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View of The thoughts of two female writers as spectators of the Big Screen

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Academic year: 2021

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I pensieri della spettatrice. Due

scrittrici davanti al grande schermo

Maria Rizzarelli

1. Frammenti di un discorso autobiografico

Ci sono stati anni in cui andavo al cinema quasi tutti i giorni e magari due volte al giorno, ed erano gli anni tra diciamo il Trentasei e la guerra, l’epoca insomma della mia adolescenza. Anni in cui il cinema è stato per me il mondo (Calvino 1994: 27).

Studiando intanto a Caltanissetta, avevo modo di vedere più film: uno al giorno, e a volte due. Ogni anno riempivo un libretto di annotazioni sui film visti: avevo, prima che lo facessero i giornali, inventato una specie di votazione con asterischi: cinque il massimo voto. La cosa curiosa, scoperta qualche anno fa, è che Gesualdo Bu-falino, che non conoscevo, faceva allora la stessa cosa. Non molto curiosa, a pensarci bene: perché per lui, per me, per altri della nostra generazione e della nostra vocazione, il cinema era allora tutto. Tutto (Sciascia 1989: 640).

Quasi tutti andavamo al cinema, salvo persone considerate come riservate e serie. E tutti i film erano commentati in paese. Uno stesso film veniva proiettato il sabato sera e la domenica dopo il vespero. Ma a volte erano diversi, il sabato c’era il film per gli adulti, alla domenica pomeriggio quello per i ragazzi, c’erano i film special-mente adatti a loro. A carnevale ne venivano proiettati due e quindi si arrivava a mezzanotte. Era proprio il bagordo carnevalesco (Zan-zotto 2011: 155).

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L’affinità dei punti di vista e la persistenza tematica dei ricordi ci-nematografici di molti scrittori, testimoniata dai brevi frammenti delle memorie di Calvino, Sciascia e Zanzotto, a cui potrebbero accostarsi passi analoghi di altri autori (Pasolini, Parise, Bufalino per esempio), la-scia emergere le tracce di un paradigma spettatoriale che ha trovato nel cinema un quotidiano luogo di formazione dell’immaginario poetico. I sogni di celluloide proiettati sul grande schermo, che hanno nutrito di speranze e paure la “meglio gioventù” letteraria negli anni Trenta e Quaranta, hanno fatto sì che la pratica della visione filmica apparisse quale occasione fondante della Bildung1. Come affermano Emiliano Mor-reale e Mariapaola Pierini nell’introduzione all’antologia dei Racconti di

cinema da loro curata per Einaudi, «il grande schermo è stato cose assai

diverse per le varie generazioni. Apparizione sconvolgente e inquietante per i primi spettatori, libertà ed evasione per i giovani italiani cresciuti sotto il fascismo, primo gradino verso l’arte per coloro che accedevano ad una cultura finalmente alla portata di molti» (Morreale-Pierini 2014: x). Gli scrittori e le scrittrici della classe di Calvino e Sciascia non solo hanno amato il cinema con una passione totalizzante («il cinema allora era tutto», afferma appunto Sciascia) – mentre poi si sono ritratti sgo-menti di fronte all’avvento del mostro diabolico del piccolo schermo, con i loro discorsi più o meno spietati “contro la televisione”2 – ma hanno riservato, dunque, all’interno dei propri racconti memoriali e au-tobiografici un capitolo fondamentale ai ricordi del cinema e dei “film della loro vita”. Nell’attuale «epoca postcinematografica» (Casetti 2015: 311)3, in cui la riflessione critica degli audience studies pare quanto mai ampia, solida e variegata, sebbene la visione dei film nel grande schermo

1 Per un’ampia panoramica sui Cent’anni di passioni dello spettatore

cinema-tografico si rimanda a Brunetta 1990.

2 A tal proposito si veda in particolare Donnarumma (2013: 45-48) e

Ri-mini 2017.

3 A titolo esemplificativo dell’attenzione posta nel recente dibattito critico

sui mutamenti dei modelli di spectatorship si rimanda a Fanchi 2005, Casetti 2015, Fanchi-Garofalo 2018.

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delle sale venga ormai percepita come una consuetudine residuale e ar-caica, lo studio delle autobiografie degli spettatori, ormai identificabili in «un sottogenere della nostalgia e del memoir» (Morreale 2014: 109), si colloca sul versante di una specifica “ermeneutica archeologica” volta alla ricognizione delle tracce disperse di pratiche ed esperienze ormai desuete.

All’interno della costellazione dei memoriali della sala, accanto a Calvino, Sciascia, Zanzotto, Parise, Consolo e Bufalino, emerge il caso un po’ anomalo (anche da questo punto di vista) di Goliarda Sapienza, una delle poche scrittrici che ha raccontato la formazione del proprio immaginario allo specchio del grande schermo nel romanzo postumo Io,

Jean Gabin (2010). In quello che può senz’altro essere definito “il

romanzo della spettatrice” Sapienza mostra di avere coscienza dell’eccezionalità della propria esperienza spettatoriale nella frequentazione quotidiana4, negli anni della sua infanzia, dei cinema della sua città natale.

Dentro sono la sola nella prima fila della galleria. È l’unica raccomandazione di mio padre: «Solo in galleria mi raccomando, non è per disprezzare il popolo, è che il popolo è quello che è, col tempo vedrai». Col tempo quei veri e propri animali che sputano in terra e in aria (fanno a chi fa il tiro più alto), si danno pacche, a volte si levano anche le camicie – se camicie si possono chiamare –, le sventolano, urlano, si chiamano con parole che solo a ricordarle le gambe tremano, si sdraiano in terra o russano oscenamente, è possibile che cambieranno? Non mi sembra possibile ma ognuno ha il suo sogno e io rispetto il sogno di mio padre come lui rispetta il mio. Se non fosse così vi sembra che un avvocato di grido permetta che la sua carusa vada al cinema sola alle due del pomeriggio – anche se in galleria – e ce la lasci fino a sera tardi? Anche se lassù c’è uno di quei dolcissimi delinquenti falliti che mio

4 Per una ricognizione della complessa e variegata relazione intrattenuta

da Goliarda Sapienza con il cinema cfr. Rizzarelli 2018: 105-131. A proposito delle pratiche spettatoriali delle donne cfr. Mazzei 2008: 257-268; Alovisio 2008: 269-286; Fanchi 2016: 291-293.

