anche un gruppo di persone (legate da relazioni di parentela) che si trova ad affrontare compiti ed eventi critici richiedenti di buone capacità di adattamento per tutti i membri.

Una famiglia socialmente competente è ritenuta capace di reagire sia alle situazioni prevedibili che a quelle imprevedibili. Gli eventi critici che caratterizzano ogni ciclo vitale familiare possono essere di tipo normativo o

paranormativo. Gli eventi critici normativi sono connessi ai normali processi

di sviluppo e sono tutti eventi attesi e prevedibili (es. la nascita, l’adolescenza…). Mentre quelli paranormativi sono tutti quegli avvenimenti che, anche se frequenti, non sono aspettati (es. il divorzio o la morte di un familiare). Questi eventi mettono la famiglia di fronte a difficoltà maggiori e

possono più facilmente bloccare lo sviluppo di una famiglia. Rispetto al ciclo di vita, il primo evento critico è la costituzione dell’identità di

coppia. Abitualmente, la fondazione del nucleo familiare ha inizio con la decisione

presa da parte di due adulti eterosessuali di passare il resto della vita insieme. Entrambi decidono di affidarsi l’uno all’altra senzaperò esserne maidipendenti. Alla base di questo progetto di vita è spesso presente una ricerca di stabilità e

di volontà a soddisfare inconsciamente tutta una serie di bisogni infantili non risolti. L’amore che tiene legati gli adulti può essere considerato un vero e proprio processo di attaccamento, analogo a quello che lega un bambino alla madre, ovvero un processo che ha alla sua base tanto il bisogno di protezione, quanto la propensione a prendersi cura dell’altro.

Raggiunta una certa stabilità di coppia, la fase successiva, che ridefinisce la vita di tutta la famiglia, è la nascita dei figli. Questo cambiamento trasforma i

semplici fidanzati in genitori di un piccolo “cucciolo umano”. In generale, in ogni transazione del ciclo vitale, tre o quattro generazioni si

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trovano a dover cambiare insieme. Tale passaggio è molto importante in quanto, se si dovessero presentare delle difficoltà in questo cambiamento, il ciclo vitale potrebbe bloccarsi. Il periodo di accudimento è solitamente molto lungo ed è seguito, durante l’adolescenza, dalla conquista di una progressiva autonomia e libertà dei figli dai genitori, fino ad arrivare alla loro uscita dal nucleo familiare. Ogni famiglia è caratterizzata da una serie di relazioni di attaccamento, che si sviluppano durante l’intera vita, fondamentali per ogni suo membro.

“L’attaccamento è parte integrante del comportamento umano dalla culla alla

tomba.” 5

Il sistema di attaccamento è basato sul bisogno, in situazioni di stress, di vicinanza alla figura di attaccamento (rappresentata solitamente dalla madre), dall’aumento del benessere se lei fosse vicina o con l’aumento di ansia nel caso questo non dovesse verificarsi. È un modello complesso che riguarda non soltanto il rapporto che si instaura con i genitori ma anche i parenti, gli amici e

i compagni con i quali decidiamo di passare la vita. Verso i nove mesi, il bambino è tendenzialmente portato a sviluppare un forte

legame di attaccamento con chi reputa più forte. La madre, o chi si prende cura di lui, è vista come una base sicura6 da cui partire per esplorare e da cui poter

tornare. Al momento in cui il bambino avverte una minaccia, cessa

l’esplorazione e raggiunge prontamente la madre per ricevere conforto. Lo sviluppo della personalità dipende dalla possibilità che ha avuto il bambino

5 J. Bowlby (1999), Attaccamento e perdita. Volume 1: L’attaccamento alla madre. Bollati Boringhieri, Torino. Bowlby contrasta l’idea freudiana secondo la quale il legame madre-bambino si basa solo sul bisogno di nutrimento del piccolo. Egli, infatti, considera il loro legame principalmente come un bisogno primario necessario per la sopravvivenza biologica e psicologica del bambino. 6 L’uso del termine “base sicura” è da attribuire a Mary Ainsworth, ideatrice della “Strange situation”. Durante la “strange situation”, vengono osservate le risposte di un bambino fra i 12 e i 18 mesi in tre momenti fondamentali: quando il genitore si allontana, quando il bambino rimane solo con una persona estranea e durante il ricongiungimento con la madre.

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di aver sperimentato “una base sicura”. Esistono quattro tipi di attaccamento teorizzati da Mary Ainsworth:

Attaccamento sicuro: quando la madre è responsiva alle richieste del piccolo e gli dà tutto il supporto necessario per affrontare situazioni di stress.

Attaccamento insicuro evitante: quando la madre è distante e non reagisce ai segnali del piccolo.

Attaccamento insicuro ambivalente: quando la madre passa a essere o troppo presente o molto distante alle necessità del figlio.

Attaccamento disorganizzato: si struttura quando accadono eventi molto stressanti alla madre che la rendono non in grado di percepire i bisogni del loro bambino.

Nonostante la teoria dell’attaccamento sia nata con l’interessamento verso i primi anni di vita dell’essere umano, lo stile di attaccamento costruitosi durante

l’infanzia rimane relativamente stabile durante lo sviluppo. Responsabili di questa presenza sono i MOI7, modelli relazionali appresi

attraverso il ripetersi delle interazioni con le prime figure significative.

7 MOI: Modelli Operativi Interni. Sono rappresentazioni mentali costruite dall’individuo come strutture mentali che contengono le diverse configurazioni (spaziale, temporale, causale) dei fenomeni del mondo. Hanno la funzione di veicolare la percezione e l’interpretazione degli eventi, consentendo di fare previsioni e di crearsi aspettative sugli accadimenti della propria vita relazionale.

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11 1.2 FAMIGLIA E HANDICAP

Negli ultimi anni, il concetto di disabilità ha subito numerosi cambiamenti nella cultura europea. La definizione dell'handicap comunemente accettata si deve all'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)8, che nel 1980 pubblicò la "Classificazione Internazionale delle Menomazioni, delle Disabilità e degli Svantaggi Esistenziali". Essa distingueva tre livelli:

• Menomazione, intendendo qualsiasi perdita o anomalia permanente a carico di una struttura anatomica o di una funzione psicologica, fisiologica o anatomica (esteriorizzazione)

• Disabilità, intendendo qualsiasi limitazione o perdita (conseguente a menomazione) della capacità di compiere un'attività di base (quale camminare, mangiare, lavorare) nel modo o nell'ampiezza considerati normali per un essere umano (oggettivazione)

• Handicap9, riferendosi alla condizione di svantaggio, conseguente ad una menomazione o ad una disabilità, che in un certo soggetto limita o impedisce l'adempimento di un ruolo sociale considerato normale in relazione all'età, al

sesso, al contesto socio-culturale della persona (socializzazione). L’ handicap era classificato nel seguente modo:

 Handicap dell’orientamento

 Handicap nell’indipendenza fisica

 Handicap nella mobilità

 Handicap occupazionali

8 OMS, Classificazione Internazionale delle menomazioni, disabilità e degli handicap (ICIDH), Cles, 1980.

9 La parola “handicap”, attualmente, non viene più utilizzata. In base a nuovi studi e alla definizione dell’Oms del 2001, è stata riconosciuta la sua connotazione negativa.

