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La 'wonderbox' di Henry James. "The Turn of the Screw": architettura del testo, architetture nel testo.

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LA ʻWONDERBOX’ DI HENRY JAMES

“The Turn of the Screw”:

architettura del testo, architetture nel testo

Nella prefazione all’edizione definitiva delle opere complete1, Henry

Ja-mes definiva la sua celeberrima ghost story come “a piece of cold artistic calculation”, un’“amusette” creata apposta “to catch those not easily caught”2. Pubblicata nel 1898, per numerosi decenni la novella ha in

effet-ti suscitato intorno a sé una straordinaria quaneffet-tità di interpretazioni crieffet-ti- criti-che, che hanno finito per costruire sul testo jamesiano un complesso e ric-chissimo metadiscorso.

La storia è nota: una giovane donna viene assunta come istitutrice per occuparsi di due meravigliosi bambini, Flora e Miles, in una grande e bel-lissima tenuta di campagna vicino a Londra, Bly. Ben presto, l’istitutrice si rende conto che la casa è abitata da due presenze maligne, il fantasma del servitore Peter Quint e quello della precedente istitutrice, Miss Jessel. Per ammissione della governante, Mrs. Grose, durante la loro permanenza a Bly i due avevano avuto una relazione ed avevano intrattenuto con i bam-bini rapporti malsani non meglio identificati. Poco a poco, l’istitutrice si convince che i bambini continuino a comunicare segretamente con i fanta-smi e tenta di salvarli, spingendoli a confessare. Così facendo, la piccola Flora viene colta da un attacco isterico e precipitosamente portata via da Bly, mentre Miles non regge al confronto decisivo che dovrebbe liberarlo dal male e muore fra le braccia dell’istitutrice. Raccontata dall’istitutrice stessa, la storia nasconde sotto una superficie apparentemente lineare una serie di “trappole”, per cui nel momento stesso in cui il racconto sembra procedere alla costruzione del suo significato, lo sgretola e procede in real-tà a decostruirlo. A questo tipo di costruzione narrativa sembra in effetti fare riferimento l’enigmatico titolo della novella, The Turn of the Screw (Il giro di vite). Nella prefazione, James definiva del resto la novella come “an

1 Henry James, Prefazione a The Aspern Papers; The Turn of the Screw; The Liar;

The Two Faces, in The Novels and Tales of Henry James (New York: Charles

Schribner’s Sons, 1908), vol. 13, xiv-xxii. 2 Ibid., 120. Il corsivo è nostro.

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anedocte amplified and highly emphasized and returning upon itself”3: un

racconto dunque, “che si avvita su sé stesso”. Quando la critica ha comin-ciato ad elaborare la consapevolezza delle trappole nascoste all’interno del testo jamesiano, si è focalizzata essenzialmente sull’ambivalenza della nar-ratrice autodiegetica, l’istitutrice, suggerendo la possibilità che i fantasmi esistano soltanto nella sua immaginazione, che essa forzi costantemente il senso di ciò che sente e di ciò che crede di vedere e che tentando di estor-cere una confessione agli ignari bambini provochi la crisi isterica di Flora e la morte di Miles. Dopo alcuni decenni di feroci dibattiti, i successivi svi-luppi critici si sono più ragionevolmente assestati sul riconoscimento della polisemia del testo jamesiano, che consapevolmente costruisce e mantiene le proprie numerose ambivalenze. Ormai, più di un secolo e mezzo dopo la prima pubblicazione della novella, sappiamo bene che cercare le risposte che il racconto sistematicamente elude è inutile e sbagliato, ma ad ogni nuova lettura non possiamo evitare di ricominciare a farci tutte le doman-de che sappiamo non si doman-debbono fare, cercando ancora tutte le risposte che sappiamo non si possono trovare. Riconoscere questa irresistibile tentazio-ne indotta dal testo significa riconoscere a James di aver decisamente vin-to la sfida lanciata al letvin-tore, senza per quesvin-to accettare di arrendervisi. Si tratterà infatti di capire come questa tentazione viene indotta, cercando di sciogliere non già l’ambiguità della storia, ma quella del discorso: come funziona, concretamente, l’amusette inventata da James? Questo tipo di approccio ha dato luce a una serie di interessanti contributi critici che si fo-calizzano su alcuni specifici aspetti del racconto, ma in fondo l’analisi del-la noveldel-la continua a ritrovarsi sempre di fronte allo stesso ostacolo: nel momento stesso in cui spezziamo l’incanto ipnotico della lettura e tentiamo di spiegare il meccanismo segreto del racconto ci ritroviamo ineluttabil-mente invischiati nelle nostre stesse parole, che per quanto accorte finisco-no sempre per essere in qualche misura risucchiate nel giro di vite del testo, avvitandosi appunto intorno alle sue parole e riproducendone la diabolica torsione. Per questo, mi è sembrato interessante tentare di liberare l’analisi dal metalinguaggio della critica e dell’interpretazione, trasformando il te-sto in una costruzione fatta non più di parole ma di elementi materiali, che permetta di visualizzare concretamente i meccanismi generali che regola-no le strutture linguistiche e narrative del racconto e di rivelare il ruolo che all’interno di questo dispositivo assumono gli elementi architettonici

