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"Arvatov su Majakovskij" Tentativo di ricostruzione della storia del Levij Front Iskusstv

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Academic year: 2021

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Introduzione

Nel folklore ebraico esistono diverse leggende in cui una persona meritevole, in punto di morte, viene salvata dal generoso intervento di tutta la comunità: ognuno dona un certo numero delle ore della propria vita, garantendo così alla persona in pericolo la sopravvivenza.

Trovo in queste leggende una certa analogia con la sostanza dello studio letterario: di fatto, nel decidere di studiare l'opera di un certo intellettuale, regaliamo un periodo più o meno consistente della nostra vita a una persona che senza dubbio riteniamo interessante e meritevole di attenzione, e così facendo gli garantiamo di sopravvivere nella memoria del mondo ancora per un po'.

Boris Ignat'evič Arvatov per lungo tempo è stato molto vicino alla morte. Non esistono, per quanto mi è stato possibile ricostruire, opere monografiche dedicate allo studio della sua vita e opera; ed è difficoltoso, se non quasi impossibile, ricostruire una sua biografia dettagliata, o anche solo una che non sia costellata di estese lacune e gravi contraddizioni. Probabilmente Arvatov – e con lui altri due teorici del Lef, Boris Kušner e Nikolaj Čužak, della cui vita e opera pochi si sono interessati – ha pagato un doppio prezzo: da un lato le sue posizioni teoriche erano poco concordi alla successiva lotta per il realismo socialista, e quindi per lui non c'era spazio nelle storia ufficiale della letteratura sovietica; dall'altro, la sua adesione ideologica al partito lo ha probabilmente reso un oggetto di studio poco attraente per le generazioni di studiosi successive.

Così scrive anche Hans Günther nell'Introduzione dell'antologia di Arvatov da lui curata nel 1973:

La storiografia ufficiale ha presentato fino ad oggi tutta l'attività artistica sotto l'aspetto della “lotta per il realismo socialista”. Gli artisti di sinistra rappresentano per quella storiografia una corrente decadente, nociva, da combattere, e pur tuttavia anche in essa si trovano accenni sparsi ma utili per lo studio dell'arte di sinistra negli anni '20 (…). Di fronte a difficoltà di diverso genere non c'è così da stupirsi se sulla vita di Arvatov c'è da sapere ben poco (Introduzione, in Arvatov 1973, p. 9)

Negli anni Sessanta le teorie arvatoviane hanno avuto una rinascita presso l'Istituto federale per la ricerca scientifica sull'estetica tecnica (Vniitė), creato nel 1962 allo scopo di

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controllare il design sovietico; dal 1965 al 1967 l'istituto fu diretto dal filosofo Karl Kantor, che cercò di applicare la teoria di Arvatov sull'arte nella produzione con la cibernetica e le nuove teorie dei sistemi. Kantor fece parte anche dello Studio didattico-sperimentale presso l'Unione degli Artisti dell'Urss, aperto nel 1965 presso Mosca allo scopo di coordinare l'attività di artisti, designer, manager e ingegneri di fabbrica, dove dal 1967 al 1971, si tennero due volte all'anno seminari di 90 giorni in cui a lezioni di delegazioni dei suddetti gruppi tennero regolarmente seminari di «progettazione artistica» di 90 giorni (2 volte all'anno), di sociologia, semiotica, storia e teoria del design occidentale, e con laboratori pratici di composizione e tecnica delle forme e dei colori.

L'attività di Kantor è stata ricordata in un convegno sul costruttivismo tenutosi a Princetown il 10- 12 maggio e recante il titolo desunto da Arvatov “Illusioni uccise dalla vita”; un resoconto del convegno è stato pubblicato sul numero 125 di Novoe literaturnoe obozrenie” (“Nuova rassegna letteraria”– “NLO”), la principale rivista teorico-letteraria russa.

Sfogliando le pagine della rivista si riesce a costruire un quadro dell'altalenante interesse per Arvatov dell'ultimo decennio: ne sono un esempio il lavoro del 2002 di V. Markovič dedicato a Grigorij Gukovskij La concezione di “sviluppo letterario per stadi” nei lavori

degli anni '40 di G.A. Gukovskij (Koncepcija “stadial'nosti literaturnogo razvitija” v rabotach G. A. Gukovskogo1940-ch godov) in cui però si dà una definizione estremamente

negativa del metodo sociologico-formale, definito addirittura come “m o s t r u o s o ” ; l'articolo del 2007 di A. Bljumbaum La statua che prende vita e la musica incarnata: i

contesti di “Un ragazzo severo” (Oživljajuščaja statuja i voploščennaja muzyka: konteksty “Strogogo junoši”) in cui si ritrovano recidivi di teoria arvatoviana nel film Un ragazzo severo di Room/Oleša; e si arriva infine ai lavori più recenti di Hans Günther, che, pioniere

degli studi arvatoviani negli anni Settanta è tornato sul tema nel 2009 con l'articolo Sulla

bellezza che non è riuscita a salvare il socialismo (O krasote, kotoraja ne smogla spasti socializm) dedicato in particolare all'analisi dell'arte come fenomeno di “compensazione”

dei rapporti reali, e di Sergej Ušakin, che nel lavoro del 2013 L'oggetto dinamizzante (Dinamizirujuščaja vešč' )analizza la teoria arvatoviana sul carattere «passivo» degli oggetti nel sistema di produzione capitalista, e sulla loro dinamizzazione nel sistema socialista. Voglio segnalare altre due opere dedicate ad Arvatov, ossia l'articolo del 1997 di Christina Kiaer, Gli oggetti socialisti di Boris Arvatov (Boris Arvatov's socialistic objects),pubblicato

