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Offerta culturale per lo sviluppo

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Academic year: 2021

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Offerta Culturale per lo sviluppo*

Giovanni Zanetti1, Piercarlo Frigero2,

Abstract

Il presente saggio intende riflettere sulla produzione dei servizi culturali, tenuto conto delle valutazioni estetiche, unitamente ai confronti tra benefici, costi e vincoli economici nel quadro della situazione italiana, documentata in base ai dati disponibili nei principali rapporti sulla situazione della cultura nel nostro paese. Alla base dello studio sta la convinzione della stretta relazione tra esistenza e promozione di servizi culturali e sviluppo spirituale e reale di una società. Detta relazione se da un lato chiama in causa scelte politiche di fondo, dall’altro non esonera gli utenti dal contribuire al sostegno degli impegni che ne derivano. S’aprono in tal senso i temi delle alternative pubblico/privato, della produttività degli enti non profit e del conflitto tra i diversi obiettivi di politica economica analizzati riprendendo alcuni modelli proposti nella letteratura sintetizzabili nella necessità di tener conto dell’inevitabile domanda delle élite culturali e della necessità di diffusione della fruizione culturale. Ne discende la convinzione che gli indispensabili equilibri di bilancio per garantire la sostenibilità dell’attività degli enti culturali, esigono una crescita della produttività delle risorse, mediante sia la valorizzazione qualitativa dei prodotti, sia l’ampliamento della varietà di prodotti di là da quelli tradizionali. Viene posto in evidenza il ruolo delle sovvenzioni private assieme ad una maggior consapevolezza del costo dei servizi culturali per conciliare l’intervento pubblico con l’autonomia dei gestori di un patrimonio ricco e unico come quello italiano.

Offerta culturale, fattore di sviluppo

La relazione positiva tra offerta culturale e sviluppo parrebbe non essere materia di discussione. La cultura può apparire come accumulazione di capitale umano, attraverso l’istruzione e il raffinarsi dei gusti e delle esigenze, ed essere pertanto ben più di un fattore produttivo, perché capace di suscitare creatività, ricerca del bello e del raffinato, e partecipare così all’evolvere di un sistema economico, mediante l’impiego del lavoro più esperto e specializzato.

Si può però invertire il nesso causale e considerare la cultura come tipico bene di lusso, che si manifesta soprattutto negli strati più agiati della popolazione ed è frutto della crescita dei redditi. Da fruizione di una collettività ristretta si passa alla potenziale fruizione di massa, con l’uso di nuovi strumenti di comunicazione, pur correndo qualche rischio di svilirne la qualità approdando al mero intrattenimento.

1 Professore emerito di Economia dell’Impresa dell’Università di Torino e associato di ricerca IRCrES del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Moncalieri.

t

w

t

w

+

t

C L1 L2

2 Ordinario di Economia applicata, Dipartimento di scienze economico sociali e matematico statistiche, Università di Torino.

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Si offrono beni la cui utilità può esaurirsi in un atto senza arricchimento personale duraturo, o protrarsi nel tempo con ricadute difficilmente quantificabili. Ardua è però la definizione della linea di demarcazione che separa la componente dell’offerta qualitativamente meritevole di essere compresa nella nozione più alta di cultura, dai confini molto incerti e labili (nell’ambito cinematografico non sono la stessa cosa un film di grandi autori come Fellini, Bergman, Dreyer, Coppola, Ridley Scott, o i prodotti di largo consumo che procurano evasioni senza suscitare emozioni profonde).

La necessità di discussione e di approfondimento nasce da questo grado di indeterminatezza con la quale la fenomenologia relativa si presenta in concreto. Già l’offerta ha natura complessa: può consistere nella fruizione di un bene o di un servizio (lo spettacolo, la visita al museo, l’acquisto di un libro), nella conservazione e valorizzazione di beni di elevato valore spesso tramandati dal passato, nell’accumulazione di capitale umano. L’espressione culturale può diventare simbolo e sintomo di capacità innovative con occasioni per nuovi e qualificati impegni produttivi, fino a combinare la ricerca scientifica e gli studi umanistici e storici con l’abilità di chi vi lavora, come nel non trascurabile ambito del restauro e dei recuperi architettonici d’interi ambienti.3

Ne deriva la difficoltà se non l’impossibilità di quantificare il valore dei beni e servizi in gioco dal momento che il valore di un’opera d’arte non è espresso dal suo prezzo, ma la sua determinazione comporta criteri difficilmente definibili, non riducibili al consenso, ma collegabili alle percezioni del significato stesso del vivere e dell’aver vissuto, cogliendone la bellezza ma anche oscuri timori e presagi.

Allo stesso modo la domanda non ha una configurazione netta, ma risponde a stimoli diversi e in continua evoluzione, con l’affermarsi di mutevoli modelli di vita non di rado guidati da fenomeni di moda, a loro volta sconfinanti nel mondo culturale. Domanda che, quando chiaramente identificabile, chiede una risposta ottenibile solo con impieghi rilevanti di risorse spesso in conflitto con altri di particolare rilevanza sociale (sanità, scuola, giustizia, difesa).

Da questa complessità nel definire bisogni e offerte culturali, deriva purtroppo, in linea generale, (in Italia come in altri Paesi europei a differenza di altre esperienze come quelle statunitensi) una sorta di pratico disimpegno fondato sul comodo convincimento che la difesa dei valori culturali sia materia troppo ampia e complessa per trovare piena attuazione nell’ambito degli impegni individuali e quindi debba in larga parte ricadere tra i pubblici doveri. Il bilancio pubblico diviene pertanto, almeno nella realtà italiana, il riferimento prevalente sul quale gravano le numerose

3 Si pensi alle applicazioni più innovative nel recupero del sito dei “Sassi” di Matera, che è patrimonio

dell’umanità.

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aspettative degli operatori culturali chiamati ad occuparsi delle realtà esistenti e delle iniziative emergenti.

Lo sviluppo economico ha peraltro consolidato attese più esigenti di molti giovani estendendole ad ambiti creativi prima inesistenti o riservati a pochi privilegiati (cinema, musica, spettacoli, fino alle forme più avanzate di studio e divulgazione culturale). A fronte di questi cambiamenti, le crisi dell’economia come quelle attuali, con l’aggravarsi tendenziale degli indebitamenti delle pubbliche amministrazioni, rendono arduo assicurare semplicemente i servizi indispensabili alla vita e limitano la creazione di nuovi posti di lavoro, che pure potrebbero aprire nuove opportunità di crescita qualitativa per le attività economiche.

All’intrinseca e indiscutibile necessità di difendere il valore in sé delle proposte culturali, si somma pertanto l’esigenza di fornire risposta sociale alla richiesta di crescita spirituale e formazione umana e politica dei cittadini.

Vale in tal senso, la riflessione del premio Nobel Mario Varga Llosa (2012) secondo il quale la cultura va intesa “non come mera insorgenza della vita economica e sociale, ma come realtà

autonoma, fatta di idee, valori estetici e etici, opere di arte e di letteratura che interagiscono con il contesto della vita sociale e sono spesso, non meri riflessi, ma all’origine dei fenomeni sociali, economici, politici e persino religiosi” .

Ambiti della cultura

La condivisione sul piano generale dei principi esposti richiede in concreto di affrontare diversi aspetti problematici di non facile superamento. Tra questi:

- Il perimetro delle attività correttamente considerabili parte del mondo della cultura. La sua determinazione apre un interrogativo non di poco momento dato che l’evoluzione tecnologica ha arricchito la gamma delle proposte fino a indurre a individuare nuovi campi di espressione o a mutare, anche in modo rilevante, quelli esistenti. Al limite si delinea la possibilità di condividere la nota affermazione di Marshall McLuhan (Il mezzo è il messaggio), giungendo ad includere in quel mondo le potenzialità di Internet e l’unificazione degli strumenti di comunicazione, stante la possibilità che ne deriva di ampliare l’elite portatrice della concezione più alta della cultura.

- La varietà degli ambiti meritevoli della qualifica “culturale” con la necessità di tracciare inevitabili confini qualitativi, pur in mancanza di criteri oggettivi. Come s’è accennato, il definibile

sistema della cultura può giungere a comprendere anche l’intrattenimento (nelle varie forme quali

“cinema”, “spettacoli teatrali e musicali”,“radio e televisione”), senza far distinzione tra livelli diversi d’impegno.