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senti dentro il testo stesso4. Il testo diventa dunque un modello

tridimen-sionale, che nel momento stesso in cui si pone come strumento analitico ri-vendica però anche la volontà di preservare l’effetto generato dal testo: una wonderbox, una “scatola delle meraviglie”, appunto, un’amusette “che ci chiama a un gioco in cui saremo sempre perdenti”5.

Nella prefazione, James riconduceva la sua novella alla forma della ghost story tradizionale, che alla fine del secolo gli appariva come “a beau-tiful lost form”, un genere che ha ormai tristemente esaurito il suo poten-ziale narrativo6. L’obiettivo era dunque quello di giocare con le

convenzio-ni ormai stanche del genere, rinnovandole e dando vita ad una “little fiction”7 capace di spaventare di nuovo il lettore. Alla “bella forma

perdu-ta” della ghost story romantica rinvia implicitamente l’architettura stessa della casa di Bly, la cui ampia facciata è fiancheggiata da due torri merlate, “dating, in their gingerbread antiquity, from a romantic revival that was already a respectable past”8. Le torri, dice la narratrice, stimolano

l’imma-ginazione, “especially when they loomed through the dusk, by the gran-deur of their actual battlements”9, e sarà significativamente proprio in cima

ad una di esse che incontreremo per la prima volta la figura del fantasma. In quell’occasione, ancora ignara della natura sovrannaturale del visitatore, l’istitutrice si chiede se Bly nasconda un segreto, “a mystery of Udoplho or an insane, unmentionable relative kept in unsuspected confinement”10,

fa-cendo evidentemente riferimento al testo fondatore della ghost story ro-mantica inglese, The Mysteries of Udoplho di Anne Radcliff, e al topos del parente pazzo rinchiuso nella torre. L’aspetto più interessante nella descri-zione di queste torri neogotiche è però la loro natura incongrua rispetto alla struttura lineare del palazzo signorile che esse affiancano: “incongruous crenellated structures”, “architectural absurdities”11, che tuttavia non

sto-4 Matteo Pericoli, “The Laboratory of Literary Architecture”, in Jonathan Charley (a cura di), The Routledge Companion on Architecture, Literature and The City (London: Routledge, 2018), 283-305.

5 Giovanna Mochi, “Le «cose cattive» di Henry James”, in Henry James, Il giro di

vite (Venezia: Marsilio, 2007), 41.

6 “The good, the really effective and heart-shaking ghost-stories […] appeared all to have been told, and neither new crop nor new type awaited us”. Kimborough,

James on “The Turn of the Screw”, 117-118.

7 Ibid., 117.

8 Henry James, Il giro di vite (edizione bilingue), traduzione di Giovanna Mochi (Venezia: Marsilio, 2007), 104.

9 Ibid., 104.

10 Ibid., 108. 11 Ibid., 104.

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nano affatto accanto alla “broad clear front” che aveva così piacevolmente stupito l’istitutrice al suo arrivo a Bly12. Metafora architettonica della

no-vella stessa, la dimora di Bly incarna dunque la forma armoniosa ed appa-rentemente lineare di un racconto che contiene però una serie di incon-gruenze, di assurdità strutturali che articolano il suo meccanismo segreto.