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sul numero 81 della rivista October come commento alla sua traduzione del lavoro di Arvatov La vita quotidiana e la cultura degli oggetti (Everyday life and the culture of

things) dedicato esclusivamente al lato della teoria arvatoviana che si occupa della

elaborazione degli oggetti di uso quotidiano; e l'articolo di Maria Zalambani Boris Arvatov

teorico del produttivismo ( Boris Arvatov theoricien du produttivisme) pubblicato nel 1999

su Cahiers du Monde Russe.

Da questa panoramica è abbastanza chiaro che tutti gli studiosi che si sono recentemente occupati di Arvatov si sono limitati all'esame di uno specifico settore della sua opera, tralasciando di compiere un'analisi più dettagliata di tutto l'apparato teorico e metodologico. Una delle caratteristiche del lavoro intellettuale di Arvatov è l'estremo eclettismo, che porta il critico ad esprimersi su una molteplicità di argomenti: per quanto le sue deduzioni siano guidate dalla costanza metodologica e teorica, credo che sia necessario cercare di riunire insieme tutti i vari aspetti dell'opera arvatoviana, ricostruendo così una sorta di grande costellazione del suo lavoro critico e teorico.

Il seguente lavoro si propone di contestualizzare storicamente e teoricamente il lavoro inedito di Boris Arvatov La riga versale di Majakovskij (Stroka Majakovskogo), che, nel progetto originario, avrebbe dovuto far parte del progetto di una monografia su Vladimir Majakovskij che avrebbe dovuto essere pubblicato dalla casa editrice del Lef, intitolata

Arvatov su Majakovskij (Arvatov o Majakovskom)

Le cause che portarono al fallimento di questo progetto possono solo essere ipotizzate: sappiamo che già nel 1923 Arvatov subì un forte crollo nervoso, e venne ricoverato in una clinica psichiatrica; la sua salute andò ulteriormente deteriorandosi, al punto tale che nel 1930 (dopo aver compiuto un ultimo tentativo di portare a termine il suo libro, come testimoniano le annotazioni autografe sul documento) si ritirò dalla scena letteraria, per poi togliersi la vita nel 1940.

Bisogna riconoscere che in ogni caso, anche se le sue condizioni di salute glielo avessero permesso, difficilmente Arvatov sarebbe giunto alla pubblicazione del libro nel 1930: Majakovskij era morto, il Lef era scomparso (e con esso la casa editrice correlata che avrebbe dovuto pubblicare il libro), e le stesse condizioni storico-politiche erano del tutto avverse alla realizzazione del progetto.

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Il documento a mio disposizione si compone di due diverse versioni dello stesso capitolo del libro, e di un'introduzione più tarda che fornisce una serie di informazioni di ordine metodologico.

Il mio primo obiettivo è stato quello di costituire un'edizione filologicamente corretta, cercando di mantenere il più possibile l'identità del testo originale e contemporaneamente di renderlo facilmente fruibile al lettore.

Ho pertanto optato per il mantenimento di entrambe le versioni, riproducendo, specialmente per quel che riguarda la seconda versione, le annotazioni autografe dell'autore.

Trattandosi di un frammento incompiuto, mi sono successivamente posta il problema di corredarlo di un apparato storico-letterario che ne permettesse sia l'interpretazione, sia la sua collocazione in un contesto più ampio.

Ho scelto quindi di procedere per cerchi concentrici, ricostruendo in primo luogo la storia del movimento del Lef, partendo dalle sua “preistoria” – le riviste “Gazeta Futuristov”, “Iskusstvo Kommuny”, “Tvorčestvo” – per ripercorrerne tutte le vicende fino allo scioglimento del “Novyj Lef”. Successivamente, ho cercato di dare una panoramica quanto più completa della figura di Boris Arvatov, tentando di supplire alla mancanza di fonti biografiche accertate con una comparazione delle varie versioni esistenti, per poi passare a una disamina della sua opera che comprendesse i più vari aspetti, a partire dalle teorie sull'arte nella produzione per arrivare al metodo sociologico-formale, e, infine, ai suoi articoli di critica letteraria e artistica.

L'ultima sezione comprende infine tutti i materiali relativi a La riga versale di Majakovskij, introdotti da una breve spiegazioni sui criteri di edizione del testo da me utilizzati.

Le due versioni dell'inedito saranno accompagnate da una traduzione e da un commento al testo che ne fornisce una chiave interpretativa sulla base di quanto analizzato nel capitolo dedicato al sistema teorico di Boris Arvatov.

