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A proposito della ricezione di Dante nel Quattrocento spagnolo

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Academic year: 2021

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Dante oltre i confini

La ricezione dell’opera dantesca

nelle letterature altre

a cura di

Silvia Monti

Edizioni dell’Orso

Alessandria

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© 2018

Copyright by Edizioni dell’Orso s.r.l. via Rattazzi, 47 15121 Alessandria tel. 0131.252349 fax 0131.257567 e-mail: info@ediorso.it

http://www.ediorso.it

Redazione informatica e impaginazione a cura di Francesca Cattina (francesca.cattina@gmail.com)

Grafica della copertina a cura di Paolo Ferrero (paolo.ferrero@nethouse.it)

È vietata la riproduzione, anche parziale, non autorizzata, con qualsiasi mezzo effet-tuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno e didattico. L’illecito sarà penalmen-te perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22.04.41

ISBN 978-88-6274-835-3

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NEL QUATTROCENTO SPAGNOLO Paola Calef

Università di Torino

In questo contributo tratterò alcuni aspetti della ricezione di Dante nel Quattrocento spagnolo, non senza uno sguardo al primissimo Cinquecento, per poi concentrarmi sulla prima traduzione completa della Commedia, nata nell’ambiente del noto poeta, mecenate e uomo d’armi, Íñigo López de Men-doza (1398-1458), meglio conosciuto come Marchese di Santillana.

1. Dante in Spagna

Dal punto di vista della geografia della letteratura, occorre sottolineare la rilevanza che per la ricezione di Dante in area iberica dovette avere la corte di Barcellona del primissimo Quattrocento. Se, infatti, nel quadro europeo la pe-nisola iberica produsse precocemente due traduzioni complete della Comme-dia, in castigliano la prima e in catalano la seconda, i traduttori, così come il committente della traduzione castigliana, furono tutti partecipi, per quanto in diversa misura e forse anche in diversi momenti, dell’ambiente umanista svi-luppatosi alla corte di Martín el Humano (1356-1410) (Alvar 2010: 341-342).

È bene, inoltre, precisare che parlare di Dante in Spagna nel Quattrocento vuol dire sostanzialmente parlare della Commedia. Ben poco è riconducibile alla Vita nova o alle Rime, mentre del resto della sua produzione non vi è, in-vece, traccia alcuna (Alvar 1990: 33 e ss.; Alvar 2010: 340; Formisano 2002).

L’equazione ‘Dante=Commedia’ si rispecchia nelle intitolazioni di alcu-ni manoscritti danteschi approdati, rielaborati o prodotti nella Spagna del Quattrocento. Si tratta di un gruppo di manoscritti, attualmente conservati a Madrid presso la Biblioteca Nacional de España1 che riflettono una lettura

articolata e approfondita del capolavoro dantesco nel XV sec. Sul dorso di questi volumi, così come nelle carte iniziali, la dicitura Dante o el Dante sta, infatti, per la Commedia.

1 Di questo gruppo di codici si possono consultare le ottime versioni digitali a

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Testimone di rilievo della Commedia e latore della sua prima traduzione castigliana, il ms. 10186 della Biblioteca Nacional di Madrid presenta, per esempio, sul dorso il titolo Dante de mano, in una prima scrittura, cui solo in un secondo momento si aggiunge, a quel che è dato vedere, l’esplicitazione Comedia. Inoltre, nella prima carta dello stesso ms. – che sappiamo essere stata sostituita in area castigliana nel XV –, è annotato Dante en toscano.

Ancora, tra gli scaffali della Biblioteca Nacional, il ms. 10196, privo della prima carta, ma latore della versione castigliana del commento di Benvenuto da Imola al Purgatorio, realizzata da Martín González de Lucena, presenta sul dorso due intitolazioni apposte da due mani diverse:

1. Glosa / del / Dante / por / el M(aest)ro / Lucena

2. Glosae(n) / Roma(n)ze / del maes[…] / […] / sob(r)e / eldante / demano Nella stessa biblioteca il ms. 10207, recante la traduzione castigliana del commento di Pietro Alighieri della Commedia, mostra sul dorso la seguente scrittura: Glosa del / Dante e(n) Ro / mance de / Mano. Nel primo foglio di guardia è poi annotato: Comento del Dante en Castellano completo.