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padre ha «sistemato» come sorvegliante e che con la lampadina tascabile ogni tanto nel buio illumina un cerchio intorno a me per verificare che nessuno mi tocchi (Sapienza 2010: 76-77).

Ad eccezione di Sapienza, la Bildung delle scrittrici italiane del se-condo dopoguerra sembra svolgersi di rado nel perimetro extradome-stico della sala cinematografica e pare prediligere invece le “stanze tutte per sé” della lettura, dove le “menzogne e i sortilegi” dei libri amati tra-sformano le pagine in schermi e specchi attraverso cui nutrire la propria “vita immaginaria”. L’obiettivo di questo contributo è quello di avviare una preliminare indagine sulla narrazione delle pratiche spettatoriali delle autrici italiane attraverso gli esempi di Natalia Ginzburg e Elsa Morante. Sebbene sia l’una che l’altra non si soffermino sulla visione dei film della propria infanzia, in età adulta entrambe hanno assiduamente frequentato le sale cinematografiche romane come appassionate cinefile e per brevi periodi nei panni di critiche cinematografiche. Morante nel biennio 1950-1951 (e precisamente dal 7 marzo 1950 al 10 novembre 1951) redige per la rubrica radiofonica della Rai le sue “Cronache di film” (pubblicate soltanto di recente da Einaudi a cura di Goffredo Fofi)5. Ginzburg si occupa di cinema saltuariamente nei suoi articoli per i quo-tidiani a partire dalla fine degli anni Sessanta. Alcune delle sue recen-sioni vengono riproposte all’interno delle raccolte di saggi (Mai devi

do-mandarmi, 1970; Vita immaginaria, 1974; Non possiamo saperlo, 2011). Ma il

momento di massima attenzione alle proiezioni cinematografiche si col-loca nel 1975, quando per una decina di mesi (dal 6 marzo al 25 dicem-bre) la scrittrice tiene la rubrica «Cinema» (poi a partire dal 18 settembre «Cinema e altro») sul settimanale Il Mondo firmando quaranta recen-sioni.

Prima di avviarmi all’analisi delle costanti e delle varianti temati-che temati-che emergono dalla lettura di questi scritti sparsi vorrei precisare

5 Un’accurata indagine sulle varie declinazioni del rapporto con il cinema

da parte di Elsa Morante e nello specifico sul contesto storico culturale in cui si inquadra questa breve parentesi dedicata alle cronache cinematografiche si trova in Bardini 2014.

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però sin d’ora che guardare alla spectatorship nell’ottica del più recenti sviluppi del Feminist Film Criticism è possibile a mio parere soltanto in una prospettiva storica e contestuale6, cioè come esperienza determinata da un contesto e all’interno del quale il soggetto dello sguardo intrat-tiene con il testo filmico una «relazione negoziale» (Casetti 1994), in cui intervengono variabili di natura diversa. Le domande da cui ha preso le mosse la mia indagine (che spettatrici sono le scrittrici che vanno al ci-nema per parlare di film sui quotidiani e sui settimanali culturali? Qual è la relazione che esse hanno con il grande schermo, con lo star system, e con le retoriche cinematografiche e il sistema dei generi? Che attenzione riservano allo spettacolo della sala? E ancora, come si declina il rapporto fra Gaze e Screen? O meglio, che tipo di identificazione e investimento percettivo raccontano le recensioni?) rimangono sullo sfondo e sono de-stinate a rimanere per il momento aperte. I ritratti peculiari di spettatrici-scrittrici che provo a delineare rappresentano soltanto due piccole tes-sere di un mosaico che deve estes-sere ampliato e completato dilatando la geografia e la storia di questa variegata ed estesa costellazione di «espe-rienze schermiche» (Carbone 2016)7. L’obiettivo generale, in ogni caso,

6 Il modello di spettatrice rivisto e ridiscusso nel corso di un quarantennio

da più parti, oltre che da Laura Mulvey (2013) stessa (che con il suo Visual Pleasure and Narrative Cinema (1975) ha posto i fondamenti per il modello metateorico del Female Gaze), non sfugge, a detta dello stesso fronte della crit-ica femminista, al rischio dell’astrazione e all’«accusa di una radcrit-icale ontolo-gizzazione dell’identità sessuale» (Fanchi 2005: 84). A tal proposito, per un ag-giornamento del dibattito critico si rimanda ai vari contributi contenuti in Bruno - Nadotti 1991 (in particolare quello di Mulvey: 155-175); Stacey 1994; Pravadelli 2014.

7 Condivido gli obiettivi di questa ricerca con un gruppo di studiose

in-sieme alle quali abbiamo già proposto un primo tentativo di mappatura delle pratiche spettatoriali e delle scritture sul cinema delle autrici italiane (Elsa Mo-rante, Natalia Ginzburg, Alba de Céspedes, Anna Banti, Oriana Fallaci) nel panel del convegno Il pensiero critico italiano. Scrivere di cinema dal

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non è tanto quello di analizzare la fisionomia della spettatrice-scrittrice come modello metateorico, quanto quello della messa in evidenza dell’alterità dello sguardo delle donne che scrivono di cinema, da inten-dersi esclusivamente in funzione della opposizione ad una visione mo-nolitica della spettatorialità. In altri termini, il reperimento di frammenti narrativi delle pratiche di visione filmica delle scrittrici-spettatrici do-vrebbe estendere e animare il paesaggio delle autobiografie degli spet-tatori, lasciando emergere la molteplicità degli sguardi possibili rivolti al grande schermo e decostruendo l’idea monolitica del punto di vista unico, perfetta incarnazione della prospettiva di un soggetto unico fal-samente neutro.

Mary Anne Doane legge in uno scatto di Doisneau (Un régagard

oblique, 1948) la più efficace esemplificazione della «resa narrativa della

negazione dello sguardo femminile nel cinema classico hollywoodiano», in quanto il fotografo sembra attribuire la centralità (negata dal cinema) allo sguardo della donna, ma in realtà, come indica il titolo stesso il pro-tagonista della foto risulta essere in fin dei conti lo “Sguardo obliquo” dell’uomo. Si scopre dunque che «il luogo reale del potere scopofilo è ai margini» (1991: 77), che tende a riprodurre una situazione di subalter-nità e di decentramento anche quando è posto ai bordi del quadro.

dopoguerra al web (Parma, 4-6 giugno 2018). Ringrazio pertanto Lucia Car-done, Elena Porciani, Stefania Rimini e Chiara Tognolotti, sulle cui riflessioni e ricerche ho potuto contare nella stesura di questo contributo.