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 Handicap nell’integrazione sociale

 Handicap nell’autosufficienza economica

L’handicap fisico o psichico è un “dato estraneo” al sistema delle relazioni umane, che viene sentito come un’aggressione del destino contro il quale i vissuti di rivolta o di rifiuto non sono sufficienti a canalizzare l’aggressività suscitata da questa prova durissima, aggressività che perciò assai spesso evolve in lutto e melanconia.10

Le dinamiche di un’intera famiglia possono essere completamente condizionate dalla nascita di un bambino con disabilità. Questa novità comporta al riadattamento di tutta una serie di equilibri, aspettative e bisogni, cambiando per sempre la vita di ciascun suo componente. La famiglia e i legami che

uniscono i suoi membri sono fondamentali per ogni figlio. Minuchin11, nel 1974, individuò due estremi di famiglie: le famiglie

“disimpegnate” e le “invischiate”. Mentre le prime sono caratterizzate da un

attaccamento di tipo evitante, le seconde da un ansioso ambivalente. Lavorare con queste famiglie può essere molto difficile perché, mentre le

disimpegnate tendono spesso a sottovalutare le difficoltà del disabile, le altre saranno sempre troppo iperprotettive nei suoi confronti.

Spesso i genitori si sentono molto più tranquilli dal fatto che iproblemi del figlio siano meno evidenti agli occhi esterni. Com’è riportato anche da Meo12, la famiglia tende sempre ad attribuire molta importanza al problema della visibilità dell’handicap. Infatti, almeno inizialmente, nel caso questo fosse meno visibile, il figlio sarebbe non diverso dagli altri e non rischierebbe

10S. Freud (1915), Lutto e melanconia. Tr.it. in Opere (1976), Boringhieri, Torino.

11 S. Minuchin (1974), Famiglie e terapia della famiglia. Tr. It. Astrolabio, Roma,1976.

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l’attribuzione di uno stereotipo. Secondo il loro pensiero, il ragazzo potrebbe quindi rapportarsi agli altri con molta più tranquillità.

1.2.1 La diagnosi neonatale e durante la prima infanzia.

La comunicazione della diagnosi ai genitori è un momento molto complesso in quanto si ricorderanno, anche a distanza di tempo, le esatte parole usate dal medico e il suo atteggiamento. La chiarezza e la gradualità sembrano un cocktail di attenzioni verso i genitori che non può naturalmente impedire la

sofferenza, ma può accompagnarla verso un cammino di speranze.13 Per i genitori è fondamentale ricevere più informazioni possibili dai medici. Quelli che si sentono liberi di condividere le proprie emozioni sono più

soddisfatti di tanti altri che, invece, vengono spesso lasciati soli di fronte alla notizia.

Al momento della diagnosi, i genitori possono avere reazioni diverse anche in base al sesso, alla loro esperienza generativa e a quanto credono sia grave la disabilità del proprio figlio. Nel caso di una coppia giovane e alla prima esperienza, una disabilità, come la Sindrome di Down del piccolo, può essere motivo di blocco. Dopo un primo momento spiazzante, la coppia giovane può

però essere guidata a riflettere sulla possibilità di avere un altro figlio. Una coppia più matura e con altri figli, può riuscire a integrare meglio il piccolo

13 Secondo una ricerca americana (Sharpe, Strauss, Lorch, 1992) le esigenze più sentite da parte dei genitori, durante la diagnosi, erano : che il pediatra dimostrasse un maggior coinvolgimento a livello emotivo (97%), che consentisse loro di parlare liberamente (95%), che li lasciasse esprimere emozioni (93%), che fornisse più informazioni sulla sindrome ( 90%), che desse loro più confidenza (89%), che fosse data loro la possibilità di poter parlare con altri genitori con lo stesso problema (87%).

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all’interno della famiglia e può essere aiutata a manifestare riconoscenza per il

supporto offerto dagli altri membri della famiglia. La reazione dei genitori alla presenza di un figlio disabile passa per diverse fasi.

In un primo momento, dopo la scoperta della disabilità del figlio, segue un periodo in cui i genitori tendono a nascondere la condizione del nascituro ad amici e conoscenti. È fondamentale per i genitori (in modo particolare per la madre) riuscire a rielaborare la “morte” del figlio sognato e desiderato, per riuscire ad accettare il figlio realmente nato. È un percorso caratterizzato da molto dolore e da forti sensi di colpa. Superato lo shock iniziale, con il passare del tempo, il dolore diminuisce dando spazio a un lento cammino di adattamento e a un legame di attaccamento affettivo madre-figlio fondamentale.

A differenza delle diagnosi alla nascita, gli handicap che si rilevano durante i primi anni del bambino dove tutta la famiglia è già a conoscenza di possibili problemi e i genitori, che si presentano alla visita medica, sono generalmente già molto carichi di ansie e di paure. Per calmare tutte le preoccupazioni anche del piccolo, che si accorge di essere diverso dagli altri, è fondamentale proporre un progetto riabilitativo ai genitori. Proprio perché il bambino è già inserito all’interno della famiglia, è molto più difficile che si possano manifestare degli atteggiamenti di rifiuto o deleganti ma è comunque importante aiutare i genitori a mantenere un buon legame di attaccamento con il piccolo.

1.2.2 Il legame di attaccamento

Se la madre è stata un buon supporto, è possibile trovare bambini disabili, sicuri e positivi con gli operatori. Allo stesso tempo, in caso di un rapporto evitante ambivalente, è possibile lavorare con dei bambini disabili solo dopo essere

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riusciti a conquistare la loro fiducia. Può quindi essere molto difficile per un

operatore, perché i piccoli sono spesso carichi di ansie e paure. Anche con i disabili, che hanno instaurato un attaccamento insicuro evitante con

le madri, gli operatori dovranno principalmente svolgere un lavoro basato sulla fiducia. Spesso questi bambini sono tristi e possono apparire con un deficit più grave di quello che è la realtà.