Infine, e ancora nella Biblioteca Nacional, il ms. 10208 con la versione castigliana del commento di Benvenuto da Imola ai canti I-VIII2, reca sul

dorso la seguente indicazione manoscritta: Glossa Del / Dante / Demano; e poi nella prima carta è apposta l’indicazione Glossa del Dante.

Se i codici ora menzionati provengono tutti, come è noto e come ricorde-remo in questo excursus, da un unico milieu, ovvero quello del Marchese di Santillana, anche il ms. 3658, di fattura quattrocentesca, con nota di possesso del conestabile di Castiglia Juan Fernández de Velasco (Inventario general: X, 146) e contenente la Commedia con il commento di Guinforte Barzizza fino al XV canto, presenta – quanto alle intitolazioni del volume – un quadro analogo. Esso ha, infatti, inciso nel dorso della rilegatura del volume Dante con comento, mentre nella prima carta figura il titolo, in scrittura umanistica libraria, Dante3.

Tornando, ora, ad alcune considerazioni generali sulla ricezione di Dante in Spagna, anche sulla scorta di quanto mostrano i codici sopra menzionati, è evidente come la diffusione in area iberica dei testimoni della Commedia,

2 Il commento al canto VIII è tuttavia incompleto nel codice.

3 Diverso è il quadro che si presenta in altri testimoni trecenteschi della Commedia

giunti in area iberica ma qui non fatti oggetto di interventi o aggiunte come è il caso del noto codice madrileno Vitr/23/3. Nel dorso della rilegatura reca l’indicazione: Dante,

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dapprima, e l’elaborazione di traduzioni di diversa natura, poi, siano entrambi fenomeni che si accompagnano alla circolazione dei commenti alla Comme-dia, a loro volta oggetto di traduzione.

Il capolavoro dantesco, infatti, come ben sappiamo, muove i suoi primi passi portando con sé i commenti esplicativi come «piccole conchiglie appic-cicate alla carena», come ebbe a dire il poeta Osip Mandel’štam (1891-1938) (Mandel’štam 1994: 150; Bellomo 2001: 416; Mazzucchi: XXI; Calef 2014: 63-64) e l’esegesi dantesca è considerata consustanziale al testo anche dalla critica contemporanea, se possiamo affermare, con Claudio Giunta, (2009) che «La Commedia è forse l’unica grande opera letteraria occidentale che non può essere letta senza un commento».

Ebbene, la necessità del commento è pienamente riscontrabile nel contesto di diffusione e di circolazione in oggetto, geograficamente e culturalmente lontano e a circa un secolo di distanza. Secondo Carlos Alvar, le difficoltà che presentava la Commedia in area iberica dovevano essere molte, a partire dai due istituti retorici che la caratterizzavano, endecasillabo e terzina incatenata, per nulla radicati nella Penisola. Inoltre, considera, ancora, Alvar:

Al lector castellano del siglo XV debía parecerle el libro de Dante un rarísi-mo producto por su lengua vulgar (frente al latín), por el contenido rarísi-moral que se desprendía del uso alegórico, ajeno a los modelos franceses, por la forma métrica utilizada […] La presencia del verso llevaba a pensar en una obra de ficción; la lengua, en una obra poco profunda. La lectura del texto desmentía esta impresión inicial, y como es previsible, producía inquietud y desconcier-to entre el público: era más seguro recurrir a los comentarios en latín (Alvar 2010: 340).

Talora è persino ipotizzabile che, laddove si ravvisino echi di Dante o del-la Commedia, nel Quattrocento spagnolo, si abbia a che fare con autori che in realtà non l’avevano affatto letta. Non è certo il caso del Marchese di San-tillana, come credo di aver almeno in parte dimostrato in un mio precedente lavoro (Calef 2014), ma sembra esserlo per quel che concerne altri imitatori o propalatori del nome del poeta fiorentino, di cui ci parla in questo stesso volume Andrea Zinato.

Inoltre, a fronte di un diverso profilo della traduzione catalana, in ambito più specificatamente castigliano il precoce apparire di traduzioni – parziali o complete che fossero – si coniuga con modalità strumentali contigue all’eser-cizio del commento. La traduzione in tale contesto non si è ancora compiuta-mente svincolata e definita rispetto alla pratica commentaristica delle scuole medievali, dove era di prassi, cito ancora Carlos Alvar, «el comentario de textos y la explicación de los autores» (Alvar 2010: 11) e dove per analizza-re l’intero contenuto di un’opera, oltanalizza-re che per esercitarsi nella grammatica, «uno de los ejercicios consistía en repetir lo mismo que había dicho el autor

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estudiado, pero con otras palabras» (Alvar 2010: 11)4. Così, sempre secondo

Alvar, nel Medioevo non c’è una consapevolezza della distinzione tra la pra-tica del commento e quella della traduzione, che si emancipa dall’operazione scoliastica solo attraverso un processo che, pur iniziando nel XIII secolo, vediamo concludersi, almeno per l’ambito castigliano, soltanto alla fine del XV sec (Alvar 2010: 11).