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Fig.1 Robert Doisneau, Un régard oblique, 1948.

La sintesi visiva della prospettiva ermeneutica qui proposta può essere rappresentata da un’altra foto: uno scatto di Vivian Maier, in cui la balia-fotografa si autorappresenta nel bordo di uno specchio, in se-condo piano, mentre scatta una foto che ha in primo piano uno schermo televisivo.

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Fig.2 Vivian Maier, Autoritratto, Chicagoland, 1979

Il frammento di ritratto di (tele)spettatrice (televisiva e non cinematografica, – ma del resto gli spectatorship studies e quelli sull’audience televisiva sono confinanti) indica il campo di indagine qui proposto, dato che il territorio delle mie ricerche sta ai margini dell’inquadratura, ai bordi delle pagine delle due scrittrici-spettatrici, le quali all’interno delle loro riflessioni sui film hanno lasciato qualche traccia delle proprie consuetudini di frequentazione delle sale cinematografiche e qualche indizio della propria postura visuale.

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2. Loro ridevano

Nelle autobiografie degli scrittori della generazione di Sciascia, Calvino e Sapienza il modello spettatoriale in esse iscritto evidenzia un’alternanza fra Gaze e Glance8, una alternanza cioè tra lo sguardo fisso catturato dalla visione ipnotica del film, immerso nel buio e isolato dal mondo esterno, e quello distratto da ciò che avviene in sala: il racconto della platea e quello ammaliato dal fascino dei divi e delle dive, il ro-manzo dello stardom, sono del resto due modalità molto diffuse di tema-tizzazione dell’esperienza cinematografica9.

Natalia Ginzburg ed Elsa Morante sembrano propendere per un rapporto privilegiato con il testo filmico e con il dispositivo diegetico in esso iscritto e concedono pochi sguardi al pubblico in sala. La postura critica che traspare dalla lettura delle recensioni dell’una e delle crona-che dell’altra appare per certi aspetti molto diversa, ma rivela la comune passione per la narrazione delle immagini e l’analoga propensione da parte di entrambe alla ricerca della “poesia” del film.

Le recensioni di Ginzburg sono resoconti dell’esperienza della visione, della percezione epidermica («i film bellissimi ci danno delle sensazioni fisiche così precise, e i film brutti, anche se tecnicamente riusciti, ci lasciano vuoti e smorti», Ginzburg 1975h: 75) sollecitata dai fotogrammi, si fondano sulle sensazioni provate osservando un film, proponendo un pastiche sinestetico che oltrepassa i confini della

8 Sulle differenti declinazioni dello sguardo dello spettatore e soprattutto

sulla distinzione fra Gaze e Glance cfr. Casey 2007: 482-483; Fanchi 2005: 39-45.

9 Per questo aspetto rimando ancora all’antologia dei Racconti di cinema

curata da Morreale e Pierini, in cui le prime due sezioni sono significa-tivamente dedicate al racconto della «relazione amorosa, talvolta erotica, mai consumata» (Pierini 2014: 5) fra lo spettatore e il divo - sezione significa-tivamente aperta e chiusa dalle parole di Joyce Carol Oates, la quale nel suo perenne «corpo a corpo con il cinema» si confronta con la seduzione di due stelle d’eccezione quali Marilyn (a cui ha dedicato il bellissimo Blonde) e Mar-lon Brando.

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visualità10. Valga un solo esempio, emblematico in tal senso, relativo alla visione di Salò o le centoventi giornate di Sodoma di Pasolini, che recensisce su Il Mondo, il 4 dicembre 1975:

Il silenzio che all’inizio ci investe è come una raffica di vento che ci trasporti nelle profondità d’un pianeta diverso dal nostro. Placata quella raffica di vento, noi ci accorgiamo d’essere caduti in uno stato di immobilità, come se fossimo stati colpiti da una malattia o da un freddo improvviso, e ci sembra d’avere perduto ogni nostra sensibilità abituale. Dello sgomento che avevamo provato all’inizio, non c’è in noi più traccia. Non sentiamo né orrore, né ripugnanza, né ribrezzo. O meglio, il ribrezzo e l’orrore sono in noi leggeri e ge-lidi, e a poco a poco non ne avvertiamo più il minimo segno. In se-guito, quando ricordiamo il film, ciò che ricordiamo con vero orrore sono degli accordi di pianoforte, un fruscio di vesti o un luccichio d’anelli, voci untuose e vellutate, e specchi e tappeti e cristalli, come se il vero orrore fosse tutto addensato nello scenario […]. Ma nel corso del film, davanti alle azioni turpi e alle risate lunghe e lugubri, e davanti agli escrementi e al sangue, non sentiamo nulla, salvo un senso di oppressione al respiro, e un senso di immobilità (Ginzburg 2001: 40-41.)

Per Ginzburg si potrebbe a tutti gli effetti parlare di «visione incar-nata» proprio nei termini definiti da Vivian Sobchack in Carnal Thoughts, nel senso che le ”parole dei sensi”, da lei utilizzate costantemente «per dipingere l’esperienza del film non sono metaforiche» (Sobchack 2017: 61) e raccontano la reale percezione corporea che le immagini dello schermo provocano su di lei.

Malgrado ciò, la scrittrice di Lessico famigliare sembrerebbe poco interessata alla dimensione sociale del contesto espositivo, eppure nelle sue recensioni lascia tracce abbastanza evidenti per ricostruire il suo profilo spettatoriale. Dichiara apertamente, infatti, di non amare la

10 Sulla materialità e in particolare sulla dimensione aptica della relazione

con gli schermi si veda l’affascinante e appassionata riflessione estetica di Giu-liana Bruno (2016).

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condizione “privilegiata” del critico nelle proiezioni private e afferma con perentorietà la sua preferenza per un rapporto esclusivo ed immersivo nel mare delle immagini proiettate sul grande schermo:

«Nessuno o tutti», film di Bellocchio, Rulli Agosti e Petraglia […] ho il rammarico d’averlo visto male, a pezzi, una volta la prima parte con una colonna sonora cattiva, e a distanza di molti giorni la seconda parte; e perciò ne conservo un ricordo indistruttibile ma stracciato. Inoltre, mi dispiace d’averlo visto in proiezioni private, e che non si sappia ancora se lo daranno nelle sale pubbliche. Nelle proiezioni private regna in genere un’atmosfera di rigida attesa, come se si stesse tutti sull’attenti; e io trovo questo un modo cattivo di vedere un film; per me in particolare è pessimo. Per me, il modo migliore di stare al cinema è sentirmi immersa nell’ozio, fra gente spinta là dal caso, e partire da uno stato iniziale di ottusità e indif-ferenza; e che un film arrivi alla mia attenzione insensibilmente e come trascinato dal mare (Ginzburg 1975b: 4).