1.2.3 Le conseguenze della disabilità all’interno della famiglia.

La disabilità ha conseguenze anche sulle relazioni all’interno della famiglia e

spesso comporta anche una divisione dei compiti tra i coniugi. In Italia, la famiglia tradizionale, fondata su una definita separazione dei ruoli

tra uomo e donna, è ancora molto diffusa e le donne spesso assumono il ruolo di “mediatore” tra il disabile e il resto della famiglia, mentre sono gliuomini a impegnarsi principalmente nel lavoro. In altri casi, la disabilità del figlio ha imposto alle donne di rinunciare alproprio lavoro per dedicarsi alle sue cure. Questa continua situazione di assistenza in cui vivono può però essere la causa dell’impoverimento dei rapporti sociali sia all’interno che all’esterno dalla famiglia. I cambiamenti che investono ogni famiglia (dato che ormai è largamente condivisa l’idea che le famiglie si evolvono nel tempo) riguardano anche le famiglie con figli disabili. Con il passare degli anni, soprattutto quando i ragazzi diventano adolescenti, i genitori prendono consapevolezza della non modificabilità della disabilità che, nonostante l’impegno, persiste nel tempo. Crescendo, il ragazzo disabile sarà portato alla ricerca del benessere corporeo nella relazione con gli altri. Affrontare argomenti legati alla sessualità non è sempre semplice. Infatti, la sessualità raramente diventa oggetto d’insegnamento in quanto è molto diffusa tra genitori l’idea (sbagliata) che i

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loro figli disabili siano asessuali.14 È stato però notato come spesso, in caso di disabilità intellettiva, molti innamoramenti platonici e richieste sessuali sono rivolti a persone di fiducia come a personale educativo o amici di famiglia. Diversa è invece la situazione del disabile motorio, il quale spesso soffre intensamente per il fatto di non riuscire a soddisfare importanti bisogni affettivi. Molti genitori, per provare ad alleviare questo dolore, hanno ammesso di aver permesso al figlio di fare delle esperienze sessuali a pagamento ma che non sono state molto gradite. Per aiutare i ragazzi disabili a sperimentare l’erotismo e la sessualità, in Italia (all’estero esiste già da tempo), si sta diffondendo

sempre di più la richiesta da parte dei genitori di un’assistente sessuale. È stato compiuto recentemente il primo passo: la proposta di un disegno di

legge. Un’assistente sessuale non è una prostituta ma una figura che sulla base di una formazione psicologica e medica “sia in grado di aiutare le persone con

disabilità fisico-motoria, psichica, cognitiva, a vivere un’esperienza erotica, sensuale o sessuale e a indirizzare al meglio le proprie energie interne, spesso scaricate in modo disfunzionale in sentimenti di rabbia e aggressività.” 15

Anche grazie a questa nuova figura professionale, sarà più facile riuscire a

superare l’idea dell’asessualità e del “sesso fra angeli”. L’assistenza all’emotività, all’affettività, alla corporeità e alla sessualità si

caratterizza con la libertà di scelta da parte degli esseri umani di vivere e condividere la propria esperienza erotico-sessuale a prescindere dalle difficoltà riscontrate nell’esperienza di vita. Inoltre, Ulivieri16 specifica: “Non tutti

possono diventare assistenti sessuali, secondo quanto previsto nel progetto di

14 I disabili intellettivi, anche se a livello cognitivo possono rimanere lontani dalla loro età biologica, a livello corporeo e sessuale rispettano spesso i tempi della pubertà, dell’adolescenza e dell’esperienza erotico-sessuale.

15 Le informazioni riportate sono interamente consultabili sul sito internet www.assistenzasessuale.it 16 M. Ulivieri creatore di www.loveAbility.it e autore di “LoveGiver” (2004).

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legge che abbiamo presentato prima bisogna passare le selezioni per partecipare a un corso di formazione ben articolato e anche duro per certi versi, perché si va a scavare anche nella vita psicologica dell'aspirante assistente, nel modo in cui vive la sessualità. Solo dopo aver completato il corso di formazione e superato un esame si potrà essere iscritti in un albo, al quale potranno attingere le famiglie, o i singoli disabili.”

Attraverso l’incontro tra la famiglia e i servizi possono partire spesso iniziative

necessarie a gettare le basi per una vita il più possibile autonoma per i figli. L’attività lavorativa viene spesso considerata come un’attività occupazionale

che aiuta a strutturare la giornata del disabile e della sua famiglia. Sono sempre più presenti casi di persone disabili che lavorano attraverso un

“collocamento mirato” che è approvato dalla legge 68/199917. Il “collocamento mirato” è costituito da “una serie di strumenti tecnici e di

supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi di lavoro e di relazione.” 18

17 Legge 68/1999: Norme per il diritto al lavoro dei disabili. 18 S. Vicari (2007), La sindrome di Down, il Mulino, Bologna.

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1.3 I SIBLINGS

In situazioni di disabilità, per decenni, l’attenzione degli studiosi si è concentrata maggiormente sui genitori (soprattutto sulla madre) sottovalutando la presenza di altri figli. A partire dagli anni Ottanta, la ricerca ha cominciato a rivolgere il suo focus anche verso di loro in quanto fondamentali per il

mantenimento dell’equilibrio familiare. Il termine inglese “Sibling” che significa fratello o sorella, viene generalmente

adoperato per indicare i fratelli e le sorelle di persone che hanno delle disabilità. Abitualmente, il legame fraterno è la relazione più lunga e significativa della vita di una persona e consente a due o più persone di esercitare un’importante ascendente sulle corrispondenti vite. È caratterizzato da regole implicite ed esplicite che sono necessarie ad affrontare gli adulti e a fare emergere la propria indipendenza. Nella relazione fraterna, il bambino sperimenta, per la prima volta, il rapporto con i “pari”, confrontandosi con sentimenti di aggressività e di condivisione. Nel caso dei siblings, la relazione prevede aggiuntive sfide da affrontare (rispetto al normale rapporto di fratellanza) che possono condurre a grandi opportunità o ad alcuni rischi.

Del fratello con problemi si interessano sia i genitori che la società (medici, insegnanti, scrittori… etc.). Ma chi è che si dedica, invece, ai siblings “sani”? Proprio perché sani, sono costretti a crescere prima dei loro coetanei, ad aiutare

i genitori e a voler bene al proprio fratello nonostante tutte le difficoltà. Per lo sviluppo di un equilibrato legame fraterno, è fondamentale il contesto

familiare, i genitori e tutte le altre figure che ruotano intorno ai due fratelli. Secondo quanto riportato da Farinella19, Viorst20 sostenne che si potrebbe

19 A. Farinella (2015) Siblings. Essere fratelli di ragazzi con disabilità. Erickson, Trento.

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verificare un evento di mancata identificazione tra fratelli nel caso in cui i genitori dovessero circoscrivere in modo inflessibile le qualità dei bambini e il tipo di legame che dovrebbero avere.