Sempre nella prefazione, James situava l’origine della novella in un aneddoto che gli era stato raccontato: “the withheld glimpse […] of a dre-adful matter,” lo definiva James, “[the] shadow of a shadow”13,

sottoline-ando come l’inconsistenza stessa della materia narrativa costituisse la qua-lità essenziale della storia, che la scrittura avrebbe a tutti i costi dovuto preservare. La prefazione offre a questo punto una similitudine suggestiva: nella sua preziosa evanescenza, il racconto della novella assomiglia ad una piccola presa di tabacco che si può appena stringere fra l’indice e il pollice, estratta da una vecchia tabacchiera d’argento14. Gioiello narrativo desueto,

finemente cesellato e accuratamente lavorato intorno all’evanescenza del-la storia che contiene15, questa tabacchiera che come l’architettura di Bly

sembra evocare il rapporto fra la ʻbella forma perdutaʼ e la forma del rac-conto jamesiano, costituirà il primo elemento del modello tridimensionale del testo.

Come spesso avviene nelle ghost stories tradizionali, anche qui la storia è preceduta da un prologo, che mette convenzionalmente in scena un grup-po di amici riuniti intorno al fuoco, intenti a raccontarsi delle storie terrifi-canti, “as on Christmas Eve in an old house a strange tale should essential-ly be”16. Tuttavia, nel momento stesso in cui il testo sembra ricreare le

rassicuranti condizioni che convenzionalmente definivano l’atto narrativo e inquadravano la storia, esso procede in realtà a decostruirle, instaurando una serie di meccanismi di distanziazione temporale e semantica che anzi-ché facilitare al lettore l’accesso fiducioso alla storia non fanno in realtà che ritardarlo e complicarlo: invece di limitarsi a contenere, a “inscatolare” la storia, il prologo crea infatti un sorprendente effetto di inscatolamento

12 Ibid., 76.

13 Kimborough, James on “The Turn of the Screw”, 118.

14 “there wasn’t much, but another grain, none the less, would have spoiled the pre-cious pinch addressed to its end as neatly as some modicum extracted from an old silver snuffbox and held between finger and thumb”. Ibid., 118.

15 “To knead the subject of my young friend’s, the suppositious narrator’s, mystifi-cation thick, and yet strain the expression of it so clear and fine that beauty would result: no side of the matter so revives for me as that endeavour”, ricorda James nella prefazione. Ibid., 120.

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del proprio racconto su sé stesso17. Immaginiamo dunque che, una volta

aperta, la tabacchiera riveli al suo interno una serie di scatole cinesi. Così, appare innanzi tutto un primo narratore anonimo, che presenta la situazio-ne entro cui avviesituazio-ne l’atto narrativo e introduce il personaggio di Douglas, che più tardi leggerà il manoscritto che contiene la storia vera e propria. Prima di cominciare a leggere, Douglas introduce a sua volta il personag-gio dell’istitutrice, l’autrice del manoscritto, e riferisce, tramite il primo narratore, i precedenti della storia contenuta nel manoscritto, di cui è stato informato dall’istitutrice stessa. Dentro al racconto che l’istitutrice ha affi-dato a Douglas e che viene riportato dal primo narratore si inserisce poi an-che il racconto del master, an-che ha assunto e affascinato l’istitutrice e an-che spiega la situazione dei due bambini di cui lei dovrà occuparsi e la strana clausola del contratto che le viene offerto. Questa figura delle scatole cine-si è del resto cine-simbolicamente inscritta in quella del manoscritto stesso, “a thin old-fashioned dilt-edged album”18, prezioso e desueto come la

tabac-chiera, contenuto dentro un cassetto chiuso nella casa londinese di Dou-glas, la cui chiave è a sua volta contenuta dentro una lettera che egli invia al suo domestico.