Ginzburg pone attenzione raramente a ciò che succede nella sala (anche se a volte accenna qualche notazione polemica sulle scelte della distribuzione e dimostra una chiara opzione a favore di film non distri-buiti nei grandi circuiti, ma nei cineclub e nei cinema d’essai) e tende a proporre una postura visiva che si confonde con quella del pubblico in sala. In alcuni casi però mette in evidenza la sua distanza dal sentire co-mune. A proposito dei film di Mel Brooks, per esempio, che «piace molto a tutti» e a lei «convince poco», racconta appunto la sua reazione di fronte alla visione di Per favore non toccate le vecchiette o di Frankestein

junior:

L’altro giorno, nella platea dove sedevo a guardare «Per favore…», la gente rideva, non forse moltissimo, però rideva, e io invece non riuscivo a ridere di nulla. La stessa cosa mi è successa con «Frankestein junior», altro film di Mel Brooks che tutti hanno giudicato così divertente e che a me non ha divertito né molto, né poco. Non c’è niente di peggio che stare seduti in una platea dove tutti gli altri ridono, dove ci sentiamo chiamati a ridere, e rimanere

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spenti e impassibili, senza un mezzo sorriso né fuori né dentro di noi (Ginzburg 1975f, p. 64).

Anche in questo caso però, il marcare la distanza dal pubblico in sala è il sintomo di una sofferenza e lascia trapelare appena qualche sfu-matura snobistica. Ginzburg infatti tende a collocare entro la scrittura critica una dimensione autobiografica, che pare sovraesporre la prospet-tiva soggetprospet-tiva, sminuendo l’autorità del giudizio. Sin dalla prima re-censione, proponendo le sue riflessioni sul film come semplici “pensieri di una spettatrice”, dichiara infatti: «Non desidero attribuirmi, in mate-ria di film, nessuna specie di competenza. Le mie impressioni sono uni-camente quelle d’uno spettatore» (Ginzburg 1987: 70). Per un verso, dunque, nel posizionamento critico di Ginzburg si riscontra l’adozione costante di quella «figura di argomento» definita – come ci ricorda Pez-zotta (2018: 92) – «cleuasmo», spesso finalizzata alla captatio benevolentiae del pubblico dei lettori, ma che da parte della scrittrice viene adottata al fine di guadagnare dalla diminutio dell’auctoritas il massimo della libertà di espressione.

Elsa Morante, al contrario, rivendica con molta decisione la forza del proprio giudizio critico, marcando la distanza dalla visione ingenua del resto del pubblico, al quale però sembra sempre molto attenta, spiando reazioni e plausi e spesso condannando facili e ingenui entusiasmi11. Come per Ginzburg, il comico funge da cartina di tornasole per misurare il distacco da una platea, che cade nella rete della trappola della mimica di Totò, il quale si misura senza troppa deferenza con il personaggio di Figaro e con la sua ascendenza mozartiano-rossiniana:

11 A tal proposito Elena Porciani, nella recensione alla raccolta delle

cronache morantiane, nota giustamente: «che Morante pensasse a delle cronache invece che a delle semplici recensioni da un lato giustifica la condis-cendenza mondana con cui mette in scena le proprie avventure di spettatrice negli affollati cinematografi romani, dall’altro alleggerisce – anche in vista della destinazione radiofonica – la critica a un’industria culturale di cui si presentono le derive populistiche di crasso intrattenimento» (Porciani 2017: 239).

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Per la proiezione di Figaro qua, Figaro là, la sala (sebbene il film si desse contemporaneamente in parecchie sale) rigurgitava di gente. E questa gente non finiva più di applaudire, e si torceva dalle risate, a tutte le bravure di Totò e a tutte le trovate degli autori del film. Rideva cioè alle smorfie, ai contorcimenti, alle spinte e piattonate, ai capitomboli, e alle torte di panna gettate in faccia. […]. Insomma i conti degli autori di questo film sono tornati alla perfezione. In questi conti, evidentemente, i nostri autori non si preoccupano del giudizio della critica, di cui a loro non importa nulla. E allora, non si offenderanno se la critica, per il loro film, preferisce astenersi dal giudizio (Morante 2017: 27).

Il netto rifiuto di un modello di audience ingenua e incapace di cogliere le debolezze e i difetti di un film, interessata unicamente alla finalità evasiva della storia proiettata sullo schermo, convive nelle cronache cinematografiche morantiane con un altrettanto deciso dissenso espresso rispetto ai giudizi dagli altri critici. A proposito del caso de La terra trema, film che elogia e sostiene strenuamente (ritornando a parlarne anche in altre occasioni successive alla “cronaca” firmata nel maggio del 1950)12, Morante ironizza su «la curiosa accusa di

estetizzante lanciata al film da alcuni critici», arrivando perfino a fare loro

il verso, nella parodica trascrizione del loro banale e ottuso punto di vista:

«Come!» sembran dire questi critici scandalizzati, «mostrarci dei poveri che non si esprimono unicamente con parolacce! Dei poveri il cui ideale non è unicamente il pane e fagioli quotidiano o il ritro-vamento di una bicicletta rubata, ma qualcosa di più ambizioso, di più lontano, e magari oscuro alla loro stessa coscienza, che li spinge alla rovina! Dei poveri i quali non formano una pittoresca razza a se stante, ma partecipano alla comune tragedia umana, di cui il pae-saggio siciliano, che è a sfondo di tutto il film, esprime meglio di

12 Si vedano per esempio gli altri scritti morantiani dedicati a La terra

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ogni altro il senso grave e amaro!»

Queste le peggiori colpe rimproverate al film dai critici. Quanto al rimprovero di lentezza che altri gli fanno, non comprendiamo que-sto rimprovero. Sarebbe lo stesso che rimproverare all’Adagio di una Sinfonia di non essere un Allegro. A noi sembra anzi che il tempo di questo film (parliamo dell’edizione integrale) sia la sua qualità originale, che ha valore di scoperta; e che da questo tempo nascano le sue più straordinarie rivelazioni poetiche (ibid.: 16-17).