Molti studi 21 hanno dimostrato quanto sia necessario, quando nasce un bambino con disabilità, comunicarlo anche agli altri figli della coppia prima possibile, qualunque sia la loro età. Pur essendo piccoli, gli altri bambini risentono fin da subito della sofferenza, del clima familiare e si accorgono presto delle differenze tra loro e il fratellino con disabilità. Per evitare un’inibizione dell’aggressività, sarà importante che i genitori (o un medico) sappiano spiegare con chiarezza ed empatia il motivo per cui il nuovo membro della famiglia abbia bisogno di particolari attenzioni. I genitori dovrebbero quindi rispondere a ogni domanda in modo preciso, impegnarsi ad avere un atteggiamento proattivo e magari fornire anche del materiale informativo.

Recentemente è stato però provato come spesso per i genitori sia davvero difficile parlare e condividere le paure sulla condizione del figlio anche all’interno del nucleo familiare. Magari per vergogna o per non voler caricare gli altri figli di pesi aggiuntivi. Invece, dovrebbero provare a spiegare le emozioni che sentono (anche se spiacevoli) in modo tale che i piccoli capiscano di non essere la causa del deficit del fratello e possano riuscire tranquillizzarsi. Avere tutte le informazioni necessarie sarà importante soprattutto durante l’adolescenza quando dovranno rispondere a domande o battute fatte da parte degli amici. Proprio in questo periodo, qualche adolescente, per paura di essere indicato come il “fratello dell’handicappato”, può decidere di allontanarsi dai pari se crede che il gruppo non appaghi la sua necessità di comunicazione.

21 S. L. Harris & B. L. Glasberg (2003) Siblings of children with autism: A guide for families. D. Meyer e P.Vadasy(2008) Sibshops.

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Inoltre, non bisogna dimenticare che il comportamento dei genitori influenza

spesso anche quello dei fratelli che tendono a imitarlo. E così, in caso d’iperprotettività anche i fratelli si sentiranno in dovere di

emulare i genitori. Al contrario, possono provare ad allontanarlo se notano che è emarginato anche dagli altri membri della famiglia.

Mentre il figlio disabile viene molte volte considerato non autonomo in tutto,

all’altro è attribuita la patente di “grande” molto prima del dovuto.

Gli stessi genitori tendono spesso a trasmettergli anche delle funzioni genitoriali sostitutive. I siblings assumono un ruolo importante all’interno della famiglia per il fatto di fornire un supporto emozionale costante sia al fratello che ai genitori. Sono una presenza fondamentale per la vita di ogni disabile in quanto lo aiutano e lo spronano continuatamente durante la crescita senza che ci sia una vera competizione tra i due.

La loro co-presenza in scena dà ai genitori la possibilità di aprire il proprio cuore a visioni meno apprensive e più gratificanti di quelle offerte dal fratello problematico, mitigano, e non poco, il senso di fallimento, l’angoscia per il senso di disfatta provata alla sua nascita: danno ai genitori delle gratificazioni che li ripagano dei loro sforzi educativi e li compensano un po’ delle delusioni che ricevono, invece, dal fratello compromesso. È inevitabile, poi che se la compromissione è veramente seria, ai fratelli viene fatto carico di funzioni genitoriali sostitutive che, col procedere della crescita, possono causare in loro un grave vissuto depressivo. […] Considerando poi anche il caso fortunato in cui l’emancipazione dei figli sani proceda per il meglio ed essi si dedichino a costruire un proprio futuro autonomo, pesa comunque su di loro la consapevolezza di dover subentrare ai genitori nei compiti di assistenza quando

questi per l’età, la malattia o la morte non potessero più farvi fronte. Questo dato di fatto non può essere cancellato. La sua influenza è infatti così

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potente che coloro i quali reagiscono ad essa con il rifiuto o la ribellione si trascinano per tutta la vita un senso di colpa che si esprime, a volte, con un immotivato timore di ereditarietà nella prole.22

Nella relazione fraterna, uno degli aspetti specifici è l’asimmetria dei ruoli nel quale il sibling con capacità tipica ha un ruolo dominante (indotto dai genitori) indipendentemente dall’ordine di nascita. Lobato23 specificò come i bambini capiscono realmente la situazione del fratello più grande solo quando avviene uno scambio di ruoli, cioè quando il minore sorpassa le competenze cognitive del maggiore (role crossover).

Il fratello di una persona con disabilità spesso è ai margini delle attenzioni dei genitori e di tutta la famiglia e fatica a esprimere le emozioni nell’ambito del contesto familiare sia nel gruppo dei pari che difficilmente possono condividere il suo grado di responsabilità. Il sibling, avendo paura di caricare i genitori di maggiori problemi, può decidere di nascondere o rimandare le proprie difficoltà. Invece, è fondamentale che ogni bambino si senta autorizzato a esprimere tutte le sue paure e dubbi. Le preoccupazioni dei fratelli più ricorrenti sono le seguenti:

L’imbarazzo e la vergogna: i siblings possono provare imbarazzo per i

comportamenti inadeguati dei fratelli. Sentendosi parte di una famiglia “tarata”, tendono a provare imbarazzo e vergogna nel rapporto con i pari.

Spesso si sentono esclusi dagli altri o si mettono in uno stato d’isolamento.

22 A.M. Sorrentino (1987) Handicap e riabilitazione. Una bussola sistemica nell’universo relazionale

del bambino handicappato. La nuova Italia scientifica, Roma

23 D.J. Lobato (1993), Issues and interventions for young siblings of childen with medical and

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Questi sentimenti sono più comuni nelle fratrie composte solo da due soggetti poiché quello con sviluppo tipico può provare la sensazione di aver perso il vantaggio di conoscere una positiva relazione fraterna e si senta respinto da parte dei genitori.

Senso di colpa, eccessiva responsabilizzazione e richiesta di

prestazioni: il “senso di colpa del sopravvissuto” si manifesta quando i

siblings pensano di essere responsabili per la fragilità del fratello. Questo sentimento spesso si accompagna a un maggiore coinvolgimento

nella cura del fratello.

Sono spesso le sorelle primogenite ad assumere un ruolo da genitoree a soffrire per maggiori problemi di isolamento.

Ai maschi questoviene in parte risparmiato. In più c’è la tendenza da parte dei genitori di richiedere al figlio

prestazioni eccellenti in tutti i campi. I siblings, per non deluderli, diventano solitamente molto esigenti

soprattutto con loro stessi.

L’identificazione nell’altro: dove la disabilità è invisibile (come in caso di autismo), nei fratelli minori può nascere la paura da parte del sibling

di poter acquisire la disabilità del fratello. Per questo è importante poter fornire più informazioni possibili ai

bambini.

Alla presenza di un figlio dello stesso sesso, tutte le aspettative dei genitori vanno a pesare sul figlio sano che si sentirà sovraccaricato di responsabilità da soddisfare. Questa è una situazione molto delicata in quanto, per i genitori, con il passare degli anni, può non essere semplice lasciarlo libero di uscire dalla famiglia per formarne una propria.