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- L’estensione dell’oggetto di analisi fino ai mezzi da utilizzare per comunicare, quali gli strumenti musicali o le apparecchiature elettroniche.

In questo scenario, di notevole complessità, si delinea la funzione di un’imprenditorialità della cultura, caratterizzata da tutti gli ingredienti di quella tradizionale, e dunque utilmente innovativa, ma non passibile di una valutazione certa dei beneficia generati. Essa assume forme organizzative diverse per affrontare problematiche quali la distinzione tra componente strutturale di quanto è parte integrante della cultura (edifici storici, reperti del passato, archivi) e la componente gestionale, impegnata nella conservazione delle realtà tramandate dalla storia o neo costituite assicurandone la continuità operativa.

Nel tentativo di superare la complessità delle definizioni, una quantificazione del peso dell’apparato culturale all’interno di un sistema produttivo impone di definirne il perimetro; il compito non è agevole in quanto i confini entro i quali ci si muove, anche per effetto del progresso tecnologico, tendono a divenire meno delimitabili tanto in senso temporale quanto in senso spaziale. La figura seguente offre una prima evidenza di tale complessità assieme al tentativo compiere scelte semplificatrici.

Figura n. 1

Gli ambiti del sistema della cultura4

Lo schema presentato intende distinguere l’insieme delle attività culturali in senso stretto e secondo una concezione tradizionale (attività teatrali e musicali, arti visive, musei biblioteche e archivi, luoghi e monumenti storici e il settore cinematografico) da attività finalizzate a consentirne la

4 Uno schema dettagliato è in Bína e altri Eurostat (2012) a pag. 48, mentre a pag. 439 si riporta un elenco di prodotti culturali.

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fruizione. Pur nella consapevolezza che le une e le altre formano insieme una definibile industria culturale, dal produttore al consumatore finale, gli interrogativi proponibili riguarderanno, almeno in un primo momento, l’accezione più ristretta alla quale si possono aggiungere per completezza la radio e la televisione, fino all’editoria e alla stampa.

In tutte le indagini sui sistemi produttivi, si raccolgono comunque dati sulla loro rilevanza, utilizzando, per quanto possibile, il numero di occupati e il valore aggiunto; provando a fare altrettanto in questo caso, si prendono in prima approssimazione gli aggregati disponibili in contabilità nazionale.

Da questa, aggregando editoria, cinema e televisione e attività culturali specifiche5 si individua nel 2012 un’occupazione pari a circa 283.000 unità (1,1% del totale nazionale) e un valore aggiunto prossimo a 20 miliardi di euro (1,4% circa del PIL), con un ammontare per addetto intorno ai 69.000 euro, di poco superiore alla media nazionale (+19%).

Si tratta di grandezze apparentemente di media rilevanza se riferite all’intera economia, ma tali da acquisire diverso peso se considerate nel quadro dei rapporti intersettoriali e sociali. Esse tuttavia non danno la quantificazione del tutto soddisfacente del fenomeno avente, per sua natura, una dimensione qualitativa interagendo con il benessere di una collettività. Il confronto con il settore della ricerca scientifica rivela che questo, nello stesso anno 2012, aveva 121.400 addetti, ma generando un valore aggiunto minore, intorno agli 8,5 miliardi di euro (0,6% del PIL). I primi dati presentati devono pertanto essere integrati con la valorizzazione del positivo arricchimento derivante dalla cultura a favore della realtà che ne fruisce, utilizzando prime valutazioni quantitative, su tali ricadute.

Una ricerca Unioncamere-Fondazione Symbola ricostruisce, ampliandolo, il sistema della cultura in modo da comprendervi i settori collegati, ben oltre quanto proposto nella figura 1 giungendo a includere il sistema moda. Arriva così a stimare un peso dell’intero sistema dell’ordine del 5,4% in termini di valore aggiunto e del 5,9% in termini di occupazione: cifre che,a ragione, possono essere considerate ragguardevoli.

In piena consapevolezza di quanto sia ampia la tematica, si ritiene opportuno adottare un criterio ispirato a prudenza, scegliendo il punto di vista dell’economista studioso delle attività produttive, attento a isolare la sola parte del sistema che maggiormente caratterizza la natura dei bisogni da

5 Le branche sono: 1) attività editoriali; 2) attività di produzione cinematografica, di video e di programmi televisivi, di registrazioni musicali e sonore, attività di programmazione e trasmissione; 3) attività creative, artistiche e d’intrattenimento; attività di biblioteche, archivi, musei e altre attività culturali (a cui purtroppo si aggiungono in modo fuorviante, le attività riguardanti scommesse e case da gioco).

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soddisfare. L’orientamento, per quanto corretto, non scioglie tutti i dubbi: può derivarne, infatti, il riferimento a quanto è più lontano dal mero intrattenimento, dal futile e dal frivolo, ricadendo in tal modo in contesti particolarmente sfidanti (musica lirica, sinfonica, cinema underground, ecc.). Può tuttavia essere utile adottare una scelta diversa, intesa a individuare le attività capaci di generare benefici reali immediati e di favorire un’occupazione stabile nel tempo per l’ampiezza della domanda e la sua scarsa variabilità.

Scelte metodologiche

Ha senso interrogarsi, in questa prospettiva, su ciò che l’economista può offrire allo studio dell’attività culturale, con una selezione di contributi necessaria per interpretare i dati del nostro paese e alcuni confronti internazionali, alla luce del tema che suscita oggi la maggior attenzione: la promozione delle attività culturali soggetta ai vincoli di bilancio della finanza pubblica.

Quanto all’uso delle consuete categorie contrapposte di beni privati o pubblici, conviene evitare inutili sforzi classificatori. E’ scontato che pagando un prezzo d’acquisto si escludano gli altri dal possesso di dipinti e sculture, mentre il poter replicare esecuzioni musicali ed artistiche confermi che altri non siano esclusi dal consumo, come per i beni pubblici. Tali prodotti artistici possono sempre essere messi a disposizione di tutti gli ascoltatori, ancorché in cambio di un prezzo per il loro utilizzo. Le opere d’arte tuttavia, in qualsiasi forma ne sia definita la proprietà, costituiscono il patrimonio di una nazione, essendo come tali difficilmente escludibili, e aventi caratteristiche non modificabili; nel tempo non diminuisce la loro utilità per quanti ne vogliono usufruire, ma anzi aumenta con la loro notorietà.

Alcune opere d’arte, in specie nel caso della pittura e della scultura, possono poi essere accumulate e rivendute, acquisendo valore quale asset finanziario. L’osservazione per cui il tasso di rendimento delle opere d’arte è mediamente inferiore a quello di altre forme d’investimento6 non attenua la

convinzione della sussistenza di considerazioni finanziarie alla base della scelta di acquisto da parte di taluni sottoinsiemi di acquirenti. Tuttavia, anche in questo caso, occorre distinguere l’incremento di valore determinato dalla crescita del prezzo, dal valore apprezzato, ovvero determinato dall’attualizzazione dell’utilità che dovrebbe derivare dal suo godimento. Senza contare che, per queste stesse opere di pittura e scultura, vige una forte asimmetria informativa, e sono frequenti i casi di repliche, e i falsi. Nel seguito non si affronterà l’argomento dell’arte come opportunità di impiego del proprio patrimonio, anche perché confinato ad ambiti specifici (pittura, scultura, architetture di pregio che possono essere acquistate da privati), mentre si preferiranno le 6 In Throsby (1994) sono citate numerose ricerche che lo documentano.

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considerazioni ispirate in massima parte dal settore delle cosiddette performing arts, sia pure con un tentativo di generalizzarle.

Si esaminerà il modello di Becker e Stigler, che non poche critiche ha suscitato anche di recente, per trarne una spiegazione del formarsi di élites, date le caratteristiche fondamentali della domanda: l’accumulazione di competenze, che accresce nel tempo l’apprezzamento della cultura, ed è resa più agevole dal maggior livello di istruzione, la crescita dell’utilità marginale all’aumentare della fruizione e la disponibilità a pagare che ne deriva.

Nel cercare spunti per scegliere i caratteri più interessanti dell’offerta, si trarrà dalla letteratura una caratterizzazione dei protagonisti che operano sui mercati e un importante riferimento alla dinamica strutturale che, in una prospettiva macroeconomica, provocherebbe l’emarginazione della cultura (Baumol disease), se non intervenissero dinamiche contrastanti legate al reddito, all’istruzione, e anche alle politiche pubbliche consapevoli del vantaggio collettivo nell’accumulare capitale umano.