Se il prologo “inscatola” sé stesso, rispetto alla storia che contiene esso instaura invece un inedito meccanismo di riflessione, che andrà poi ad arti-colare l’intero racconto. Per visualizzare questa strategia narrativa immagi-niamo dunque che l’ultima delle scatole cinesi contenute nella tabacchiera sia rivestita di superfici riflettenti irregolari: una sorta di cabinet de miroirs che ripete una stessa immagine attraverso una moltiplicazione di riflessi, ognuno leggermente diverso dall’altro (raddoppiata, moltiplicata, frammen-tata, deviata), costruendo così un universo impercettibilmente destabiliz-zante dove l’illusione di una progressione lineare del racconto viene conti-nuamente ribadita e allo stesso tempo contraddetta. A partire dal prologo, che chiama immediatamente in causa una storia19 che non è però quella che

leggeremo, ma un’altra storia, raccontata quella stessa sera d’inverno da un altro ospite e riportata dal primo narratore: “The case, I may mention, was that of an apparition in just such an old house as had gathered us for the oc-casion – an appearance, of a dreadful kind, to a little boy”20. Ancora una

vol-ta, come in una scatola cinese, appare dentro la vecchia casa dov’è riunito il

17 Paola Pugliatti, “Che cosa è veramente successo a Bly? Memoria e affidabilità in ʻThe Turn of the Screwʼ di Henry James”, Strumenti critici 1 (gennaio 1989): 8-16.

18 James, Il giro di vite, 60.

19 “The story had held us, round the fire, sufficiently breathless”, Ibid., 56. 20 Ibid.

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gruppo di amici un’altra vecchia casa, che contiene un bambino e un fanta-sma. Di questa prima storia il racconto non conserva che una traccia, “[the] shadow of a shadow” appunto, che rinvia esplicitamente, ancorché in ma-niera tipicamente tortuosa, a quella che sarà la storia vera e propria, dove un’altra vecchia casa conterrà non più solo un bambino ma due bambini21 e,

come ben presto scoprirà il lettore, due fantasmi. Questo meccanismo di ri-flessione e raddoppiamento degli elementi del prologo dentro la storia è inoltre ulteriormente elaborato attraverso un movimento inverso, che va in-vece a moltiplicare nel prologo la figura della narratrice della storia, rivelan-do nel riflesso di una destabilizzante molteplicità di voci e di punti di vista l’artificio della narrazione lineare, fondata su un’unica voce che chiude il racconto a doppia mandata sul proprio univoco punto di vista.

Chiuso a chiave nel cassetto nella casa londinese di Douglas, il mano-scritto stesso trova del resto il suo riflesso nella storia: in quella lettera cru-ciale del direttore del collegio di Miles che annuncia la sua espulsione. La lettera del collegio arriva infatti a Bly contenuta all’interno di un’altra lette-ra, inviata dal master e indirizzata all’istitutrice. Una volta aperta la lettera del master, l’istitutrice tenta di rompere il sigillo della seconda lettera ma, come già nel caso del manoscritto, l’accesso si rivela difficoltoso e viene quindi rinviato22. Infine, come se non bastasse, il primo narratore ci dice che

il racconto che noi leggeremo non è in realtà quello contenuto nel mano-scritto dell’istitutrice che Douglas mandò a prendere e lesse quella sera d’in-verno, ma un’esatta trascrizione di esso, fatta da lui stesso dopo che Douglas glielo aveva affidato, subito prima di morire. Perché trascrivere il mano-scritto affidatogli da Douglas in punto di morte? E perché, nel momento stesso in cui certifica l’esattezza della trascrizione, il testo si sofferma a no-tificare puntigliosamente questi dettagli, se non per indicare ironicamente la natura profondamente mistificatoria di un racconto dove nulla è come appa-re, dove tutto si trasforma nel riflesso di sé stesso?

21 “Somebody”, dice il primo narratore, “happened to note it as the only case he had met in which such a visitation had fallen on a child” e, aggiunge alcune righe più tardi, “It was this observation that drew from Douglas – not immediately, but ler in the evening – a reply that had the intleresting consequence to which I call at-tention”: “I quite agree,” dirà Douglas poco dopo, “in regard to Griffin’s ghost, or whatever it was – that its appearing first to the little boy, at so tender an age, adds a particular touch. But it’s not the first occurrence of its charming kind that I know to have been concerned with a child. If the child gives the effect another turn of the screw, what do you say to two children – ?”; “We say of course,” esclama qual-cuno, “that two children give two turns!”. (Ibid., 56-58).

