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Per altra via, per altri porti. La maturazione poetica di Giorgio Caproni

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Academic year: 2021

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D

IPARTIMENTO DI

F

ILOLOGIA

,

L

ETTERATURA E

L

INGUISTICA Corso di laurea magistrale in Italianistica

Tesi di laurea

P

ER ALTRA VIA

,

PER ALTRI PORTI

La maturazione poetica di Giorgio Caproni

RELATORE

Prof. Raffaele Donnarumma

CANDIDATO Matteo Tasca

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2 Indice

INTRODUZIONE………...4

FINZIONI………...8

1 – Posture dell’io……….11

2 – L’entrata in scena del tu lirico……….13

3 – Finzioni: un testo di transizione………..19

4 – Una poesia per tutti……….25

5 – Caproni nel campo letterario italiano………..32

6 – Caproni e l’ermetismo……….42

CRONISTORIA………58

1 – «ahi mite / fidanzata»………..66

2 – Tra rarefazione ermetica e deformazione espressionistica………..70

3 – Rina e Olga………..76

4 – Il «sistema delle Occasioni»………82

5 – I Sonetti dell’anniversario...87

6 – Un lutto difficile da elaborare……….92

7 – Un classico moderno?...101

IL PASSAGGIO D’ENEA………..108

1 – La morte di Alcina e l’impatto con la storia……….120

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3 – I segnali della morte………..130

4 – Allegorie e tracce………..139

5 – Il passaggio d’Enea: dal mito alla storia………...142

6 – Una poesia civile?...154

CONCLUSIONI………..160

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4 Introduzione

L’obiettivo della mia tesi è quello di mostrare l’evoluzione compiuta dalla poesia di Giorgio Caproni a cominciare dalle prime prove (Come un’allegoria, Ballo a Fontanigorda e Finzioni) fino al raggiungimento della piena maturità poetica nel Passaggio di Enea. La prima parte si apre con l’analisi del testo Finzioni, appartenente alla raccolta omonima. Ci si interroga poi sulla natura della figura femminile (la “donna truccata”) protagonista del componimento, ma per apprezzarne appieno la rilevanza è necessario ricostruire i modi e le forme in cui le donne erano presenti nelle raccolte precedenti. A partire da Ballo a Fontanigorda infatti si incontrano due donne ben riconoscibili: Olga, la fidanzata di Caproni morta a Rovegno nel 1936, e Rina, la giovane moglie conosciuta l’anno dopo. Si crea così una coppia che incarna la tensione tra due forze opposte: Rina rappresenta la donna in praesentia, portatrice di pienezza vitale. Dall’altra parte, invece, Olga è la donna in absentia, eternamente sfuggente, emblema dell’irreversibilità del tempo.

All’interno di questo disegno bipartito la figura della “donna truccata” riveste una funzione chiave: infatti nella poesia Finzioni il valore dell’esaltazione sensoriale viene spietatamente sospettato di inconsistenza, mentre balli e feste rischiano di diventare un semplice divertissement che distrae l’uomo non solo dal suo destino mortale, ma anche, in prospettiva non esistenziale ma storica, dal presentimento della guerra imminente. Solo la finzione può arginare il senso di non riscattabile precarietà che condanna l’essere umano, precarietà che penetra nel paesaggio fino ad avvelenarne la possibilità di godimento che aveva potuto suscitare nelle raccolte precedenti.

Si passa poi ad osservare il tipo di io presente nelle prime raccolte caproniane, e si conclude che se in Come un’allegoria avevamo potuto riscontrare la presenza di un io autofondato, in grado di accedere liberamente al mondo esterno e di piegarlo alle proprie necessità autoespressive; a partire da alcuni testi di Ballo a Fontanigorda ci troviamo di fronte a un io parzialmente relazionale, le cui possibilità di autodefinizione e di interazione con la realtà sono in parte subordinate all’interazione con una figura femminile. L’alternanza di queste due posture prosegue anche all’interno della terza raccolta dove, nonostante l’indebolimento e l’assottigliamento identitario degli pseudo-personaggi femminili (che tutto sommato sono

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meno riconoscibili rispetto a Ballo a Fontanigorda), l’io conserva una propria dimensione relazionale.

A questo punto si procede con l’individuare i modelli principali del giovane Caproni, per poi evidenziare i tratti che differenziano la poesia caproniana tanto dagli autori modernisti quanto da quelli ermetici. Si rileva inoltre come, nonostante le continue prese di distanza dalla poesia ermetica, nelle prime raccolte caproniane ci sia una presenza abbastanza massiccia di quella che Mengaldo definisce «la grammatica ermetica»1, ovvero una serie elementi retorici, linguistici e sintattici che in Il linguaggio della poesia ermetica lo studioso ha riconosciuto come tipici delle scritture ermetiche, e che contribuiscono a creare il senso di rarefazione riscontrabile nei versi di Caproni.

La seconda parte del lavoro è dedicata a Cronistoria. Partendo dal componimento La città dei tuoi anni se fu rossa vengono messe in luce le caratteristiche principali del sonetto monoblocco, sia per quanto riguarda gli aspetti metrici, strofici e rimici, sia per quel che concerne i fatti sintattici e lessicali. Dal punto di visto contenutistico, invece, il dato più evidente non solo del testo in esame, ma dell’intera raccolta, è che la figura della donna assente ha decisamente conquistato un ruolo preminente, in questa maniera infrangendo gli equilibri della coppia donna vitale-donna mortifera che si erano riscontrati nelle raccolte precedenti.

Si passa poi all’osservare che a quest’altezza cronologica la poetica caproniana prevede l’abolizione dei dati cronachistico-biografici, o meglio, la loro trasfigurazione in simboli dalla valenza universale, all’interno dei quali il lettore possa rispecchiarsi senza alcun ostacolo. Tutto ciò si può far rientrare in un più ampio progetto dell’autore, consistente nel marginalizzare l’«individuo empirico» a vantaggio dell’«io trascendentale»2, allo scopo di

«portare a giorno quei nodi di luce che sono non soltanto dell’io, ma di tutta intera la tribù»3. Si procede poi con l’individuare alcuni tratti che differenziano il tu lirico della prima sezione di Cronistoria (E lo spazio era un fuoco...) da quello della seconda (Sonetti dell’anniversario). Infatti, l’immagine della «fidanzata così completamente / morta» che emerge dai Sonetti dell’anniversario è costitutivamente inconciliabile con colei che nasconde

1P. V. Mengaldo, La tradizione del Novecento. Terza serie, Torino, Einaudi, 1991, p. 137. 2 E. Montale, Il secondo mestiere. Arte, musica, società, Milano, Mondadori, p. 53. 3 G. Caproni, La scatola nera, Milano, Garzanti, 1996, pp. 37-38.

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«l’arte d’esistere» che emerge da E lo spazio era un fuoco…. In altre parole, la figura femminile che domina la seconda sezione non può essere in alcun modo latrice di barbagli vitali, né viene mai rappresentata nei suoi aspetti fisico-sensuali, tipici della prima fase della produzione caproniana.

Si spiega così per quali ragioni, a differenza delle Occasioni montaliane, quella di Caproni non sia una poetica epifanica. È innegabile, infatti, che le pseudo-apparizioni della figura femminile in Cronistoria non si configurino mai come «un episodio improvviso in cui l’io rievoca una verità, un’immagine, un ricordo che, in modo traumatico e istantaneo, riemergono e si rivelano»4. In questo senso, mi sembra che i tentativi di far tornare la donna assente in Cronistoria possano essere ben spiegati utilizzando un altro tipo di strumentazione: come nota anche Zublena, incrociando le evidenze testuali con i dati biografici – che, benché costantemente rimossi, inevitabilmente segnano in profondità la composizione della raccolta – si può parlare dei ritorni femminili come la resa letteraria della mancata elaborazione di un lutto.