L’analisi della domanda

Alcuni elementi base per una riflessione possono essere tratti dall’analisi microeconomica: la teoria del consumatore propone infatti strumenti utili ad analizzare la materia apparentemente sfuggente, quali la differenziazione, la durabilità e la possibile fruizione come bene pubblico o privato. La differenziazione può essere assoluta, per i prodotti di pittura e scultura, in cui ogni unità di bene si differenzia da ogni altra, o relativa, come nei casi della musica, della letteratura, del cinema e del teatro, in cui le differenti opere artistiche sono replicate quante più volte siano richieste.

L’uso privato dei beni artistici può essere descritto generalizzando il modello di Becker e Stigler (1977), che riformula la tradizionale teoria del consumo di matrice neoclassica e presenta il caso della fruizione7 della musica. Un bene culturale (la musica appunto, ma anche la letteratura, gli spettacoli teatrali, le visite a luoghi e monumenti) genera un’utilità che dipende dalla capacità di un individuo di apprezzare il servizio che gli viene fornito “C” e dall’uso di alti beni venduti nei rispettivi mercati “Z”. Lo spettacolo richiede infatti un’organizzazione e la vendita dei biglietti; sono utili le guide artistiche e turistiche, mentre la pubblicazione di commenti e recensioni accresce la consapevolezza dell’esperienza culturale; l’ascolto o la visione può dipendere da impianti audiovisivi e dalla loro qualità ecc.. Si scrive pertanto:

U=(C ,Z ) e C=C(tC,SC)

7 Il termine fruizione sostituisce qui la parola consumo, che richiama il logorio di un bene con l’uso, inadatto per la domanda di beni culturali, non per una loro misteriosa sacralità, ma per il processo di acquisizione dell’utilità, di cui appunto tratta il modello..

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L’utilizzatore di beni culturali è così presentato come il produttore per se stesso di una soddisfazione “U” , che richiede l’acquisto di beni “Z”, ma soprattutto la capacità di apprezzare la

cultura “C”, di cui fruisce in ogni anno della sua vita per un periodo di tempo “

t

C ”. L’ascolto

della musica, l’andare a teatro, il leggere un libro richiedono tempo e queste esperienze si

accumulano in un capitale culturale “

S

C

Il tempo dedicato alla cultura è sottratto al lavoro e al guadagno, e non viene consumato ma acquisito come esperienza che permetterà di affinare le percezioni e di apprezzare ancor più la cultura.

Si rileva pertanto che8: δC

∂tC>0 più lungo è il tempo dedicato alla cultura , maggiore l’apprezzamento per la cultura (che produce l’utilità U)

δC

SC>0 più l’educazione culturale è sviluppata, maggiore è l’apprezzamento per la cultura δC

∂tCSC>0 più l’educazione culturale è sviluppata, maggiore è l’apprezzamento per la cultura che si alimenta con il tempo ad essa dedicata (e produce l’utilità U).

Questa proposta interpretativa nasce in un contesto teorico specifico: la tesi secondo cui è utile considerare preferenze invarianti nel tempo e tra individui (ma devono essere preferenze di ordine generale), lasciando il compito di provocare le differenze nelle scelte e dunque nella domanda di cultura al reddito totale (reddito da lavoro da guadagnarsi nel tempo e reddito da proprietà accumulate nel tempo) e ai prezzi ombra della fruizione culturale e dell’acquisto di ciò che è disponibile sul mercato e si compera nel tempo,. Il modello può essere interpretato per ragionare su due aspetti:

- il primo, discusso dagli autori, è la presenza di un fenomeno di addiction, per cui la fruizione di cultura genera il bisogno di altra cultura:

- il secondo, dedotto liberamente dalle tesi degli autori, è una spiegazione del formarsi di una gerarchia di fruitori: dall’élite colta, perché in possesso di istruzione adeguata (“E”), che favorisce l’ accumulazione delle esperienze culturali (“

S

C ”) e affina la capacità di

fruizione della cultura nel tempo.

8 Le definizioni dei simboli sono tratte dal libro di Benhamou (2012).

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Le notazioni chiariscono: SCt=h(Ct−1,Ct−2..Ct−v,.. E)

δSC

Ct− v>0 per ogni v della formula precedente a significare che ogni aumento della capacità di fruire della cultura fa aumentare l’esperienza accumulata (capitale culturale)

δSC

E>0 perché l’istruzione “E” aumenta il capitale culturale

δSC

Ct− vE>0 perché l’istruzione aumenta l’investimento in cultura di ogni fruizione goduta nel

tempo

C

t .

La scelta razionale nell’allocazione del tempo e del reddito9, date queste ipotesi, comporta prezzi ombra della fruizione di cultura che sono decrescenti, perché con l’uso diminuisce il costo opportunità (sacrificio di tempo per trarre i vantaggi altrimenti ottenibili). Questo affinarsi dei gusti genera un particolare processo di dipendenza temporale, che l’arido linguaggio può esprimere come forma di dipendenza (addiction), ma permette di distinguere l’arte dal mero intrattenimento. L’opera d’arte richiede, infatti, un’educazione culturale per effetto della quale il ripetuto consumo ne favorisce altro, diversamente dall’intrattenimento che potrebbe rispondere, in prevalenza, alla dinamica dell’utilità marginale decrescente.

Gli autori traggono alcune predizioni che possono esser sottoposte a verifica:

- Nella giovinezza si ha la maggior accumulazione di capitale culturale, per il più lungo orizzonte temporale nel corso del quale si gode l’accumulazione delle esperienze, anche se il prezzo ombra della cultura diminuisce con l’età e la fruizione di cultura aumenta.

- Il capitale culturale è tuttavia soggetto a deterioramento e obsolescenza e, con l’età, per mantenerlo intatto occorrerebbe impiegare un tempo maggiore (data l’accumulazione degli investimenti in cultura).. Con l’avanzare dell’età è dunque possibile una diminuzione del tempo dedicato.

Un minimo di rielaborazione, ispirata ai risultati del modello, permette di ritornare sui temi della diffusione della cultura. L’élite ricca è favorita dalla maggior dotazione di reddito e di istruzione,

9 Il tempo è vincolato perché in ogni anno è disponibile nella misura “t” ma occorre dedicarne una parte più o meno lunga al guadagno del reddito “

t

w ” e il vincolo è t =

t

w

+

t

C . Il reddito è definito come il

massimo guadagno che in ogni periodo un individuo può guadagnare dall’allocazione del suo tempo, e dipende sia dal prezzo del suo lavoro “w” che dai redditi di proprietà.

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benché non è detto li usi per accrescere la fruizione di cultura. In realtà le preferenze, considerate da Becker e Stigler come invarianti tra gruppi di individui (o varianti in modo non determinante) possono condurre a combinazioni diverse di ricchezza e di cultura. Non stupisce tuttavia che la ricchezza, l’istruzione, le mode culturali e la ricerca del prestigio sociale alimentino la formazione di gruppi di fruitori di cultura rappresentanti un’élite dotata di maggiori disponibilità finanziarie rispetto alla generalità degli individui di una popolazione.

Il modello può essere utile soprattutto per riordinare in modo rigoroso alcuni aspetti delle scelte individuali tenendo conto altresì di alcune critiche condivisibili contenute in un interessante articolo di Ross B. Emmet (2006).

E’ proficuo il tentativo di liberarsi dalla semplicistica spiegazione della varietà dei comportamenti attribuendoli alla variabilità delle preferenze, perché riduce il ricorso a non specificati fattori soggettivi. Nell’argomento trattato in questa sede non ci si accontenta di affermare che la cultura è apprezzata in modo diverso da gruppi diversi della popolazione, ma si va in cerca dei motivi per cui la fruizione dei beni culturali varia, adoperando nozioni tipiche dell’economia: costi opportunità, prezzi e reddito dai quali dedurre comportamenti massimizzanti. Una funzione di produzione di utilità che ne tengo conto è certo un utile strumento per organizzare un ragionamento, ma la pretesa di identificare un nucleo di preferenze stabili, cioè poco variabili nel tempo e tra gli individui rischia di sottovalutare l’importanza di una ricerca interdisciplinare più approfondita. Le preferenze invarianti potrebbero forse essere identificate nella percezione del bello e di ciò che dà significato alle emozioni, ma la discussione si sposterebbe su un livello di astratto, perdendo gran parte della utilità dell’approfondimento compiuto.