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Quella prima storia contenuta nel prologo non si limita a proiettare il ri-flesso della storia vera e propria, ma elabora anche, al suo interno stesso, un altro significativo meccanismo di riflessione: un bambino si sveglia terro-rizzato e sveglia a sua volta la madre, “not to dissipate his dread and soothe him to sleep again, but to encounter also herself, before she had succeeded in doing so, the same sight that had shocked him”23. Non sappiamo nulla di

ciò che entrambi hanno visto: tutto ciò che vediamo noi è un inquietante spazio bianco, creato dallo sguardo della madre che riflette il terrore del bambino. Materialmente assente dal testo, il fantasma esiste solo in relazio-ne alla perceziorelazio-ne che relazio-ne ha il personaggio, al senso di orrore che provoca in esso e, di riflesso, anche nel lettore24. Così, il prologo pone le basi di

quel-la che sarà quel-la sostanza fondamentale dell’elusivo racconto jamesiano, im-palpabile come la presa di tabacco “che si può appena stringere fra l’indice e il pollice”, contenuta nella vecchia tabacchiera d’argento.

Nella scatola magica vengono catturati anche gli episodi in cui appa-iono i fantasmi, che come mostra Pugliatti sono sistematicamente iterati ed impercettibilmente alterati nel racconto25. In alcuni di questi episodi

intervengono due precisi elementi architettonici, che a partire dalla prima apparizione di Peter Quint vanno ad articolare i meccanismi del cabinet de miroirs. Questo primo episodio comincia con la passeggiata dell’isti-tutrice nel parco, mentre fantastica “that it would be as charming as a charming story suddenly to meet someone”26. L’istitutrice sta

ovviamen-te pensando al masovviamen-ter, che però non viene mai nominato ma solo indiret-tamente evocato dal pronome personale maschile. Nel momento stesso in cui il viso del master “was exactly present” nella sua mente27,

l’istitutri-ce si trova improvvisamente in vista della casa: “What arrested me on the spot […] was the sense that my imagination had, in a flash, turned real”28.

A questo punto però, un improvviso cambiamento di prospettiva materia-lizza l’oggetto delle sue fantasticherie non già alla svolta di un sentiero

23 Ibid., 56.

24 Nella prefazione, James si soffermava proprio su questa particolare natura dei suoi fantasmi, “my bad things”, la cui presenza è sempre, allo stesso tempo, un’as-senza: “Only make the reader’s general vision of evil intense enough, and his own experience, his own imagination […] will supply him quite sufficiently with all the particulars. Make him think it for himself, and you are released from weak specifications”. Kimborough, James on “The Turn of the Screw”, 122-123. 25 Pugliatti, “Che cosa è veramente successo a Bly?”, 34-38.

26 James, Il giro di vite, 102. 27 Ibid.

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ma, incongruamente, in cima alla torre: “He did stand there! – but high up, beyond the lawn and at the very top of the tower”:

It produced in me, this figure, in the clear twlight, I remember, two distincts gasps of emotion, which were, sharply, the shock of my first and that of my sec-ond surprise. My secsec-ond was a violent perception of the mistake of my first: the man who met my eyes was not the person I had precipitately supposed.29 È dunque l’improvvisa deviazione dello sguardo verso la torre a mette-re in moto qui il gioco di specchi: la seconda emozione di sorpmette-resa (“l’uo-mo che avevo davanti agli occhi non era la persona che sulle prime avevo creduto di vedere”) è infatti il riflesso alterato di una prima emozione, as-sociata al master, che invece non viene descritta e che dobbiamo desume-re dalla descrizione della seconda. Materialmente assente nella prima sto-ria del prologo, il fantasma diventa invece qui una tangibile presenza: “the man who looked at me over the battlements was as definite as a picture in a frame”30, e del resto l’istitutrice non sa ancora che Quint è morto. Figura

del rimosso incongrua come la torre su cui si materializza, il fantasma of-fre tuttavia il riflesso deviato e deformato di un Altro assente: il master, og-getto del desiderio mai esplicitato, spazio vuoto intorno a cui giocano an-cora una volta i riflessi della scatola magica.

L’episodio della seconda apparizione di Quint utilizza invece quello che sarà l’altro dispositivo architettonico fondamentale in questo gioco di specchi: la finestra. L’istitutrice sta per uscire di casa per recarsi in chiesa, quando si accorge di aver dimenticato i guanti; torna indietro, nella sala da pranzo al pianterreno, e li vede posati su una sedia, vicino alla grande finestra chiusa.