Il terzo capitolo è dedicato al Passaggio di Enea. Partendo dall’analisi del testo Le biciclette, viene discussa l’inclinazione di Caproni a conferire ai suoi componimenti un andamento poematico che lascia spazio a riflessioni di maggiore respiro e complessità. Continua inoltre il reimpiego «paradossale» e straniato di forme tradizionale quali la ballata. Un’operazione di tal genere consente infatti di opporre una barriera stilistica alle forze caotiche della storia, e spinge a collocare il Caproni del Passaggio di Enea nel solco del classicismo moderno. L’analisi contenutistica mette poi in evidenza come Caproni nelle Biciclette riesca a liquidare la stagione di Cronistoria dichiarando a chiare lettere che il «tempo» è «ormai diviso». Ciò implica innanzitutto che mentre la donna morta nella raccolta precedente era ancora capace di incerte riapparizioni, ora è per sempre confinata nel regno dei morti: «Alcina» (così viene chiamata la figura femminile nel testo) vive solo nelle illusioni del poeta, non ha niente a che fare con la realtà effettiva. Allo stesso modo Caproni dichiara irrecuperabile un passato che, a posteriori, appare come lo spazio di certezze granitiche e di istituzioni ben fondate, in netta opposizione ad un dopoguerra inevitabilmente scosso dai rivolgimenti politico-culturali generati dal conflitto. Attraverso la rapida analisi dell’Ascensore si evidenzia quindi come il

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Passaggio di Enea rappresenti per Caproni il passaggio dall’adolescenza alla maturità: il poeta, novello Enea, depone l’istinto regressivo che aveva caratterizzato le sue prime raccolte e segna definitivamente il passaggio dal tempo del mito – rappresentato da Genova e dalla madre – al tempo della storia – di cui sono emblemi la città di Roma, la moglie Rina e i figli di cui deve prendersi cura. Inoltre, proprio come l’eroe antico, Caproni intraprende il suo viaggio tenendo per una mano il vecchio padre (simbolo dei valori che, benché superati, non vanno rimossi) e per l’altra il figlio (rappresentativo di una generazione di giovani che dovrà ricostruire un paese devastato).

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8 Finzioni

Cara, con poca cipria e minio, che bella festa inventi sopra il tuo viso giovane!

Tale su questa piana dove ti chiama di suoni allegri al riso l’eco, con bei colori e nuovi s’è acceso il lume vario del ballo:

odori5 d’erbe e di carnagioni indocili – e perfino il fumo dei roghi copre il profumo che tra i fienili muove il gioco delle tue finzioni.

La poesia si presenta divisa in tre strofe di diversa lunghezza. Risalta immediatamente il rapporto di contiguità che l’autore ha voluto stabilire fra le tre sezioni del testo, in primo luogo assicurandosi che l’ultimo verso di ciascuna strofa, strategicamente spezzato, sia anche il primo della successiva. In questa maniera il passaggio interstrofico risulta sfumato, mentre proporzionalmente rafforzato ne esce il senso di compattezza del componimento. Compattezza che, come si vedrà meglio in seguito, risulta essere il corrispettivo formale della complessiva unità narrativo-argomentativa del testo. Senza entrare nello specifico, una rapida

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conferma di quanto detto si può rintracciare ancora una volta nei versi liminari: il «Tale» che apre la seconda strofa, infatti, stabilisce fin da subito un rapporto comparativo di uguaglianza con quanto precede, mentre i due punti che concludono la medesima strofa ci proiettano direttamente nella sezione finale del testo. Bisogna però rilevare come le spezzature dei vv. 4 e 9 fossero assenti nelle prime versioni del componimento6, ma siano state aggiunte all’altezza del Passaggio di Enea, quando Caproni sottopone ad una massiccia revisione le raccolte precedenti. E infatti l’inserzione di versi a gradino – che avranno grandissima fortuna nella produzione successiva dell’autore, soprattutto in quanto mimesi formale della frantumazione storica e culturale – interviene a modificare numerosi altri componimenti, come Sempre così puntuale o A una giovane sposa.

I versi oscillano tra il settenario e il novenario (quest’ultimo con due sole occorrenze, vv. 11, 14) senza alcuna particolare regolarità. Vale la pena di sottolineare come nessuno degli ottonari si presenti nella sua forma più cantabile, ovvero con ictus di terza, nonostante l’oggetto – ma non lo spirito, come si vedrà – del testo («s’è accesso il lume / vario del ballo») potesse legittimare una simile scelta. Una certa vivacità ritmica è comunque assicurata dai sei versi su quattordici con apertura in arsi, che diventano sette se si legge «ché tra i fieníli muóve». Alla stessa ricerca musicale contribuiscono le frequenti sequenze giambiche, la cui concitazione ritmica viene per lo più smorzata tramite l’accostamento a piedi dalla cadenza distesa, anche se non mancano casi in cui il giambo prende decisamente il sopravvento: «di suóni allégri al ríso».

La rima è fittamente presente nel componimento, ma, come abbiamo osservato per il metro, non è possibile individuare alcuno schema regolare. In ogni caso, fatta eccezione per la prima, tutte le altre parole terminali sono coinvolte in qualche legame rimico: v.2 «festa» : v. 4b «questa», v. 3 «viso» : v. 6 «riso», v. 7 «colori» : v. 9b «odori», v. 10 «carnagioni» : v. 14 «finzioni», v. 11 «fumo» : v. 12 «profumo» (in rima ricca baciata, ma anche in forte assonanza con v. 8 «lume»). Al v. 13 «muove» si può considerare legato a «giovane» (v. 4a) in una quasi-rima eccedente. Il v. 5 «chiama» è in rima interna con «piana», a inizio dello stesso verso, con cui compone una sorta di epanadiplosi fonica. Non si ritrovano altre rime interne, anche se si possono ancora segnalare le forti consonanze tra v. 2 «bella» : v. 9a «ballo», v. 2 «minio» : v. 9a «vario».

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Complessivamente ci troviamo di fronte a una sintassi piuttosto lineare, pur non mancando turbamenti dell’ordine naturale della frase. Spiccano, a tal proposito, l’iperbato ai vv. 5-7 («ti chiama / di suoni allegri al riso / l’eco»), l’anastrofe del v. 8 («con bei colori / e nuovi») e la probabile inversione ai vv. 11-12 («e perfino il fumo / dei roghi copre il profumo», dove «il fumo» svolge la funzione di complemento oggetto, «il profumo» quella di soggetto. L’ambiguità intorno al valore logico da assegnare ai due elementi sarà un punto fondamentale per la successiva analisi del testo). Questi spostamenti sintagmatici non possono tuttavia scalfire l’effetto di levità, a tratti prossimo all’idillio, generato dalla cooperazione di vari elementi: in primo luogo la scena di una campagna in allegro fermento («questa / piana», «suoni allegri», «bei colori / e nuovi», «fienili»), a cui si somma la musicalità dell’ottonario, l’impiego esclusivo di rime piane in sillaba aperta, la quasi totale assenza di accostamenti consonantici aspri. Se c’è un vero fattore di disturbo in grado di minacciare la leggerezza impressionistica del testo, questo mi sembra che si possa rintracciare nelle continue frizioni che si creano tra giro sintattico e misura del verso. La presenza di continui e forti enjambements («viso / giovane», «questa / piana», «lume / vario», «odori / d’erbe», per riportarne solo alcuni), che nelle raccolte successive diventerà una delle cifre stilistiche di Caproni, già a questa altezza cronologica viene sfruttata per introdurre una nota disforica, che risuona in sottofondo dal primo all’ultimo verso del componimento. La moltiplicazione delle pause imposte dagli inarcamenti, infatti, spezza la continuità della lettura, impedendo il pieno dispiegamento delle possibilità musicali insite nei versi di media lunghezza. La poesia si apre nel bel mezzo di una toletta femminile: una giovane si sta preparando al «ballo» che, verosimilmente, si terrà nel corso della sera, come lasciano intuire i riferimenti al «lume» acceso (anche se non è detto che l’espressione «lume / vario del ballo», vicina alla catacresi, vada intesa letteralmente) e ai «roghi». Fin dal secondo verso («che bella festa / inventi sopra il tuo viso») si indovina l’esistenza di un legame metaforico tra il viso truccato della donna e la festa alla quale parteciperà. L’impressione verrà subito riconfermato nella seconda strofa, nella quale il «Tale» incipitario stabilisce esplicitamente un rapporto di somiglianza tra la «cipria» e il «minio» sul «viso / giovane» e il «ballo» variopinto («con bei colori / e nuovi») sulla «piana». La strofa finale è attraversata da una serie di elementi riconducibili a percezioni olfattive («odori / d’erbe e di carnagioni / indocili», «il fumo / dei roghi»), ma su tutti si impone «il profumo» delle «finzioni» – ovvero del trucco – della donna che si spande «tra i fienili», luogo topico di fugaci amori campestri.

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1 – Posture dell’io.

