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Il "Novellino" di Masuccio Salernitano e la novellistica in volgare e in latino fra Tre e Quattrocento

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN ITALIANISTICA

TESI DI LAUREA

Il Novellino di Masuccio Salernitano e la novellistica in volgare e in

latino fra Tre e Quattrocento

CANDIDATA

RELATORE

Giulia Depoli

Chiar.mo Prof. Marcello Ciccuto

CONTRORELATORE

Chiar.mo Prof. Vinicio Pacca

CORRELATORE

Chiar.mo Prof. Stefano Carrai

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Indice

I. Introduzione ... 1

I.1. Premessa: il Novellino di Masuccio Salernitano ... 1

I.2. Modello decameroniano e narrativa volgare toscana ... 8

I.3. La novella umanistica ... 11

I.4. Metodo ... 13

II. Analisi di una selezione di novelle ... 15

II.1. Novella I ... 16

II.1.1. Il nucleo narrativo: il ritorno del frate ucciso (i fabliaux Estormi e Li quatre prestres; Sercambi, Novelliere X) ...16

II.1.2. Il motivo del creduto omicidio di un morto (Sacchetti, Trecentonovelle XLVIII) ... 20

II.1.3. La vendetta del cavaliere morto o ‘cacciatore selvaggio’: il motivo in Decameron V VIII ... 22

II.1.4. La funzione macrotestuale della novella d’apertura ... 27

II.2. Novella II ... 29

II.2.1. Parodia dell’Annunciazione: sacre scritture e possibili fonti iconografiche... 29

II.2.2. Confronto con il modello: Decameron III X e IV II ... 35

II.2.3. La riscrittura nel Charon di Pontano ... 38

II.3. Novella III ... 45

II.3.1. Il nucleo narrativo: le brache di San Griffone ... 45

II.3.2. La rielaborazione di Masuccio ... 49

II.3.3. Religiosi, brache e trasgressione: altri motivi ... 53

II.4. Novella XX ... 60

II.4.1. Una testimonianza dell’epoca d’oro della demonologia ... 60

II.4.2. Parodia di evocazione demoniaca: le fonti agiografiche ed esemplaristiche ... 62

II.4.3. La possibile familiarità dell’autore con la pratica negromantica: l’identità del demone Barabas .... 66

II.4.4. La negromanzia in altre novelle (Boccaccio e Sercambi) ... 71

II.5. Novella XXI ... 77

II.5.1. Una riscrittura di Ser Giovanni, Il pecorone I 1 ... 77

II.5.2. L’evoluzione di un nucleo narrativo boccacciano: Decameron V IX ... 85

II.5.3. Il motivo cortese degli amanti sotto l’albero: la possibile mediazione di Decameron VII VII ... 87

II.6. Novella XXVI... 90

II.6.1. Il capolavoro di Enea Silvio Piccolomini nel panorama novellistico italiano ... 90

II.6.2. Novella XXVI: la condivisione dell’amore e il valore dell’amicizia ... 92

II.7. Novella XLI ... 99

II.7.1. La fortuna del motivo e il possibile confronto con Anuli di Leon Battista Alberti ... 99

II.7.2. Il diamante come pietra della fedeltà d’amore ... 104

II.7.3. Il precedente decameroniano di Giletta ... 109

II.8. Riscritture decameroniane ... 112

II.8.1. Novella IX ... 113

II.8.2. Novella XXXVI ... 118

II.8.3. Novella XLVIII ... 123

(4)

Tavole ... 133

Bibliografia ... 137

Testi letterari e repertori citati in sigla ... 137

Altri testi e fonti primarie ... 137

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1

I. Introduzione

I.1.

Premessa: il Novellino di Masuccio Salernitano

L’obiettivo del seguente lavoro è analizzare il Novellino di Masuccio Salernitano1, indagandone i modelli narrativi, i temi e lo stile.

Come dimostrano le acquisizioni di Petrocchi2, l’autore iniziò a comporre novelle almeno a partire dagli anni 1450-1457, mentre si trovava al servizio dei principi di Salerno3. A questo periodo, infatti, lo studioso fa risalire la prima redazione di quattro novelle (II, III, XXI, XXXI) conservata dai mss. Landau 17 e Magliabechiano II.II 56 della Biblioteca Nazionale di Firenze e dal ms. 2437 della Riccardiana di Firenze. Le singole narrazioni conobbero inizialmente una circolazione “alla spicciolata” (o meglio, in forma epistolare) come testimonia l’autore stesso:

[…] avendo da la mia tenera età faticato per esercicio il mio grosso e rudissimo ingegno, e de la pigra e rozza mano scritte alcune novelle per autentiche istorie approbate, ne gli moderni e antiqui tempi travenute, e quelle a diverse e dignissime persone per me mandate, sì como chiaro ne’ loro tituli si demostra, per la cui accagione ho voluto quelle che erano già disperse congregare, e de quelle insieme unite fabricare il presente libretto […]. (MN, Prologo, § 2)

Solo vent’anni dopo la prima redazione avrà luce la stampa della raccolta di cinquanta novelle, dal titolo Novellino4. L’editio princeps del 1476, per i tipi di Del Tuppo, è oggi perduta5; la più antica edizione conservata è attualmente quella milanese

1 Per l’identità dell’autore, si rimanda agli studi di inizio Novecento in merito, inaugurati da ALFREDO

MAURO, Per la storia della letteratura napoletana volgare del Quattrocento, in «Archivio storico

napoletano», XLIX, 1924, pp. 192-231 e ID., Per la biografia di Masuccio Salernitano, Napoli, Cooperativa

Tipografica Sanitaria, 1926, per arrivare al più recente contributo di RAFFAELE AVALLONE, Salerno patria

di Masuccio, Napoli, Istituto Grafico Editoriale Italiano, 1993.

2 Si vedano GIORGIO PETROCCHI, Per l’edizione critica del «Novellino» di Masuccio, in «Studi di filologia

italiana», X, 1952, pp. 37-82; ID., La prima redazione del «Novellino» di Masuccio Salernitano, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXXIX, 1952, pp. 266-317; ID., Masuccio Guardati e la narrativa

napoletana del Quattrocento, Firenze, Le Monnier, 1953, le cui conclusioni sono poi confluite

nell’introduzione di MASUCCIO SALERNITANO, Il novellino. Con appendice di prosatori napoletani del ’400, a cura di Giorgio Petrocchi, Firenze, Sansoni, 1957 (edizione utilizzata in questa sede per il testo di

Masuccio, da qui in avanti citata con la sigla MN seguita dall’indicazione topografica ‒ numero della parte, della novella e del paragrafo citato). Più recentemente, riprende la questione LEONARDO TERRUSI, Per una nuova edizione del Novellino di Masuccio Salernitano, in AMEDEO QUONDAM (a cura di), Il canone e la Biblioteca. Costruzioni e decostruzioni della tradizione letteraria italiana, Roma, Bulzoni, 2002, pp.

157-166.

3 Cfr. ID., El rozo idyoma de mia materna lingua. Studio sul Novellino di Masuccio Salernitano, Bari,

Laterza, 2005, p. 11.

4 Cfr. ivi, pp. 14-25.

5 Cfr. ivi, p. 15 e n. 15, per la ricostruzione dei repertori (nonché dei cataloghi d’asta) che dal XVIII secolo

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del 1483 (Valdarfer). Dopo il rogo dell’autografo, per non meglio precisati motivi di censura (come si legge nella lettera dedicatoria di Francesco del Tuppo, conservata dall’edizione milanese: «benché fosse lo originale de propria mane del auditore delaniato e brusato da colloro che dentro senteano nova de lloro casa»6), l’opera ebbe quattro edizioni nel XV secolo e conobbe numerosissime ristampe nella prima metà del XVI7. L’amplissimo successo subì una brusca battuta d’arresto nel periodo controriformistico: nei secoli che seguirono, solo due edizioni (quella del 1600 e quella del 17658) trasmisero il testo di Masuccio. Si dovrà attendere l’edizione di Luigi Settembrini del 18749 per l’avvio di una “riscoperta” del Novellino, che conobbe un’aumentata attenzione della critica dal XX secolo fino ai giorni nostri.