Al di là delle posture retoriche, assunte con maggiore o minore con-sapevolezza, le due scrittrici trovano lo spazio per esprimere nella mas-sima libertà un punto di vista eccentrico, che contribuisce a movimen-tare il paesaggio della ricezione cinematografica italiana degli anni Cin-quanta-Settanta. Nell’assiduità della frequentazione delle sale cinema-tografiche e nel dialogo muto con le figure riflesse nel grande schermo, Ginzburg e Morante scoprono un’occasione per definire i contorni del loro peculiare rapporto con la settima arte, e in controluce della loro per-sonale concezione del cinema.

3. La memoria è la chiave di tutto

Come per molti scrittori della sua generazione, Natalia Ginzburg riconosce nel cinema uno straordinario dispositivo memoriale, nei cui ingranaggi le immagini si rivelano fatte della stessa sostanza dei ricordi e con essi si confondono. Alcuni film (come per esempio Amarcord – che lei considera «uno dei film più belli che siano stati mai fatti», Ginzburg 1987: 561) – hanno il potere di rendere visibili le memorie personali e collettive:

L’evocazione degli anni Trenta, in Amarcord, a me ha dato i brividi, perché mai mi era successo di vedere evocati gli anni della mia gio-vinezza, e il fascismo di allora, con tanta verità e tanto orrore. Verità e orrore non sono enunciati né con parole né con avvenimenti, ma

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sempre e solo con un linguaggio di immagini. Di colpo mi sono ri-cordata che quell’epoca era per me orribile. Lo sapevo, ma d’un tratto l’ho ricordato con gli occhi (ibid.: 563).

Passi simili in cui i fotogrammi di un film si confondono con i frame della reminescenza personale si potrebbero trovare nelle pagine di altri scrittori e intellettuali. Si pensi per esempio all’omaggio al cinema come straordinario «detonatore di ricordi», tributato da Marc Augé in

Casa-blanca (2007: 20), che (e)legge il capolavoro di Michael Curtiz del 1942

come il “film della sua vita” e che rientra a pieno titolo nel capitolo dell’autobiografia degli spettatori. In realtà, però, la memoria ha una va-lenza polisemica nella scrittura di Ginzburg per il cinema. È metafora del cinema, ma è anche strumento di analisi del film, unico strumento di analisi del film. Non bisogna dimenticare che fino all’avvento del VHS (cioè fino agli anni Ottanta) per rivedere il film il critico doveva tornare in sala o provare a ripercorrerlo con la propria memoria. Questo dato, per esempio, non sfugge a Sciascia, il quale parlando del “film della sua vita”, e cioè Le Feu Matthias Pascal di Marcel L’Herbier, che rivede alla “moviola della sua memoria”, sostiene che le «storie del cinema sono peculiarmente fatte a memoria» (Sciascia 1991: 1153-1154).

L’aspetto più originale degli scritti di Ginzburg dedicati al cinema è situato in una sorta di trasvalutazione della memoria attivata dalle immagini sullo schermo. La scrittrice-spettatrice-critica trasforma infatti un dato per così dire fenomenologico, empirico, in parametro estetico: la memoria non è soltanto il mezzo per analizzare i film visti, ma anche il criterio per esprimere un giudizio. In un articolo del 1971 intitolato appunto Cinematografo, in cui si interroga sul suo rapporto con il linguaggio di celluloide, dichiara: «La memoria è l’unica vera chiave di giudizio per quanto riguarda i film. Di un film noi conserviamo unicamente quello che amiamo; tutto il resto si dissolve in cenere»

(Ginzburg 1971: 3); in una recensione firmata qualche anno dopo

ribadisce: «Noi cerchiamo in un film, come ovunque altrove, qualcosa che sia possibile ricordare. Della vitalità di un film, ci rendiamo conto misurando la traccia e la profondità delle strade che esso lascia nella nostra memoria» (Ginzburg 1975a: 4). Ma affermazioni analoghe si

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trovano in molti degli altri articoli pubblicati su Il Mondo nel 1975 e anche nelle recensioni composte negli anni successivi13.

4. Menzogne e sortilegi dello schermo

Se per Ginzburg il cinema è dunque l’arte della memoria, per Mo-rante è l’arte dell’illusione e della fantasia. Evidentemente entrambe considerano il grande schermo come uno specchio nel cui riflesso affi-lare i propri ferri del mestiere: se la musa della scrittura della prima, infatti, come è noto si abbevera alle fonti della memoria, la sorgente della fantasia e dell’immaginazione è quella a cui si rivolge Morante sempre, anche quando il suo scenario appare più realistico e tangibile come ne

La storia o in Aracoeli. Proprio per questo il giudizio di quest’ultima sul

neorealismo cinematografico è sostanzialmente freddo e distaccato, e per contro Morante dedica una cronaca alquanto elogiativa a Miracolo a

Milano, che nasce, secondo lei, dal cedimento del regista alla tentazione

delle «grazie della fiaba». Ma la visione del film di De Sica le suggerisce, in apertura al suo commento, una considerazione generale sul cinema che appare estremamente significativa:

Uno dei poteri più invidiabili che possiede il cinema, in confronto agli altri mezzi di espressione artistica, è il potere di dar forma visi-bile a ogni sorta di favole e di prodigi. Mentre gli altri artisti, anche

13 Sfogliando soltanto alcune delle recensioni ginzburghiane pubblicate

su Il Mondo nel 1975 leggiamo: «quando ricordiamo un film con insistenza vuol dire che qualcosa in noi ha lasciato» (1975c, p. 66); «Da questo Ispettore Clark portiamo via, oltre alla persona di Henry Fonda, un ricordo di strade; ed è pure qualcosa, quando si pensa che dalla maggioranza dei film non por-tiamo via nulla» (1975d: 66); «Se ricordiamo La tentazione e il peccato lo ricor-diamo soprattutto per i denti accavallati di Susan George» (1975e: 74); «Quando noi ripercorriamo nella memoria questi due film di Angelopulos, ci accorgiamo che stiamo ripercorrendo una struttura di ordine morale» (1975h: 75).