Bisognerà adesso riflettere sulle modalità di inventio e sulle strategie rappresentative impiegate da Caproni. Un primo dato fondamentale si può rintracciare nell’apparente marginalità della voce che dice «io»: l’intera poesia, infatti, consiste in una descrizione frammentata di azioni e ambienti, ed è portata avanti da un narratore che potremmo sì definire intradiegetico, dato che si rivolge direttamente alla sua interlocutrice («Cara, con poca cipria / e minio, che bella festa / inventi […]»), ma che, di fatto, non partecipa attivamente agli eventi. La marginalità dell’io, però, mi sembra solo apparente, in quanto la mancanza di un io lirico in primo piano non comporta affatto la rinuncia alla spinta autoespressiva, che nella lirica moderna è sempre stata prerogativa di quello stesso io poetante. E infatti, «se è […] possibile definire la diegesi e il dramma a partire da una caratteristica immanente al testo (la risposta alla domanda “chi parla?”), la definizione della lirica coinvolge un elemento più difficile da afferrare, perché non esistono dei tratti formali indiscutibili che separino un testo lirico da un testo narrativo, e perché la variabile che li distingue, così chiara per la critica moderna, è impalpabile per la poetica antica. Nel discorso teorico che diventa di senso comune durante il Settecento, la differenza risiede nei contenuti e nell’intenzione del testo: […] la lirica porta sulla pagina le passioni di chi scrive con immediatezza; è il genere dell’autobiografia interiore e dell’autoespressione, la forma in cui una prima persona parla di sé in uno stile personale»7.

In effetti Caproni limita lo spazio destinato all’io solo superficialmente: in realtà, non fa altro che oggettivare riflessioni e sentimenti trasferendoli in dati esterni, utilizzando così una tecnica tipicamente impressionista. A tal proposito, leggiamo quanto riferisce lo stesso autore a Enzo Fabiani nel corso di un’intervista:

scrivevo versi astrusi, surrealisti, anche perché avevo cominciato a leggere (sempre pescando nella biblioteca del Colli) opere di poeti sudamericani. Un bel giorno, però, e questo è importante, con un atto di volontà mi dissi: basta con queste astruserie, voglio risillabare la poesia da capo. E così presi come modello il poeta che credevo di amare meno, ovvero Giosuè Carducci; il Carducci

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impressionista, che io, da buon livornese, definivo «macchiaiolo». Così, a denti stretti, ricomincia, e nella scia delle «canzonette» carducciane (come «La nebbia agl’irti colli» e «L’albero a cui tendevi») scrissi versi come «Dopo la pioggia la terra / è un frutto appena sbucciato [Marzo, CA]». Ecco: questa è proprio la mia prima poesia, datata 1932.8

La ricerca poetica caproniana, dunque, passa attraverso l’osservazione impressionistica di paesaggi prevalentemente campestri, anche se non mancano le ambientazioni urbane (Borgoratti «Come un’allegoria / una fanciulla appare / sulla porta dell’osteria»; Incontro «Nell’aria fresca d’odore / di calce per nuove case»). C’è da dire, però, che in Caproni l’elemento schiettamente impressionistico (mediato, oltre che da Carducci, anche da certo Leopardi – vedi il motivo topico della festa –, da Pascoli e poi da due coetanei quali Gatto e Betocchi) si fonde volentieri con operazioni più cerebrali, che sfiorano la costruzione allegorica. Caproni stesso riconosce che i suoi sforzi poetici tendevano a «superare il puro descrittivismo per ritrarre la realtà come allegoria di una verità che altrimenti è imprendibile»9. Per avere una conferma di tutto ciò, basta leggere con maggiore attenzione gli ultimi versi di Finzioni: «e perfino il fumo / dei roghi copre il profumo / che tra i fienili muove / il gioco delle tue finzioni». È evidente, infatti, che la scena così costruita si presta ad assumere un significato ben preciso: il profumo femminile, emblema di pienezza vitale e di giovinezza, riesce a occultare (ma non a cancellare) l’odore acre del fumo, metafora della consunzione del tempo ai danni del mondo e dell’uomo. Sciogliere quest’immagine in termini concettuali-discorsivi risulta un’operazione non solo possibile, ma tutto sommato anche piuttosto agevole, mentre, quando si ha a che fare con procedimenti autenticamente impressionistici, l’esplicitazione dei significati metaforici non sempre è attuabile – o lo è al costo di drastiche semplificazioni.

Queste affermazioni riconfermano l’ipotesi, precedentemente avanzata, che l’io lirico, pur non salendo mai alla ribalta, sotterraneamente ma saldamente diriga tutto quanto avviene nel testo. I dati esterni, di fatto, non hanno una reale autonomia poetica, ma vengono selezionati o costruiti per restare al servizio dell’io e delle sue necessità autoespressive. Possiamo dunque concludere che ci troviamo di fronte a un io lirico complessivamente forte, ancora in grado di mantenere il controllo su sé stesso e, conseguentemente, sul mondo circostante. Per

8 INTERVISTE, p. 179 9 Ibidem.

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quanto possa apparire banale, la rilevazione di questo dato mi sembra tutt’altro che scontata, se consideriamo l’altezza temporale in cui si colloca il testo: basti pensare che poeti molto vicini a Caproni non solo cronologicamente, ma anche geograficamente, come Sbarbaro, Boine o Montale (soprattutto negli Ossi di seppia), sono caratterizzati dalla cronica fragilità del loro io poetico e dalla sistematica incertezza riguardante la consistenza della realtà esterna. Quello della crisi del soggetto era infatti un tema centrale non solo per la poesia italiana della prima metà del novecento, ma in generale per tutta la letteratura di stampo modernista che era fiorita a inizio del secolo.

A questo punto vale la pena di analizzare con maggiore attenzione il tipo di postura assunta dall’io lirico caproniano, non senza concedersi qualche rapida incursione nelle raccolte precedenti. Fin da subito, infatti, converrà osservare che in Come un’allegoria (1932-35) la preponderanza degli elementi descrittivo-paesaggistici appare schiacciante, mentre è concesso uno spazio assolutamente secondario a tutti quei fattori che spezzerebbero l’immobilità e l’assolutezza dello sguardo poetico. Questi testi ci restituiscono l’idea di un io autofondato e granitico, tanto estraneo a problematiche identitarie, quanto avulso da slanci panici e spersonalizzanti. Il rapporto che l’io instaura con il mondo circostante non è mai contrastivo né confusivo, ma piuttosto di rispecchiamento, per cui le descrizioni vengono sfruttate per la rappresentazione concreta di sentimenti (e in questo caso abbiamo dei passaggi autenticamente impressionistici) o di concetti (sfociando così nell’allegoria).

2 – L’entrata in scena del tu lirico.

In Ballo a Fontanigorda (1935-37), sin dal testo d’apertura, assistiamo a una piccola rivoluzione: in A Rina, infatti, fa la sua comparsa un personaggio femminile ben identificabile, tanto da essere dotato di nome proprio. La portata della novità non si ridimensiona nemmeno di fronte all’osservazione che la prima edizione (1936) di Come un’allegoria reca la dedica «All’umiltà sorridente ǀ della mia piccola OLGA FRANZONI ǀ amata e disperatamente ǀ perduta ǀ queste “sue” umili cose»10. L’evocazione della donna morta, infatti, non si era ancora tradotta in costruzione di un personaggio poetico, se non altro perché «la morte della fidanzata, avvenuta a Loco ai primi di marzo del 1936, precedette di

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pochissimo l’uscita del volume, e non poté quindi lasciare una traccia nei testi»11.

Fondamentalmente, le apparizioni femminili di Come un’allegoria vanno considerate come parte della descrizione paesaggistica:

Anche le vampe fiorite ai balconi di questo paese, labile memoria ormai dimentica la sera.

Come un’allegoria, una fanciulla appare sulla porta dell’osteria. Alle sue spalle è un vociare confuso d’uomini – e l’aspro odore del vino.

per cui non potevano infrangere il dominio completo dell’io lirico sullo spazio poetico. La presenza del personaggio di Rina ha invece un potere doppiamente attenuante nei confronti dell’assolutezza dell’io: innanzitutto rappresenta l’irruzione di un dato autobiografico all’interno del testo – Caproni aveva infatti conosciuto Rosa (Rina) Rettagliata nel 1937 a Loco e l’aveva sposata nell’agosto del 1938. In questo modo la poesia rinuncia almeno in parte all’aura di atemporalità in cui era avvolta, per divenire inevitabilmente implicata con il vissuto dell’autore, e dunque con un hic et nunc ben definibile storicamente. In secondo luogo, l’esistenza di un personaggio femminile ontologicamente forte come Rina rappresenta un’alterità non riducibile a semplice oggetto o dato esterno, non plasmabile dall’io a piacimento, ma dotata di autonomia e di uno statuto identitario ben definito. A tal proposito, si legga Altri versi a Rina:

Nei tuoi occhi è il settembre degli ulivi della tua cara

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15 terra, la tua Liguria

di rupi e di dolcissimi frutti.