In questa sede, ci si limita a ripercorrere solo gli studi masucciani fondamentali di inizio Novecento, soffermandosi invece sulle nuove acquisizioni dei tempi più recenti10. Tra le letture più importanti del Novellino nella prima metà del secolo si segnalano soprattutto quelle di Neri e di Fubini. Il primo, in un articolo del 1940, aveva definito il libro «forse il più fosco, il più truce di quanti ne furono composti durante il nostro Rinascimento: un’aura greve l’opprime, solcata da luci violente»11. Dopo averne rilevato lo stile pesante («tortuoso, togato e paludato»), Neri critica il tono cupo delle cinquanta novelle, paragonandone le atmosfere addirittura a quelle di Poe12. A differenza di Boccaccio, nessun reale sorriso trapela dal testo di Masuccio. Inesorabile la condanna: «duro e triste libro, la cui fortuna non potrà mai sollevarsi», fatto salvo per il merito di aver “inventato” la storia di Romeo e Giulietta13. Più possibilista Fubini, che anzitutto rivaluta la coerenza stilistica dell’autore, definendolo «uno scrittore che persegue con coerenza un suo ideale di prosa artistica e riesce a dare alla sua pagina un’impronta stilistica originale» (pur criticando gli eccessi retorici e sintattici che infestano esordi ed

6 Cfr. ivi, pp. 26-28. 7 Cfr. ivi, pp. 28-30.

8 Correggo l’errata datazione al 1735 di Terrusi (ivi, p. 31), recuperando la corretta indicazione di

SALVATORE GENTILE, Repatriare Masuccio al suo lassato nido. Contributo filologico e linguistico. Atti del Convegno Nazionale di Studi su Masuccio Salernitano, Salerno, 9-10 maggio 1976, Galatina, Congedo,

1979, p. 13, per l’edizione MASUCCIO SALERNITANO, Il novellino in Toscana favella ridotto. All’orrevole

Aristarco Scannabue della Frusta Letteraria Autore dedicato, 2 tt., Ginevra, 1765.

9 Ristampata in MASUCCIO SALERNITANO, Il novellino nell’edizione di Luigi Settembrini, a cura di

Salvatore Silvano Nigro, Milano, Rizzoli, 1990.

10 Per un profilo completo degli studi, per quanto ormai datato, si veda DONATO PIROVANO, Masuccio e la

critica, in «Giornale storico della letteratura italiana», CLXXIII, 1996, pp. 392-428.

11 FERDINANDO NERI, Il Novellino di Masuccio, in «la Stampa», 23 novembre 1940, p. 3, poi confluito in

ID., Poesia nel tempo, Torino, Silva, 1948, pp. 27-30.

12 Ibidem. 13 Ibidem.

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3

epiloghi)14. L’interpretazione rimane però focalizzata sulla «tendenza [di Masuccio] a rilevare gli aspetti negativi della realtà e a soffermarsi su di essi con iroso compiacimento»15. Il critico sottolinea inoltre il distacco di Masuccio nei confronti della propria materia e da molte delle tematiche trattate, fra cui le donne e la magnificenza cavalleresca16. La rivalutazione avviene nella ricerca crociana dell’essenza della “poesia” in Masuccio, da individuarsi nella «segreta umanità»17 celata dietro alla facciata di cupo narratore, che si svela nell’impiego del grottesco, in cui il critico vede «il segno originale della sua arte»18:

molte volte nel Novellino il grottesco scaturisce da certe situazioni molto spinte o addirittura oscene e viene appunto a purificare nella serena visione di un’enorme bizzarria quanto nella materia poteva essere di osceno e di turpe. […]

In momenti come questi Masuccio, il corrucciato Masuccio, non mai stanco di combattere, spiana la fronte e sa anche egli sorridere: come un raggio di sole sul fango, la sua arte illumina allora, sia pure per poco, il suo piccolo mondo plebeo, i suoi sfondi foschi e truci, le sue femmine e i suoi furfanti. L’ostilità verso la sua materia vien meno o si trasfigura: non però essa cede il luogo ad una simpatia piena e cordiale, così come il sorriso, che ha bisogno per sorgere di contrasti così violenti, serba sempre alcunché di ambiguo e non si diffonde in una aperta e vivificante giocondità.19

Nell’introduzione alla sua edizione del 1957, Petrocchi afferma che tali giudizi critici sono validi limitatamente alle sezioni grottesche del Novellino, senza esaurirne però la gamma stilistica. L’autore non insegue semplicemente il grottesco e le tinte fosche: «La scelta dell’orrido, muovendo dal proposito di variare gli argomenti del Novellino e di non trascurare alcun aspetto della contraddittoria umanità di cui Masuccio è testimone, non vuol essere un punto d’arrivo, ché la fantasia dello scrittore brama piuttosto situazioni festose e a lieto fine»20. Eppure, le conclusioni del critico sono molto vicine a quelle di Fubini, salvo individuare la piena partecipazione e il trasporto di Masuccio non tanto nei confronti della materia, quanto nella sua passione per la narrazione:

Il sorriso di Masuccio non cerca comunicativa col lettore, non plasma simpatia dal concreto comportamento del personaggio; si accontenta di apparire tale onde rendere più veridica la narrazione; quasi un «sorriso oggettivo», dicemmo, e che nasce dalla singolarità della vicenda, e non vuol essere «soggettivo», rampollante dal gusto e dal piacere della comicità che lo scrittore applichi a casi fra i più disparati. A chi non si pone

14 MARIO FUBINI, Studi sulla letteratura del Rinascimento, Firenze, Sansoni, 1947, p. 42. 15 Ivi, p. 47. 16 Ivi, pp. 34-38. 17 Ivi, p. 60. 18 Ivi, p. 53. 19 Ivi, pp. 55-57. 20 MN, Introduzione, p. XXII.

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in questa prospettiva, Masuccio può apparire compassato, convenzionale, un po’ gelido e gretto; ma egli ha invece le sue passioni e i suoi interessi che riversa nel meccanismo dell’azione narrativa, cercando nello strumento del racconto di soddisfare l’esigenza morale e la rappresentazione libera e spregiudicata di casi umani.21

Pare evidente che la linea critica principale valorizzi dunque il carattere oscuro e crudo del Novellino, ora vedendone un limite e ora invece individuando in esso la forza del libro, sempre insistendo sulla categoria di “grottesco” inaugurata da Fubini e sulle relative funzioni. Su questo punto, il panorama critico italiano è sostanzialmente omogeneo (ben più di quanto rilevi Pirovano nella sua rassegna degli studi precedenti22). Fra gli anni Settanta e Ottanta, si segnala anzitutto il Convegno Nazionale su Masuccio Salernitano tenutosi a Salerno nel 197623. In quest’occasione agli studi sull’inquadramento dell’autore nel suo contesto storico, geografico e culturale, si affiancano ricerche con metodi innovativi quali la semantica strutturale di Greimas, che tuttavia, come afferma Pirovano, «nella loro frammentaria specificità, testimoniano la difficoltà da parte della critica di giungere a una organica caratterizzazione della raccolta»24. A pochi anni di distanza, nel 1983, Nigro pubblica uno dei contributi principali della critica masucciana, dal titolo Le brache di san Griffone. Novellistica e predicazione tra ’400 e ’50025. In questo studio, il critico individua alcuni punti cruciali nell’interpretazione dell’anticlericalismo del Novellino: esso si vuole presentare come «littera di fronte al “quinto evangelio” o impostura della predicazione»26, di cui si teme l’influenza demagogica sulle masse. Parte integrante della svalutazione dei predicatori è lo svilimento delle donne, il loro pubblico per eccellenza27. Nondimeno, è proprio la predica, in particolare nella declinazione di Bernardino da Siena28, a costituire un punto di riferimento retorico per l’autore:

è probabile che la novella masucciana, proprio per la professa strategia frontale da «morso» contro «morso», abbia modellato sulla predica così regolata la marcata

21 Ivi, p. XXV.

22 Cfr. DONATO PIROVANO, Modi narrativi e stile del «Novellino» di Masuccio Salernitano, Firenze, La

Nuova Italia, 1996, pp. 4-5.

23 I cui atti sono stati pubblicati nei due volumi PIETRO BORRARO, FRANCESCO D’EPISCOPO (a cura di),

Masuccio novelliere salernitano dell’età aragonese. Atti del Convegno nazionale di studi su Masuccio Salernitano, Salerno, 9-10 maggio 1976, Galatina, Congedo, 1978 e SALVATORE GENTILE, Repatriare Masuccio al suo lassato nido, cit.

24 DONATO PIROVANO, Modi narrativi e stile del «Novellino» di Masuccio Salernitano, cit., p. 5.

25 SALVATORE SILVANO NIGRO, Le brache di san Griffone. Novellistica e predicazione tra ’400 e ’500,

Roma-Bari, Laterza, 1983.

26 Ivi, p. 7. 27 Ivi, pp. 23-24.

28 Tenendo conto che «Bernardino aveva insegnato alla predica a parlare “da Boccaccio”; Masuccio insegna

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dispositio retorica (esordio-narrazione-commento) dell’epistola narrativa, anch’essa

finalizzata alla non inerte «inluminazione» pur di segno opposto […].29

L’analisi di Nigro si sviluppa intrecciandosi all’esegesi di alcune novelle, fra cui la seconda e la terza, fra le più celebri della raccolta, su cui ci sarà modo di tornare nei capitoli successivi.