Il ms. madrileno 10186 che ci trasmette la traduzione della Commedia realizzata intorno al 1427 da Enrique de Villena per il Marchese di Santillana, nella quale si ravvisa quella che sembra essere la prima traduzione castigliana e la prima traduzione nelle lingue vernacole5, dispiega agli occhi dello

stu-dioso tale processo ancora in atto (Calef 2000; 2007; 2013)6. Ed è proprio in

questa mancanza di una soluzione di continuità tra commento e traduzione che occorre modulare la portata di un primato di cui potrebbe fregiarsi la Spagna. Nel primo quarto del Quattrocento si sono già date diverse inter-pretationes in latino della Commedia, tanto che si potrebbe indicare quale prima traduzione in senso proprio del capolavoro di Dante la versione latina realizzata nel 1416 dal frate minore Giovanni Bertoldi da Serravalle durante il Concilio di Costanza.

2. Le antiche traduzioni della Commedia in area iberica

Giunti a questo punto e alla luce delle considerazioni appena fatte, pos-siamo addentrarci nell’ambito iberico per mettere in ordine i dati relativi alle più antiche traduzioni della Commedia (Schiff 1899; Alvar 2010: 341-342; Calef 2013).

Per quel che concerne il XV secolo ci sono pervenute le seguenti traduzio-ni complete di area iberica:

1. Traduzione castigliana realizzata da Enrique de Villena (1384 c.-1434) tra il 28 settembre 1427 e il 10 ottobre del 1428 per il Marchese di Santillana7.

2. traduzione catalana in versi realizzata da Andreu Febrer (1375c.-1444 ante quem), terminata prima del 1 agosto 14298.

4 E del resto Umberto Eco così definiva la traduzione nel suo celebre saggio Dire

quasi la stessa cosa (Eco 2003).

5 Al catalano Andreu Febrer va, invece, come sottolinea Andrea Zinato nelle pagine

di questo volume, il merito di aver redatto, in assoluto, la prima traduzione in versi del capolavoro dantesco.

6 In questo lavoro riprendo parte delle informazioni presenti in Calef 2007. 7 Madrid, BNE, ms. 10186.

8 San Lorenzo del Escorial, Biblioteca del Escorial, ms. II. L. 18. Il manoscritto

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Dallo stesso ambito culturale e tenendo conto di alcune propagazioni cin-quecentesche, si segnalano le seguenti traduzioni parziali o frammentarie:

1. traduzione in prosa castigliana di Inf. I, anonima, con prologo, breve commento e testo italiano. Datazione: 1456 post quem9.

2. traduzione castigliana in coplas de arte mayor di Pedro Fernández de Villegas (1453-1536) dell’Inferno e del primo canto del Paradiso, realizzata tra la fine del XV e i primi anni del XVI10.

3. Traduzione castigliana anonima del Purgatorio e di Par. I-II 1-72, con doppia versione di Par. II 1-84 e traduzione del prologo e del commento di Cristoforo Landino, della prima metà del XVI11.

4. Due frammenti in traduzione castigliana trasmessi da un codice miscel-laneo, databili alla metà del XV12.

La traduzione attribuita a Villena sembra precedere di circa un anno la traduzione catalana in terza rima di Andreu Febrer, per quanto, a ben vedere, in merito al lavoro di Febrer abbiamo solo il dato ante quem fornitoci dall’ex-plicit del manoscritto dell’Escorial.