29 Ibid. 30 Ibid., 106.

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Nello stesso istante in cui vede i guanti, vede anche, dall’altra parte del vetro, lo stesso uomo della torre che guarda dritto dentro la stanza. Dopo un istante di sgomento, corre fuori per raggiungere il luogo dove avrebbe dovuto trovar-si l’uomo, che però è già svanito. Fino a questo punto, il comportamento dell’istitutrice risponde ad una certa logica: non sa ancora che Quint è morto e potrebbe essere alle prese con un estraneo che vuole cogliere sul fatto. A par-tire da questo momento tuttavia, ciò che fa l’istitutrice appare del tutto privo di senso e risponde unicamente alla necessità di costruire un ennesimo gioco di specchi: “It was confusedly present to me that I ought to place myself whe-re he had stood. I did so; I applied my face to the pane and looked, as he had looked, into the room”31. L’immagine di Quint alla finestra è dunque

sostitui-ta da quella dell’istitutrice e, poco dopo, anche l’immagine dell’istitutrice che guarda attraverso la finestra è sostituita da quella di Mrs. Grose:

As if, at this moment, to show me exactly what his range had been, Mrs. Grose, as I had done for himself just before, came in from the hall. With this I had the full image of a repetition of what had already occurred. She saw me as I had seen my own visitant; she pulled up short as I had done; I gave her some-thing of the shock that I had received. She turned white, and this made me ask myself if I had blanched so much […]. I remained where I was, and while I waited I thought of more things than one. But there’s only one I take space to mention. I wondered why she should be scared.32

La finestra funziona dunque qui come uno specchio magico, che ripete e modifica la scena dell’apparizione. Come nell’episodio precedente essa fa emergere, nella figura dell’istitutrice che si sostituisce a quella di Quint, il riflesso del volto inquietante del rimosso. Con l’arrivo di Mrs. Grose al posto dell’istitutrice però, il gioco di specchi si complica ulteriormente, ri-elaborando il meccanismo già messo in atto nella prima storia del prologo. In questo caso, sappiamo che cosa vedono i due sguardi che convergono sul vetro, ma dietro l’oggetto apparentemente anodino della loro visione, nella paura sul volto pallido di Mrs. Grose che è a sua volta il riflesso del-la paura provata poco prima dall’istitutrice, appare uno spazio bianco in cui il lettore intravede la figura del fantasma, ormai sparita dal testo.

La successiva apparizione di Quint si manifesta dentro la casa, di nuovo vicino ad una grande finestra che domina il tornante della scalinata. Nella luce dell’alba, l’istitutrice si accorge della presenza di una figura che sale le scale e capisce immediatamente che deve prepararsi ad un nuovo

incon-31 Ibid., 120. 32 Ibid., 120-122.

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tro con quello che ha ormai identificato come il fantasma di Peter Quint. Arrivato sul pianerottolo, Quint si ferma accanto alla finestra: “He knew me as well as I knew him; and so, in the cold faint twilight, with a glimmer in the high glass and another on the polish of the oak stair below, we faced each other in our common intensity”33. Questa volta, il gioco di riflessi

co-struito attraverso il dispositivo della finestra è perfettamente gratuito: non c’è nessuna ragione per cui lo sguardo dell’istitutrice debba incontrare quello di Quint nel riflesso incrociato di un vetro che non funge da separa-zione, se non l’esigenza di impregnare ancora una volta la presenza del fan-tasma di un’impalpabile assenza.

L’episodio che segna il punto culminante del gioco di specchi costruito intorno ai fantasmi ricorre infine, significativamente, ad entrambi i disposi-tivi architettonici utilizzati separatamente negli episodi precedenti, e riuni-sce tutti gli attori del dramma: l’istitutrice, punto focale primario, e le due coppie dei bambini e dei fantasmi, punti focali secondari. Questo episodio, che sfrutta magistralmente il meccanismo del cabinet de miroirs in tutte le sue potenzialità, è a sua volta il riflesso di un episodio precedente, la cui ite-razione costituisce qui il punto di partenza per un ulteriore e più complesso sviluppo. Per la seconda volta infatti, l’istitutrice trova il letto di Flora vuo-to e la bambina intenta a scrutare fuori nella notte. A differenza della volta precedente però, ora la piccola non sembra accorgersi del suo arrivo e, con-clude l’istitutrice, è dunque senz’altro faccia a faccia con il fantasma di Miss Jessel: “There was a figure in the grounds – a figure prowling for a sight, the visitor with whom Flora was engaged”34. La decisione che prende a questo