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C’è un enorme differenza fondamentale tra i genitori e i fratelli dei diversabili ed è la possibilità di scelta: mentre i primi devono fare i genitori tutta la vita, i secondi possono scegliere cosa essere e cosa fare, impegnarsi o dimenticarsi di essere fratelli e vivere la loro vita lontani dai loro congiunti più bisognosi24. Gli stessi figli con sviluppo tipico, infatti, spesso hanno difficoltà a separarsi dalle loro famiglie. Le ragioni possono essere molte: paura che la famiglia abbia un immediato bisogno di loro, gelosia verso il fratello che rimane con i

genitori o senso di colpa a lasciarlo “solo” per formarsi una nuova famiglia. Purtroppo, anche nel caso in cui i figli dovessero riuscire a emanciparsi, molte

volte continua a pesare su di loro la consapevolezza di dover sostituire prima o poi i genitori nell’assistenza al fratello disabile.

Un altro aspetto importante della vita per i siblings è la paura del futuro.

“Cosa accadrà quando sarà mia totale responsabilità prendermi cura di lui? Vivremo insieme o separati? La persona che avrò accanto capirà?”

Fidanzati o partner vengono selezionati e giudicati idonei in base alla loro

disponibilità a condividere il problema familiare e a farsene carico in un futuro. Attualmente, esistono sempre più associazioni di famiglie di persone con

disabilità che si sono impegnate ad affrontare e definire in modo appropriato il

problema del durante e del dopo di noi. Il “dopo di noi” è, infatti, il pensiero più ossessionante e difficile da superare.

In Italia nel 1997, è stato costituito il Comitato Siblings25 che “si rivolge a tutti i fratelli e le sorelle di persone con disabilità che vogliono confrontarsi e desiderino condividere le proprie emozioni con persone che possono

24 I. Manzato e F. Bellan (2004), Fratello sole e sorella down, Armando, Roma.

25 Il Comitato Siblings nasce da un’idea di Anna Serena Zambon Hobart, la quale sottolineò, nel 1997, la necessità di uno spazio pensato appositamente per i fratelli e le sorelle di persone con disabilità: “i figli invisibili”. La documentazione relativa al Comitato Siblings è tratta dal sito www.siblings.it

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comprendere esattamente ciò di cui si sta parlando: un legame speciale. Una delle attività principali è infatti la promozione di gruppi di auto mutuo aiuto

per tutti i siblings adulti. L’obiettivo principale dei gruppi, a cui partecipano i fratelli, è quello di riuscire a provare beneficio ascoltando i racconti degli altri e sentendosi liberi di parlare della propria esperienza.

Crescere con un fratello diversamente abile non è semplice ma può mettere di fronte a vantaggi inaspettati. I siblings sono spesso caratterizzati da maggiore maturità, sviluppano maggiori competenze sociali e senso della giustizia rispetto ai loro coetanei.

CAPITOLO 2

LA SINDROME DI DOWN. TRA MITI E REALTA’.

Il termine “Sindrome di Down” deriva dal nome del Dott. Landon Down che per primo, nel 1862 e più ampiamente nel 186626, coniò la parola “mongolismo” per evidenziare una serie di caratteristiche comuni nel volto tra i bambini con la sindrome e la razza mongola. In particolare, lui indicò come particolarità la faccia ampia, la lingua grossa, delle pieghette intorno agli occhi, alcune difficoltà linguistiche, una personalità “umorale” e una durata della vita più

breve che sembravano causate dall’insorgenza della tubercolosi. Negli ultimi anni, la Sindrome di Down è diventata una delle dieci anomalie

26 In precedenza, alcuni aspetti della Sindrome erano stati clinicamente descritti da Jean – èitien Dominique Esquirol nel 1838 e da Edouard Seguin nel 1844.

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25

genetiche più comuni al mondo. L’aspettativa di vita è decisamente cresciuta

fino a superare i sessant’anni di età. La stessa Anna Contardi27 conferma:

“È un luogo comune dovuto alla mancanza di conoscenza sui progressi della medicina. La vita media delle persone con sindrome di Down in Italia e nell’Unione europea è di 62 anni. L’80% di loro raggiunge i 55 anni e il 10% arriva a 70”.

Questo è un progresso considerevole: negli anni quaranta, l’aspettativa di vita era di soli 12 anni, e negli anni ottanta di 33.

Il miglioramento è dovuto ai passi avanti nella cura delle malattie respiratorie e ai progressi della cardiochirurgia, “ma anche al fatto che moltissime persone

Down vivono in famiglia. È dimostrato, infatti, che il ricovero in istituto accorcia la vita”.

Detta anche Trisomia 21, la SD è una condizione distinta dall’esistenza, nel

patrimonio genetico individuale, di tre copie di cromosoma 21 al posto di due. Solo raramente ereditaria, il 97% dei casi sembrerebbe dovuto ad un’anomalia

genetica casuale, avente luogo prima del concepimento. Specificatamente, esisterebbero ben tre tipi di anomalie cromosomiche che sono

responsabili di questa sindrome. Nella prima, quella più comune, i cromosomi totali sono 47 invece di 46. Questa forma è normalmente chiamata “trisomia 21 libera” (95% dei casi) e consiste nell’avere, in tutte le cellule dell’organismo, tre cromosomi 21 invece di due. La seconda forma, invece, è la “trisomia 21 da traslocazione” (3% dei casi) la

quale è l’unica che può essere legata a un aspetto genetico di uno dei genitori.

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In questa circostanza, una parte del cromosoma 21, spezzandosi durante la divisione cellulare, si unisce a un altro cromosoma (solitamente al cromosoma 13, 14, 21 o 22).

Infine, la terza forma, nonché la più rara (2% dei casi), è la “trisomia 21 libera

in mosaicismo” che, a differenza delle altre, prevede la presenza nell’organismo

sia di cellule con 46 cromosomi che alcune con 47.

Non ci sono attualmente studi scientifici che dimostrano che la sindrome di down possa essere causata da particolari fattori ambientali o da specifiche

attività svolte da parte dei genitori durante il periodo di gestazione. Può manifestarsi in persone di tutte le razze e classi sociali anche se, come viene

ricavato anche dalla tabella riportata di seguito, l’incidenza della sindrome può

dipendere molto dall’età della madre al momento del concepimento. Più è maggiore l’età e maggiore è la probabilità di avere un figlio Down. (Es:

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Prima della nascita del bambino, possono essere fatti dei test di screening che, prevedendo esami del sangue ed ecografie, mettono a conoscenza i genitori

della probabilità che il feto possa essere affetto da Sindrome di Down. Attualmente, solo l’amniocentesi e la villocentesi (anche se molto invasive e

spesso causa di aborto) possono fornire una diagnosi sicura quasi al 100%. Inoltre, i medici sono in grado di diagnosticare con sicurezza la sindrome attraverso un’analisi cromosomica denominata cariotipo che può essere fatta solo al momento della nascita.