Di indubbio interesse è il profilo critico su Masuccio offerto da Mazzacurati nella prefazione all’antologia Gallimard Conteurs italiens de la Renaissance del 199330. Gli aspetti considerati dallo studioso in questo breve spazio, destinato in origine ad essere sviluppato in un intero capitolo31, sono molteplici. Anzitutto, egli definisce Masuccio un «narratore forte», in grado di costruire «atmosfere di un realismo tutto particolare» e di «proiettare sul lettore raffigurazioni violente ed estreme» che segnano la sua originalità rispetto al modello32. Oltre alla valorizzazione dell’innovativo uso della novella come «strumento di satira politica, di denuncia, di scoperchiamento del vizio e di rivelazione dell’orrore, di angoscioso ammonimento»33, fulcro dell’analisi è l’estraneità di Masuccio alla narrativa cosiddetta «borghese» dei novellieri successivi a Boccaccio34. Mentre gli altri narratori «predilessero figure chiuse entro i limiti riconoscibili della vita urbana, degli eventi familiari e mediocri, storie rassicuranti o almeno risarcitive»35, il Novellino si nutre di un contesto culturale completamente diverso, in cui da un lato mancava la libertà comunale (che aveva permesso altrove l’ascesa delle classi medie), dall’altro circolavano nella memoria collettiva miti e leggende di un immaginario altro, attinti sia dal bacino arabo che nordeuropeo:

Così, dal fondo dell’oralità collettiva e dai retaggi di tante culture stratificate nel tempo si riversavano nel Novellino non solo i pochi «libri» toscani in volgare (Dante, Boccaccio, qualche silloge di poeti o di testi religiosi) giunti fino alla Salerno del primo Quattrocento, ma folate di trame tratte da leggende cavalleresche, chansons o lais di amore e di morte, peripezie fatali. Una composita miscela di miti del Nord (di ascendenza normanna o angioina) e di favole «nere» d’origine orientale, che progressivamente prende il sopravvento, nella sequenza delle «parti», fino a produrre il motif-index più romanzesco

29 Ivi, p. 33.

30 Poi ripubblicato in traduzione italiana dell’autore, con il titolo Dopo Boccaccio: percorsi del genere

novella dal Sacchetti al Bandello, nel volume postumo GIANCARLO MAZZACURATI, All’ombra di Dioneo: tipologie e percorsi della novella da Boccaccio a Bandello, Firenze, La Nuova Italia, 1997, pp. 79-150, da

cui si cita. 31 Ivi, p. X. 32 Ivi, p. 109. 33 Ivi, p. 123. 34 Ivi, p. 120 e passim. 35 Iv, p. 124.

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e più eccentrico, rispetto ai modelli della narrazione «borghese», di tutta la novellistica dopo Boccaccio.36

Questo il cuore dell’originalità masucciana secondo Mazzacurati, il primo a dare largo spazio all’ampiezza e alla diversità di contenuti che alimentano il Novellino, il cui mondo invece era stato fino ad allora considerato da critici come Fubini «troppo più angusto [...] al confronto con quello del Decameron»37.

In tempi recenti, a Masuccio sono state dedicate alcune importanti monografie. In primis, quella di Pirovano, frutto delle ricerche condotte per il suo dottorato38. In questo volume, lo studioso offre un’analisi morfologica e stilistica del Novellino, condotta forse per la prima volta sistematicamente39. Dal punto di vista del giudizio sui caratteri principali dell’opera, prevale la valorizzazione degli stessi elementi messi in luce dalla critica del primo Novecento, con insistenti riferimenti allo «stato di inquieta tensione» che pervade anche le novelle comiche40, alla «tendenza [...] a modi aggressivi e polemici»41, al «ricercato gusto per l’orribile e per il deformato [...] per l’esasperazione e l’eccesso»42. L’acquisizione principale è proprio lo studio organico dei diversi «modi narrativi» presenti nella raccolta, sulla scorta delle categorie proposte per il Decameron da Baratto43: racconto, novella-romanzo, novella-episodio, contrasto, mimo, commedia, novella-polemica44. Così procedendo, Pirovano individua inediti collegamenti interni del

Novellino, che superano la suddivisione della macrostruttura in cinque parti, e offre una tipologia delle forme finora assente nella critica. A ciò si aggiungono le sezioni sulla retorica e sulla sintassi, su cui non ci si sofferma in questa sede.

Nel volume El rozo idyoma de mia materna lingua del 2005, Terrusi svolge invece una puntuale analisi linguistica del Novellino, preceduta da un breve capitolo dedicato agli Elementi per un’interpretazione, principalmente (ma non esclusivamente) filologica45. Dopo aver ripercorso gli elementi principali della biografia di Masuccio, della vicenda compositiva del Novellino e della fortuna dell’opera, lo studioso affronta la questione critico-letteraria, offrendo alcuni nuovi spunti di analisi. In primo luogo,

36 Ibidem.

37 MARIO FUBINI, Studi sulla letteratura del Rinascimento, cit., p. 50.

38 DONATO PIROVANO, Modi narrativi e stile del «Novellino» di Masuccio Salernitano, cit.

39 Escludendo la più breve ricerca di MARGA COTTINO-JONES, Il dir novellando: modello e deviazioni,

Roma, Salerno, pp. 45-80, per cui si veda oltre.

40 DONATO PIROVANO, Modi narrativi e stile del «Novellino» di Masuccio Salernitano, cit., p. 101. 41 Ivi, p. 114.

42 Ivi, p. 124.

43 MARIO BARATTO, Realtà e stile nel «Decameron», Roma, Editori Riuniti, 1984.

44 DONATO PIROVANO, Modi narrativi e stile del «Novellino» di Masuccio Salernitano, cit., pp. 17-126. 45 LEONARDO TERRUSI, El rozo idyoma de mia materna lingua, cit.; la parte prima occupa le pp. 11-95.

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Terrusi sottolinea i limiti che circoscrivono l’anticlericalismo e la misoginia di Masuccio, i due apparenti assoluti della raccolta: da un lato, la satira contro gli ecclesiastici si circoscrive quasi esclusivamente a colpire gli Ordini Predicatori e le loro pratiche46; dall’altro, sono numerosi i personaggi femminili che hanno «un ruolo benefico o per lo meno ‘neutro’» nel Novellino47, aspetto sottovalutato dalla critica. Dunque, conclude, «anticlericalismo e misoginia, pur innegabilmente incombenti sull’opera masucciana, non ne esauriscono o meglio non giungono a caratterizzarne totalitariamente l’orizzonte tematico»48. Inoltre, Terrusi rileva nell’opera un peculiare contrasto fra elementi realistici (antroponimi reali o comunque alludenti a personaggi reali, riferimenti alla toponomastica locale, espedienti linguistici ecc.), che la rendono quasi cronachistica, ed elementi di indubbia letterarietà sul «piano retorico-formale e anche [… su] quello tematico». A questo proposito, l’autore cita i «numerosi rilievi sulle ‘fonti’ delle varie novelle», che tuttavia si limitano quasi esclusivamente agli studi positivistici, segnalando infatti che «sarebbe certo possibile ampliare ancora di molto il quadro delle allusioni e dei riferimenti letterari»49, obiettivo che ci si pone in questa sede.

Infine, è del 2018 l’ultimo contributo degli studi masucciani, la ricca monografia intitolata Secondo i precetti della perfetta amicizia di Vitale (anch’essa frutto di un lavoro di dottorato)50. La premessa dello studio è la seguente:

Le dediche del Novellino possono essere assimilate [...] a uno specchio deformante, che propone in maniera dissimulata un ritratto quasi mai idealizzato del destinatario; sono costruite su una rete di corrispondenze allusive, occulte ma sistematiche, tra fabula fittizia e biografia del dedicatario. Le novelle di Masuccio mettono in scena uno o più

Doppelgänger del destinatario, offrendo un giudizio implicito, inappellabile e per lo più

poco lusinghiero sull’esperienza biografica della persona reale.51

Su queste basi, lo studioso analizza le dediche e le trame di alcune novelle (II, III, IV, XXXVI, XXXVII, XLIV, L) mirando a ricostruirne i riferimenti a personaggi reali o fatti storici, nonché a testi letterari da Dante a Pontano. Si tratta, fra le altre cose, del primo studio che si proponga di esplorare a fondo il rapporto fra Masuccio e alcuni rappresentanti dell’umanesimo, come elemento chiave del periodo storico-culturale in cui il Novellino si inserisce. Va segnalato, tuttavia, che lo studio ha recentemente ricevuto

46 Ivi, pp. 45-52. 47 Ivi, p. 52. 48 Ivi, p. 53.

49 Ivi, pp. 60-61 e n. 138. Si veda il paragrafo I.4 per un approfondimento.

50 VINCENZO VITALE, Secondo i precetti della perfetta amicizia. Il Novellino di Masuccio tra Boffillo e

Pontano, Roma, Carocci, 2018.