A noi qui interessa sottolineare, specificando quanto già accennato in aper-tura, come la corte di Barcellona possa essere stata, in ultima analisi, il punto di irradiazione delle uniche traduzioni complete quattrocentesche del poema dantesco. Il poeta Andreu Febrer era stato presso la corte di Barcellona al servizio di Martín I el Humano e poi di Alfonso V il Magnanimo d’Aragona

Alicherii, poete de Fflorencia, traslatatus et scriptus manu propria ab Andrea Ffebrua-rii, algutzirio dominis Alfonsi, Dei gratia Regis Aragonum, de rittimis seu versibus vulgaribus. Gracias altissimo Deo et gloriose Matri sue virgini Marie. Completum fuit prima die mensis augusti anno a nativitate Domini MCCCCXXVIIII, in Civitate nobili Barchinone. Amen». Cito dall’edizione di Anna Maria Gallina, (Febrer 1983: 39-40). Un ulteriore testimone manoscritto di questa traduzione in versi si trovava fino al 1836 a Valencia presso il monastero di San Miguel de los Reyes, ma nel 1869 Vidal y Valen-ciano lo dichiarava già perduto (Febrer 1983: 40; Gallina 1957; Badia Margarit 1959).

9 San Lorenzo del Escorial, Biblioteca del Escorial, ms. S. II. 13.

10 New York, Hispanic Society, B. 2813. Questa traduzione sembra a tutti gli effetti

la stessa stampata da Fadrique Alemán a Basilea il 2 aprile 1515.

11 Se ne conservava un testimone presso la biblioteca privata della Contessa di

Ca-stañeda, almeno fino al 1901, ma era già irreperibile nel 1967.

12 Cambridge, Fitzwilliam Museum, McClean 180. Su cui si veda Charles B.

Faulhaber et all. (1984), Bibliography of Old Spanish Texts, Madison, Hispanic Se-minary of Medieval Studies, n. 101 e Carlos Alvar 2010: 342, che fornisce le seguenti indicazioni: «dos breves citas textuales […] contenidas en un folio de un códice mi-sceláneo de mediados del siglo XV (1442?); son traducción distinta de las conservadas, pero nada indica que sean frambento de una empresa de mayor alcance».

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(1396-1458), per il quale aveva tradotto appunto la Commedia. Nel 1408 vi si trovava Enrique de Villena, zio del Magnanimo13, con un ruolo importante nel

Concistori de la Gaya Sciència, mentre il Marchese di Santillana vi risiedette almeno dal 1412 al 1418.

Maximilian Kerkhof non escludeva che Santillana e Febrer si fossero co-nosciuti (Santillana 1987: 13), ma quandanche non si fosse data tale circo-stanza, possiamo concludere, con Carlos Alvar, che Febrer, Villena e Santil-lana «participaron del ambiente humanista de la corte barcelonesa, muy por delante del castellano» (Alvar, 2010: 242).

Quanto alla traduzione frammentaria dell’Escorial14, che, lo ricordiamo, è

limitata al primo canto dell’Inferno, è bene considerare che essa si rivela par-te di un parapar-testo volto all’avviamento alla lettura del capolavoro danpar-tesco, paratesto che doveva con tutta evidenza accompagnare un testimone della

Commedia15. In esso la traduzione viene ad essere preceduta da un prologo

e da un breve commento, che – quanto alla complessa tradizione scoliastica di cui è oggetto il capolavoro dantesco – sembra attingere dal commento di Benvenuto da Imola (Morreale 1967: 104-106). L’anonimo traduttore dichia-ra in questi preliminari di aver avuto intenzione di tdichia-radurre solo i primi tre canti. Pure, da questo obiettivo è, come spiega, costretto a desistere «porque lo pasado va más prolixo de lo que creía» (c. 41r). Il suo avviamento alla lettura del testo in italiano prevede poi che si fornisca al lettore castigliano «algund poquillo del modo de escriujr ytaliano y del pronunçiar, porque más façilmente, quien nunca lo oyó, la pueda leer & pronunçiar» (Penna 1965: 114). Si tratta di un testo assai precoce nella sua natura contrastiva, didattica e linguistica che precede di circa due secoli la nota appendice grammaticale dell’edizione veneziana (1553) della Celestina in spagnolo a beneficio dei lettori italiani (Lefèvre 2016: 139-156).

13 I rapporti tra Enrique de Villena e il nipote Alfonso non furono in tutto

inappun-tabili, anzi giunsero nel 1417 a una rottura che motivò il ritorno di Villena in Castilla, ma ciò non toglie che almeno fino quel momento il Magnanimo nutrisse per lo zio un certo rispetto sul piano intellettuale e culturale, come riepiloga Pedro Cátedra (Villena 1994-2000: I, XVIII).