Sul modo di essere e sulle capacità delle persone con la Sindrome di Down, negli anni, si sono sparsi alcuni luoghi comuni e credenze che credo sia fondamentale smentire.

1) Sono tutti uguali nel carattere!!

Non esistono forme lievi o gravi della malattia. Le persone Down, però sono l’una diversa dall’altra. Una maggiore o minore disabilità intellettiva non dipende in senso stretto dalla trisomia 21, ma dall’effetto combinato del restante patrimonio genetico e soprattutto da educazione e ambiente di crescita.

2) Sono sempre felici e contenti.

È lo stereotipo più comune e più falso. Come qualsiasi altra persona, i

ragazzi con la SD possono essere allegri o tristi, calmi o nervosi. Sanno esprimere in modo molto esplicito le emozioni che provano e il

loro umore è strettamente legato a ciò che gli accade intorno.

3) Possono eseguire soltanto lavori ripetitivi.

In realtà, sono sempre più numerosi gli esempi di down che, spiccando per alcune qualità particolari di memoria, creatività e osservazione, e

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tramite un inserimento mirato riescono a svolgere lavori che necessitano impegno e continua creatività.

4) Sono incapaci di avere dei rapporti interpersonali.

L’affettuosità è selettiva e intelligente. Si è visto come tra persone down possano nascere amicizie e amori. Ci sono stati anche alcuni casi di matrimonio. Ci sono ancora incertezze sulla riproduttività del maschio, mentre le donne sono per lo più fertili.

5) Non sanno di essere handicappati.

Un bambino è in grado di capire la propria diversità e può approfittarsi dell’handicap o può angosciarsi. Il rapporto con il suo handicap dipenderà molto dal modo che utilizzeranno i genitori per affrontare l’argomento con lui.

2.1 La famiglia con un bambino con la Sindrome di Down

“Avere un figlio con sindrome di Down ti insegna a vedere, a pensare oltre…

anche se all’inizio sei spaventato e non sai nulla.”

La famiglia è il luogo favorito di educazione di un figlio down. Ogni genitore, al momento della nascita, può avere delle reazioni diverse anche in base alla conoscenza della sindrome, la cultura personale, la condizione economica, ecc.…

Per questo motivo, di fondamentale importanza è ritenuto il momento della diagnosi per le conseguenze che ne derivano. Le domande che si pongono sono

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Il cammino del disabile verso il ruolo adulto andrà, per esempio, incoraggiato dai genitori, che invece tendono a viverlo come un “figlio per sempre”.28 Le varie associazioni sparse per tutta Italia, offrono il loro aiuto nella tutela dei diritti delle persone Down e contribuiscono al loro inserimento scolastico e sociale a tutti i livelli per garantire il raggiungimento di una sufficiente autonomia. L’Aipd esegue da tempo un monitoraggio costante dell’inserimento delle persone Down nel mondo del lavoro, e si è osservato che i casi di successo non sono legati alla ripetitività delle mansioni ma all’efficienza

nell’organizzazione dei compiti e alla fiducia nel lavoratore. Il percorso prevede le seguenti azioni29:

1. Informazione e sensibilizzazione delle aziende e delle famiglie sulla Sindrome di Down e sulle potenzialità delle persone con la sindrome. 2. Accompagnamento delle famiglie nella presa di coscienza di cosa voglia

dire per il proprio figlio lavorare. Accrescere la loro fiducia nelle capacità produttive della persona down.

3. Percorso educativo con i ragazzi nella comprensione del ruolo di lavoratore, nella preparazione a colloqui di lavoro. Costruzione di profili personali per i potenziali lavoratori.

4. Individuazione di aziende disponibili ad accogliere le candidature e accompagnamento nelle fasi di definizione del contratto di lavoro.

5. Eventuale tutoraggio Aipd durante i primi sei mesi di lavoro e

monitoraggio per i primi 2 anni.

6. Disponibilità per consulenze ad aziende e famiglie a tempo indeterminato.

28 M. Chiurchiù (2002) Figli per sempre. La cura continua dei del disabile mentale. Carocci, Roma. 29 S. Vicari (2007), La sindrome di Down, Il Mulino, Bologna.

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Un caso di successo, per esempio, è quello dell’Hotel 6 Stelle30 , in cui viene offerto un tirocinio formativo della durata di sei settimane a tre ragazzi e tre ragazze con sindrome di Down. Dopo la trasmissione della prima edizione, l’Aipd è stata contattata da oltre cinquanta aziende e associazioni disposte ad

offrire tirocini formativi, assunzioni e lavori stagionali. In Italia, stanno sempre di più aumentando locali (bar e ristoranti) gestiti da

ragazzi con la Sindrome di Down (es. Milleluci Cafè a Firenze 31e Bar Area 67 a Nardò32).

Le persone con la sindrome non è vero che saranno sempre dipendenti dagli altri, in particolare dai genitori. Le varie associazioni italiane (Aipd, Trisomia 21, Vivi Down, Coordown... etc.) lavorano da anni per migliorare l’autonomia dei ragazzi e, negli anni, hanno anche raggiunto ottimi risultati. Attraverso un percorso di educazione all’autonomia, sono riusciti a insegnare a chi ha gravi disabilità intellettive ed a chi è incapace di leggere e scrivere, a prendere i mezzi pubblici, gestire il denaro, curare l’igiene personale e quella della casa e a cucinare.

Per acquisire le varie capacità e una buona autostima, l’AIPD di Pisa propone

diverse attività che sono rivolte a fasce di età diverse. Mentre “Passo dopo passo”, “Gioco e imparo” e “Gli Esploratori” sono

indirizzati verso i più piccoli (0-13 anni), “Il Club dei ragazzi” è rivolto a chi ha compiuto i quattordici anni e “l’Agenzia del tempo libero” a chi ha già terminato il percorso di educazione all’autonomia. In più, da ottobre 2014, sono

30 Hotel 6 Stelle è una docu - fiction prodotta da Rai3 e Magnolia in collaborazione con l’Associazione Italiana Persone Down (AIPD) e con il patrocinio del Segretariato Sociale Rai.

31 A Firenze, da maggio ha aperto il “Milleluci Cafè”, un bar nel quale lavorano dei ragazzi con la Sindrome di Down. Il progetto, che nasce grazie alla collaborazione tra l’associazione Trisomia 21 Onlus e l’Unicoop Firenze, permette ai ragazzi d’imparare un lavoro, mettersi alla prova e costruire qualcosa di proprio.

32 Nel Bar Area 67, lavora come barman Michele Fracella, uno dei ragazzi selezionati dall’AIPD per il progetto d’inclusione lavorativa “Lavoriamo in Rete”.