Secondo la critica di Emmett, è importante per l’economia saper discutere di valori e preferenze10; in tema di cultura la disputa non può non vertere sul valore delle espressioni artistiche, pur senza un unico paradigma di giudizio, ma non per questo espunto da ogni riflessione e da ogni ricerca. Un paragone nel campo dell’economia politica, è la nozione di giustizia. Come Amartya Sen ha proposto, pur senza l’uniformità di valori è utile un metodo per riflettere insieme su quanto è equo e meritevole. Anche nell’arte si può insistere sull’importanza della comunicazione dei criteri e sulla loro confutazione, nel rispetto delle novità, delle sperimentazioni e, in ultima analisi, dei valori altrui.

10

t

w

t

w

+

t

C Parafrasando Knight, Emmet scrive: “In human society, economic activity is many things simultaneously: the search for means of satisfying wants, but also a form of creative self-expression; the quest for better tastes, preferences and values …”. La citazione è appropriata, perché suggerisce il confine che le espressioni artistiche e la ricerca delle scienze sociali hanno in comune.

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L’analisi dell’offerta

Per l’economista industriale è ancor più rilevante lo studio dell’offerta, ossia di quanto determina i ruoli dei produttori partecipanti all’attività culturale, con i motivi della simultanea presenza di operatori privati, enti non profit e pubblica amministrazione, frutto di complessi meccanismi di accreditamento e di formazione della reputazione degli artisti o dei produttori e gestori di attività culturali. Utile in tal senso è ragionare sull’organizzazione dei mercati culturali, avvalendosi della strumentazione tipica dell’esame dei sistemi produttivi e dei loro ambiti settoriali. Può essere posto in evidenza lo sforzo di pensare in termini di sistema, termine più appropriato rispetto a filiera, data l’esistenza, non di una sequenza di trasformazioni, ma di un insieme di ambiti collegati tra loro. Sarebbe inoltre fuorviante utilizzare la categoria di catena del valore, dato che il valore del prodotto finale va inteso come arricchimento di quanti fruiscono dell’offerta di cultura e quindi sottende, come tale, un concetto diverso dal prezzo com’è normalmente inteso nella teoria del mercato. Il caso della cultura è, infatti, emblematico dell’ impossibilità di trasformare i valori monetari della spesa in prezzi capaci di indicare gradi utilità o di benessere.

Non sembri strano, a chi legge queste annotazioni, che l’economista rivendichi la necessità di criteri fondati su valori; egli non può spingersi oltre ma, parlando di cultura, non può non rammentare che i protagonisti vocati a reggere il sistema sono gli umanisti e gli artisti, agli occhi dei quali i metodi adoperati non riescono a cogliere, né certo a misurare, la natura delle percezioni che l’arte suscita. Il compito dell’economista è peraltro quello di tentare di considerare aspetti specifici del vivere, quali il trarre utilità da beni e servizi accumulando una capacità di fruirne nel tempo e tramandando memorie e criteri estetici.

Tipica degli studi sui sistemi produttivi, in una prospettiva microeconomica, è invece l’analisi dei protagonisti dell’offerta, in questo caso molto diversi tra loro, date le differenze degli ambiti componenti il sistema. L’organizzazione dei mercati culturali rivela significative differenze. A titolo di esempio, l’organizzazione nel settore delle opere d’arte presenta una particolare configurazione, in parte modificata dall’avvento della digitalizzazione, in cui la domanda e l’offerta si incontrano su tre livelli (Throsby, 1994).

Il livello più basso, spesso definito il livello primario, tradizionalmente si fondava su artisti individuali, generalmente non organizzati, che offrivano i propri lavori alle gallerie d’arte, alle fiere e alle esibizioni, ai piccoli venditori e agli acquirenti privati, nell’ambito di un mercato altamente decentralizzato. Il ruolo del mercato primario si è ampliato grazie alla digitalizzazione, in parte determinando un allargamento complessivo del settore, in parte a scapito del mercato secondario e

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terziario. I canali online, e in particolare gli aggregatori web e la vetrina offerta da “YouTube”, hanno consentito a molti artisti di raggiungere direttamente un pubblico molto vasto.

Al livello intermedio, l’incontro fra domanda e offerta avviene invece nell’ambito di mercati localizzati negli hub delle opere d’arte (New York, Parigi, Sydney).

Infine, al livello più alto, figurano le grandi case d’asta internazionali.

La struttura di mercato varia significativamente fra questi diversi livelli, con una concorrenza elevata al livello più basso destinata ad assottigliarsi pervenendo ai livelli più alti, caratterizzati da una struttura oligopolistica, in cui conta molto la reputazione dei diversi attori. Dallo studio dei protagonisti dell’offerta emergono le problematiche gestionali relative soprattutto alle fonti di finanziamento attivabili, necessarie sia a consentire gli investimenti (manutenzioni comprese), sia a sovvenzionare la gestione ove giudicata di utilità collettiva.

Meritevoli di approfondimento sono, in tale direzione, la natura e l’intensità degli impegni di lavoro e capitale assorbiti dalle attività in oggetto, aprendosi all’interrogativo di quale ne sia l’output e, ancora, se e in quale modo esso sia misurabile sì da rendere possibile un bilancio atto a dimostrare la sostenibilità del tutto. Si apre cioè il delicatissimo tema del “valere la pena” ovvero del senso insito nel destinare risorse a un ambito di attività posto sul filo di rasoio tra la caduta nell’effimero e la resa di un servizio particolarmente pregiato, portatore di conoscenza e di benessere nell’animo umano.

Sul piano metodologico, in tale direzione si delinea il contributo di un’analisi costi-benefici, di particolare delicatezza non essendo consolidata nell’approccio e negli strumenti. Essa è non di meno necessaria stante l’eterna e conclamata scarsità delle risorse e quindi dell’ineludibile esigenza di dare ad esse un impiego condivisibile, in un contesto nel quale, altre destinazioni confliggono in termini di urgenza e di irrinunciabilità.

Si trovano in merito alcune proposte di riflessione che la letteratura offre nel tentativo di giudicare i caratteri di economicità delle gestioni, ben consapevoli del contrasto tra vantaggi non misurabili in denaro e la necessità di giustificare l’impiego delle risorse.

I modelli di analisi, ai quali si farà riferimento, trattano il caso delle performing arts, con ragionamenti peraltro generalizzabili, e vertono:

- sulla sostenibilità degli equilibri di bilancio, che nel tempo sono sottoposti alla dinamica originata dalla crescita della produttività del lavoro in altri settori dell’economia;

- sui diversi strumenti di controllo della gestione che consentono una valutazione delle politiche pubbliche intraprese (Le Pen 1983);

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- sulle distorsioni che possono essere provocate dalle funzioni obiettivo dei managers che dirigono enti culturali (Dupuis 1983);

- sull’inevitabile ricorso a enti non profit e alle sovvenzioni pubbliche e private al fine di perseguire i benefici non facilmente individuabili e non misurabili in denaro connessi con la imprescindibile funzione innovativa della cultura.

Il modello di Baumol e Bowen (1965) riecheggia considerazioni attinenti la dinamica strutturale nel corso della crescita del sistema economico, ed è stato proposto con riferimento alle arti dello spettacolo, ma può essere esteso a un insieme più ampio di servizi culturali. La crescita della produttività del lavoro in questi settori è minore della media o addirittura assente. Un musicista, un cantante lirico o un attore non possono migliorare la loro prestazione attraverso un cambiamento della tecnologia del canto o della recitazione. Le loro retribuzioni resteranno dunque mediamente inferiori a quelle esistenti nel sistema economico. Tuttavia le loro richieste di guadagni crescenti, renderanno inevitabile il ricorso a enti non profit, che perseguano il massimo della diffusione del servizio culturale, contenendo i prezzi, ricorrendo a sovvenzioni crescenti per coprire i disavanzi di bilancio.