14 Per una descrizione del codice si veda Zarco Cuevas, Catálogo de los

manuscri-tos castellanos de la Real Biblioteca del Escorial, II, Madrid 1926, p. 384. La

traduzio-ne e il prologo, ma non il commento, sono pubblicati in Penna 1965: 111-127.

15 Che la traduzione e il prologo anonimi accompagnassero un testimone della

Commedia è evidente dal momento che il traduttore nell’aggiungere al suo breve

lavo-ro la traduzione della terzina Inf. XXVIII 16-18, dichiara «Este tresete hallarás en el canto XXVIII, con señal ·: ·» (c. 21). Certo il dato si offre agli studiosi come elemento per l’identificazione del codice cui si riferiva l’anonimo traduttore. Quanto a questo, Penna (1965: 92-93) ci informa di aver controllato i manoscritti 10186 e Vit. 23-2 della Biblioteca Nacional de Madrid e di non avervi riscontrato la presenza di tale segno.

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La traduzione è poi disposta accanto al testo italiano di Inf. I, che, pre-sentando un alto livello di corruzione testuale, lascia ipotizzare di essere sta-to esemplasta-to da un parlante castigliano e di non essere il prosta-totessta-to della traduzione16. Il termine post quem sopra riportato si fonda sul riferimento

al geografo greco Strabone che Mario Penna aveva individuato nel prologo del manoscritto: «Córdova [la edificó] Marçello, segund dize Strobeniz, c libro»17. Ora, come ricordava lo stesso Penna, la traduzione latina dell’opera

di Strabone, commissionata da papa Nicola V a Guarino Veronese, fu termi-nata, nel 145618. Ad ogni buon conto, la traduzione frammentaria della

Com-media trasmessaci dal codice escurialense, come si sa, è indipendente dalla precedente versione di Villena (Bargetto 1997: 30-35; Calef 2013: 115-120), che il traduttore dell’Escorial, a dire il vero, pare ignorare.

Non mostra di conoscere il lavoro di Villena neppure Pedro Fernández de Villegas (1453-1536), arcidiacono di Burgos, che negli ultimi anni del Quat-trocento se non già ai primi del Cinquecento dedica a Doña Juana de Aragón, figlia naturale di Fernando il Cattolico, la sua traduzione, redatta in coplas de arte mayor e accompagnata da un commento riconducibile a quello di Cristo-foro Landino19. Eppure Villegas aveva legami di parentela con il segretario

del Marchese di Santillana, quel Diego de Burgos († 1515 ante quem), che nel Triunfo del marqués de Santillana citava e imitava Dante (Gutiérrez Carou, 1996: 43-45).

L’opera di Villegas fu, invece, ripresa e continuata da un anonimo tradut-tore che ancora nella prima metà del Cinquecento tradusse in quintillas, e in parte in terzine, il Purgatorio e Par. I-II 1-72. Questi fornì di una doppia versione Par. II, per quanto incompleta (Par. II 1-84)20, nonché la versione

ca-16 In merito, Mario Penna (1965: 95-96) considera: «el copista – que evidentemente

no entendía el italiano – escribe en v. 12. “que la verate via abondy” y el traductor, cor-rectamente: “que la verdadera vía desanparé”; y en el 13: “ma pochio fuy a pie de un cholle giochto”, que tampoco tiene sentido en italiano, mientras que la versión española corresponde al texto correcto: “mas después que yo fui a pie de un collado allegado”».

17 In realtà il passo citato si trova nel III libro.

18 Mario Penna (1965: 97-99) segnalava, inoltre, che nella biblioteca del Escorial

si trova un codice dal titolo Strabonis de situ orbis Libri XVII, che poté essere fonte dell’anonimo traduttore.

19 Per la tradizione manoscritta e a stampa della traduzione di Villegas e la

biblio-grafia relativa, si veda Morreale 1967: 106-107. L’originale manoscritto della traduzio-ne di Villegas si trova traduzio-nella biblioteca dell’Hispanic Society sotto la segnatura ms. CIV. (Rodríguez Moñino – Brey Mariño 1964: 52).

20 Si veda Uhagón 1901, ove si pubblica la traduzione di Purg. I, V, VI, VIII, XV,

XVIII, XXI, XXIV, XXXII e i canti tradotti del Paradiso, compresa la seconda versio-ne di Par. II. Si veda anche Schiff 1905: 313-316 e Morreale 1967: 111.