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stati attivati anche i “Circoli” che rappresentano ancora un passo ulteriore verso la conquista dell’autonomia. Cinque ragazzi, che hanno alle spalle molti anni di esperienza nei vari progetti Aipd, possiedono le chiavi di una vera casa (Casa nostra) che condividono e gestiscono. Fondamentale per l’acquisizione di una maggiore autonomia è anche il progetto “Casa Nostra” che dà l’opportunità ai ragazzi di poter vivere per un breve periodo (dalle nove del sabato mattina alle diciotto della domenica) al di fuori dell’ambiente familiare. Ogni weekend, cinque utenti insieme con un operatore e un volontario vivono in un appartamento sopra la sede dell’associazione dove si occupano della gestione della casa. Durante questi due giorni, in un clima molto confortevole, si sentono più liberi e testano com’è vivere senza familiari. Confrontandosi e collaborando tra di loro, vanno a fare la spesa, imparano a cucinare, a pulire la casa e scelgono come impiegare il loro tempo libero.

CAPITOLO 3

LE RISORSE NECESSARIE PER AFFRONTARE L’HANDICAP

3.1 La resilienza del singolo e della famiglia

Il termine “resilienza” etimologicamente deriva dal latino “resalio” (risalgo). Proviene dalla scienza dei materiali e indica la capacità di assorbire energia senza deformarsi, l’andare avanti senza arrendersi di fronte alle difficoltà. La resilienza è una capacità che può essere interpretata come un insieme di

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comportamenti sia come una serie di capacità interiorizzate. Può essere definita come il potere o l’abilità di ritornare alla forma o posizione

originale dopo essere stati piegati, schiacciati, o sottoposti a tensione, come pure la capacità di superare le avversità, sopravvivere allo stress, e riprendersi dopo un momento di difficoltà. 33

Sono stati individuati tre grandi classi di fattori protettivi che, interagendo e modificandosi a vicenda, contribuiscono a mantenere un comportamento resiliente:

 Un supporto sociale ben definito

 Caratteristiche di personalità, intelligenza flessibile e capacità adattiva, senso dell’humor, empatia e locus of control interno

 Aver avuto, da bambini, persone di riferimento significative.

Mentre in passato, gli studiosi pensavano alla resilienza come a una risorsa più che altro individuale, oggi, l’attenzione della ricerca è stata rimandata dal singolo alla famiglia.

Molti autori, come Thompson e Futrell34, individuarono le seguenti caratteristiche per la resilienza familiare:

La galleggiabilità, cioè la capacità della famiglia di recuperare rapidamente livelli di funzionamento paragonabili a quelli precedenti all’evento critico, producendo o ricercando cambiamenti nei modelli di funzionamento della famiglia stessa. La famiglia, anche se potrebbe essere temporaneamente sovraccaricata da stress, resiste trasformando e adattando la sua struttura di base.

33 L., Valentine e L. L. Feinauer (1993), Resilience factors associated with female suvivors of childhood sexual abuse.

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L’ elasticità, cioè l’abilità del sistema familiare di mantenere propri modelli e di funzionare anche dopo essere stato sfidato e messo a confronto con fattori di rischio.

Le famiglie che hanno maggiore resilienza dimostrano di avere soprattutto una buona capacità di adattamento positivo per il loro benessere. McCubbin e McCubbin35 hanno identificato tre tipologie di famiglie: le resilienti, le ritmiche e le rigenerative.

Le famiglie resilienti sono quelle in grado di sviluppare un maggior grado di flessibilità e accordo. Le ritmiche si concentrano sul tempo passato in famiglia e sulle routine, come modo di far fronte al cambiamento, mentre le rigenerative tendono a utilizzare tipi di funzionamento come la solidarietà e la coerenza rispetto allo stress.

McCubbin e McCubbin36 individuarono anche quali erano i fattori necessari per il recupero di una famiglia in situazioni di difficoltà:

Fiducia in sé e uguaglianza: una famiglia, durante una crisi, è costretta a dover fare dei cambiamenti. Per questo motivo èimportante che rimanga viva la fiducia nelle proprie capacità e nel legame familiare.

Schema e significati di famiglia: ogni famiglia ha un insieme di regole, credenze e valori condivisi necessari a guidare il comportamento della famiglia in caso di crisi. Tutto il nucleo è obbligato a impegnarsi per rafforzare l’equilibrio e l’armonia.

35 M.A. McCubbin e H. I. McCubbin (1998), Typologies of resilient families: Emerging roles of social

and ethnicity, in Zanobini M., Manetti M. e Usai M.C. (2002), La famiglia di fronte alla disabilità. Stress, risorse e sostegni., Edizioni Centro studi Erikson S.p.A., Trento.

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Ottimismo e capacità d’integrazione della famiglia: per un miglioramento della salute del piccolo, tutta la famiglia si impegna a mantenere una visione ottimista e positiva. Fondamentale è l’enfasi della famiglia nel partecipare ad attività sociali e ricreative che le permettano di mantenere una condizione di benessere.

Il sostegno di comunità della famiglia: la capacità di adattamento della famiglia dipende dal coinvolgimento di tutta la comunità e di quei gruppi che si trovano in situazioni simili.

3.2 La capacità di COPING

Il termine inglese “COPING” (dal latino colaphus), che può essere tradotto in italiano con “FRONTEGGIAMENTO”, fu utilizzato per la prima volta dallo scienziato americano Lazarus nel 1966 proprio per indicare la capacità che ha un individuo di affrontare le difficoltà della vita a cui è sottoposto ripetutamente.37 Indotta ad uno spiazzamento causato da delle situazioni non codificate, ogni persona si potrebbe trovare a dover elaborare modalità di adattamento attraverso la ricerca di nuovi ruoli e norme di riferimento per riuscire a recuperare un equilibrio e per definire nuove routine quotidiane. Quindi la capacità di coping, oltre che riguardare i compiti e la risoluzione dei problemi, è strettamente legata alla gestione delle emozioni e dello stress.

37 L’individuo è continuamente sottoposto a sfide che si presentano sotto forma di eventi stressanti o di tensioni. L’aspetto centrale della nozione di coping è il tentativo di dominare o ridurre lo stress.

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Essendo un concetto estremamente complesso, negli anni, sono state concepite tantissime definizioni diverse che possono però essere classificate essenzialmente in due. Mentre il problem focus (coping orientato sul problema) ha come obiettivo la riduzione dello stress e le cause che lo generano, l’emotion focus (coping orientato sulle emozioni) sottolinea un aumento del benessere personale in relazione a delle risposte comportamentali adottate.38

Questa seconda strategia può essere a sua volta suddivisa in altre quattro modalità:

Assunzione di responsabilità, sentirsi in parte responsabile della situazione;

Autocontrollo, avere un controllo sulle proprie emozioni;

Rivalutazione positiva della situazione, tentare di vedere i lati e i cambiamenti positivi che possono essere ricavati dalla situazione;

Distanziamento, contiene tutta una serie di comportamenti (come l’evitamento) volti ad allontanare o evitare lo stressor.