Per riflettere su queste tendenze è utile dedurre i calcoli essenziali da ipotesi semplici: i due settori adoperano solo lavoro “L” e producono “Y” con funzioni di produzione:

0 , 2 0 , 2 0 , 1 0 , 1 aL Y bL Y  

I tassi di crescita sono “

g

i ” (produttività del lavoro) “

d

i ” domanda e “

w

i ” i salari. I prezzi

sono formati con il ricarico del costo del lavoro per unità di prodotto e crescono al tasso “

p

i ”. I

numeri indici (in base unitaria) dei rapporti tra le produzioni Y1/Y2 , e tra gli occupati L1/L2 , e

gli indici dei prezzi P, al tempo t,saranno:

t t t t t t t t t t t t t t g w P g w P d d g g L L d d Y Y ) 1 ( ) 1 ( ) 1 ( ) 1 ( ) 1 ( ) 1 ( ) 1 ( ) 1 ( ) 1 ( ) 1 ( 2 2 , 2 1 1 , 1 2 1 1 2 , 2 , 1 2 1 2 1              

La prima simulazione che si può fare con il modello è la constatazione del cosiddetto “Baumol’s disease”: la perdita di importanza del settore 1 rispetto al settore 2, dovuta a tre ipotesi (Benhamou 2011):

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- un aumento dei salari pari a quello dell’altro settore;

- la minor crescita della produttività del lavoro (o addirittura l’assenza di progresso tecnico).

In presenza di domanda rigida, il settore riduce la sua importanza in termini di produzione a prezzi costanti, ma potrebbe aumentarla in termini di occupati11, tuttavia è facile mostrare, con una seconda simulazione, che, qualora il settore 1 (identificato con i servizi culturali) limitasse la crescita dei prezzi per perseguire una maggior fruizione dei suoi servizi, si genererebbe un deficit per unità di ricavo crescente nel tempo e da coprire con sussidi. Si ha infatti che il tasso di incidenza del saldo degli utili o delle perdite, rispetto ai ricavi è dato da:

           t t t t t k w RT CT RT ) p 1 ( ) 1 ( 1 * 1 1 1 1 1 1

(con “ k1 ” il coefficiente di ricarico dei costi e p* il prezzo stabilito per aumentare l’accessibilità del servizio). Si noti che l’ammontare dei sussidi necessari, dovuti a perdite, non dipende dall’elasticità della domanda rispetto al reddito, perché non dipende dalla crescita della domanda. La crescita dei salari avviene certamente in modo ben diverso secondo la notorietà degli artisti. La crescita dei redditi aumenta le disponibilità a pagare del pubblico, e favorisce le rendite degli artisti insostituibili; sono però inevitabili le difficoltà di giovani promettenti nel perseguire le loro aspirazioni di carriera, a causa di insufficienti retribuzioni relativamente ad altri impieghi, e della necessità di doversi accontentare in attesa di poter aspirare a una sufficiente notorietà.

Occorre tuttavia non fraintendere le conseguenze traibili dal modello. Nella recensione apparsa sull’Economist al recente libro di Baumol (2012) dal significativo titolo “The Cost Disease: Why Computers Get Cheaper and Health Care Doesn’t” 12, si nota che tra 100 anni un’esecuzione dal vivo di un quartetto di Mozart sarà più costosa (relativamente ad altri beni) ma le persone interessate potranno comunque permettersi l’acquisto dei biglietti per assistervi. I problemi sorgono invece dall’acuirsi del contrasto tra élite appassionate, disponibili a pagare, e altri parimenti appassionati ma non in grado di affrontare la spesa; le élites culturali sono infatti formate da persone non necessariamente ricche. A ciò si provvede mediante enti non profit che però subiscono un ampliarsi dei deficit, che diventa strutturale, se non si trovano forme stabili di copertura attraverso gli enti pubblici o i mecenati privati.

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C Esiste un tasso di crescita della produttività del lavoro al di sotto del quale il rapporto tra L1 e L2 resta costante e dipende dall’elasticità della domanda rispetto al prezzo. Ne esiste ovviamente un altro che elimina le perdite e le trasforma in profitti.

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C L1 L2 Recensito con rara capacità di sintesi e chiarezza nel numero del 29 settembre 2012.

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Valori, costi ed efficienza nella gestione della cultura

Un apparato produttivo di grande consistenza, eterogeneo e di notevole complessità, impone pertanto un concorso collettivo dei diversi soggetti presenti e coinvolti, direttamente o meno al suo interno.

I numeri forniti dall’interessante rapporto del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (MIBACT, 2014 con dati 2013), sia pure con qualche difficoltà nel distinguere quanto è materia di generazione di servizi culturali da quanto è costruzione di apparati strumentali per la produzione materiale e la distribuzione degli stessi, offrono un quadro complessivo di rilevante dimensione.

La considerazione dell’insieme degli operatori culturali, ivi compresi Musei, biblioteche, spettacoli dal vivo, produzioni radio-televisive, opere librarie, patrimonio culturale nelle diverse fattispecie (beni architettonici, archeologici, aree protette), associazioni e fondazioni produttrici d’incontri di studio e formazione) porta ad annoverare diverse migliaia di soggetti.

In termini quantitativi, tale scenario non è certo da meno, rispetto a quello rilevabile in paesi confrontabili in termini di avanzamento tecnologico e di dimensione economica. Da ricordare è il richiamo frequente al maggior numero di siti UNESCO dichiarati patrimonio dell’umanità che, per l’Italia, sono i più numerosi nel mondo come risulta dalla tabella che segue.

Tabella n. 1

Numero di siti dichiarati dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità

(*) esclusi 3 siti transfrontalieri

Fonte: Unesco

Solo la Spagna si avvicina al nostro paese mentre Francia, Regno Unito e, sorprendentemente la Grecia annoverano un numero palesemente minore di siti; diverso è il caso degli USA che, per la loro breve storia, non hanno memorie di un lontano passato.

Una presenza così elevata e qualificata propone lo stretto legame tra arte, cultura e turismo, dal quale deriva una singolare ampiezza di prospettive e, nel comparare il numero dei siti rilevanti sullo

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scenario internazionale, viene spontaneo riflettere sulla problematica connessa alla loro corretta ed efficiente gestione al fine di utilizzarne appieno le potenzialità di richiamo.

Alla luce di queste considerazioni nessun soggetto, privato o istituzionale, può sentirsi esente dall’essere partecipe, nei limiti del possibile, al buon funzionamento dell’insieme degli elementi che dell’apparato culturale sono parte. La condivisione che la produzione e la diffusione della cultura sia un valore non solo da difendere ma da promuovere quale elemento fondante di una società intesa a progredire, impone il rifiuto dell’indifferenza nei suoi confronti e quindi di riconoscersi cittadini partecipi. In termini concreti questo significa acquisire consapevolezza dell’importanza e dell’onerosità di disporre di un patrimonio di grande rilievo dal quale derivare rilevanti benefici prospettici, consci al tempo stesso dei costi conseguenti.

A livello collettivo, questa maturità di atteggiamento comporta il superamento dell’errata convinzione secondo la quale le proposte culturali costituiscono una realtà diffusa nell’ambiente, o ereditata dal passato, alla quale deve provvedere un’entità lontana (Stato), senza incidere sulle capacità e sulle risorse di quanti ritengono di avere comunque una sorta di diritto naturale di usufruirne. In realtà va compreso che, come qualunque bene o servizio reso disponibile, dette proposte costano e quindi la collettività è chiamata a provvedere secondo le disponibilità di ciascuno. Ciò potrà avvenire mediante il meccanismo fiscale ove le realtà da tutelare e valorizzare abbiano valenza tanto generale da chiamare in causa una collettività, nel suo insieme nessuno escluso, o direttamente, allorché si usufruisce della singola proposta essendo coscienti che per renderla concreta e fruibile è necessario farsi carico dei relativi oneri. Di norma è praticato l’uno o l’altro meccanismo. In termini semplici e concreti, la cultura costa e di norma costa molto e detto costo deve essere affrontato con lo stesso spirito con il quale si affronta l’onere di un servizio indispensabile.

Essere a conoscenza e accettare questa verità non esime chi nella produzione è impegnato, dal gestire la realtà affidatagli con rigore e professionalità. Linee di condotta queste tanto più necessarie dal momento che le risorse delle quali in sostanza ci si avvale hanno spesso origine pubblica. I criteri utilizzati in qualunque settore produttivo valgono di conseguenza anche nell’ambito dell’offerta culturale; se possibile anzi, essi valgono anzi a maggior ragione.