Evidentemente Rina non è un semplice oggetto nel quale potersi rispecchiare. Al contrario, la sua presenza assicura la possibilità di attingere al paesaggio – che si trova negli «occhi» della donna e che, in qualche modo, le appartiene («la tua Liguria») – e dunque la possibilità del rispecchiamento. A differenza di quanto accadeva in Come un’allegoria, nella seconda raccolta il legame tra io e mondo non è più diretto, ma ha bisogno di un’intermediaria: Rina, per l’appunto. In altre occasioni, l’immagine del corpo femminile si sovrappone alla contemplazione del paesaggio, generando così un gioco di corrispondenze tra la donna e gli elementi fisici che l’io lirico ha di fronte a sé: «Questo odore marino / che mi rammenta tanto / i tuoi capelli al primo / chiareggiato mattino».

Tuttavia, Rina non è l’unico personaggio femminile di Ballo a Fontanigorda. Il volume, che si era aperto con A Rina, si conclude specularmente con la poesia Ad Olga Franzoni, nella quale il tu si inserisce ancora una volta tra io e mondo, ma stavolta con esiti molto diversi da quanto osservato precedentemente: «Questo che in madreperla / di lacrime nei tuoi morenti / occhi si chiuse chiaro / paese […] / stasera ancora rimuore sfocando il lume / nel fiume». Anche in questa occasione la percezione del paesaggio («chiaro paese») passa attraverso lo sguardo femminile, senonché stavolta gli occhi della donna sono «morenti», il paese ormai è «chiuso» e irrecuperabile, e può tornare solamente come assenza e sottrazione, ovvero come perdita continua («stasera ancora / rimuore»). Non è secondario notare che l’esistenza di personaggio come Olga indebolisce ulteriormente le pretese di assolutezza dell’io lirico: la funzione della donna morta è infatti quella di dislocare un centro di interesse e di trasferirlo all’interno di una dimensione spazio-temporale altra, inaccessibile all’io.

In Ballo a Fontanigorda vediamo così delinearsi il profilo di due personaggi femminili ben distinguibili, non solo perché dotate di nome proprio, ma soprattutto in quanto ciascuna di loro è caratterizzata da elementi specifici. Da un lato, infatti, c’è Rina, figura in praesentia, viva e vitale, evocata per sineddoche12 attraverso l’indicazione di parti isolate del corpo – talvolta in maniera leggermente rarefatta, quasi stilnovistica (A Rina «il lindore dei tuoi

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virginei / occhi», poi ancora attraverso l’impiego di parti del corpo topiche come i capelli o la pelle), in altri casi con maggiore carica sensuale (Nudo e rena «Corre del tuo bel dorso / nudo la solitaria / piana»; Triste riva «solo / contemplo e comprendo intanto / il gusto della tua saliva», con voluta confusione tra il «labbro renoso» e la donna). Rina consente il dispiegamento del paesaggio, il suo corpo si confonde con il mondo circostante e grazie ad esso l’io ha accesso alla realtà esterna (oltre i già citati Altri versi a Rina e Questo odore marino, si veda in Finzioni il testo Donna che apre riviere «Sei donna di marine / donna che apre riviere. […] e sono vele / al vento, sono bandiere / spiegate a bordo l’ampie / vesti tue così chiare»). Dall’altra parte, invece, Olga è la donna in absentia, eternamente sfuggente, emblema dell’irreversibilità del tempo, come dimostrano non solo la chiusura di Ad Olga Franzoni («qui dove bassa / canta una donna china / sopra l’acqua che passa»), ma anche, in Finzioni, testi quali Romanza («Non tu ritorni», forse ispirato al triplice «tu non ricordi» della Casa dei doganieri). Nelle poesie in cui ci si rivolge a Olga il paesaggio risulta inaccessibile, oppure svuotato da qualsiasi carica vitalistica, tanto da vanificare ogni possibilità di godimento sensoriale (Ad Olga Franzoni «ora che spenti / già sono e giochi e alterchi / chiassosi»; in Finzioni si veda anche Mentre senza un saluto «Finita / la leggera canzone, / mentre senza un saluto, / senza un cenno d’addio / mi muore il giorno»).

Prima di proseguire con la nostra analisi, vale la pena di ricostruire il percorso che la «sotterranea complementarità»13 tra i due personaggi femminili ha compiuto, sino a fissarsi

in una forma che soddisfacesse definitivamente le esigenze compositive del poeta. Per far ciò, converrà considerare l’evoluzione testuale che ha interessato i due brevi testi di cui è composta la poesia Altri versi a Rina:

I due brevi componimenti qui riuniti non sono mai datati, ma compaiono nelle carte inizialmente come a sé stanti, in serie recanti testi di CA in stesure senz’altro anteriori alla pubblicazione di tale volume nell’aprile del ’36. Sembrerebbe quindi che i due testi fossero inizialmente dedicati a Olga Franzoni, che morì alcune settimane prima dell’uscita di CA (e certe queste poesie, in cui lei è viva e presente, non poterono trovarvi posto), mentre Rina fu conosciuta poco dopo. E infatti il nome di Rina come dedicataria fu introdotto solo a distanza di vent’anni, a partire da PE (1956) […]. Datazione: in base alle considerazioni sopra esposte, al più tardi il 193514.

13 DEI 1992 p. 16. 14 OV p. 1072, 1073.

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Dunque Altri versi a Rina inizialmente era stato scritto per Olga. Ma perché Caproni decide di mutare la dedicataria del testo, in parte contraffacendo il valore autobiografico che, inevitabilmente, assumeva la poesia? Mi sembra che l’operazione vada spiegata appunto come un procedimento di costruzione letteraria di personaggi antitetici, dotati di caratteristiche speculari tali, da condurre il lettore a sovradeterminarli simbolicamente, fino a farne l’incarnazione di due potenze opposte, come fosse una riproposizione moderna della coppia mitica Venere-Proserpina. È evidente che, di fronte ad un simile intento, l’attenzione per l’autenticità autobiografica cade decisamente in secondo piano, rispetto al valore universale – direi quasi archetipico – che i due personaggi femminili si prestano ad assumere, nel momento in cui entrano a far parte del mondo poetico dell’autore (in altre parole, quando da donne in carne e ossa diventano personaggi di carta e inchiostro). Lo scopo dichiarato è quello di «trovare […] la verità di tutti. O, per essere più modesti e precisi, una verità (una delle tante verità ipotizzabili) che possa valere non soltanto per me ma anche per tutti gli altri mézigues (o “me stessi”) che formano il prossimo (l’Altro, diciamo pure) […]». Infatti

il poeta è un minatore. È poeta colui che riesce a calarsi più a fondo in quelle che il grande Machado definiva las secretas galerías del alma, e lì attingere quei nodi di luce che, sotto gli strati superficiali diversissimi da individuo a individuo, sono comuni a tutti anche se non tutti ne hanno coscienza. L’esercizio della poesia rimane pure narcisismo finché il poeta si ferma ai singoli fatti esterni della propria esistenza o biografia. Ma ogni narcisismo cessa non appena il poeta, partendo dalle proprie personali esperienze, e costruendo con essi [sic] le proprie metafore, riesce a chiudersi e a inabissarsi talmente in se stesso da scoprirvi, ripeto, e portare a giorno, quei nodi di luce che sono non soltanto dell’io, ma di tutta intera la tribù15.

Inutile sottolineare come il quadro appena delineato avrebbe perso sul nascere i suoi contorni, se Caproni non fosse intervenuto a modificare la dedicataria di Altri versi a Rina, salvando così la coerenza dei suoi personaggi. Ma neppure è un caso che la versione definitiva del titolo – nel quale è contenuta la dedica a Rina – risalga alla pubblicazione del Passaggio di Enea, insieme al quale vengono ristampate, con cambiamenti più o meno significativi, anche le altre quattro raccolte precedenti. Proprio Il passaggio di Enea è infatti il libro nel quale

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Caproni si impegna a fare i conti col proprio passato e, di conseguenza, con le due figure femminili che ne sono state protagoniste, per cui è giocoforza che proprio a quell’altezza temporale Caproni senta l’esigenza di risistemare, anche con aggiustamenti minimi, le ultime tessere del quadro, fissandone definitivamente equilibri e gerarchie.