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stigliana del prologo e del commento di Cristoforo Landino, a dimostrazione dell’inscindibile legame tra la Commedia e il suo commento. Il manoscritto apparteneva nel 1901 alla biblioteca privata della Contessa di Castañeda, fi-glia del Marchese di Monte Alegre, ma nel 1967 Margherita Morreale (1967: 111) non era riuscita a rintracciarlo.

Restando nelle immediate propaggini del Quattrocento spagnolo, si ha poi notizia di una ulteriore traduzione completa della Commedia in coplas de arte mayor ad opera di Hernando Díaz. Questi, nel prologo della Vida y excelentes dichos de lo más sabios filósofos que uvo en este mundo (1520), dichiara di aver tradotto «las tres cánticas de la Comedia», oltre a fare riferimento alla traduzione di Pedro Fernández de Villegas, quando parla della «primera parte, del Infierno, que traduzió un arcediano de Burgos». Hernando Díaz conclude, poi, il proprio prologo, inserendo, «para que por el principio se juzgara lo de dentro» (Penna, 1965: 102), alcuni frammenti della propria traduzione, ovvero due stanze di ciascuna cantica, quanto al resto Margherita Morreale ebbe già a precisare che la traduzione di Herando Díaz non era localizzabile. Dai dati qui riepilogati emerge, io credo, la peculiarità del lavoro di En-rique de Villena nel quadro delle traduzioni antiche della Commedia. La sua è, non solo l’unica completa giunta sino a noi, ma – aldilà di questo aspetto accidendale – presenta, così come il frammento dell’Escorial, il profilo di una traduzione di servizio, in prosa, predisposta per accompagnare il testo italiano. Le altre traduzioni pervenute o di cui abbiamo notizia sembrano, infatti, essere state tutte traduzioni che oggi diremmo di intento letterario, in versi, volte a sostituire l’originale e destinate a circolare come opere a sé stanti; si tratta, insomma, di lavori che mostrano la realizzazione di quel lento processo che ha portato all’autonomia della traduzione rispetto al commento. Un processo che troviamo concluso precocemente in area catalana e che in ambito castigliano troviamo maturato soltanto nel Cinquecento. Per quel che concerne di Enrique de Villena, formatosi alla corte signorile del nonno, don Alfonso de Aragón, e in stretto contatto con la corte di Barcellona (Villena, 1994-2000: I, XIII), egli mostra di declinare le possibilità offerte dalla tra-duzione adattandole di volta in volta ai diversi contesti di commitenza e di funzione.

3. La traduzione di Villena

Enrique de Villena (1384 c.-1434), come è noto, lavora sulla Commedia intorno al 1427-1428, su committenza del Marchese di Santillana, e la sua tra-duzione è conservata dal solo ms. 10186 della Biblioteca Nacional di Madrid accanto al testo italiano (Schiff 1899: 269-307; Pascual-Santiago Lacuesta 1983: 391-402; Ciceri 1991: 125-27; 158-59; Calef 2013).

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Il manoscritto unico di Madrid è di estremo interesse, sia per il fatto di conservare diversi elementi che ci lasciano intravvedere il modus operan-di operan-di Vilena traduttore, sia perché vi possiamo riconoscere la proiezione del capitolo della fortuna di Dante in Spagna di cui fu promotore il Marchese di Santillana, il quale lo ricordiamo, non solo commissionò la traduzione della Commedia, presente in questo manoscritto, ma si procurò e si fece tradurre anche alcuni degli antichi commenti danteschi (Alvar 1990: 23-41; Castaño 1996: 263-273; Rubio 1995: 243-251; Russell 1985; Schiff 1905). Ancora Santillana, come segnala Andrea Zinato nelle pagine di questo volume, pro-mosse – ormai dopo la morte di Enrique de Villena – anche la traduzione ca-stigliana delle Vite di Dante e Petrarca di Leonardo Bruni, intitolata El libro de la vida et estudios et costumbres de Dante et de miçer Françisco Pertrarca (BNE, ms. 10171).

Possiamo quindi affermare che il Marchese si adoperò per reperire quanti più materiali possibile intorno alla figura di Dante e alla sua Commedia, un reperimento che sembra a tutti gli effetti finalizzato alla lettura di Dante nella lingua toscana.