Le linee d’azione con quali agire sono individuabili sia nell’evitare ogni forma di spreco e quindi nell’utilizzare le risorse senza concedersi eccessi o lussi inutili, sia nell’accrescere la produttività degli operatori culturali preposti alla gestione dei diversi settori d’intervento.

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Accrescere la produttività: un obiettivo difficile

La consuetudine all’ambigua nozione di produttività, propria di chi si è occupa di economia dell’impresa, permette di contribuire alla riflessione sulla gestione dei servizi culturali accentuando la convinzione del non dover ricorrere a un unico indicatore di produttività totale, capace di confrontare tutti i benefici e tutte le risorse utilizzate. Com’è noto l’uso di tali indicatori sintetici richiede scelte in parte arbitrarie nei modi di definire a aggregare i prodotti, da un lato, e i fattori di produzione dall’altro.

Nei servizi culturali è particolarmente critico il passaggio dall’astratta nozione di utilità alla semplice rilevazione del numero dei fruitori e infine alla quantificazione dei valori monetari L’utilità richiede di discernere il valore delle opere, per continuare ad ammirare il passato nonostante il mutare del senso estetico e gradire le avanguardie, senza cadere nelle mode effimere e nei plateali tentativi di stupire. A ciò corrisponde il valore intrinseco del prodotto che dovrebbe essere apprezzato sia per tradizione consolidata e affinata, sia per le novità nei modi di esprimersi e comunicare.

La misura del numero dei fruitori (biglietti venduti, visitatori dei luoghi e dei monumenti), richiama il dilemma tra le scelte di prodotti per le élite, capaci di contribuire all’evolvere delle sensibilità artistiche, e la fruizione per così dire democratica, tesa a suscitare interesse e accrescere il beneficio dell’uso del tempo che, come s’è detto, implica fatica e barriere da superare prima di pervenire a un’utile accumulazione di capitale culturale.

La valorizzazione monetaria infine è indispensabile nel giudicare l’opportunità di provvedere a coprire deficit con le sovvenzioni, e richiede la formazione di prezzi capaci di ampliare l’offerta, con forme di discriminazione, e varietà di prodotti vendibili.

Il ricorso alla misura dell’utilizzazione delle risorse al fine di indagare l’efficienza con la quale i servizi culturali sono prodotti ed erogati pone un problema certamente delicato poiché l’intento migliorativo può sfociare in concreto nella soluzione, apparentemente semplice, di ridurre il personale addetto o di intensificarne le prestazioni al di là degli accordi sindacali. Entro certi limiti, la via può anche essere questa, laddove periodi economicamente favorevoli in tempi trascorsi, possano aver provocato posizioni di relativo privilegio di talune categorie di lavoratori rispetto ad altri o un certo rallentamento nell’impegno. Quanto però può essere avvenuto in particolari situazioni non può assurgere a criterio generale.

Per valutare l’uso razionale delle risorse, giova dunque ricorrere a una pluralità d’indicatori, costruiti per documentare ciascuno un aspetto della gestione, anche tenendo conto della necessaria

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funzione sociale delle organizzazioni senza fini di lucro. Tale documentazione può spingersi fino ad esprimere misure di qualità, già fornite in alcuni bilanci di enti lirici redatti con particolare cura. Un’ulteriore possibilità (non certo alternativa) è rappresentata dallo studio di costi standard relativi ad alcuni fattori produttivi indispensabili e alle attività congiunte, necessarie a garantire un’adeguata profittabilità delle vendite, quali guide, audiovisivi, libretti delle opere con storia e commento, o analisi dei brani sinfonici.

Un ultimo richiamo è inevitabile. Tra gli indicatori dei servizi prodotti hanno rilevanza specifica quelli che documentano il grado d’internazionalizzazione raggiunto (per esempio tournée all’estero), mostrando il grado di successo nei modi più semplici (spettatori paganti e repliche) e segnalando la qualità con i luoghi di chiara fama ove sono avvenute le rappresentazioni.

Anche nell’ambito delle produzioni culturali va ribadito il criterio, sempre più attuale, di migliorare l’efficienza non tanto tramite la riduzione dei fattori produttivi utilizzati quanto mediante l’aumento del valore dell’offerta all’utenza. In altri termini, la correzione verso l’alto del rapporto indicatore della produttività deve avvenire oggi non attraverso la contrazione del denominatore (entità dei fattori produttivi utilizzati), ma con l’incremento del valore reale del numeratore ovvero della produzione.

E’innovazione l’insieme degli interventi finalizzati a incidere sul livello qualitativo dei prodotti nei quali trova concretezza l’offerta di questo particolare comparto produttivo. In concreto, l’ottenimento di un risultato sempre più apprezzato può consentire di praticare un ricarico del prezzo, giustificato dal maggior valore effettivo del prodotto, concorrendo, per questa via a un miglioramento nella copertura dei costi.

Tuttavia anche la nozione di qualità, che consente di accrescere il valore, richiede non poche precisazioni.

L’analisi della domanda la considera attraverso la disponibilità a pagare, e il ricavo monetario parrebbe poter esprimere la misura di ciò che si produce (maggiori prezzi sono accettati ove vi sia maggior qualità). Tuttavia è facile prendere spunto dal modello di Becker e Stigler per rilevare che, in presenza di diffuse diseguaglianze nella distribuzione dei redditi, le disponibilità a pagare non rivelano in misura adeguata l’apprezzamento del pubblico. Attesa l’esistenza di una frangia della popolazione non in grado di apprezzare il prodotto artistico, il vero problema sta nel costo dell’accumulazione di questa capacità di apprezzamento, e il modello ricorda appunto che il reddito limita l’istruzione e rende più difficile pervenire a quell’abitudine alla fruizione dell’arte atta a fare aumentare la domanda in termini quantitativi, ma soprattutto qualitativi.

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Si dovrebbe poi aver cura di distinguere tra la qualità riconosciuta per il largo consenso, dovuto alla fama degli autori e degli esecutori, dalla qualità apprezzata nelle prestazioni di autori emergenti e avanguardie, anche se ancora limitata ad una élite, per la difficoltà di accumulare criteri estetici nuovi che consentano di gradire le novità.

Negli spettacoli dal vivo, che richiedono una rilevante accumulazione di capitale culturale, come la lirica, la musica sinfonica e da camera e il teatro, la qualità, definita come successo di un pubblico pagante in misura tale da garantire l’utilizzo della capacità produttiva, può indurre le organizzazioni non profit a sostenere costi elevati, e provocare l’emarginazione degli autori e degli artisti meno noti (la cui presenza non garantisce il successo), finendo con l’aggravare i deficit da sovvenzionare (Dupuis 1983).

La definizione di qualità dipende, in definitiva, da un insieme di criteri che vanno dalla presenza di un pubblico colto e pagante, all’obiettivo della diffusione della cultura (qualità è quella che induce ad appassionarsi alle manifestazioni artistiche). Gli uni e gli altri devono coesistere facendo sì che tra enti produttori e sovventori si sviluppi un rapporto di collaborazione attiva nel perseguirli. L’insistenza sulla valorizzazione dei prodotti non deve indurre a trascurare le possibilità di forme di innovazioni attraverso il mutamento delle tecnologie di comunicazione e le modifiche organizzative.

Il progresso tecnico può, consentire miglioramenti nel processo produttivo, come avviene nella concezione più usuale. Gli esempi possono essere molti e vanno dall’ottimizzazione dello spazio nelle biblioteche e negli archivi, alla movimentazione dei libri e dei documenti; dalla metodica di cambiamento degli scenari teatrali e dei movimenti del palcoscenico, alle tecniche di ripresa cinematografica e delle possibilità di sonorizzazione. Con qualche approssimazione, anche nel mondo dell’arte c’è dunque spazio per introdurre innovazioni di processo sebbene finalizzate prioritariamente all’obiettivo di migliorare le performance più che a contenere l’entità di costi in valore assoluto.