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una durissima recensione da parte di Cappelli52 che ne critica metodo e impostazione, accusando l’autore di «frivolezza critica»53, di «interpretazioni gratuite, improbabili o direttamente assurde»54 nonché di «assenza di riferimenti bibliografici essenziali»55. Pur tenendo conto delle mancanze del lavoro di Vitale, la sua monografia offre spunti di analisi interessanti e apre possibilità di approfondimenti ancora inesplorati per il Novellino.

I.2.

Modello decameroniano e narrativa volgare toscana

Dichiarata è la dipendenza dal modello novellistico per eccellenza, il Decameron56: «il famoso commendato poeta Boccaccio, l’ornatissimo idioma e stile del quale te hai sempre ingegnato de imitare» (MN III, § 6). Ma l’imitatio va ben oltre allo stile ed è stata analizzata nelle sue varie componenti in tempi recenti da Cottino-Jones57. La studiosa rileva una diretta dipendenza da Boccaccio soprattutto per quanto riguarda la macrostruttura dell’opera: anzitutto, la divisione della materia per decadi tematiche (seppur dimezzate rispetto all’originale)58, ma soprattutto l’individuazione di tre «aree comunicative» corrispondenti a quelle decameroniane, secondo il seguente schema59:

Gli scarti che tuttavia caratterizzano la ripresa di Masuccio rispetto all’originale provocano significativi mutamenti. La riduzione dei narratori all’unico Masuccio, la cui

52 La recensione di Cappelli è in corso di pubblicazione sul primo volume della rivista «Artes Renascentes»

(2020), ed è attualmente disponibile online in anteprima sul sito Academia.edu al seguente indirizzo:

https://www.academia.edu/42294325/Recensione_a_V_Vitale_Secondo_i_precetti_versione_word_

(consultato l’ultima volta il 29 agosto 2020).

53 Ivi, p. 1. 54 Ivi, p. 2. 55 Ivi, p. 9.

56 Indagata specificamente per quanto riguarda il Quattrocento, ad esempio, da ACHILLE TARTARO, Il

modello del ‘Decameron’: due paragrafi quattrocenteschi, in STEFANO BIANCHI (a cura di), La novella italiana. Atti del Convegno di Caprarola 19-24 settembre 1988, vol. 1, Roma, Salerno, 1989, pp. 431-443.

57 MARGA COTTINO-JONES, Il dir novellando: modello e deviazioni, cit., 1994, pp. 45-80. 58 Ivi, p. 46.

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presenza costante nelle novelle contrasta con l’assenza di Boccaccio nel Decameron, aumenta il grado di soggettività e «accentua la funzione metanarrativa del discorso»60. Non tanto la moltiplicazione dei destinatari quanto la loro identità di personaggi storici della corte aragonese (in aggiunta agli altri elementi che metterà in luce Terrusi) accresce radicalmente il tasso di referenzialità storica61. Il reale legame fra il narratore e i destinatari implica, soprattutto negli esordi, una tonalità più evidentemente emotiva e conativa, marcando un’altra importante differenza dal modello62. Infine, anche nel

Novellino un evento esterno di crisi (la morte di Roberto da Sanseverino) agisce sulla scrittura dell’autore, così come la peste del 1348 per Boccaccio; tuttavia, in questo caso esso determina la fine e non l’inizio della scrittura63.

Per quanto riguarda le narrazioni vere e proprie, Cottino-Jones rileva in Masuccio rispetto a Boccaccio uno schematismo maggiore negli intrecci, un’amplificazione nelle descrizioni e nei monologhi e una maggiore enfasi del punto di vista del narratore, la cui visione morale e ideologica permea il tessuto narrativo64. Non tutte le conclusioni della studiosa appaiono condivisibili, come ad esempio l’idea che «manchino personaggi-protagonisti a cui si possa far risalire il processo unidirezionale di trasformazione delle situazioni narrative»65 (basti pensare al frate domenichino della novella II, ad Agata della novella III, ad Andreuccio di Vallemontone e Liello de Cecco della novella XVII, ma la lista potrebbe continuare). Tuttavia, nel complesso, l’analisi della studiosa offre un quadro interpretativo valido del rapporti con il Decameron per quanto riguarda gli aspetti principali.

Oltre all’impostazione generale, Masuccio ha attinto da Boccaccio anche molti intrecci, riscrivendoli in maniera più o meno fedele. Nella seconda parte della tesi, dedicata all’analisi di una selezione di novelle, si prenderanno in considerazione numerosi casi di derivazione boccacciana, valutando nel dettaglio con che modalità Masuccio si approccia al modello.

Inevitabile, tuttavia, il confronto anche con la narrativa postboccacciana toscana del tardo Trecento e del primo Quattrocento: Sacchetti, Sercambi, Ser Giovanni e lo pseudo-Sermini sono punti di riferimento obbligati, in quanto autori che hanno

60 Ivi, pp. 49-50. 61 Ivi, p. 51. 62 Ivi, pp. 52-53. 63 Ivi, p. 55. 64 Ivi, pp. 56-60. 65 Ivi, p. 59.

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trasformato significativamente il panorama novellistico nel periodo che va fra il capolavoro boccacciano e il XV secolo di Masuccio. A differenza di quest’ultimo, in queste raccolte non c’è il tentativo di costruire un libro di novelle dall’architettura paragonabile a quella del Decameron. D’altra parte, proprio il fatto che non sia la cornice il focus fondamentale degli epigoni di Boccaccio incoraggia a prendere invece in esame i contenuti, l’intreccio e i toni narrativi delle singole novelle, cercando di individuarne le specificità per poterle confrontare con il Novellino, mirando a stabilire le affinità, ma anche gli scarti di Masuccio rispetto ai precedenti, spesso radicalmente diversi dal modello66.

La premessa dell’indagine è che, a differenza del Decameron, i testi degli autori immediatamente successivi non conoscono un’ampia diffusione manoscritta. Tuttavia, si rileva una fittissima rete di contatti tematici, ritenuta frutto della trasmissione orale: «mentre i testi [...] hanno circuiti brevi o rimangono addirittura sullo scrittoio dell’autore, la voce viaggia instancabilmente»67. Mazzacurati ritiene che questo tipo di ricezione, in cui prevale la «cattura della materia assai più che della cattura di una esecuzione stilistica», costituisca un aspetto caratteristico della narrativa del XV secolo, mentre solo a partire dal ’500 avrebbe inizio il fenomeno delle vere e proprie riscritture68. Senza voler mettere in discussione questo dato, senz’altro valido a livello generale, alcuni casi spingono a voler quantomeno considerare la possibilità di una circolazione scritta di alcune novelle, molto probabilmente in forma spicciolata, anche a questa altezza cronologica.

Non risulta che il rapporto con questa tradizione narrativa sia stato finora indagato sistematicamente dalla critica masucciana, fatta eccezione per il capitolo dedicato nello storico lavoro di Di Francia69. L’obiettivo in questa sede è però vagliare quali materiali della narrativa toscana postboccacciana siano stati assimilati (e in che forma) e quali invece siano stati esclusi, in un’ottica più approfondita e critica rispetto al mero repertorio di ‘fonti’ individuato da Di Francia.

66 Il genere, infatti, torna ad essere appannaggio di «intellettuali di minor prestigio, talvolta periferici o

chiusi in un raggio di pubblico più angustamente municipale», che ad esempio attingono nei loro racconti a serbatoi esclusi da Boccaccio, quali la cultura magica popolare e le superstizioni più antiche, o che prediligono trame esasperate e crudeli fino al sadismo, in particolare nell’ambito della facezia “alla fiorentina” (GIANCARLO MAZZACURATI, All’ombra di Dioneo, cit., pp. 85-116 e passim).

67 Ivi, p. 94. 68 Ivi, pp. 99-100.

69 LETTERIO DI FRANCIA, Novellistica, vol. 1: Dalle Origini al Bandello, Milano, Vallardi, 1924, pp.

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I.3.

La novella umanistica

Da tempo la critica ha rilevato come per una piena comprensione della narrativa volgare quattrocentesca sia fondamentale ricostruirne il rapporto con la novella umanistica in lingua latina. Sulla scorta delle indicazioni di Martelli, che riconosce nelle versioni latine delle novelle decameroniane e nelle prime prove umanistiche un modello influente per lo sviluppo della novellistica fiorentina del Quattrocento70, Albanese scrive che la scarsità delle edizioni a disposizione, nonché la mancanza di uno studio organico di questa produzione, «ha ovviamente determinato un profilo critico carente, e a volte falsato, non solo della novella medio-umanistica latina, ma anche della narrativa volgare quattrocentesca»71.