Il manoscritto madrileno che, in quanto testimone dantesco è di fattura italiana ed è databile al 1354 (De Robertis 1962: 196-198; Dante Alighieri 1994: 75-76), accolse, ancora in Italia, un apparato di chiose latine ricon-ducibili al gruppo dell’Anonimo latino (Bellomo 2004). Tuttavia, l’accumu-lazione delle scritture marginali, che favorissero la comprensione del testo dell’Alighieri, proseguì in area iberica, dove, ai primi del Quattrocento un chiosatore spagnolo vi esemplò un secondo apparato di note prevalentemente latine legate al commento di Guido da Pisa (Bellomo 2004; Calef 2013). Vi vennero, inoltre, aggiunti altri paratesti, ma in castigliano. È il caso di alcune didascalie che marcano – riferendosi all’originale italiano – il discorso diretto o la presenza di figure retoriche; o ancora di sporadici tentativi di traduzione, forse riconoscibili come note preparatorie e ascrivibili allo stesso Enrique de Villena (Ciceri 1991: 141; Cátedra 1988: 127-140; Calef 2013). A questi paratesti si aggiunse poi la traduzione della Commedia.

Un altro gruppo di chiose castigliane, accompagnate da alcuni segni, come sigle o maniculae, sono poi attribuibili allo stesso Marchese di Santillana, che sembra essersi cimentato in qualche puntuale tentativo di traduzione o nell’interpretazione di qualche passo, oltre a mettere in evidenza luoghi di particolare interesse. Questi interventi dimostrano che Santillana leggeva il testo di Dante nella lingua originale, né mancano elementi che testimoniano di una sua dimestichezza con l’italiano (Formisano 2004: 41). Il codice dan-tesco di Madrid era dunque un libro di lettura e di lavoro, su cui Santillana lesse il testo toscano della Commedia grazie a una serie di marginalia che qui abbiamo sinteticamente richiamato e in esso la traduzione di Villena figura come uno dei tanti paratesti di supporto alla lettura di Dante.

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La versione castigliana del codice madrileno assume caratteristiche pecu-liari nel quadro della traduzione quattrocentesca in area iberica, in generale, ma anche nel quadro dell’attività di Villena traduttore, che, come sappiamo, realizzò contestualmente anche la traduzione spagnola dell’Eneide, traduzio-ne accompagnata da un prologo e da un commento e della quale conoscia-mo attualmente cinque testiconoscia-moni quattrocenteschi (Villena 1994-2000: vol. I, XXII-XXIII.

La traduzione della Commedia, invece, ci è giunta su manoscritto unico ed è sprovvista di firma e di scritture preliminari. Certamente il foglio esterno del quaderno iniziale venne sostituito e copiato da una mano ancora quattro-centesca ma più tarda, si può tuttavia escludere che la prima carta trasmettes-se un prologo o una lettera dedicatoria relativa alla traduzione, dal momento che doveva contenere nella colonna centrale il testo italiano della Commedia e, almeno a giudicare dalla seconda carta, anche glosse e annotazioni prece-denti l’arrivo in Spagna del codice e, da ultimo, la traduzione.

Come la versione castigliana del Teseida di Giovanni Boccaccio, realiz-zata verosimilmente sempre per il Marchese di Santillana, pervenutaci senza scritture preliminari (Boccaccio 1996: 40-42), la traduzione della Commedia dovette essere concepita per l’uso privato del Marchese di Santillana e all’in-terno di un rapporto personale diretto che non richiedeva la redazione di un prologo o di una dedicatoria.

La sua funzione strumentale è riflessa nella mise en page. Essa, infatti, nel manoscritto è disposta a imitazione del verso, pur essendo in prosa. I copisti vanno a capo alla fine della traduzione di ciascun verso, a meno che, per esi-genze di spazio, non debbano marcare la fine del verso con un tratto verticale o con un punto. Una linea bianca separa, poi, la traduzione di ciascuna terzina dalla precedente e dalla successiva, mentre ogni pagina contiene lo stesso numero di terzine originali e tradotte. La volontà dei copisti di riversare la tra-duzione di pari passo con il testo dantesco è evidente ogni qualvolta abbiano commesso un errore, poiché gli emendamenti rispondono in modo manifesto a tale esigenza (Pascual 1974: 31-32; Calef 2007 e 2013).

Un ulteriore accorgimento di questa mise en page è la numerazione delle terzine italiane e delle corrispondenti porzioni di traduzione, accorgimento questo che garantiva, anche laddove la traduzione non poteva affiancare il te-sto originale (data la presenza di apparati di chiose precedenti la traduzione), una diretta corrispondenza tra i due e la possibilità, per il lettore castigliano, di passare in ogni momento assai agevolmente dall’una all’altra.