A tal proposito, bisogna mettere in evidenza come lo spazio dedicato a (e conseguentemente i rapporti di forza tra) il polo vitale-Rina e il polo mortifero-Olga non rimangano costanti nel corso delle raccolte, ma subiscano un ragguardevole riassestamento attorno al 1938-1939, permettendoci di individuare due momenti ben distinguibili all’interno di questa tensione tra figure di segno opposto. In Ballo a Fontanigorda, infatti, si può riscontrare facilmente la superiorità numerica dei testi dedicati a Rina (A Rina, Altri versi a Rina), o nei quali, pur non essendo nominata esplicitamente, in controluce si può riconoscere la figura di Rina (Nudo e rena «Corre del tuo bel dorso / nudo la solitaria / piana»), o nei quali comunque regna un gusto sensuale per il paesaggio, le feste, i balli, il mondo femminile in generale (Alla giovinezza «Giorno di meravigliose / essenze e di ricchi aromi / adorno, se tu che sciogli / i canti delle giovinette / chine sull’ago. E ai lini, / e ai sogni, e alle note / ruvide dei clarini / al ballo, rechi ricami / fievoli»). Al contrario, lo spazio dedicato a Olga è estremamente ridotto e in effetti si limita a un solo testo, per l’appunto quello a lei dedicato; senonché, la posizione marcata in chiusura di raccolta conferisce un valore di spicco al componimento, che getta un’ombra cupa sull’intero libro, come a dire che è alla morte che spetta l’ultima parola. Che in Ballo a Fontanigorda l’ago della bilancia penda dalla parte di Rina mi sembra confermato anche dalla dissimmetria tra l’apertura della raccolta, in cui si leggono due testi dedicati a Rina, e la chiusura, in cui c’è un solo testo per Olga. Il fatto, forse, non sarebbe così rilevante, se non fosse frutto di un intervento consapevole dell’autore, teso a spezzare l’originale specularità tra incipit e explicit. La prima edizione di Ballo a Fontanigorda, infatti, si concludeva con Due motivi ad Olga Franzoni ǀ in memoria16, composto da Questo che in madreperla (l’attuale Ad Olga Franzoni) e da Immagine. Il dittico viene sciolto con la pubblicazione di Finzioni, quando Immagine diventa elemento a sé stante nella nuova raccolta, fino a che non viene definitivamente esclusa in seguito alle revisioni compiute per l’uscita di Cronistoria. Dunque anche in questo caso, seppur in maniera meno palmare, abbiamo a che fare con un caso di riscrittura del passato, finalizzata alla realizzazione di un

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disegno che si va man mano componendo nella mente dell’autore e che troverà la sua sistemazione definitiva solo all’altezza del Passaggio di Enea.

3 – Finzioni: un testo di transizione

Finzioni rappresenta un momento di passaggio tra il primo e il secondo assetto delle forze in gioco, e pertanto costituisce una fase di sostanziale equilibrio, ma, in fondo, anche di preparazione a Cronistoria. In effetti, semplificando un poco, si può affermare che i primi sette componimenti della raccolta (con la sola eccezione di A mio padre) tutto sommato siano scritti ancora nel segno o alla luce di Rina (Senza titolo «Come dev’essere dolce / della tua carnagione / il fiore, alle prim’ore / d’alba colto in stagione / chiara»; Sono donne che sanno «Sono donne che sanno / così bene di mare»), la quale, nell’unico testo che le è dedicato esplicitamente, assume caratteri vagamente cliziani (A Rina «all’amata / persona intorno e ai grezzi / fieni si fa spaziosa / l’ora che signoreggi», ma il componimento risale al 1938, quindi Caproni non poteva avere una visione complessiva delle Occasioni). Nell’ottava poesia (Veneziana) iniziano a intravedersi le prime crepe, ma sono i due testi successivi (Finzioni e Batticuore) che, collocandosi a metà della raccolta (in tutto composta da diciassette testi), svolgono la funzione di perno e introducono la seconda parte del libro, nella quale i componimenti in cui appare il motivo della donna assente sono numericamente preponderanti. La condizione liminare di queste due poesie emerge con particolare chiarezza se si cerca di definire il tipo di interlocutore apostrofato dall’io lirico: «Sempre col batticuore, / te rapita nell’ansia / continua delle fugaci / ore». Possiamo definire questa donna-comparsa (il suo profilo, infatti, è riscontrabile solo nel dittico in questione) come la “donna truccata”, la quale presenta indubitabilmente degli attributi ricollegabili alla figura di Rina (carica erotica, ricerca gioiosa del contatto umano, anche tramite la ritualità sociale), ma allo stesso tempo demistifica quei valori, ne mostra il lato effimero, depotenziando la partecipazione alle scene descritte e minando la liricità della poesia.

Per osservare più da vicino quanto rilevato fin ora, torniamo sui versi finali di Finzioni:

[…] e perfino il fumo dei roghi copre il profumo che tra i fienili muove

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20 il gioco delle tue finzioni.

Se interpreto bene, bisogna intendere «il fumo» come complemento oggetto, mentre il ruolo di soggetto è ricoperto dal sintagma «il profumo». La prolessi dell’oggetto ha come primo obiettivo quello di dirigere la struttura sintattica della frase, permettendo di chiudere la poesia con il verso «il gioco delle tue finzioni», semanticamente cruciale. Tuttavia l’inversione sintagmatica comporta un’altra conseguenza, questa fondamentale sul piano interpretativo: lo scambio di posizione tra soggetto e oggetto, e dunque il turbamento dell’ordine standard italiano SVO, rimanda prepotentemente a un’altra ipotesi di lettura, nella quale sia ristabilito l’ordine naturale dei componenti. Pertanto, dietro la frase correttamente riordinata «il profumo copre perfino il fumo dei roghi» (che in generale è più in linea con il discorso svolto dall’autore nel testo e, a mio avviso, giustifica meglio la presenza dell’avverbio «perfino»), si scorge in controluce un secondo periodo, semanticamente opposto: «il fumo dei roghi copre il profumo». Anzi, se andiamo a controllare le varianti del testo, sembra proprio che, nel corso della seconda stesura dattiloscritta, Caproni volesse dare più risalto a questa seconda possibilità: «che tra i fienili muove / il gioco delle tue finzioni» sostituisce infatti un precedente «[il profumo] vano che tra i fienili / fanno queste finzioni». È interessante notare come una simile ambiguità sia creata sfruttando esclusivamente il piano sintattico – e quindi giocando con la collocazione dei significanti –, senza intaccare il senso letterale dell’enunciato, tanto che, se decidessimo di svolgere la parafrasi, annienteremmo completamente il secondo significato sopito nel testo. È ovvio, tuttavia, che nel corso del processo interpretativo le implicazioni semantiche generate dalle scelte stilistiche dell’autore devono essere portate alla luce e valorizzate. In ogni caso, il vero potenziale dirompente di questi versi si comprende solo se non dimentichiamo il significato allegorico che assumono: il dubbio che sia il fumo dei roghi a coprire il profumo della donna corrisponde alla consapevolezza che la carica erotica giovanile e il godimento tutto sensuale del mondo fisico sono continuamente minacciati e, alla fine, destinati a soccombere contro l’inesorabile consumazione e dispersione di tutto ciò che è materia. A differenza di quanto abbiamo visto accadere nella maggior parte dei testi di Ballo a Fontanigorda e della prima parte di Finzioni, adesso il paesaggio e le scene di vita sono rappresentate con distacco critico e con sguardo privo di illusioni, così da rendere impossibile la piena adesione emotiva a quanto descritto nella poesia. Se, come avevamo visto, i testi delle prime raccolte – e quindi composti per lo

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più sotto il segno di Rina – sono caratterizzati dal gusto macchiaiolo per la descrizione paesistica e dalla convinta partecipazione a eventi sensualmente vitali, nella poesia Finzioni il valore dell’esaltazione sensoriale viene spietatamente sospettato di inconsistenza, mentre balli e feste rischiano di diventare un semplice divertissement che distrae l’uomo non solo dal suo destino mortale, ma anche, in prospettiva non esistenziale ma storica, dal «presentimento della guerra imminente»17. Solo la finzione può arginare il senso di non riscattabile precarietà che condanna l’essere umano, precarietà che penetra nel paesaggio fino ad avvelenarne la possibilità di godimento che aveva potuto suscitare nelle raccolte precedenti: «brioso porto / di quei lindi paesi, / dove grazia di motti / salaci e di femminili / scherzi inganna ai vivi / il gioco alterno di tante / partenze e di tanti arrivi» (Veneziana). Lo stesso atteggiamento si ritrova in Batticuore, che con Finzioni forma una sorta di dittico – tanto che i due testi sono riportati sullo stesso dattiloscritto – in cui è protagonista una figura che abbiamo potuto definire la “donna truccata” (tra l’altro, il primo titolo di Batticuore era Per una giovinetta18):

Sempre col batticuore, te rapita nell’ansia continua delle fugaci ore, tanto sbadata guardo mentre alla pace finta dell’aria affidi la tua risata – e data tutta che sei ai profumi di scoglio, agli aromi forti di monte o ai fumi dei vini nei giovanili giochi, di quanti agguati non sai sian folti i pochi giorni tuoi prelibati.