L’intervento degli umanisti ha provocato significative trasformazioni nel genere novellistico72. Nonostante il panorama sia complesso, si può affermare che in larga parte l’umanesimo latino introdusse nel genere novellistico «varianti per lo più complicatorie» sia a livello extradiegetico (con l’incastonamento dei segmenti novellistici in cornici epistolari, sul modello della Griselda petrarchesca, o dialogiche) sia a livello di amplificatio retorica, particolarmente evidente nei frequentissimi monologhi73. La novellistica volgare, nel suo sviluppo parallelo, non rimase immune da simili processi evolutivi. In questo senso, quando Cottino-Jones vede in Masuccio un precursore dello «slittamento del genere verso le forme narrative del dialogo e della letteratura epistolare che si effettuerà sempre più spesso nelle opere cinquecentesche»74 e quando Mazzacurati argomenta che «la soluzione concepita da Masuccio per il suo ordinamento è fortemente innovativa, se non emergeranno tracciati intermedi a documentare dimenticati influssi»75, gli studiosi tendono a tralasciare l’evidente influenza sul Novellino dei precedenti umanistici, in cui queste caratteristiche erano all’ordine del giorno. Masuccio, con la sua

70 Cfr. MARIO MARTELLI, Letteratura fiorentina del Quattrocento: il filtro degli anni Sessanta, Firenze, Le

Lettere, 1996, da cui prende le mosse il capitolo dedicato ID., Firenze. I. Il Quattrocento, in ALBERTO ASOR

ROSA (a cura di), Letteratura italiana. Storia e geografia, Torino, Einaudi, vol. 2, pp. 25-123 (si vedano in

particolare per questo discorso pp. 49-50).

71 GABRIELLA ALBANESE, Per la storia della fondazione del genere novella tra volgare e latino. Edizione

di testi e problemi critici, in ROSSELLA BESSI (a cura di), La novellistica volgare e latina fra Trecento e

Cinquecento: risultati e prospettive di una ricerca interuniversitaria, Spoleto, Centro italiano di Studi

sull’Alto Medioevo, 1998, pp. 8.

72 Cfr. ivi ed EAD., Da Petrarca a Piccolomini: codificazione della novella umanistica, in EAD., LUCIA

BATTAGLIA RICCI, ROSSELLA BESSI (a cura di), Favole, parabole, istorie: le forme della scrittura

novellistica dal Medioevo al Rinascimento. Atti del convegno di Pisa, 26-28 ottobre 1998, Roma, Salerno,

2000, pp. 257-308.

73 Ivi, p. 268 e passim.

74 MARGA COTTINO-JONES, Il dir novellando, cit., p. 79. 75 GIANCARLO MAZZACURATI, All’ombra di Dioneo, cit., p. 117.

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opera, si inserisce all’interno di un processo di riconfigurazione del genere letterario in corso da quasi un secolo nella narrativa di lingua latina, almeno dalla riscrittura decameroniana di Petrarca.

Ad eccezione di un contributo di Leoncini, che ha proposto un confronto fra Masuccio e Giovanni Conversini da Ravenna76, e del volume di Vitale precedentemente citato77, non risulta che ci siano stati tentativi di indagare i contatti del Novellino con il

côté culturale umanistico. Una possibile motivazione di questa lacuna è che, come segnala Terrusi, è stata rilevata la «sostanziale estraneità della formazione masucciana rispetto al raffinato umanesimo aragonese»78. Gli studi fondamentali in merito sono quelli di Santoro79 e di Pastore80. Il primo rovescia la tesi in quegli anni sostenuta da Petrocchi di un «Masuccio scrittore aragonese», partendo dal presupposto che gli Aragonesi si insediarono a Napoli nel 1442 e che la rinascita umanistica della corte ebbe bisogno di anni per realizzarsi, mentre la prima redazione di alcune novelle, come si è visto, risale al 1450:

Ebbene, non è pensabile che nel giro di pochi anni un Masuccio più che trentenne avvertisse la propria vocazione di scrittore, svolgesse il suo tirocinio di narratore, conquistasse una propria tecnica, un proprio linguaggio, pervenendo ai risultati delle novelle citate, sotto l’influsso della cosiddetta cultura aragonese.81

Santoro argomenta dunque che la formazione di Masuccio avvenne a Salerno, in una scuola di retorica82. Ma, pur sostenendo che l’autore avesse alle spalle letture di «poeti e narratori latini e volgari»83, lo studioso si limita a ripercorrere la conoscenza di questi ultimi, in particolare in lingua toscana, senza affrontare il versante latino della sua istruzione. Pastore, dal canto suo, afferma con grande convinzione la «prospettiva antiumanistica»84 che anima il Novellino anzitutto nell’«antiformalismo» professato nelle sezioni metanarrative85, ma anche nell’approccio a temi quali l’amore e la fortuna e nella scelta stessa della forma novellistica («Masuccio sceglie […] un genere, in un’ora di

76 LETIZIA LEONCINI, La novella a corte: Giovanni Conversini da Ravenna, in GABRIELLA ALBANESE,

LUCIA BATTAGLIA RICCI,ROSSELLA BESSI (a cura di), Favole, parabole, istorie, cit., pp. 189-222.

77 VINCENZO VITALE, Secondo i precetti della perfetta amicizia, cit. 78 LEONARDO TERRUSI, El rozo idyoma de mia materna lingua, cit., p. 13.

79 MARIO SANTORO, Masuccio fra Salerno e Napoli, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», XI, 1961-62, pp.

309-40.

80 RENATO PASTORE, Per un’interpretazione del Novellino di Masuccio Salernitano, in «Cultura

neolatina», XXIX, 3, 1969, pp. 235-65.

81 MARIO SANTORO, Masuccio fra Salerno e Napoli, cit., p. 311. 82 Ivi, pp. 312-316.

83 Ivi, p. 314.

84 RENATO PASTORE, Per un’interpretazione del Novellino di Masuccio Salernitano, cit., p. 252. 85 Ivi, p. 243.

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Umanesimo trionfante, da attardato»86). Il saggio di Pastore è ancora di frequente citato87, ma pare francamente poco condivisibile: a parte l’ovvia natura di tópos modestiae dei riferimenti di Masuccio alla rozzezza della propria scrittura, come si è visto la novella, e in particolare la novella epistolare, è tutt’altro che un genere fuori moda nell’umanesimo. Le considerazioni sull’estraneità di Masuccio all’umanesimo aragonese hanno finito per far inferire l’estraneità dell’autore all’umanesimo in generale, inibendo l’indagine sui punti di contatto fra il Novellino e i testi neolatini di narrativa breve. In questa sede, ci si è proposti di verificare questo assunto critico, non tanto soffermandosi sulla specifica cultura aragonese (da cui Masuccio poteva effettivamente essere avulso anzitutto per un discorso generazionale), quanto appunto sul panorama umanistico italiano immediatamente precedente all’elaborazione del Novellino. Si è dunque deciso di verificare la presenza di eventuali punti di contatto (soprattutto stilistici e tematici) fra le novelle masucciane e le opere di alcuni grandi rappresentanti della narrativa breve umanistica: il Liber facetiarum di Poggio Bracciolini, le Intercenales di Leon Battista Alberti e l’Historia de duobus amantibus di Enea Silvio Piccolomini. Si tratta di autori che ebbero contatti a vario titolo con la Napoli aragonese nel periodo di Masuccio. Poggio fu remunerato generosamente da Alfonso d’Aragona per la dedica della Ciropedia nel 1445 e ne elogiò in varie occasioni il mecenatismo, Piccolomini visitò il sovrano nel 1456 e in tempi recenti è stato rivalutato, in particolare dagli studi di Boschetto, il periodo meridionale di Alberti88.

I.4.

Metodo

Si segnala che il seguente lavoro di tesi è stato avviato durante lo sfavorevole periodo di lockdown, dunque senza il pieno accesso a una bibliografia completa ed esaustiva. Si è comunque tentato di fondare lo studio su una documentazione il più ampia possibile, sia in termini di corpus testuale preso in considerazione, sia per quanto riguarda i contributi critici in merito a Masuccio. Uno degli ostacoli maggiori è stato dato

86 Ivi, p. 241.

87 Ad esempio da LEONARDO TERRUSI, El rozo idyoma de mia materna lingua, cit., p. 13 n. 9.

88 Cfr. anzitutto il capitolo dedicato Napoli aragonese: umanesimo alfonsino in GUIDO CAPPELLI,

L’umanesimo italiano da Petrarca a Valla, Roma, Carocci, 2010, pp. 277-304; si veda inoltre riguardo a

Leon Battista Alberti il contributo LUCA BOSCHETTO, Alberti e gli Strozzi tra Firenze e Napoli, in STEFANO

BORSI,DANILA JACAZZI (a cura di), Leon Battista Alberti a Napoli. La corte aragonese e la lezione albertiana (in corso di pubblicazione), attualmente consultabile al seguente link:

http://www.boschettoluca.it/joomla/images/pubblicazioni/Atti%20Capri%20(ALBERTI%20E%20GLI%2 0STROZZI%20TRA%20FIRENZE%20E%20NAPOLI).pdf (consultato l’ultima volta il 18 settembre 2020).