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i più fantastici, devono necessariamente accontentarsi di espres-sioni astratte, o tenersi nei loro limitati mezzi umani, il regista di-spone di una macchina miracolosa, grazie alla quale può suscitare in immagini convincenti, gli aspetti dell’irrealtà e del sogno (Mo-rante 2017: 63).

L’immaginazione e la fantasia non è attivata, però, soltanto dal plot e non riguarda solamente la dimensione testuale, essa è chiamata in causa soprattutto in riferimento alle pratiche della ricezione. Se nel pa-radigma spettatoriale di Ginzburg conta in primo luogo la memoria, dunque, in quello di Morante l’immaginazione ha maggior peso; il giu-dizio critico dell’una è determinato da quanto e cosa del film si ricorda, mentre per l’altra esso è generato dal confronto fra quanto lei immagina e si aspetta e quello che il film realmente le offre. Morante, in più di un’occasione, descrive l’orizzonte di attese con cui entra in sala; si tratta di attese determinate dall’appartenenza del film a un certo genere, dalle retoriche promozionali scelte per il lancio distributivo, dalle sue perso-nali fantasie di spettatrice (che in alcuni casi dipendono dalle figure e dagli oggetti che popolano il suo immaginario). L’insistenza su questi aspetti va quindi considerata alla luce di una peculiare prospettiva cri-tica che valorizza l’immaginazione del film e attiva una serie di “fanta-sticherie” di grande suggestione ed effetto. In questa chiave si spiega anche il giudizio negativo su Figaro qua, Figaro là di Bragaglia. La figura del protagonista vive nella fantasia della spettatrice che giunge davanti al grande schermo avendo già in mente una fisionomia ben precisa con cui confrontare il personaggio interpretato da Totò:

Tutti sanno, poi, quali nuove grazie e finezze acquistasse questo amabile personaggio quando fu adottato dall’opera buffa, e cantato da musicisti quali Mozart e Rossini. Anzi, grazie a questi genii, Fi-garo divenne da allora, precipuamente un personaggio musicale. Così che non si può nominare questo personaggio senza sentirsi ri-suonare all’orecchio le argute e incantevoli note mozartiane. […] Con simili echi e immagini nella mente, ci siamo recati a vedere il film Figaro qua, Figaro là, dove Figaro è impersonato dal grande comico Totò, sotto la regia di Carlo Ludovico Bragaglia. Una nuova

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presentazione cinematografica del famoso personaggio ci appariva, dati i precedenti storici, impresa assai coraggiosa e impegnativa. Ci figuravamo il nostro amico Bragaglia […] curvo per mesi e mesi su testi e spartiti, e intento a studi di storia e di costume, prima di ac-cingersi al lavoro. Quanto a Totò […] ci figuravamo che questo ec-cellente attore avesse dovuto subire, prima di iniziare il film, una di quelle crisi tormentose […]. Che Figaro sarà, ci chiedevamo, questo nuovo Figaro di Bragaglia e Totò? Mozartiano o rossiniano? […] In-vece […] (ibid.: 26-27).

In altre occasioni si vede che appunto il “film mentale”, preventi-vamente vagheggiato dalla spettatrice, diviene il parametro di riferi-mento per la formulazione del giudizio. Per esempio, per il Vangelo

se-condo Matteo, per il quale Morante dichiara un ambivalente sentimento

di «ammirazione e delusione»:

Ammirazione perché (tenuto conto anche del poco tempo e delle al-tre difficoltà sostenute da Pasolini nell’eseguirlo) mi è sembrato un risultato magistrale. E delusione perché, a dire il vero, il film sul Van-gelo che io avevo sognato era assai diverso da questo. Era per in-tenderci in poche parole, un film in cui i protagonisti non avevano nessuna aureola visibile [...] (ibid.: 131-132).

Sia che lo specchio dello schermo riporti i ricordi del tempo perduto, sia che dia forma e sostanza al «capriccio della fantasia» (Morante 2017: 85), entrambe le scrittrici-spettatrici annotano poi nella moviola della memoria i volti di attori e personaggi che popolano le storie di celluloide e che spesso sostengono anche l’ingranaggio diegetico più difettoso.

5. Attori e personaggi

Malgrado sia Morante che Ginzburg non mostrino una spiccata sensibilità nei confronti della seduzione del firmamento delle dive e dei divi, i resoconti delle visioni dei film da parte loro sono puntellate

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dall’attenzione catalizzata da volti e corpi di attori, dal loro stile recita-tivo e soprattutto dall’abilità con cui entrano in relazione con il perso-naggio interpretato.

La considerazione costante, anche se spesso condensata in poche righe, riservata da Morante alla dimensione attoriale nasce non tanto dall’interesse per lo star system, quanto dalla necessità di un giudizio sul film che debba sempre tenere presente la relazione fra attore e personag-gio finalizzata allo sviluppo della storia che si vuol raccontare. Il giudi-zio negativo su Totò, espresso in più occasioni, deriva da una vera e pro-pria filosofia dell’attore (adombrata prima nelle recensioni a Figaro qua,

Figaro là di Carlo Ludovico Bragaglia e a Totò sceicco di Mario Mattoli e

poi articolata con più chiarezza nella cronaca dedicata a Signori, in

car-rozza! di Luigi Zampa). Per Morante infatti esistono tre tipologie

recita-tive: l’attore-istrione capace di adattarsi a ogni parte, l’attore-maschera sempre fedele al proprio personaggio («artisti, i quali, più che veri attori, sono dei personaggi», come Chaplin, «attore», ma «anche poeta e regista, sa inventare lui stesso, intorno al proprio personaggio, il mondo e le vi-cende ideali»), l’attore declamatore di un testo (al quale la natura ha con-cesso unicamente «una voce gradevole», Morante 2017: 107). Dalle nota-zioni morantiane sulla dimensione recitativa dei film emerge, con una coerenza logica non sempre esplicita, una sottesa filosofia attoriale che potremmo considerare alla stregua di una filosofia attoriale incarnata: tale filosofia trova riscontro nella fisicità degli interpreti se è vero, come ammette in un breve testo inedito posto in appendice alla raccolta delle cronache e dedicato a Massimo Girotti), che «lo studio di un viso d’attore è l’esercizio d’una scienza fantastica: perché sul viso di un attore si può ritrovare il disegno, e perfino il nome, dei suoi personaggi» (ibid.: 130).