17 FRABOTTA 1993, p. 36. 18 OV p. 1087.

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L’iniezione di una notevole dose di ambiguità corrode l’iniziale entusiasmo caproniano e impedisce la piena adesione agli aspetti materiali dell’esistenza: poeticamente, stiamo assistendo alla conversione dal Carducci macchiaiolo al Leopardi distruttore di miti, pur restando la scrittura di Caproni saldamente legata a un impianto lirico-descrittivo e non discorsivo-ragionativo, come spesso si riscontra nel poeta recanatese. Uno dei testi che conferma in maniera più lampante questo cambio di modelli – e dunque di poetica – è Nemmeno gli echi, apparso per la prima volta in rivista nel ’38, ma alla fine scartato e mai entrato in raccolta:

[…] Ma come voci cadono quali ai vivaci cieli l’ultime roche

rondini, nemmeno gli echi restano di tante umane conversazioni, di tanti risi e di tanti pianti sotto le cerule piane

La fiducia nel valore positivo della giovinezza e della corporalità vacilla paurosamente, mentre si prepara l’ingresso alla seconda parte della raccolta, sulla quale, prevalendo i testi in absentia del tu lirico, si allunga la luce cupa e lunare di Olga. All’interno di questo disegno bipartito, dunque, la figura della “donna truccata” riveste una funzione chiave, ovvero quella di perno tra una fase poetica in cui il tu viene rappresentato in presa diretta, valorizzandone soprattutto la dimensione corporea, e una nuova stagione, nella quale il tu si sottrae continuamente all’io, da cui lo separa una distanza incolmabile.

Si può osservare che la quasi totalità dei testi che contengono il motivo della perdita del tu risale agli anni ’40, periodo in cui Caproni si trova ad affrontare una serie di traumi quali lo scoppio della guerra, la separazione da Rina (rimasta in Val Trebbia con i figli, mentre il poeta dal 1938 si era trasferito a Roma per insegnare nella scuola elementare), il ricordo della fidanzata morta misto al senso di colpa. La data 1940 è piuttosto significativa anche perché esula dai termini cronologici di Finzioni (1938-1939) e sfocia negli anni indicati dall’autore

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per la composizione dei Sonetti dell’anniversario (1940-1942), confermando l’idea iniziale che la seconda parte di Finzioni costituisca un ponte verso la raccolta successiva. Quello che non manca di colpire il lettore è la totale assenza di dediche rivolte alla fidanzata morta, che da qui in avanti sarà una lacuna costante nell’opera caproniana in ossequio ad una «strategia di cancellazione delle forme evidenti e personalizzate del lutto»19, persino nei testi in cui il riferimento a lei appare inequivocabile. E infatti è possibile rintracciare espressioni o elementi che solo molto indirettamente rimandano alla figura di Olga, come accade in Romanza: «nell’odor d’aglio / che sera toglie ai gigli / sian vissuti per sbaglio». L’accoppiata «aglio» - «gigli» ricorre infatti anche nel Sonetto dell’anniversario XVI, nel quale si legge: «Era l’odore dell’aglio dai gigli / sul prato ove rosseggiano in sudore / i cavalli lievissimi, […]»: in effetti il giglio, essendo un fiore strettamente legato alla simbologia funebre, si presta perfettamente a essere senhal di Olga. Tra l’altro, l’opposizione Olga-Rina trova un perfetto corrispondente nella coppia giglio-rosa, che si viene implicitamente a creare se consideriamo il fatto che il nome di battesimo di Rina era proprio Rosa Rettagliata. A tal proposito si legga E ancora («La rosa / del tuo nome è bruciata / nella memoria. E ancora: // Ti troverò stasera?») che, come nota Surdich20, è quasi certamente pensata per la moglie, pur in assenza di riferimenti espliciti. Tra l’altro questo testo, probabilmente composto durante un periodo di separazione dalla famiglia, è particolarmente interessante per la nostra indagine, in quanto costituisce fin ora l’unico caso in cui il personaggio di Rina è lontano dal poeta. Tuttavia mi sembra che si possano comunque individuare delle caratteristiche testuali ricollegabili alla figura di Rina, confermando così la nostra ipotesi che il trattamento subito dalla materia poetica sia strettamente connesso al personaggio presente nel testo – e quindi allo spirito che anima il componimento. Si legga, ad esempio, la prima strofa:

Sorpresa in delicate tinte nella leggera ora di sera, a un’aria bruciata nel sudore del giorno la tua cera

19 ZUBLENA 2013, p. 15. 20 SURDICH 1990, p. 41.

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24 mi reca una puntura

di nostalgia

Possiamo subito osservare come la rievocazione della donna sia attivata dalla percezione di una scena paesaggistica, le cui «tinte» sorprendono l’io lirico nel corso della sera. Inoltre, ancora più significativamente, la stessa «nostalgia» si traduce in una stimolazione fisiologica («mi reca una puntura / di nostalgia»): insomma, l’impiego di un lessico così concreto continua a rientrare pienamente tra le peculiarità stilistiche ricollegabili al personaggio-simbolo di Rina. In aggiunta, per quanto il motivo della donna assente sia indubbiamente dominante nei componimenti successivi a quelli in cui appare la “donna truccata”, bisogna sottolineare che l’emanazione della forza vitale proveniente da Rina non è completamente eclissata nemmeno nella seconda parte di Finzioni. Infatti, due dei sette testi conclusivi (Acacia e Maggio) appaiono comunque attraversati dall’entusiasmo sensoriale e percettivo nel quale, fino ad ora, abbiamo potuto riconoscere una delle spie che rimandano alla presenza sotterranea di Rina. Certo, va anche notato che si tratta di testi puramente descrittivi, quindi l’assenza del tu lirico non viene pienamente riscattata; e tuttavia, nell’economia generale della raccolta, va riconosciuto un certo peso a queste due poesie, soprattutto considerando che con la seconda (Maggio) si conclude Finzioni. Queste osservazioni ci aiutano ad apprezzare la crescente attenzione riservata da Caproni al lavoro di composizione e assemblaggio delle raccolte: dalla staticità tonale di Come un’allegoria, si passa a un minimo di movimentazione in Ballo a Fontanigorda (che si apre positivamente e si conclude negativamente), per poi approdare al gioco di variazioni sul tema, di scarti coloristici e di contrappunti tonali che abbiamo potuto riscontrare in Finzioni.

4 – Una poesia per tutti

Detto questo, non si può fare a meno di ribadire che la poetica caproniana, almeno a quest’altezza cronologica, prevede l’abolizione dei dati cronachistico-biografici, o meglio, la loro trasfigurazione in simboli dalla valenza universale, all’interno dei quali il lettore possa rispecchiarsi senza alcun ostacolo. Tutto ciò si può far rientrare in un più ampio progetto dell’autore, consistente nel marginalizzare l’«individuo empirico» a vantaggio dell’«io

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trascendentale»21 e scandito in varie fasi, in ognuna delle quali il meccanismo si affina

rispetto alla precedente. Infatti, mentre in Ballo a Fontanigorda, come abbiamo avuto modo di osservare, sono numerose le intrusioni di elementi autobiografici (basti osservare alcuni titoli: A Rina, Altri versi a Rina, A una giovane sposa, Ad Olga Franzoni), già in Finzioni il processo di spersonalizzazione delle figure femminili appare a uno stadio piuttosto avanzato, anche se non definitivo. Solo in Cronistoria l’intento dell’autore sarà pienamente raggiunto, tanto che, nonostante sia dominata dalla figura della donna assente, la raccolta è priva di qualsiasi riferimento particolare o dedica; anzi, come nota Scarpa, perfino la toponomastica o le indicazioni geografiche che compaiono in alcuni testi producono un «effetto di indeterminato»22. L’unica parziale eccezione, a ben vedere, è rappresentata da Metti il disco e ripeti, che porta in calce la dedica a Marcella (sorella di Rina); bisogna però dire che Caproni aveva probabilmente qualche riserva su questo componimento, che fu l’unico ad essere escluso da Cronistoria durante la riedizione del ’56, per essere poi reintegrato solo venti anni più tardi, con l’edizione delle poesie Garzanti23. Il risultato è che – in Finzioni

parzialmente, in Cronistoria definitivamente – quelli che avevamo potuto definire personaggi perdono la loro individualità all’interno di complessi simbolici che li trascendono, benché non si possa negare che le due donne rimangano un fondamentale centro irradiatore di immagini e temi.