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dall’impossibilità di consultare fin dall’inizio l’opera di Di Francia, che pur nei suoi limiti avrebbe certamente fornito maggiori spunti e suggerito diverse strade percorribili; si rimanda senz’altro a un futuro approfondimento una completa disamina del capitolo ivi dedicato a Masuccio.

Per quanto riguarda il metodo, come anticipato, si è proceduto ad analizzare parallelamente le novelle della raccolta con altre narrazioni brevi individuate come affini, cercando di stabilire con precisione la tipologia del rapporto intercorrente fra i testi (riscrittura, amplificazione, parodia, sviluppo di un motivo comune ecc., attingendo principalmente alle categorie di Genette89) e muovendosi con particolare cautela soprattutto nell’individuare i casi di intertestualità contro quelli di mera interdiscorsività90. Il confronto, per forza di cose non limitabile alle sole novelle data la grande permeabilità del genere letterario, ha tenuto conto anche delle influenze del corpus fabliolistico, del romanzo cortese, di testi para-novellistici91 soprattutto agiografici, delle Sacre Scritture e di qualsiasi tipo di precedente individuato. Alla semplice analisi testuale si è poi affiancato, dove opportuno, l’esame di fonti che mettano in luce il retroterra culturale storico, iconografico, religioso, esoterico che anima alcune novelle.

89 GÉRARD GENETTE, Palinsesti: la letteratura al secondo grado, Torino, Einaudi, 1997.

90 CESARE SEGRE, Teatro e romanzo. Due tipi di comunicazione letteraria, Torino, Einaudi, 1984, pp.

103-118.

91 Utilizzo la categoria di Battaglia Ricci nel senso più ampio di «testi […] prossimi [alla novella] per

alcune caratteristiche tematiche o formali» (LUCIA BATTAGLIA RICCI, Per la storia della fondazione del genere novella tra ’200 e ’300, in GABRIELLA ALBANESE,LUCIA BATTAGLIA RICCI,ROSSELLA BESSI (a cura di), Favole, parabole, istorie, cit., pp. 51-52), che la studiosa conia facendo riferimento anche a opere religiose in senso lato quali il Fiore di virtù, il Libro de li exempli, i testi di Domenico Cavalca, la Storia

di Barlaam e Josaphat, la Disciplina Clericalis e altre forme testuali incluse da Letterio Di Francia nel

capitolo La novella italiana innanzi al Boccaccio (LETTERIO DI FRANCIA, Novellistica, vol. 1: Dalle Origini

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II. Analisi di una selezione di novelle

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II.1.

Novella I

Non risulta che la novella d’apertura del Novellino abbia ricevuto particolari attenzioni dalla critica92. Eppure, Masuccio esordisce con un racconto di grande densità narrativa e dalle intricate corrispondenze intertestuali. A partire dall’indagine dei modelli della novella di maestro Diego, si cercherà anzitutto di stabilire il posizionamento dell’autore nei confronti della tradizione che lo precede, valorizzando in particolare lo snodo che lo collega al Decameron. In secondo luogo, si proporrà un’interpretazione della funzione macrotestuale che questa prima novella svolge nel Novellino.

II.1.1. Il nucleo narrativo: il ritorno del frate ucciso (i fabliaux Estormi e Li quatre

prestres; Sercambi, Novelliere X)

La novella che inaugura la raccolta narra la vicenda di Maestro Diego da Revaio, frate minore che occupa una cattedra nell’Università di Salamanca. Il suo ruolo di protagonista, tuttavia, è quantomeno anomalo, dato che per la maggior parte del racconto egli appare in forma di cadavere. La novella, infatti, può dirsi bipartita: nella prima parte, si trova il canonico sviluppo del frate che insidia una donna sposata, donna Caterina; la seconda, dopo che maestro Diego è stato brutalmente ucciso dal marito della donna, il cavaliere Roderico d’Angiaja, è occupata dalle peripezie del corpo senza vita del frate, innescate da una successione di equivoci.

Che questo secondo segmento ‘in morte’ di maestro Diego sia da valorizzare maggiormente nell’analisi è suggerito dallo stesso autore, che nell’Argomento non dedica nemmeno una riga alla vicenda iniziale, riassumendo gli eventi solo a partire dall’omicidio del frate:

Maestro Diego è portato morto da messer Roderico al suo convento. Un altro frate credendolo vivo gli dà con un sasso, e crede averlo morto. Lui fuggesi con una cavalla, e per uno strano caso se incontra col morto a cavallo in un stallone, lo quale con la lanza alla resta, seguelo per tutta la città. Lo vivo è preso, confessa lui essere stato l’omicida; volesi giustiziare. Il cavaliere manifesta il vero, e al frate è perdonata la non meritata morte. (MN I 1, § 1)

92 Fatta eccezione per AGNELLO BALDI, Masuccio, nov. I: esperimento di lettura, in PIETRO BORRARO,

FRANCESCO D’EPISCOPO (a cura di), Masuccio novelliere salernitano dell’età Aragonese, cit., pp. 83-99,

rispetto alla quale verranno integrati molti nuovi elementi in questo capitolo. Anche Cottino-Jones ha proposto una rapida lettura del testo, mirata però ad analizzarne le strategie narrative più che i temi e i contenuti in generale, nonché i rapporti intertestuali che sono qui al centro dell’analisi (MARGA COTTINO -JONES, Il dir novellando, cit., pp. 62-68).

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Difatti, è proprio in questa seconda parte che Masuccio concentra i suoi sforzi di emulazione e dialogo con i modelli, e che dunque risulta particolarmente interessante dal punto di vista intertestuale.

In primis, vale la pena mettere a fuoco lo «strano caso» che porta il cadavere di maestro Diego dal convento alla sella dello stallone, perché si ritiene sia questo il nucleo narrativo centrale all’origine della novella. Lo svolgimento dei fatti è il seguente: maestro Diego viene ucciso nel cuore della notte nella casa di messer Roderico, dove si era recato credendo di avere appuntamento con la donna; il cavaliere decide dunque di liberarsi del cadavere portandolo al convento e, precisamente, piazzandolo su una latrina vicina all’orto dei frati. Qui, l’uomo viene preso a sassate da un giovane frate con cui aveva avuto un’inimicizia, poiché quest’ultimo crede che maestro Diego lo stia beffando non lasciandogli spazio. Il frate, «dubitando col sasso averlo già morto» (MN I 1, § 31), per allontanare da sé ogni sospetto riporta il cadavere a casa di messer Roderico, il quale avrebbe potuto facilmente essere accusato dell’omicidio, viste le avances di maestro Diego a donna Caterina. Solo all’indomani, il cavaliere e il suo famiglio scoprono che il frate morto è “ritornato”, con iniziale sgomento; dopo un primo momento di incertezza, messer Roderico

impuose al fameglio che da la stalla de un suo vicino gli menasse uno stallone, quale il patrone tenea per lo bisogno de le cavalle e somere de la città, e ivi stava a mo’ de l’asina de Ierusalem. Il fameglio andò prestissimo, e menògli lo stallone con sella e briglia e ogn’altra cosa oportuna bene acconcia. E como il cavaliero avea già diliberato, vi puosero il ditto corpo morto a cavallo, e impontellato e ligatolo multo bene, li acconciarono una lancia a la resta con la briglia in mano, in modo como lo volessero mandare a la battaglia; e cossì postolo in ordene, lo menarno dinanzi la porta de la chiesa de’ frati, e ivi ligatolo, se ’nde retornarno a casa. (MN I 1, §§ 39-41)

L’origine di questo motivo, che potremmo definire ‘il ritorno del frate ucciso’, risale non all’ambito della novellistica, ma al più antico corpus fabliolistico. Si potrebbe, infatti, individuare nei fabliaux conservati col titolo Estormi e Li quatre prestres93. In entrambe queste narrazioni, una donna sposata in accordo col marito accoglie tre preti che vogliono giacere con lei, fingendo di dar loro un appuntamento. Il marito, come nella

93 Si citano questi testi dal Nouveau recueil complet des fabliaux, a cura di Willem Noomen e Nicolaas

Hendricus Johannes van den Boogaard, 9 voll., Assen, Van Gorcum, 1983, da qui in avanti con la dicitura NRCF seguita dal numero del volume e della pagina. Si segnala che Sanguineti, in un brevissimo capitolo, propone a fianco di questo gruppo di fabliaux anche l’influenza del tipo Segretain moine (NRCF VII 353-382), da cui deriva probabilmente l’immagine del cadavere a cavallo, da Masuccio però completamente trasfigurata con l’inserimento nel nuovo contesto, per cui si veda oltre (EDOARDO SANGUINETI, Giornalino

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novella masucciana, li uccide nella propria casa ed escogita uno stratagemma per liberarsi dei cadaveri. Nel primo caso, viene richiesto l’aiuto del nipote Estormi per seppellire quello che viene presentato come un unico corpo, mentre nel secondo sarà un vagabondo a dover gettare il prete ucciso in una cava di marna. Entrambi gli aiutanti credono di aver completato la missione, ma al ritorno scoprono che il corpo è “ritornato indietro” e va nuovamente eliminato:

Et Jehans ot si son afere Atiré qu’il ot l’autre prestre Remis et el lieu et en l’estre Dont cil avoit esté getez

Qui enfouir estoit portez: 360 Bien fu parfont en terre mis!