Possiamo, quindi, affermare che teoricamente il coping centrato sul problema verrebbe più comunemente utilizzato per le situazioni che sono valutate più controllabili, mentre il coping centrato sull’emozione per tutte quelle che richiederebbero anche un lavoro di accettazione. Infatti, la valutazione soggettiva della situazione dipende molto dal controllo che la persona ritiene di

poter avere sull’agente stressante e influenza la scelta sulle strategie da adottare.

38 A. Aiello, P. Deitinger, C. Nardella (2002), Il modello “Valutazione dei Rischi Psicosociali”

(VARP). Metodologia e strumenti per una gestione sostenibile nel micro e grandi aziende: dallo stress lavoro-correlato al mobbing. FrancoAngeli, Milano.

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Se c’è la credenza di non essere in grado di controllare o modificare in alcun modo la situazione, l’individuo sarà portato a scegliere l’evitamento.

Il coping è un processo dinamico che può modificarsi non solo in situazioni

diverse, ma anche nell’ambito di una stessa situazione. L’ obiettivo fondamentale di un operatore sociale sarà proprio quello di

osservare e accompagnare la persona durante tutto il suo fronteggiamento. Il fronteggiamento rappresenta una relazione astratta tra un certo compito e

l’agente che lo deve affrontare per stabilire idealmente chi è il più forte. Mentre per il “compito” si può pensare alle oggettive situazioni ambientali ma

anche alle soggettive capacità, per “persona” “non si possono intendere solo le soggettive capacità/incapacità dell’agente ma anche i vincoli o le facilitazioni dell’ambiente che lo circonda.”39

< ---azione--40---->

Dallo schema di coping, si può desumere come un “problema sociale” possa emergere alla presenza delle due variabili, cioè quando un compito è giudicato

39 F. Folgheraiter (1998), Teoria e metodologia del servizio sociale. La prospettiva di rete. FrancoAngeli, Milano.

40 Schema semplificato dell’azione funzionale, detto di coping. Tratto da F. Folgheraiter (1998), Teoria e metodologia del servizio sociale. La prospettiva di rete., FrancoAngeli, Milano.

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troppo superiore per essere gestito da una persona con le proprie capacità. Per quanto una persona possa essere dotata di un certo potenziale di risorse

interne ed esterne, un problema può apparire molto semplice o estremamente complicato in conformità a chi lo osserva (l’interessato, osservatore esterno o entrambi). Se il compito che si presenta alla persona fosse risolto immediatamente, saremmo di fronte a un’azione efficace e senza inceppi. L’idea di sfida tra compito e agente che comporta il concetto di fronteggiamento, si può notare nel momento in cui l’azione per un po’ diventa difficoltosa, poiché la presenza di una qualche complessità ci deve essere sempre. Per esserci coping, così come il compito deve restare temporaneamente non risolto per una persona, così l’individuo non deve essere in grado di risolverlo istantaneamente.

Si possono quindi distinguere gli effetti tra azione immediata e coping, intendendo questo ultimo come una pressione di un compito lievemente più difficoltoso per le capacità interne di una persona e tra coping e problema,

considerando come tale un coping molto difficoltoso.

Il problema è qualcosa che non sappiamo immediatamente risolvere. Può essere considerato proprio come un enigma che richiede di ricercare

soluzioni e non solo di applicarle. Sono stati individuati tre tipi di problema:

Problema personale cioè un’insufficienza di coping riguardante la persona a cui si riferisce il compito,

Problema sociale dove il problema è percepito da varie persone.

Problema sociale formale quando tra gli osservatori è presente anche un operatore professionale che, considerando un problema come sfida non risolvibile istantaneamente, lo percepisce e lo comprende per empatia.

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Un individuo vive in stati di disagio a causa delle relazioni umane che intraprende con gli altri intorno a sé. Per questo la sua personalità è spesso molto influenzata dalle comunicazioni quotidiane con le persone più significative della sua vita. La maggior parte dei compiti, stimolando una pluralità di agenti in una rete, deriva da delle relazioni interpersonali che coinvolgono sia un ipotetico fronteggiatore sia tutte le persone sia lo circondano. La realtà del coping non è singolare ma plurale.41

Il coping relazionale, com’è rappresentato dallo schema, ha come agente un

insieme di persone tra loro collegate che fronteggiano un determinato compito. Questo insieme di persone e relazioni è definito come “rete di aiuto”. Una rete è composta principalmente da familiari, parenti, amici, vicini e

41 schema di coping reticolato, con evidenziata la pluralità dei compiti. Tratto da F. Folgheraiter (1998), Teoria e metodologia del servizio sociale. La prospettiva di rete., FrancoAngeli, Milano.

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colleghi ma ci potrebbero anche essere persone che agiscono sul compito

secondo un ruolo formale creando quindi una “rete mista”. Mentre il compito è spesso rappresentato da una pluralità di compiti

interconnessi che sono fronteggiati da un insieme di persone. Alla presenza di più soggetti, capire che cosa sia un compito potrebbe essere un

po’ complicato. Per questo motivo, sono state individuate tre tipologie diverse:

i compiti coincidenti con i compiti individuali sono quelli non affrontati da

una determinata persona, i coincidenti con la rete sono quelli comuni a tutti i membri, potenziali e attuali e gli eccedenti la rete che, essendo di una rete potenziale, riguardano i progetti collettivi le cui ricadute di benessere superano i confini della rete in questione.

Nel coping di rete, l’azione che è svolta dagli agenti è un’azione congiunta, cioè

il prodotto di tante azioni singole interconnesse che si chiamano inter-azioni. Attivando nuove risorse, soprattutto di tipo relazionale come il “capitale

sociale”42, un individuo può riuscire a far fronte a qualsiasi evento. Importantissime, quindi, sono tutte quelle le risorse che si trovano all’interno

dei rapporti sociali e, in modo particolare, proprio il capitale sociale è molto efficiente come risorsa che un soggetto può adoperare per il raggiungimento dei suoi fini. Il capitale sociale non è una proprietà individuale, ma della comunità, in quanto fa riferimento ad un patrimonio collettivo che scaturisce dalla presenza nella società di una “norma di reciprocità generalizzata che si riferisce a una serie continua di rapporti di interscambio che in qualsiasi momento sono o non ricambiati o deficitari ma che implicano la reciproca previsione che il favore sarà ricambiato in futuro”. 43

42 Come le altre forme di capitale, il capitale sociale è produttivo in quanto risorsa che un attore può impiegare per il raggiungimento dei suoi obiettivi. È un concetto situazionale e dinamico.

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