La via per innovare consiste però anche nell’arricchimento delle diverse forme produttive con attività complementari, innestando sull’offerta tradizionale nuove e ulteriori forme di utilizzazione delle risorse materiali disponibili: esempi possono essere la produzione di piccoli o grandi spettacoli coerenti con l’apertura di determinate mostre, la proposta di incontri di discussione e definizione di iniziative creative, l’invito di operatori, registi, attori di chiara fama e di buona considerazione popolare per discutere di una rappresentazione o di un film. I cosiddetti “eventi” identificano attività, collaterali o a valle, necessari e utili sia ad incrementare i ricavi (sempre sorvegliando che i relativi costi non crescano in maggior misura) sia, soprattutto, a garantire una continuità di fruizione

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delle strutture culturali nel tempo: è infatti difficile pensare, salvo casi eccezionali, che l’afflusso fisiologico a un museo cittadino si mantenga inalterato nel trascorrere dei mesi o degli anni se non è ravvivato da operazioni di questo tipo, studiate e lanciate con regolarità. In questa prospettiva non poche istituzioni culturali dovrebbero prevedere, nel loro organico, comitati scientifici o consigli di indirizzo, rinnovabili a tempi regolari, atti a consentire il mantenimento vitale di un’indispensabile vis innovativa. Su questo punto si è espresso in più d’un caso Walter Santagata che in materia di valorizzazione economica della cultura ha fatto fruttuoso campo di studi e di proposte.

L’importanza della varietà potrebbe trovare espressione nell’analisi della forma della funzione atta ad evidenziare la cumulata del numero di spettatori al crescere delle repliche, approssimabile mediante una forma logistica, con pendenza dapprima crescente e poi decrescente. Essa contribuirebbe a definire un programma annuale (o di altro periodo) di spettacoli al quale non si aggiungerebbe alcuna replica in caso di esistenza di un altro spettacolo con una successione di repliche maggiormente profittevole in prospettiva.

Quanto conta sottolineare in questo lavoro è la necessità di ampliare l’insieme degli utenti intenzionati ad apprezzare le espressioni culturali nelle loro diverse espressioni. L’auspicio di un’educazione alla sensibilità più efficace e diffusa è certo pertinente, ma un poco scontato, mentre appare utile insistere sulla necessità di aumentare i ricavi coinvolgendo gli interessati in una pluralità di iniziative e proponendo loro una varietà di prodotti accresciuti dalle moderne tecnologie dell’innovazione.

Nel caso dei siti e dei musei, i caratteri distintivi trovano espressione nell’accumulazione del capitale culturale e nelle esternalità generate soprattutto suscitando attività legate al turismo. Il prodotto è dunque la conservazione di un patrimonio da tramandare nel tempo, finalizzato a fornire servizi ai visitatori. Il numero delle visite in un anno e il ricavo incassato non esprimono però la qualità dell’offerta nella quale si concreta quanto dovrebbe essere oggetto di misura. La ricerca di indicatori appropriati può suggerire l’adozione di valori monetari per la varietà dei prodotti collegati (libri, DVD e altri strumenti di divulgazione vendibili); quanto però non è possibile quantificare è l’incremento di capitale umano derivante dai beni accumulati e dalla loro conservazione e presentazione. La stessa nozione di capitale umano è ambigua, tanto da rendere inutile insistere in distinzioni tra consumo e investimento (la visita al museo quale realtà diversa dall’ampliamento delle conoscenze del visitatore). Altrettanto inutile è sforzarsi di distinguere la qualificazione potenziale del lavoro, consentita dalla disponibilità di detti beni a favore degli abitanti di un territorio e dei visitatori, dall’arricchimento personale e dal piacere dell’intelletto nell’apprendere.

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Forse l’importanza della cultura sta proprio nel non essere riconducibile a strumento produttivo, pur essendo fonte di arricchimento di opportunità di vita, quando i soggetti fruitori traggono dalla stessa alimento per la loro personalità (carattere)13.

Considerazione questa, certamente estensibile a tutte le manifestazioni artistiche, incluse le arti

dello spettacolo, citate per altre precisazioni di carattere metodologico in tema di produttività.

Prezzi remunerativi e diffusione dell’offerta per ampliare il mercato

In ogni caso risulta difficile cogliere la problematica connessa alla necessità di diffondere l’offerta culturale alla fascia di popolazione a rischio di esserne emarginata per carenza di istruzione, di solito connessa alle scarse disponibilità di spesa.

Con tutte le attenzioni possibili, anche sulla scorta di confronti internazionali, basati sui prezzi di alcuni generi di spettacoli particolarmente raffinati come l’opera e la musica sinfonica, i dati sulle frequenze possono ancora una volta confermare nella convinzione dell’inaccessibilità di certi templi della cultura per le classi meno abbienti.

Assistere ad un’opera lirica alla Scala o al Metropolitan può essere inteso come indice di uno status, che può indurre a sopportare un prezzo non paragonabile a quello praticato da un teatro minore per uno spettacolo analogo anche in termini di allestimento. Resta tuttavia corretto affermare che differenze di qualità (intervento di regie prestigiose, presenza di attori internazionalmente noti per capacità di recitazione, esposizione di opere pittoriche di grande pregio, orchestre di chiara fama, eventi di forte richiamo nell’ambito delle gestioni museali, sale cinematografiche accoglienti ed efficienti) sono certamente paganti, e lo devono essere in termini di maggior valore percepito e quindi di maggiori ricavi, anche quando questo può selezionare il pubblico in base alla disponibilità finanziarie.

Si pone, allora per questa via, il tema della presenza sul territorio di proposte culturali, di cui si hanno esempi molto diversi, di solito con successi esorbitanti dalla pura quantificazione in termini di ritorni monetari. Interessanti in proposito sono le esperienze del Teatro Regio di Torino con la proposta dell’esecuzione in una delle più prestigiose piazze della città delle sinfonie di Beethoveen o del “Don Giovanni” di Mozart (con qualche cautela, per non svilire l’impegno di chi le ascolta). Utili sono di certo le iniziative aventi come obiettivo la promozione delle periferie urbane, fino ai laboratori di espressione artistica sperimentati a Roma o la video mediateca del Museo del Cinema di Torino (citate dal rapporto Federculture del 2015); come va meglio esplorata la diffusione di

13

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C L1 L2 Non inteso come virtù, ma come insieme di ciò che costituisce la propria individualità personale (Hillman 2000).

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scuole di musica per i più giovani aventi come finalità non tanto il farne dei musicisti di fama, quanto di coltivarne le attitudini lasciando traccia dell’intervento formativo nelle successive esperienze di vita. Nella stessa direzione vanno iniziative innovative quali l’apertura a pubblici dibattiti su temi fortemente sentiti dall’uomo, a qualunque contesto storico, spirituale e politico appartenga: i casi torinesi di “Torino spiritualità” o di “Biennale democrazia”possono essere esempi probanti per afflusso e qualità del dibattito senza oneri economici per chi li frequenta.

Dato il patrimonio dei musei, dei monumenti e dei siti archeologici nel nostro paese, ovviamente il loro utilizzo può dar adito a confronti, sempre difficili da formulare e interpretare ma utili per introdurre il problema del maggiore e migliore utilizzo di capacità produttive disponibili.

È per esempio il caso dell’avvertimento di Franco Fubini sul Corriere della Sera del 22 agosto2015, quando segnalava come “ai dati del bilancio 2012 gli Uffizi fanno 17 milioni di euro di ricavi dalla

biglietteria, circa metà di quanto il Metropolitan incassa dai suoi ingressi. E mentre il «merchandising» del Met vale il doppio di questa cifra, 70 milioni di dollari, i proventi da «servizi di gestione» degli Uffizi appaiono irrisori: solo tre milioni di euro”

L’11° rapporto annuale di Federculture offre sul punto una documentazione di notevole interesse.

Tabella n. 2

Numero totale dei visitatori nei tre musei più visitati della città - 2014 (milioni)

Fonte Federculture 2015

La riflessione su questo aspetto della produttività delle risorse (l’utilizzo del patrimonio come capacità produttiva data e disponibile) non deve però fermarsi agli aspetti più appariscenti. Londra, Parigi e New York non sono infatti paragonabili sic et simpliciter alle tre principali città d’arte italiane. Troppi fattori le distinguono tra cui, principale, l’essere delle capitali non del turismo, ma del sistema economico mondiale. Esse godono pertanto sia di una maggior qualificazione del lavoro e di conseguenza di un numero superiore di abitanti propensi a dar valore alla cultura, sia di una notorietà internazionale dalla quale deriva un flusso continuo di presenze straniere non dovute principalmente alla possibilità di visitare opere d’arte. Questo legame tra presenza di attività

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economiche qualificate e globalizzate e fruizione delle opere d’arte meriterebbe un approfondimento più puntuale.

Alcuni dati forniti da Federculture, riferiti a Musei, monumenti e aree archeologiche, articolati per le diverse aree del nostro paese nel 2012 (tabella 3) offrono interessanti spunti di riflessione.