A tant est venuz Estormis A l’uis et il li est ouvers. “Bien est enfouiz et couvers,

Fet Estormis, li dans prelas! 365 ‒ Biaus niez, ainz me puis clamer las, Fet Jehans, qu’il est revenuz!

Jamés ne serai secoruz

Que je ne soie pris et mors. (NRCF I, 22)

En une parfonde malliere 35 Le geta et revint ariere,

Ses quarante sous demanda. La dame respondu li a:

“Arou, ribaut! Que m’as tu fet?

Revez le la: revenuz est! 40

‒ Par le cuer Dieu, n’i demorra!” (NRCF VIII, 139)

In questo modo, marito e moglie nascondono l’omicidio di ben tre preti facendo credere ai propri aiutanti che il primo cadavere continui a risorgere per due volte di fila. Non solo si raggiunge così l’esaurimento dei corpi da seppellire, ma i fabliaux si concludono con un’imprevista svolta finale che rincara il grado di violenza dei racconti. Infatti, di ritorno dall’ultimo tragitto, Estormi e il ribaut si imbattono in un altro prete di ritorno dalla messa mattutina e, credendolo il cadavere redivivo, prontamente lo uccidono per evitarne l’ennesimo ritorno (rispettivamente, vv. 514-545 e vv. 62-76). Per parte loro, anche di fronte alla scoperta dell’uccisione di un uomo innocente, marito e moglie si guardano bene dal rivelare il reale andamento dei fatti.

Tale motivo narrativo è riconosciuto da Luciano Rossi come modello di un’altra novella, ovvero il decimo exemplo del Novelliere di Sercambi, intitolato De visio lusurie

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in prelatis94. Il marito omicida è, in questo caso, il pellaio Ranieri, la cui moglie è corteggiata da tre ecclesiastici: frate Ghirardo, frate Zelone e frate Nastagio. Lo svolgimento è analogo a quello dei fabliaux considerati, imperniato sul falso appuntamento che offre al marito l’occasione della vendetta. Anche in questo caso, nel finale il portatore dopo aver gettato tutti i corpi nell’Arno aggiunge il dettaglio scabroso del nuovo omicidio rivolgendosi a Ranieri:

Lo portatore disse: ‒ Ancora tornava, ma io li diedi tale in sulla testa che tutte le cervella li fracellai e tutto lo bastone m’insanguinò ‒; mostrandoli lo bastone. Ranieri volse co·lume vedere lo bastone e a quello vidde le cervella e ’l sangue apiccato; stimò costui avere qualche persona morta e disse: ‒ Or non tel dicea io? ‒ A cui lo portatore disse: ‒ Non tornerà giamai ‒. (SN X, §§ 53-54)

Il portatore, dunque, analogamente ad Estormi e al ribaut dimostra di credere realmente alla resurrezione del frate ucciso, scambiando una persona in cammino per la via (il prete Andrea di San Donato) per il cadavere appena risorto. Ranieri, come i mariti dei due fabliaux, senza particolare rimorso continua a fingere sfruttando il fraintendimento dell’uomo come prova a favore della propria invenzione precedente.

A differenza di Sercambi, che evidentemente riprende lo svolgimento fabliolistico senza mutarlo in maniera rilevante, Masuccio compie un’operazione radicalmente più complessa. Pur partendo dalla medesima situazione iniziale, in cui una donna sposata è corteggiata da un ecclesiastico ed escogita una vendetta con il marito, l’autore opera delle modifiche profonde alle componenti del racconto, alterandone il meccanismo. In primo luogo, il frate ucciso è uno solo e non tre (o meglio, quattro); tale riduzione ha una ricaduta sostanziale sull’evoluzione della narrazione, perché il ritorno del morto non è più simulato ma concreto. È lo stesso maestro Diego a essere apparentemente tornato indietro, tramite l’intervento del giovane frate. Così, se nei fabliaux lo spostamento del cadavere avviene sempre nella medesima direzione, ed è la molteplicità dei cadaveri a riprodurre un falso ritorno al punto di partenza, nella novella di Masuccio troviamo invece due spostamenti perfettamente speculari (casa-convento, convento-casa), operati da due agenti che condividono il medesimo obiettivo, ovvero liberarsi del corpo dell’uomo ucciso o creduto tale. Nondimeno, la serialità degli spostamenti che allontanano dalla casa del reale omicida il cadavere è restituita dalla seconda azione di messer Roderico, nel rimandare maestro Diego al convento. Pur nell’unità del corpo

94 Cfr. GIOVANNI SERCAMBI, Il novelliere, a cura di Luciano Rossi, 3 voll., Roma, Salerno, 1974, p. xxv, da

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ucciso, dunque, vengono restituite la caratteristica molteplicità e la ripetitività presenti nella narrazione fabliolistica. Inoltre, è introdotta una variante anche nel movimento simulato del cadavere verso la casa dell’assassino. Nel caso dei fabliaux e di Sercambi, esso è un reale spostamento di un doppio del frate ucciso, mentre in Masuccio riguarda lo stesso cadavere, artificialmente mosso dal giovane frate. Infine, a fronte della riduzione degli uomini uccisi, va notato lo sdoppiamento dell’equivoco del finto ritorno: inizialmente, a credere che il frate morto sia tornato sul luogo del delitto sono messer Roderico e il suo famiglio, mentre successivamente dello stesso sarà convinto il giovane frate. Tutti i vivi, dunque, agiscono sia come i mariti omicidi sia come Estormi e il vagabondo, assumendone vicendevolmente i ruoli nel corso della narrazione.

Si può formulare l’ipotesi che la novella di Sercambi abbia potuto operare da mediatrice nei confronti di Masuccio, anzitutto come riferimento all’interno del genere letterario. Tuttavia, non si può fare a meno di contrapporre l’atteggiamento del pellaio Ranieri, così come dei suoi precedenti della tradizione fabliolistica, e quello di messer Roderico: se i primi non esitano a dissimulare il proprio coinvolgimento, anche a fronte di un ulteriore omicidio ingiustificato, il secondo si propone come exemplum di onestà ammettendo nel finale la propria colpevolezza e venendo addirittura «con mirabile lode commendato de quanto intorno a tal fatto adoperato avea» (MN I 1, § 55) dal re Ferrando.

II.1.2. Il motivo del creduto omicidio di un morto (Sacchetti, Trecentonovelle XLVIII)

A quello di ascendenza fabliolistica probabilmente mutuato dal Sercambi, si aggiunge nella novella masucciana un ulteriore motivo narrativo, ovvero quello della convinzione fallace di aver ucciso un uomo in realtà già morto. Come si è visto, questo tema è sviluppato nel cuore della seconda parte della novella, quando il giovane frate crede di essere il responsabile dell’omicidio di maestro Diego:

E tolto uno gran sasso, e fattoglisi presso, gli donò una tale percossa nel petto, che lo fe’ cascare indietro, senza però movere alcun membro de sua persona.

Il frate vedendo prima la fiera botta, e dopo colui anche non levarsi, dubitò col sasso averlo già morto; e avendo alquanto atteso, e credendo e non credendo, a la fine pur gli se accostò, e col lume tutto guatatolo, e cognosciuto de certo esser morto, como già era, ebbe per fermo averlo ucciso lui nel modo ditto […]. (MN I 1, §§ 30-31)

Masuccio sottolinea in particolare i momenti di incertezza del frate e i passaggi successivi che portano al formarsi della certezza di aver commesso un omicidio. In primo luogo, il giovane è colpito dall’immobilità del corpo; successivamente, gli si avvicina per

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controllarlo, realizzandone definitivamente la morte. Infine, avviene la deduzione di essere il responsabile di tale disgrazia.