Anche Natalia Ginzburg sembra essere attratta dall’esercizio di tale «scienza fantastica», tanto che in un caso è proprio la permanenza nella memoria della «faccia simpatica» di Walter Mattau a dare qualche atte-nuante a un film brutto come Il colpo della metropolitana; o in un altro caso il volto di un «attore pieno di fascino» come Lino Ventura, che giustifica la visione di «un film francese che non vale nulla» qual è per lei Lo

schiaffo. In altri termini Ginzburg confessa la resa alla seduzione dei

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delle sue recensioni di non essere indifferente anche lei alla dimensione di embodiment dell’arte cinematografica14, che lascia le impronte di molti volti nelle sue memorie di spettatrice («nei film scadenti, oggi, accade a volte di vedere un attore di alta qualità; così che ci portiamo via, alla fine, in un fascio di vicende informi e assurde e di parole balorde e lu-gubri, la faccia di una persona», Ginzburg 1975d: 66).

Come Morante, anche Ginzburg riflette sul rapporto fra attore e personaggio e sul confine sottilissimo che separa le due figure, tanto che, per esempio, in L’ultimo colpo dell’ispettore Clark («film non scadente, ma mediocre») Henry Fonda con «i suoi occhi celesti, le sue giacche un po’ troppo larghe, la sua alta, gentile, dinoccolata malinconia» si mostra por-tatore di una «grazia», che va ben al di là del suo stile recitativo: «Più che di una recitazione si tratta di un suo modo di esistere, di camminare, di guardare e sorridere stancamente, di portare sulle proprie spalle il peso della malinconia universale» (ibid.).

A volte la scrittrice-spettatrice legge nella pregnanza fisica di un attore un’eccedenza rispetto al personaggio interpretato e nel suo volto intravede i lineamenti di tutta un’epoca:

La nostra epoca ha molte facce, e Michel Piccoli è una di queste; nelle sue basette grigie, nei solchi molli delle sue mascelle, nelle sue alzate di spalle e nelle sue risate sorde e solitarie, riconosciamo il mondo di oggi nei suoi aspetti più deserti e più tetri (Ginzburg 1975g: 65).

Del Sospetto di Maselli, infine, Ginzburg salva «i primi dieci minuti» e il personaggio di Emilio perché è interpretato da Gian Maria Volonté, che è l’attore al quale riserba costanti elogi anche in altri scritti. L’articolo su La Stampa intitolato Cinematografo, per esempio, doveva essere

14 Il dibattito teorico su cinema ed embodiment è quanto mai ampio e

variegato, si rimanda pertanto al testo fondativo della teoria della “visione in-carnata” di Vivian Sobchack (1992) e alle sue interessantissime notazioni sul “corpo del film” ivi contenute.

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cato a lui, ma il pezzo che aveva cominciato a scrivere (con una incon-sueta e un po’ strampalata virata metanarrativa) Ginzburg racconta di averlo fatto leggere a due amici che erano venuti a trovarla. I due amici demoliscono il suo articolo e mettono in crisi le sue convinzioni sul ci-nema. L’asse argomentativo su cui sembrava reggersi l’articolo su Vo-lontè avrebbe dovuto prendere le mosse dalla costatazione dello spreco della bravura di certi attori chiamati a recitare in film brutti e scadenti. È interessante notare che Ginzburg paragoni lo sperpero del talento di Volontè o di Sordi allo scempio che si fa di certi paesaggi, richiamando alla memoria le riflessioni di Morin (2016: 75-78) sul «paesaggio del volto». E infatti, dalla apparente banale riflessione sulla dilapidazione della bellezza della natura e delle qualità della recitazione l’orizzonte si allarga alla natura del cinema e al rapporto tra finzione e verità. In quest’occasione Ginzburg affronta il tema riportando l’opinione dei due amici e mostrando l’ambivalenza dei sentimenti e delle idee che si agi-tano in lei a proposito del cinema. Dichiara così tutto il suo amore per la pratica delle sale («vado moltissimo al cinematografo. Se il cinema smet-tesse di esistere, ne sentirei la privazione» e ancora «sono disposta ad andare a vedere qualunque tipo di film»), ma giunge poi alla considera-zione del cinema come celebraconsidera-zione della falsità:

Il cinematografo, egli ha detto, è il contrario della poesia. La poe-sia, il teatro, sono una finzione; essi non vengono a patti con la realtà che noi vediamo e tocchiamo, ma ne offrono un'altra al nostro pensiero. Il cinematografo non sa offrirci che una realtà falsa. Dietro a questa realtà falsa, giocano infinite cose, gente, denaro e macchine da presa, e di tutte queste cose non si perdono mai le tracce, esse lasciano la loro impronta e la loro impronta è il contrario della fan-tasia e del pensiero. Ho pensato che aveva ragione e che era vero. (Ginzburg 1971: 3)

Il malumore e lo stato di confusione dovuto alla conversazione con i due amici l’allontana soltanto momentaneamente dalla frequentazione del cinematografo, e quel giorno le impedisce di uscire, come d’abitu-dine, alle sei del pomeriggio per andare al cinema. Nella piccola scoperta

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che suggella ironicamente la negatività di questo stato d’animo, può leg-gersi il rovesciamento di una delle pratiche spettatoriali più diffuse (e cioè quella del culto dei ritagli di giornale che ritraggono i volti dei divi e delle dive); tale chiusa può apparire altresì come la sintesi figurale dell’appassionata esperienza cinematografica della scrittrice:

Quei due miei amici mi hanno detto che ero diventata di ma-lumore dopo i loro discorsi. Infatti mi era caduta addosso una tre-menda tetraggine. In più essendoci in casa mia in questi giorni dei muratori, per terra c’erano stesi dei giornali e ho visto che su uno di questi giornali c’era in grande la fotografia di Gian Maria Vo-lonté. Avevo camminato per molti giorni sopra la sua faccia senza accorgermene. Non so perché anche questo mi ha prostrato. Avevo in testa una gran confusione. In casa mia c’era disordine e polvere. Avevo uguale disordine e polvere nei miei pensieri. Non provavo il solito desiderio di andare al cinema alle sei di sera. Si avvicina-vano le sei di sera ma io non avevo voglia di andare da nessuna parte (ibid.).

In realtà, però, il «disordine e la polvere» di quelle confuse affermazioni verranno spazzati via negli scritti successivi, dove Ginzburg farà chiarezza sulla sua valutazione del cinema come arte di poesia e definirà i confini della sua esperienza spettatoriale.