Può essere osservato in proposito, come, se conta il numero dei siti quale espressione dell’offerta culturale e quale fattore di richiamo (Roma e il Centro Italia fanno in tal senso la parte del leone), questo non è il solo fattore esplicativo del loro successo in termini di visitatori. Può essere infatti notato come il Mezzogiorno non sia così lontano per numero e qualità degli stessi (valga l’esempio di Pompei) ma conti un numero di visitatori assimilabile a quello del Nord, in paragone meno dotato. A livello del numero di visitatori per sito, la situazione si capovolge, con il prevalere del Nord sul Mezzogiorno, sia pure di poco; mentre il livello dell’introito per visitatore risulta crescente nel passare da nord a sud, con lieve prevalenza di questo anche rispetto agli importanti siti del centro Italia. Il ruolo di Roma capitale, ha peso notevole per l’attrazione e il successo delle proposte nell’ambito culturale e, nell’insieme, i dati lasciano intendere una sottoutilizzazione delle potenzialità meridionali, forse attribuibile appunto alla minor varietà di motivi di attrazione del contesto territoriale.

Considerazioni analoghe potrebbero essere fatte in altri campi come ad esempio nel cinema: il lancio, relativamente recente, della “festa del cinema” di Roma ha goduto in breve tempo di risorse e di pubblico ben diversi da Torino dove l’analoga esperienza si giovava di decenni di esperienza e di competenze universitarie di grande valore.

Tabella n. 3

Musei monumenti e aree archeologiche – Visitatori e introiti 2012

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Pubblico e/o privato?

Occorre tuttavia tener ben presente che la vita di un’istituzione culturale, per quanto rigorosamente e intelligentemente amministrata, non è in grado di autosostenersi sotto il profilo strettamente gestionale.

Secondo il modello di Le Pen (1982), riferito agli spettacoli dal vivo, la qualità è definita non come apprezzamento di un pubblico vasto, ma come effetto sul prestigio di una nazione o di un territorio in cui l’ente produttore opera, come lascito alle generazioni future in termini di accumulazione di capitale umano, e come sostegno ai creatori di nuove forme espressive. Le sue analisi, chiarite con grafici di particolare efficacia, servono a sostenere la tesi secondo cui non esiste una combinazione prezzo-qualità che massimizzi la diffusione della qualità, con il maggior numero possibile di fruitori. Ma il risultato contro intuitivo più interessante è che le sovvenzioni, in circostanze specifiche di preferenze dei potenziali clienti, possono comportare un aumento simultaneo della qualità e dei prezzi, con effetto contrario a quello redistributivo spesso auspicato. Ciò non dipenderebbe peraltro dal loro ammontare che ovviamente non dovrebbe essere vincolato, in tutto o in parte, a scopi specifici di diffusione al pubblico meno preparato per accrescerne il livello culturale.

Del resto l’esperienza insegna che non bastano lo sbigliettamento al botteghino o gli abbonamenti a garantire il pareggio dei conti, tenendo conto soprattutto che, oltre ai costi di esercizio, intervengono di certo gli oneri per la manutenzione ordinaria e straordinaria delle diverse strutture. Ne consegue che, ove le attività oggetto di analisi meritino la qualificazione di servizio pubblico, la Pubblica Amministrazione ai vari livelli (centrale, regionale, cittadina) non solo non può esimersi dall’intervenire, ma in taluni casi deve essere consapevole del fatto che saranno opportune soluzioni di élites per garantire il rispetto dei vincoli di bilancio.

Nel caso italiano, i dati documentano entità e tendenze dei contributi per la cultura, pubblici e privati e mettono in evidenza la loro ovvia sensibilità all’andamento generale dell’economia, evidente nell’alternarsi di periodi espansivi o di crisi.

In proposito, l’analisi dei dati del bilancio MIBACT dal 2000 al 2014 (figura n. 2) mette in evidenza come lo stato di previsione della spesa passa da 2.102.267.762 euro di inizio periodo a 1.595.345.278 euro di fine periodo con una riduzione del 24 per cento. Salvo lievi oscillazioni rilevabili in alcuni anni, si può affermare che la decrescita è marcata e tendenziale sintetizzabile nel passaggio dallo 0,39 allo 0,19 per cento dell’incidenza sul bilancio dello stato. L’esame dei dati di consuntivo si ferma al 2013, ponendo in rilievo una diminuzione da euro 2.398.719, 341 (dell’anno 2000) a euro 1.692.159,782, ovvero del 29,45%. In rapporto al prodotto interno lordo la percentuale

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scende dallo 0,18 allo 0,10 per cento. Anche l’analisi dei dati previsivi della programmazione triennale, nel passare dal 2006 fino al 2016 confermano la tendenza a scendere da valori annui intorno a 1,7-2 a valori compresi tra 1,5-1,4 milioni annui.

Figura n. 2

Ministero dei Beni e delle Attività Culturali (MIBAC) previsioni (in % del bilancio dello Stato) e consuntivi di spesa (in % del PIL)

Fonte elaborazione su dati MIBACT

Tabella n. 4

Spese dei comuni ed erogazioni di Enti e benefattori privati (milioni di euro)

Fonte: Berna Berionni in Federculture 2015

Anche la spesa dei comuni per la cultura (tab. n. 4) tende a contrarsi (mostrando come, nella crisi, questa destinazione subisca gli effetti dei più stringenti vincoli di bilancio).

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Si tratta, in ogni caso di una scelta delicata per quanto importante, data la cronica carenza di fondi della quale soffre la PA e stante l’affollarsi di impegni non eludibili (sanità, scuola, sicurezza) ai quali deve fare fronte. S’apre allora il tema della possibilità di promuovere un mecenatismo privato con l’intento di integrare gli apporti pubblici.

In argomento uno studio Banca d’Italia (Beretta, Migliardi 2012) ha chiaramente indicato gli argomenti a favore o contro l’intervento pubblico in questa materia. Mentre è sottolineata la validità dell’intervento pubblico in termini di equità sociale, e di rimedio ai cosiddetti “fallimenti del mercato”, (perdita di opportunità in termini di ricadute sul livello di civiltà o di sviluppo di particolari attività economiche) vengono messe in evidenza controindicazioni significative quali evidenti distorsioni della produzione, incentivata ad orientarsi verso iniziative sovvenzionate invece che verso quelle gradite alla collettività, anche scoraggiando la tensione verso i necessari miglioramenti qualitativi.

All’importante e accurata analisi ivi effettuata si rinvia chi intenda approfondire ulteriormente il tema. In questa sede si sottolinea come non manchino esempi di ruoli significativi esercitati da componenti privati nel sostegno di iniziative culturali. I casi sono diversi e vanno dalle cattedre convenzionate con le università, al sostegno di ruoli particolari in orchestre, o a sponsorizzazioni e donazioni di imprese a favore di teatri, musei, o archivi. Si tratta non di rado di associazioni sorte ad hoc (sono i cosiddetti “donors”), con una propria organizzazione e criteri gestionali, che si fanno carico di contribuire stabilmente al sostegno di determinati enti preposti a specifiche attività. Tale il FAI – Fondo l’Ambiente Italiano che tutela e valorizza l’arte e la natura del paesaggio italiani e la

Consulta per la valorizzazione dei beni artistici e Culturali di Torino (associazione di 35 tra aziende

ed Enti).

Nella tabella n. 4 sono riportati ulteriori dati, di fonte Federculture, dai quali si deduce come i contributi delle Fondazioni Bancarie tendano a ridursi negli anni di crisi dovendo far fronte a forti priorità di carattere sociale; più stabili risultano invece le erogazioni da imprese ed enti non commerciali, mentre assai variabili, con contrazione recente, appaiono quelli genericamente attribuibili ai privati.

Tabella n. 5

Contributi pubblici e privati, ricavi in 22 comuni14 italiani

(% sul totale)

14

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C L1 L2 I comuni sono: Barumini, Bologna, Brescia, Cagliari, Cles, Como, Fiesole,

Firenze, Genova, L'Aquila, Macerata, Mantova, Milano, Monfalcone, Napoli, Padova, Palermo, Perugia, Roma, Rosignano Marittimo, Siena, Torino.

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Covariates included are: gender, age, nationality, education, past labour market experience, chronic illness, health impediment, sleeping problems, partnership, number of