Una scena del tutto analoga era già stata precedentemente sfruttata da un altro novelliere, ovvero Franco Sacchetti95. Nella novella XLVIII del suo Trecentonovelle, Lapaccio di Geri da Montelupo, uomo oltremodo superstizioso e morbosamente attratto dai cadaveri, per un caso fortuito si trova a passare la notte in una locanda a fianco di un Unghero morto il giorno precedente. Ignaro dello stato del suo compagno di letto, Lapaccio cerca di farsi spazio spronandolo a spostarsi. Come si nota, il pretesto è molto vicino a quello adottato da Masuccio, dato che anche il suo giovane frate arriva a percuotere maestro Diego per poter ottenere posto, in un contesto comico-quotidiano (seppur significativamente più degradante). Dopo avergli dato due violenti calci, il protagonista sacchettiano si trova ad affrontare la stessa situazione del frate del Novellino, giungendo con la stessa sequenza di dubbio e incertezza alla medesima epifania:

E recandosi alla traversa con le gambe verso costui e poggiate le mani alla lettiera, trae a costui un gran paio di calci, e colselo sì di netto che ’l corpo morto cadde in terra dello letto tanto grave e con sì gran busso, che Lapaccio cominciò fra sé stesso a dire: ‒ Oimè! Che ho io fatto? ‒, e palpando il copertoio si fece alla sponda, a piè della quale l’amico era ito in terra: e comincia a dire pianamente: ‒ sta’ su; ha’ ti fatto male? Torna nel letto ‒.

E colui cheto com’olio, e lascia dire Lapaccio quantunche vuole, ché non era né per rispondere né per tornare nel letto. Avendo sentito Lapaccio la soda caduta di costui e veggendo che non si dolea e di terra non si levava, comincia a dire in sé: ‒ Oimè sventurato! Che io l’avrò morto ‒.

E guata e riguata, quanto più mirava, più gli parea di averlo morto […]. (ST XLVIII, §§

10-11)

Solo il giorno successivo l’oste scioglie l’equivoco, svelando a Lapaccio che l’Unghero era già morto da parecchio. Il protagonista non ne è particolarmente rallegrato («però che poca difficultà fece da essergli tagliato il capo a essere dormito con un corpo morto» ST XLVIII,§19), tuttavia apprende con sollievo di essere quantomeno innocente e salvo da un’accusa di omicidio. In Masuccio, invece, il giovane frate «letissimo a casa se ne tornoe» (MN I 1, § 55).

Questo passaggio apparentemente meno significativo è in realtà fondamentale per il funzionamento del meccanismo narrativo ideato da Masuccio. Infatti, è solo l’espediente del falso omicidio a permettere lo sviluppo innovativo del racconto già

95 L’edizione utilizzata è FRANCO SACCHETTI, Il trecentonovelle, a cura di Davide Puccini, Torino, UTET,

2004, da qui in avanti citata con la sigla ST seguita dall’indicazione topografica (numero della novella e del paragrafo).

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fabliolistico, mutandolo radicalmente. Si aggiunga che questo motivo è perfettamente speculare all’espediente di Sercambi, derivato dalla tradizione dei fabliaux: se nell’exemplo X si scambia un vivo (il prete Andrea di San Donato) per un morto, in Sacchetti e Masuccio si scambia un morto per un vivo. Inoltre, mentre nel primo caso l’equivoco porta a un reale omicidio, nel secondo esso provoca un falso omicidio, ovvero garantisce l’innocenza dei personaggi ingannati.

II.1.3. La vendetta del cavaliere morto o ‘cacciatore selvaggio’: il motivo in

Decameron V VIII

La novella di Masuccio culmina in una scena di grande impatto narrativo, ovvero lo «strano caso» che porta il cadavere di maestro Diego a scontrarsi con giovane frate a cavallo, il giorno successivo a quello dell’omicidio. Come si è detto, messer Roderico e il suo famiglio per allontanare il corpo del frate per la seconda volta lo mettono a cavallo armato «como lo volessero mandare a la battaglia» (MN I 1, § 40), facendogli assumere le sembianze di un minaccioso cavaliere. È con queste sembianze che il morto appare al giovane frate, che a sua volta sta tentando di fuggire dal convento per evitare ogni sospetto di coinvolgimento nell’omicidio.

Il frate […] in su la cavalla montato, si cavò fuora, e trovandosi il maestro dinanzi nel modo già ditto, che dadovero parea con la lancia gli menacciasse donargli morte, subito fu de tanta paura territo, che portò periculo de cascare morto, supra de ciò occurrendoli un fiero e dubioso pensiero, cioè che ’l spirito de colui gli fusse nel corpo rientrato, e fosseli dato per pena de sequirlo per ogne luoco, secundo la opinione d’alcuni sciocchi. (MN I 1, § 41)

Si delinea in questo snodo narrativo un tema di grande fortuna nel folclore europeo, ovvero quello della cosiddetta caccia selvaggia. Infatti, se da un lato l’«opinione» del giovane frate è che l’anima dell’uomo che ha ucciso sia condannata a perseguitarlo, numerosi elementi caratterizzato ulteriormente la figura di maestro Diego come un componente della familiam Herlechini96, cioè della schiera di anime dannate che, in molteplici forme, appare ai vivi tipicamente in sella a un cavallo con intenti prevalentemente bellicosi. Il mito, che nel medioevo conosce un’amplissima diffusione e di conseguenza è sottoposto a notevoli variazioni e ibridazioni nei suoi morfemi, viene così sintetizzato da Sonia Maura Barillari nei suoi elementi più generali:

96 KARL MEISEN, La leggenda del cacciatore furioso e della caccia selvaggia, a cura di Sonia Maura

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1) è composto prevalentemente da persone morte; 2) in esso compaiono animali, e nella fattispecie animali domestici o addomesticati; 3) contempla la presenza di oggetti o masserizie d’uso quotidiano e casalingo; 4) gli viene attribuita una condizione erratica, vagabonda; 5) è guidato da un personaggio in relazione al quale assume la sua denominazione.97

Nello specifico, l’apparizione di maestro Diego presenta, oltre alle componenti essenziali 1), 2)98 e 4), le caratteristiche più frequenti della codificazione cristiana colta di tale leggenda, come è possibile ricostruire dal catalogo di fonti offerto da Karl Meisen. Anzitutto, il cadavere a cavallo viene percepito come un’anima purgante, che sta scontando in questo modo la propria pena, elemento risalente già all’attestazione più antica e completa del mito offerta da Oderico Vitale nel XII secolo99 e che verrà pienamente recepito nella tradizione italiana da autori quali Dante e Boccaccio100. A ciò si aggiunga l’attribuzione di tale pena in particolare all’anima di chi perì per morte violenta, che nel medioevo assumeva la funzione morale di esemplificare la «decisa riprovazione divina nei confronti delle bellicose occupazioni dell’aristocrazia feudale»101. A titolo di esempio, nello stesso periodo, Ekkerhard von Aura attribuisce ai cacciatori furiosi la seguente dichiarazione: «Non sumus ‒ inquit ‒ ut putatis fantasmata, nec militum ut a vobis cernimur turba, sed animae militum non longe antehac interfectorum. Arma vero et habitus atque equi quia nobis prius fuerant instrumenta peccandi, nunc nobis sunt materia tormenti»102.

Inoltre, la presenza di un singolo cavaliere (piuttosto di un esercito al completo) che minaccia vendetta per una morte violenta è una variante ben diffusa del mito. Basti a tal proposito l’esempio offerto dal Moriz von Craon, un poemetto in dialetto francone renano meridionale e datato ai primi decenni del XIII secolo. I vv. 1548-1574, inclusi da Karl Meisen nel suo catalogo, rappresentano la beffa ordita dal protagonista Moriz nei confronti del Conte di Beaumont, macchiatosi dell’omicidio di un altro cavaliere durante un torneo:

Her Mauricius gienc fürbaz siner hosen eine

an dem gerehten beine 1550

Ser Maurizio entrò in camera. Uno dei suoi schinieri

alla gamba destra 1550

97 Ivi, pp. 8-9.

98 In questo come nell’assoluta maggioranza dei casi si tratta del cavallo, «animale psicopompo per

eccellenza» (ivi, p. 19).

99 Ivi, p. 9 e pp. 72-88.

100 Si fa riferimento agli scialacquatori di Inf. XIII,115-151 e alla decameroniana visione di Nastagio degli

Onesti, su cui ci si soffermerà maggiormente nel corso del paragrafo.

101 KARL MEISEN, La leggenda del cacciatore furioso e della caccia selvaggia, cit., p. 12. 102 Ivi, p. 94.

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