6. Il contagio della poesia

Se, come si è tentato di mostrare con questi pochi esempi, i “rac-conti del cinema” di Ginzburg e Morante sono diversi per molti aspetti, perché legati sia al posizionamento estetico e critico personale, che al contesto diverso (la testata, i lettori/ascoltatori, il periodo storico) in cui scrivono, emergono però dei nodi di convergenza che si tenterà in altra occasione poi di verificare se condivisibili con le altre scrittrici. Quel che lega in ultima analisi l’approccio delle due autrici al grande schermo è la ricerca di quella che entrambe chiamano la «poesia» (entrambe usano il termine nell’accezione crociana come sinonimo di arte tout court).

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In un articolo pubblicato su Il Mondo nel 1975 e intitolato Il volto

osceno della celluloide, Ginzburg sembra riprendere le confuse notazioni

espresse quattro anni prima in Cinematografo, ribaltando decisamente il giudizio sulla settima arte. Se per un verso afferma con forza la sua pas-sione per la pratica della vipas-sione e per la frequentazione delle sale (il cinema come «puro e ricco ozio»; la disposizione a sedere al buio e a vedere ogni genere di «orrori»), per altro prova a riflettere sulle diffe-renze strutturali del dispositivo filmico e sulla assenza dei «tempi ver-bali» che lei sostiene «mancano a chi fa un film». Ma ciò che appare più interessante è che la dimensione artigianale e la presenza di «cose, gente, denaro e macchine da presa», che nell’articolo precedente erano consi-derate le prove a carico della falsità del cinema, vengono ora ritenuti semplicemente come oggetti e strumenti del mestiere, equivalenti in qualche misura ai tempi verbali:

Mi è accaduto qualche volta di veder girare dei film. In primo luogo mi ha colpito la confusione, il rumore, la folla. Poi mi ha colpito la presenza di alcuni oggetti casalinghi e umili […]. Mi è capitato di pensare che vorrei anch’io, quando scrivo, avere intorno confusione e folla, e poter maneggiare tutti questi oggetti, stoffe, pinze da bu-cato, sale da cucina. In quale modo il sale da cucina e i soldi e la confusione e il rumore diventino un film, e qualche rara e stranis-sima volta un film bellissimo, è una cosa su cui non finirò mai di provare stupore. Comunque vedere girare un film mi ha colpito come qualcosa che sentivo di invidiare. Chi scrive è atrocemente solo. Non ha niente, salvo carta e penna. Ha però, come unica con-solazione, i tempi dei verbi. Non è poco. (Ginzburg 2001: 35-36)

La frequentazione sporadica dei set pasoliniani è un'altra espe-rienza che le due scrittrici condividono: Natalia Ginzburg aveva inter-pretato il ruolo di Maria di Betania nel Vangelo secondo Matteo e Morante aveva recitato in Accattone nella parte di una detenuta. Dalla osserva-zione diretta dei processi di costruosserva-zione di un film Morante deriva la conferma della difesa (già espressa nelle cronache degli anni Cinquanta) a favore del cinema come arte collettiva:

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Non sono molti, come si sa, coloro che escludono il cinema dal nu-mero delle arti belle. E l’argomento da essi preferito, a sostegno della loro opinione, è il seguente: «Un’opera d’arte (essi dicono), è il prodotto misterioso, delicato dell’intuizione individuale dell’arti-sta. Come si può sperare che la grazia, la freschezza di questa intui-zione originale si salvino in un film, che è opera di tanti collabora-tori (non sempre d’accordo fra loro), ha per suoi strumenti dei mac-chinari complicati, ed è sempre limitata da interessi estranei alla poesia?»

Come i nostri ascoltatori sanno ormai da tempo, noi non siamo af-fatto d’accordo con questi detrattori del cinema. L’argomento ora esposto, infatti, se fosse d’avvero inconfutabile, porterebbe a negare la qualità di opera d’arte non soltanto ai films, ma anche per fare un esempio alle architetture e ai melodrammi (Morante 2017: 105).

In altri termini le due scrittrici comprendono chiaramente la complementarietà di arte e industria15, e rimangono affascinate dal mistero di una bellezza che sgorga da «macchinari complicati», come da «pinze da bucati» e «da sale da cucina». Perché in fin dei conti quello che cercano al cinema è appunto la poesia. Come afferma perentoriamente Morante, con una dichiarazione che Ginzburg potrebbe sottoscrivere a pieno titolo e che suggella la fisionomia disegnata dai loro pensieri di spettatrici: «Ai films, come ai libri, come alla pittura, come a ogni altra espressione umana, io chiedo la realtà, e cioè un impegno assoluto e disinteressato verso la vita» (ivi: 116). «Il vero» e il reale sono per entrambe «la sostanza di ogni poesia» (ibid.: 16).

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L’autrice

Maria Rizzarelli

Maria Rizzarelli, professoressa associata di Critica letteraria e lette-rature comparate, insegna Letteratura contemporanea e arti visive presso l’Università di Catania. Si è occupata di vari autori del Novecento con particolare attenzione alle forme di ibridazione fra generi e lin-guaggi diversi. Le sue principali aree di ricerca riguardano: letteratura e arti visive (con particolare attenzione a fotografia e cinema); letteratura e giornalismo; la narrativa del Novecento; gli studi di genere. Dirige, in-sieme a Stefania Rimini, «Arabeschi. Rivista internazionale di studi su letteratura e visualità» (www.arabeschi.it).

Tra le sue pubblicazioni: Gli arabeschi della memoria. Grandi virtù e

piccole querelles nei saggi di Natalia Ginzburg (CUECM, 2004); Sguardi dall’opaco. Saggi su Calvino e la visibilità (Bonanno, 2008); Sorpreso a pensare per immagini. Sciascia e le arti visive (ETS, 2013); Una terra che è solo visione. La poesia di Pasolini tra cinema e pittura (Duetredue, 2015). Goliarda Sapienza. Gli spazi della libertà, il tempo della gioia (Carocci, 2018).

Email: mrizzarelli@gmail.com

L’articolo

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Data accettazione: 31/10/2018 Data pubblicazione: 30/11/2018

Come citare questo articolo

Rizzarelli, Maria, “I pensieri della spettatrice. Due scrittrici davanti al grande schermo”, Schermi. Rappresentazioni, immagini, transmedialità, Eds. F. Agamennoni, M. Rima, S. Tani, Between, VIII.16 (2018),

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