Ora, l’operazione compiuta da Villena e richiesta dal Santillana rientra a pieno titolo in quel tipo di attività traduttiva che, nella celebre pagina di Cervantes segnalata da Benvenuto Terracini (1996: 37-108) e da Gianfranco Folena (1991: 13), Don Chisciotte avrebbe poi definito «traducir de lenguas

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fáciles» (Cervantes 2005: 842). E se, nello stesso episodio – siamo nel ca-pitolo LXII della seconda parte-, come riflesso della maturità raggiunta dal sistema culturale di cui è parte, Cervantes fa fare le seguenti considerazioni al suo personaggio

me parece que el traducir de una lengua en otra, como no sea de las reinas de las lenguas, griega y latina, es como quien mira los tapices flamencos por el revés; que aunque se veen las figuras, son llenas de hilos que las escurecen, y no se veen con la lisura y tez de la haz (Cervantes 2005: 842).

sembra chiaro che il Marchese di Santillana, non volendo perdere le «figure» della Commedia, si procurò gli strumenti adeguati per poterle guardare a pie-no. Egli mise insieme, quindi, un piccolo corpus dantesco, che potremmo così ricostruire (Calef 2014: 62-63):

– Il ms. 10186 della Biblioteca Nacional, con il testo italiano e traduzione della Commedia, insieme a rubriche, apparati scoliastici e altri paratesti dan-teschi.

– [Un secondo modello italiano, cui Villena ricorre per la sua traduzione]. – Il ms. 10207 della Biblioteca Nacional, con la traduzione castigliana completa del commento di Pietro Alighieri alla Commedia.

– [Un codice con il commento originale di Pietro Alighieri da cui si eseguì la traduzione].

– Il ms. 10208 della Biblioteca Nacional con la traduzione del commento di Benvenuto da Imola ai primi sette canti e parte dell’ottavo dell’Inferno.

– Il ms. 10196 della Biblioteca Nacional con la traduzione del commento al Purgatorio di Benvenuto da Imola, realizzata per il Marchese da Martín González de Lucena.

– [Almeno un codice con il commento originale di Benvenuto di cui poté servirsi lo stesso Lucena].

Serrata nello scriptorium di Santillana, da un così vivo e pervicace interes-se, la traduzione di Enrique de Villena non sembrava destinata ad avere una più ampia ricezione, tanto che a darne notizia è il solo Villena, nel Prohemio alla traduzione dell’Eneide e in un passo del suo trattato Arte de trobar.

Non ne fa parola, invece, neppure il committente Íñigo López de Mendo-za, che, per contro, menziona la traduzione in versi catalani di Andreu Febrer; né i traduttori successivi della Commedia, come Pedro Fernández de Villegas o come il suo anonimo continuatore (Calef 2013: 89).

A mò di conclusione, ricordo, nondimeno, che esiste un seppur esile in-dizio di un’ipotetica circolazione del lavoro di Villena. Il catalogo della bi-blioteca di Enrico VIII, compilato fra il 1542 e il 1543, contempla, infatti, «Danti’s Works in the Castilian tongue» proveniente dalla collezione libraria

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di Enrico VII, morto nel 1509. Il codice dantesco in castigliano doveva, quin-di, trovarsi in Inghilterra per quella data, elemento, questo, che faceva esclu-dere al germanista e ispanista Arturo Farinelli che si potesse trattare della traduzione di Villegas, terminata intorno al 1513, o di quella, oggi perduta, di Hernando Díaz non ancora diffusa nell’anno 1520. Farinelli, pur congetturan-do per parte sua che avrebbe potuto eventualmente essere stato Pier Candicongetturan-do Decembrio a segnalare al duca Humphrey di Gloucester la traduzione di Vil-lena (Edwards 1864: 152 et ss.; Farinelli 1922: 92-93 e 172-173; González de Amezúa 1951: 87-127, in particolare 102), concludeva:

Con tutta probabilità, il tesoro posseduto da Enrico VII e Enrico VIII era co-pia della versione del Villena; e può ognuno, a corto di documenti, fantastica-re a piacefantastica-re come e per qual tramite giungesse alle genti d’oltfantastica-re Manica, im-maginare che lassù la portassero gli Spagnuoli del seguito di Caterina d’Ara-gona (Farinelli 1922: 92-93).

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