Per tutte queste ragioni, «non è sempre facile (né, s’intende, operazione priva di rischi), acclarare l’identità del referente biografico di ciascun testo»24. Tentare di rintracciare la

figura che si cela dietro al tu lirico, per quanto possa essere utile nel corso della ricostruzione critica, rischia di diventare un’operazione fuorviante, soprattutto se, tra i fattori che influenzano l’interpretazione del testo, decidiamo di assegnare un certo peso alle intenzioni creative dell’autore (scelta non obbligata, ma tutto sommato da tenere in considerazione). Dunque, avendo sempre ben presente che per Caproni quel che conta è la sovradeterminazione semantica di cui si caricano le sue poesie, la priorità non sarà tanto rilevare l’identità biografica che si cela dietro il pronome tu, quanto, da un lato, comprendere a quale complesso simbolico-stilistico afferisce il tu di un certo testo, dall’altro lato, invece,

21 MONTALE AMS p. 53. 22 SCARPA 2004, p. 42. 23 OV, p. 1101.

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individuare i rapporti di forza tra i due complessi, con lo scopo di capire in quale direzione tende la ricerca poetica dell’autore.

A questo punto, vorrei esaurire l’argomento con alcune considerazioni riguardanti l’utilizzo dei personaggi in poesia. Innanzitutto mi sembra che si possa definire il fenomeno come parte del processo di «romanzizzazione»25 (ma anche, per certi versi, di «drammatizzazione») del genere lirico, e quindi, più generale, di «carnevalizzazione»26 della letteratura, che consiste nella rottura dei limiti di genere e nel reciproco sconfinamento di una tipologia letteraria nell’altra. Da questo punto di vista il Novecento è stato un secolo di grandi sperimentalismi, che hanno permesso in special modo l’avvicinamento della prosa alla poesia27 e della lirica

alla narrativa28. Tuttavia manca uno studio approfondito riguardante le influenze del genere drammatico su quello poetico (si pensi, ad esempio, a come Luzi possa aver trasferito la sua esperienza di scrittura teatrale all’interno dei dialoghi presenti in Nel magma) e, più nello specifico, un’analisi sulla creazione e l’impiego di personaggi poetici. Come nota Testa, infatti, quella del personaggio è una «categoria narrativa in primo luogo che, in sintonia col predominio dei generi lirici orientati sull’univocità, ha ricevuto scarsa considerazione nelle analisi della lingua poetica. In realtà essa è, almeno laddove si liquidano posture orfiche e ostentazioni soggettivistiche di vario tipo, un nodo centrale della testualità della poesia»29. Il problema del personaggio in poesia, dunque, è particolarmente rilevante, se non altro perché strettamente collegato a un’altra questione fondamentale per i poeti che scrivono e riflettono negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale, ovvero la questione della fuoriuscita dal narcisismo lirico e della rappresentazione poetica dell’alterità. Lo stesso Caproni, in una recensione degli anni ’50, dimostra di tenere particolarmente all’argomento, sottolineando come la possibilità di impiegare «interposte persone» all’interno del genere lirico in Italia sia ingiustamente sottovalutata: «dev’esserci per noi italiani una tal condizione di fronte alla poesia, per cui sempre un poco a malincuore ci sentiamo disposti a dar buone credenziali di poeta a chiunque, in versi, muova il canto per interposte persone: cioè coi modi che preferiamo regalare o relegare al romanzo, ivi soltanto anche noi concordando a che il

25 BACHTIN 1968 p. 354. 26 Ivi, p. 141. 27 Cfr. BERARDINELLI 1994. 28 Cfr. GIOVANNUZZI 1999. 29 TESTA 1999, p. 100.

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protagonista, piuttosto ch’essere la persona stessa dell’autore col suo peso fisico e i suoi privati casi resi universali, sia piuttosto l’umanità dell’autore quale luogo spirituale nel movimenti di figure e gesti e casi di altre persone interposte e magari (forse è una necessità) contrastanti e perfino contraddittorie»30.

Ora, il problema mi sembra schematizzabile nei seguenti termini: la poesia italiana di quegli anni – e, a parte deboli tentativi, le prime raccolte di Caproni non fanno eccezione – difende una concezione fondamentalmente aristotelica dello scrivere in versi, per cui viene silenziosamente accettato il principio secondo il quale «la poesia è cosa più filosofica e più seriamente impegnativa della storia: la poesia dice infatti piuttosto le cose universali, la storia quelle particolari»31. È ovvio, allora, che la pretesa di universalità, conducendo la poesia verso la ricerca di verità eterne sull’essere umano, di fatto ostacola la creazione di veri e propri personaggi, i quali non possono prescindere dai «momenti determinanti, umanamente e socialmente essenziali, d’un periodo storico»32, pena il venir meno di «plasticità,

perspicuità» e, conseguentemente, dell’«esistenza autonoma dei personaggi e dei rapporti tra i personaggi»33. In effetti, mi sembra che la stretta interrelazione tra invenzione dei personaggi e senso della storia trovi una conferma nel fatto che alcuni tra i personaggi poetici più riusciti del Novecento italiano (penso in particolare a opere quali La ragazza Carla di Pagliarani o i Versi livornesi dello stesso Caproni) siano nati tra gli anni ’50 e gli anni ’60, ovvero nel periodo in cui la necessità di riflettere sul rapporto tra storia, politica e letteratura era percepita come particolarmente impellente. Evidentemente la creazione di figure come quella di Carla o di Annina non può prescindere dalla rappresentazione – più o meno dettagliata, più o meno analitica – del contesto storico-sociale in cui si colloca il personaggio. Si consideri anche come in alcune tra le raccolte più significative che vedono la luce in questi anni (Nel magma, Gli strumenti umani, La vita in versi) si assista al moltiplicarsi di incontri tra l’io lirico e vari personaggi, più o meno rifiniti, a cui è affidato il compito di incarnare non solo l’Alterità in senso generale, ma anche l’altro in senso sociale e culturale, e quindi dotato di connotazione storica (per fare un solo esempio, si pensi agli incontri con dei gruppi

30 SN, p. 72. 31 P 1451b.

32 LUKÁCS 1950, p. 17. 33 Ivi, p. 18.

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di operai descritti da Luzi e Sereni, rispettivamente in Presso il Bisenzio e in Una visita in fabbrica).

Al contrario, come abbiamo potuto osservare nella quasi totalità dei testi di Finzioni, la volontà di parlare per un’umanità pensata fuori dal tempo e dallo spazio comporta la spersonalizzazione delle figure con cui l’io stabilisce un contatto, provocando il sacrificio dell’individualità in nome del principio di universalità poetica. E invece «un personaggio è tale in quanto, offrendo elementi oggettivi suoi propri, riesca a svilupparsi in una storia, in un intreccio, e viva entro una geografia che fa da sfondo all’immagine e insieme la esprime»34. In altre parole, l’identità del personaggio necessita di uno sviluppo spaziotemporale – e quindi di narratività – per acquistare consistenza; è inevitabile, dunque, che non possa coesistere in alcun modo con la tradizionale assolutezza dell’io lirico moderno, il quale ostenta «indifferenza […] rispetto al tempo e allo spazio»35 desiderando attingere e trasmettere contenuti atemporali, non soggetti a mutamento.

La ricerca di universalità comporta, per forza di cose, lo svuotamento del volume e la perdita dei confini definitori del personaggio, per cui spesso quel che rimane è un pronome – un «tu» – senza antecedente, oppure un deittico privo di un contesto discorsivo che lo determini (cito ad esempio Batticuore «te rapita nell’ansia / continua»; Romanza «Non tu ritorni»; Mentre senza un saluto «Non più la dolce voce / del tuo canto di sera»).

In altre parole, mi sembra di poter affermare che – al di là delle eccezioni osservate – nel primo Caproni, così come in tanta poesia a lui coeva, l’io e il tu abbiano un valore «grammaticale» e non propriamente «semantico»36 e perciò, non essendo dotati di spessore

identitario né essendo loro concessa la possibilità di agire e di mutare il proprio stato (o di tendere a una mutazione del proprio stato), non sono riconoscibili come autentici soggetti. Per comprendere più a fondo questo aspetto della poesia non solo di Caproni, ma anche di tanto novecento italiano e straniero, converrà rifarsi alla nozione jakobsoniana dei deittici come shifters37 (o commutatori), sarebbe a dire unità grammaticali del tipo «code referring to message»38 nei quali il referente non si può ricavare dal codice, ma cambia di volta in volta a seconda del messaggio in cui viene a collocarsi. Ora, abbiamo già osservato come Caproni,

34 MACCHIA 1995 pp. 206-207.

35 FRASCA – LÜDERSSEN – OTT 2015 (a cura di), p. 46. 36 FRASCA, LÜDERSSEN, OTT 2015 (a cura di), p. 18. 37 JAKOBSON 1957, p. 131.

