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Missione cultura. Riflessioni sulla 65° edizione dell’Internationale Kurzfilmtage Oberhausen, 1-9 maggio 2019

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https://doi.org/10.6092/issn.2280-9481/9588

Cinergie – Il cinema e le altre arti. N.15 (2019) ISSN 2280-9481

Missione cultura. Riflessioni sulla 65° edizione dell’Internationale

Kurzfilmtage Oberhausen, 1-9 maggio 2019

Elena Marcheschi

* Pubblicato: 16 luglio 2019

Pochi festival al mondo riescono a mantenere saldi gli obiettivi che il Festival Internazionale del Cortome-traggio di Oberhausen (Germania) sostiene da sessantacinque edizioni a oggi. Tra questi scopi resta portante l’idea che il cinema possa e debba essere un mezzo di accrescimento culturale e sociale di qualità, un appara-to produttivo da sostenere con ogni mezzo e a ogni livello, un luogo di sperimentazione del pensiero e delle evoluzioni tecnologiche, un’opportunità di confronto su tematiche e urgenze attuali. Con la consueta lucida passione intellettuale Lars Henrik Gass, direttore del festival, ha tenuto il suo discorso introduttivo sostenendo queste argomentazioni e rivolgendosi in modo diretto anche alle autorità politiche responsabili dei settori cul-turali, sottolineando come l’universo del cortometraggio, oggi più che mai, sia prodotto e riflesso di mélange

* Università di Pisa (Italy);[email protected]

Copyright © 2019 Elena Marcheschi

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Missione cultura. Riflessioni sulla 65° edizione dell’Internationale Kurzfilm … Cinergie. N.15 (2019)

concettuali e formali che reinventano e rimodulano i territori del linguaggio cinematografico, con una libertà ancora inedita nell’ambito del lungometraggio.

Tra i programmi di punta di quest’anno il festival ha presentato i cortometraggi di Alexander Sokurov, film che hanno avuto poca circolazione distributiva e oggi finalmente restaurati. Tra i titoli più “antichi” proiettati

Marija (1978-88) e Sonata for Hitler (1978-88), e poi Evening Sacrifice (1984-87), Soviet Elegy (1989), Elegy from Russia (1992), Soldier’s Dream (1995) e altri, per un totale di quindici film realizzati tra il ’78 e il ’96.

La-vori affascinanti, caratterizzati da lunghi piani sequenza, dall’impiego di materiale found footage, dalla cura artistica e fotografica del montaggio, che mettono in primo piano la vita reale dei lavoratori, la politica e i suoi personaggi (vedi i film dedicati a Boris Yeltsin), artisti, soldati… Corti in cui il reale viene trattato in modo sofisticato, artistico, seguendo tracce musicali o coreografiche, e dove l’essere umano è posto al centro di una serie di relazioni – sia familiari che sociali – e sul quale le dinamiche di potere giocano un ruolo di trasfor-mazione determinante. È interessante notare come diversi lavori tra questi siano contrassegnati da due date: la prima indica l’anno di realizzazione, la seconda quella in cui i film sono stati proiettati dopo aver superato la censura. Lo stesso Sokurov, che durante il festival ha tenuto una masterclass aperta agli studenti di cinema, ha conversato col pubblico dopo la visione di Sonata for Hitler. Molti sono stati gli argomenti trattati: dagli ostacoli distributivi che i suoi film hanno subìto al contesto storico e culturale in cui si è formato e affermato, dalla volontà di realizzare film “diversi” nei contenuti e nella forma all’imprescindibile relazione che la sua produzione intrattiene con la lettura, la pittura, la composizione musicale. Un maestro del cinema, Sokurov, che si definisce uno sperimentatore aperto anche alle forme artistiche contemporanee, come nel caso della sua partecipazione all’attuale Biennale d’Arte di Venezia, dove ha realizzato un’installazione su Rembrandt per il Padiglione Russia.

Nella sezione Theme sono stati presentati vari programmi sotto il titolo The Language of Attraction: Trailers

between Advertising and Avant-garde: protagonisti assoluti i trailers cinematografici, in particolare legati a

film realizzati tra gli anni ’30 e ’90 del secolo scorso, osservati meticolosamente non tanto come oggetti al servizio della promozione, ma come prodotti caratterizzati da linguaggi specifici, a volte veri e propri “corti” di intrattenimento a sé stanti, altre volte prequel dei film stessi, ma anche talvolta disancorati totalmente dai film da sostenere. Un’occasione unica, dunque, per conoscere questi paratesti cinematografici e che ha riscosso un notevole successo di pubblico.

La missione culturale di un festival è data anche dal rischio che questo si assume nel presentare accanto ai “grandi nomi” anche esperienze meno internazionalmente note, ma meritevoli di essere conosciute: mi riferi-sco in particolare ai Profiles dedicati a due artiste, la giapponese Kayako Oki e la filippina Kiri Dalena. La prima, proveniente da una formazione tessile, ha applicato metodologie di approccio artigianali al trattamento della pellicola cinematografica, sia considerandola come un elemento di tessitura, ma anche utilizzandola come ma-teriale di sperimentazione organica e cromatica. Approccio diverso quello di Dalena i cui film, caratterizzati da passione militante, mostrano un legame con il documentario e il film saggio, senza tralasciare la potenza di immagini metaforiche che si fanno interpreti delle complicate vicende politiche del suo paese d’origine. Le proiezioni e gli interventi delle due registe hanno entusiasmato, toccato e commosso gli spettatori.

L’International Competition, ogni anno seguita dal pubblico con grande interesse, ha quest’anno avuto – a mio avviso – pregi e difetti: tra i pregi quello di mostrare cinquantadue opere provenienti da trentacinque paesi diversi rappresentativi di ogni continente, la cui metà prodotta da registe donne. Tra i difetti l’enorme incongruenza di prodotti, forse valutati più per una sorta di “fascino dell’esotico” che per un reale valore con-tenutistico e/o formale. Tra questa estrema varietà vorrei menzionare due opere opposte, a mio avviso risolte anche nell’equilibrio estetica/etica: la prima è Sabaudia dell’austriaca Lotte Schreiber, un documentario spe-rimentale sull’architettura fascista rispetto alla quale scrittori come Moravia e Pasolini hanno saputo cogliere elementi di bellezza e di progettualità “umana” svincolati da ideologie politiche; l’altra è Sky City del cinese Zhong Su, un’animazione che propone una distopica e metaforica riflessione sul potere e sul controllo che plasma società di schiavi.

E gli artisti italiani? Certamente assenti. Dimenticati? Sottovalutati? Una mancanza che spero possa essere in futuro colmata, soprattutto considerando l’eterogeneità e l’alta qualità delle opere dei filmmaker che lavorano nell’ambito del corto sperimentale. Una ricchezza del nostro paese che andrebbe certamente riconosciuta e presa in considerazione, in Italia e altrove.

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