punto l’istitutrice determina una situazione narrativa simile a quella che in uno degli episodi precedenti l’aveva spinta a mettersi al posto di Quint per guardare dentro la casa, nel tentativo sempre vano di appropriarsi della vi-sione altrui: “What I, on my side, had to care for was, without disturbing her, to reach, from the corridor, some other window turned to the same quarter”35. La stanza in cui entra l’istitutrice è situata un po’ più in basso

ri-spetto alla finestra di Flora, proprio all’interno della torre su cui era apparso Quint per la prima volta. Come Flora, l’istitutrice incolla dunque il volto al vetro della finestra e vede una persona sul prato, “diminished by distance, who stood there motionless and as if fascinated”36. La persona non guarda

però nella direzione della finestra di Flora, e nemmeno verso l’istitutrice,

33 Ibid., 184. 34 Ibid., 194. 35 Ibid., 192-194. 36 Ibid., 196.

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ma più in alto, verso la torre: “There was clearly another person above me – there was a person on the tower”37. Nello stesso momento in cui l’istitutrice,

seguendo la direzione dello sguardo della persona nel prato, si rende conto che c’è qualcun’altro sulla torre, si accorge anche che la persona sul prato non è affatto quella che aveva immaginato: “The presence on the lawn – I felt sick as I made it out – was poor little Miles himself”38. Come nella

pri-ma storia del prologo (fig. 1) e nell’episodio in cui troviamo l’istitutrice e Mrs. Grose separate dal vetro della finestra (fig. 2), il riflesso del fantasma di Miss Jessel, materialmente assente, è qui innanzi tutto proiettato dalla convergenza di due sguardi: quello dell’istitutrice e quello di Flora. Come nell’episodio della prima apparizione di Quint però, interviene a questo punto una deviazione dell’asse dello sguardo dell’istitutrice, che si sposta dalla traiettoria di quello di Flora per seguire quello della figura sul prato, diretto in alto verso la torre. Improvvisamente, appare così il riflesso dell’al-tro fantasma, Peter Quint, ormai automaticamente associato alla torre ma anch’esso materialmente assente dal testo. Infine, nello stesso istante in cui appare, il riflesso di Quint determina il riconoscimento della figura sul pra-to: non già Miss Jessel “rimpicciolita dalla distanza”, ma Miles, davvero piccolo nel giardino illuminato dalla luna (fig. 3).

37 Ibid. 38 Ibid.

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Così, il cabinet de miroirs si riempie di ombre che si avvicendano in un’inquietante pantomima: lo sguardo di Flora proietta il fantasma di Miss Jessel, che l’istitutrice ed il lettore possono soltanto immaginare, mentre il fantasma di Quint appare proiettato dallo sguardo della figura sul prato, un oggetto assente la cui presenza si rivela nel riflesso di uno sguardo che è a sua volta uno spazio bianco. Alla fine, in un ultimo sorprendente giro di vite, sarà proprio la presenza invisibile di Quint sopra la torre a rivelare la vera fonte dello sguardo che l’ha materializzata, mettendo improvvisamen-te in gioco anche Miles, la cui presenza era stata tuttavia esplicitamenimprovvisamen-te esclusa dall’istitutrice all’inizio del racconto (“it wasn’t the visitor most concerned with my boy”39), e creando così una configurazione di coppie

specularmente incrociata: Flora e Miss Jessel, Peter Quint e Miles, dove i due fantasmi rimangono ancora una volta uno spazio vuoto generato dalla visione impenetrabile dei bambini (fig. 4).

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4.