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soprattutto a partire da Finzioni, si cimenti in una coerente e sistematica cancellazione dei tratti individuali delle figure femminili, a cominciare dai nomi e dalle dediche. La conseguenza è che il messaggio non fornisce più al lettore elementi sufficienti per risalire con certezza al referente del deittico, per cui il pronome recupera quasi la sua funzione grammaticale di vuoto contenitore prestato ad un numero di significazioni potenzialmente infinito. In questo modo, per forza di cose, l’inceppamento della funzione referenziale della parola comporta che il deittico risulti massimamente disponibile al processo di sovradeterminazione simbolica. Detto ciò, per evitare fraintendimenti, farei una precisazione: il discorso che abbiamo svolto fin qui si colloca sul piano testuale, e quindi sulla coerenza e sulla continuità che i personaggi riescono (o, come in questo caso, non riescono) a sviluppare all’interno del corpus poetico. Ciò vuol dire innanzitutto che le informazioni fornite dai vari paratesti, per quanto utili in sede critica, non possono colmare le lacune seminate nell’opera, e quindi non possono restituire spessore a quelle figure che l’autore ha voluto spersonalizzare. A maggior ragione non sarà dirimente il grado di autenticità (ovvero di sovrapponibilità tra testo e verità biografica) del personaggio, ma conteranno esclusivamente i caratteri che acquista nel corso delle raccolte.

Se ne può concludere che, per quanto la necessità dell’io lirico di trovare un appoggio ontologico e gnoseologico in altri individui sia un dato critico da non sottovalutare, in ultima analisi le figure femminili caproninane esistono non in maniera autonoma, ma solo in quanto coinvolte in una relazione con l’io, o solo in quanto funzionali al messaggio che l’io vuole veicolare. Non sarà un caso, infatti, che nella quasi totalità dei casi vengano indicate con il pronome di seconda persona singolare, in quanto «“tu” è necessariamente designato da “io” e non può essere pensato al di fuori di una situazione posta a partire da “io”»39; al contrario,

la terza persona – che Benveniste definisce «non-persona»40 – essendo costitutivamente estranea alla «relazione con la quale si specificano “io” e “tu”»41, e perciò rappresentando

un’alterità radicale alla soggettività dell’io, viene impiegata molto meno frequentemente.

Dopo aver analizzato le modalità di impiego degli pseudo-personaggi femminili all’interno delle prime raccolte caproniane, è arrivato il momento di definire con precisione quali

39 BENVENISTE 1966, p. 272. 40 Ivi, p. 273.

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conseguenze ha tutto ciò sullo statuto dell’io lirico. A questo punto è agevole comprendere come la natura dell’io si sia arricchita di nuove sfumature, soprattutto nel passaggio tra la prima e la seconda raccolta, sbloccando così nuove possibilità compositive. Infatti, se in Come un’allegoria avevamo potuto riscontrare la presenza di un io autofondato, in grado di accedere liberamente al mondo esterno e di piegarlo alle proprie necessità autoespressive; a partire da alcuni testi di Ballo a Fontanigorda ci troviamo invece di fronte a un io parzialmente relazionale, le cui possibilità di autodefinizione e di interazione con la realtà sono in parte subordinate all’interazione con una figura femminile. Detto questo, bisogna anche sottolineare che quel che avviene non è un passaggio netto dalla prima alla seconda postura lirica, quanto un ampliamento della strumentazione poetica che l’autore decide di prendere in considerazione. Infatti, nella seconda raccolta, accanto a componimenti incentrati sulla relazione io-tu – spesso resa attraverso l’apostrofe dell’io nei confronti del tu lirico –, se ne incontrano altri in cui l’io continua a manifestarsi come puro sguardo sul mondo, sciolto da qualunque contatto con l’alterità. L’alternanza di queste due posture prosegue anche all’interno della terza raccolta dove, nonostante l’indebolimento e l’assottigliamento identitario degli pseudo-personaggi femminili, l’io conserva una propria dimensione relazionale. Allo stesso tempo però si incontrano anche testi come Con che follia, i quali, benché attraversati da un sottile senso di fragilità («dietro gale / fatue (spuma di mare) / si spengono sopra accaldate / bocche risa più chiare»), presentano tuttavia un impianto totalmente monologico, edificato attorno a un io solido che esercita il suo puro sguardo sul mondo. Vero è che il numero dei testi esplicitamente o implicitamente dialogici presenti in Finzioni è piuttosto cospicuo, così come si è allargata la gamma di interlocutori a cui l’io si rivolge. Oltre alle poesie riconducibili con più o meno certezza a Rina o ad Olga, infatti, l’io apostrofa anche una Veneziana («Veneziana, nel fresco / d’acqua dei tuoi iridati / occhi…») e una “donna truccata” (Finzioni «Cara, con poca cipria / e minio, che bella festa / inventi sopra il tuo viso / giovane!»; Batticuore «e data / tutta che sei ai profumi / di scoglio»). In ogni caso, non bisogna dimenticare di sottolineare che, se è giusto interpretare la coppia Rina-Olga non tanto come donne che sono state parte della vita del poeta e poi sono confluite nella sua poesia, ma piuttosto come una coppia mitica che incarna l’eterna tensione tra archetipi contrapposti (vita-morte, accesso al mondo-esclusione dal mondo, e via dicendo), allora si può pensare che questi nuovi interlocutori trovino una loro posizione nel sistema poetico caproniano ponendosi sotto la luce di una delle due figure portanti. In questo senso la

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veneziana rientrerà certamente nel raggio d’attrazione del polo-Rina, mentre un tu decisamente più complesso come la “donna truccata” può essere letta come la demistificazione dei valori di pienezza e intensità vitalistica, e pertanto può rappresentare, come già mostrato, il passaggio da una fase poetica vissuta all’insegna di Rina, a un’altra trascorsa sotto il segno di Olga. Un caso particolare, infine, è quello di A mio padre, dove alla dedica contenuta nel titolo di fatto non segue alcun segnale che faccia pensare ad una volontà dell’io di rivolgersi al suo dedicatario.

La tendenza dell’io ad assumere sempre più volentieri una postura relazionale si afferma definitivamente in Cronistoria, dove l’io lirico, destabilizzato dal dramma storico della seconda guerra mondiale, perde le sue certezze e la sua capacità di auto-fondarsi, e perciò ha costante bisogno di un tu ontologicamente forte che ne rinsaldi l’identità e che assicuri l’accesso a una dimensione di autenticità (Il mare brucia le maschere «Tu sola potrai resistere / nel rogo del Carnevale. / Tu sola che senza maschere / nascondi l’arte d’esistere»). In questo nuovo momento della poesia caproniana (che verrà analizzato con più cura nel capitolo successivo) abbiamo a che fare con un io quasi totalmente relazionale.

5 – Caproni nel campo letterario italiano

Alla luce di quanto osservato sin qui, abbiamo raccolto alcuni dati con i quali possiamo tentare di inserire le raccolte del primo Caproni all’interno del panorama poetico dei suoi anni. Partirei dall’osservare che la presenza di un io tutto sommato ancora saldo (anche se in Finzioni iniziano a delinearsi le prime crepe) ci permette di collocarlo nella costellazione di autori che avevano come punto di riferimento Ungaretti (e direi l’Ungaretti di Sentimento del tempo piuttosto che dell’Allegria) anziché Montale, volendo considerare questi due autori come i capiscuola di altrettante linee poetiche per molti aspetti opposte e inconciliabili. Lo stesso Caproni, a più riprese, riconosce i suoi debiti, tanto metrico-ritmici quanto poetici in genere, verso il poeta di Alessandria: «Ricordi personali a parte, credo di poter dire in assoluto che davvero Giuseppe Ungaretti sia stato per tutti noi, […] un grande Maestro di scrittura e di stile […]. Forse in nessun altro poeta, come in Ungaretti, la parola consentì tutt’intera l’elementarità delle energie prime, delle fonti prime: come se prima la letteratura e la poesia stessa non fossero mai esistite: come se la scaturigine del canto fosse “quella” e

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