La finestra ritorna infine nella conclusione della novella, quando Peter Quint appare per l’ultima volta dietro il vetro per tentare di impedire a Mi-les di confessare e di salvare così la sua anima. Questa volta, essa diventa però funzionale alla ricostituzione dell’ordine messa in atto nella conclu-sione del racconto, recuperando un ruolo più tradizionale di separazione fra il mondo dei vivi e quello dei morti, fra il bene e il male. Determinata ad ottenere da Miles la confessione che dovrebbe salvarlo, l’istitutrice lo in-chioda dunque con le spalle al vetro, per impedirgli di vedere la figura di Peter Quint, comparsa “like a sentinel before a prison”, “close to the glass and glaring in through it”, mostrando “once more to the room his white face of damnation”40. Man mano che Miles comincia a raccontare

fram-menti sparsi della sua storia di corruzione e di possessione, l’istitutrice mantiene lo sguardo “on the thing at the window and saw it move and shift its posture” come “a baffled beast”41, finché si rende conto che Miles non

vede nulla al di là del vetro:

“No more, no more, no more!” I shrieked to my visitant as I tried to press him against me. “Is she here?” Miles panted as he caught with his sealed eyes the direction of my words […]. It’s there – the coward horror, there for the last time!” […] “It’s he ?” I was so determined to have all my proof that I flashed into ice to challenge him. “Whom do you mean by ‘he’?” “Peter Quint – you devil!” His face gave again, round the room, its convulsed supplication. “Where?”42

Per l’ultima volta, la finestra mostra all’istitutrice l’orrenda presenza di Quint: “‘What does he ever matter now, my own? – what will he ever mat-ter? I have you,’ I launched at the beast, ‘but he has lost you for ever!’ Then for the demonstration of my work, ‘There, there!’ I said to Miles”.43 Miles

40 Ibid., 322. 41 Ibid., 324. 42 Ibid., 332-334. 43 Ibid., 334.

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si volta, ma al di là del vetro continua a non vedere nulla, e crolla fra le braccia dell’istitutrice. La finestra è ormai libera dal fantasma e il finale è del tutto coerente con la narrazione apparentemente lineare della posses-sione dei bambini: “We were alone in quiet day, and his little heart, dispos-sessed, had stopped”44.

Il modello tridimensionale del testo proposto da questa wonderbox tro-va infine il suo ultimo elemento costitutivo in un carillon con una balleri-na che gira su sé stessa, contenuto nella più piccola delle scatole cinesi, al centro delle pareti rivestite di superfici riflettenti.45 Attraverso il

movimen-to ipnotico della ballerina che gira su sé stessa, il carillon incardina i mec-canismi segreti del racconto all’istanza narrante stessa: l’istitutrice, il cui riflesso è catturato dal gioco di specchi come quello di ogni altro elemento della storia, ma che allo stesso tempo quel gioco lo produce e lo organizza. Attorno alla figura solitaria della ballerina, su una piattaforma concentrica, trovano posto Miles e Peter Quint, Flora e Miss Jessel: le due coppie spe-culari dei bambini e dei fantasmi girano in senso opposto e ad una velocità diversa dalla ballerina, figure mute ed autosufficienti che riflettono la loro inquietante quadriglia sulle pareti di specchi del racconto, incuranti dell’i-stitutrice impegnata nella propria solitaria “danza del terrore”46.

44 Ibid. Il corsivo è nostro.

45 La figura del carillon appare nell’intelligente lettura della novella offerta dallo splendido adattamento cinematografico diretto da Jack Clayton (The Innocents, Twentieth Century Fox, 1961). Oggetto prezioso e desueto come la tabacchiera, il

carillon viene qui ritrovato in soffitta dall’istitutrice: si tratta di un regalo che

Miss Jessel aveva fatto a Flora, simbolo del loro legame, e da esso proviene l’in-quietante leit-motiv musicale del racconto filmico che segnala la comunicazione dei bambini con i fantasmi.

46 Nel celebre saggio che per primo segnalava la presenza di una mistificazione na-scosta nel testo jamesiano, Edna Kenton invitava il lettore ad osservare meglio l’affidabile “exquisite little governess” che racconta la storia, e a spingere lo sguardo “beyond the outer circle of the story where the children and ghosts dance together, toward any discerned or discernible inner ring where another figure may be executing some frantic dance of terror”. (Edna Kenton, “Henry James to the Ruminant Reader: The Turn of the Screw”, in Gerald Willen, a cura di, A

Case-book on Henry James’s “The Turn of the Screw”, (New York: Thomas Y.

(15)

John Atkinson,

Under the Noonbe-ams (1882).

“Come una picco-la presa di tabacco che si può appena stringere fra l’in-dice e il pollice, estratta da una vecchia tabacche-ria d’argento.”

(16)

Prologo. Prologo e storia: cabinet de miroirs.

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