Nell'esaminare la frammentaria biografia di Arvatov, appaiono una serie di circostanze di rilievo degne di maggiore approfondimento: una di esse è il rapporto di Arvatov con l'associazione del Proletkul't, della cui sezione moscovita divenne segretario nel 1918 e che svolse sicuramente un ruolo decisivo nella sua formazione intellettuale; altrettanto importante sarebbe una ricostruzione precisa della sua formazione politica, a cominciare

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dalla sua militanza nel movimento Socialista-Rivoluzionario e dalla sua elezione nell'Assemblea Costituente (circostanze, queste, su cui nessun biografo si sofferma).

Un ulteriore punto di interesse è costituito da un lato dalle circostanze della sua malattia, che paiono aver giocato un ruolo non di secondo piano nel fallimento della pubblicazione del libro Arvatov su Majakovskij, e i suoi rapporti familiari, in special modo quelli che pare lo legassero al maresciallo Michail Nikolaevič Tuchačevskij.

Tutte queste problematiche possono essere risolte solo attraverso un minuzioso lavoro di archivio: ci sono ancora molte ore di vita da regalare a Boris Arvatov.

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La preistoria del Lef: “Gazeta Futuristov”, “Iskusstvo Kommuny” e “Tvorčestvo”

Con un candido serto di rose, si avanza Lunačarskij narkompros.

(V.V. Majakovskij, cit. in Brik1978)

Il primo numero del “Lef”, che esce nel marzo del 1923,è il punto di arrivo di un percorso cominciato già nel 1918 e che si snoda progressivamente attraverso le diverse realtà editoriali di “Gazeta Futuristov” (“Giornale dei futuristi”), “Iskusstvo Kommuny” (“Arte della Comune”) e “Tvorčestvo” (“Creazione”). Tutti questi progetti sono infatti gestiti da quelle medesime personalità che confluiranno poi nella redazione del Lef con l'obiettivo di trasformare i mille rivoli dell'“arte di sinistra” in un unico grande fiume.

Le giovani correnti dell'avanguardia furono le prime ad accettare la svolta bolscevica dell'Ottobre 1917. La definitiva disintegrazione del vecchio regime sembrava offrire finalmente la tanto agognata libertà creativa di espressione. Già a novembre David Burljuk, Vasilij Kamenskij e Vladimir Majakovskij fondano nei locali di una ex- lavanderia il Caffè dei poeti (Kafe poetov), che divenne il capostipite di una lunga serie di ritrovi d'avanguardia, nati dalla volontà futurista di contrapporsi all'ambiente letterario “elitario” di Pietrogrado e favoriti dalla sequela di requisizioni di immobili. Tra e il febbraio e il marzo del 1918, al Caffè dei poeti si tenevano interventi quotidiani di Majakovskij, Burljuk, Kamenskij e altri loro sodali artistici: «I poeti sono in maggioranza relativa... Vi accoglie David Burljuk. E' affascinante e ingegnoso. Majakovskij è sfacciato, brillante, intelligente. Il suo poema

Uomo che ha letto al Caffè dei Poeti, al di là di tutta la sua apparente confusione è preciso,

logico ed efficace. Vasilij Kamenskij, il terzo “asso” del Caffè dei poeti è forse il poeta più talentuoso e autentico. E' il Gauguin del futurismo» (Galuškin 2005, p. 64). Sulla traccia del

Caffè dei poeti vennero fondati il Pittoresque, decorato da disegni di Rodčenko e Tatlin,

dove Mejerchol'd mise in scena (per la prima volta fuori da un teatro!) la Sconosciuta (Neznakomka) di Blok e il primo maggio si tenne la serata majakovskiana “Il mio maggio” (“Moj maj”); anche gli immaginisti si dotarono di un proprio caffè: La stalla di Pegaso (Stojlo Pegasa).

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Così' Majakovskij descriveva il Caffè dei poeti ai coniugi Brik: “ Il caffè per ora è un'istituzione piacevole e allegra. Pieno zeppo di gente, segatura sul pavimento. Noi stiamo sul palco. Mandiamo il pubblico al diavolo. Il futurismo incontra il gran favore del pubblico” ( Jangfel'dt 2009, p. 117). Sulle pareti del locale, decorate dai disegni di Burljuk, Majakovskij e di altri artisti,si potevano leggere citazioni dalle opere dei futuristi. L'abituale pubblico del Caffè era composto di attori, poeti, cantanti e ballerine; ma presto il locale divenne il punto d'incontro degli anarchici, di cui il movimento futurista condivideva le idee antiautoritarie. Nel marzo del 1918, Majakovskij, Kamenskij e Burljuk parteciparono direttamente alle iniziative anarchiche, occupando un ristorante nel quale progettarono di organizzare un club per la “creazione anarchico-individuale”; tuttavia, vennero sgomberati nel giro di appena una settimana. Anche l'avanguardia figurativa sosteneva i gruppi anarchici: Rodčenko, Tatlin e Malevič pubblicavano abitualmente su “Anarchija”, quotidiano ufficiale del movimento. La fine del periodo anarchico del futurismo, sia nell'ideologia che nella pratica, coincise con la fine del Caffè dei poeti: il 12 aprile del 1918 la Čeka (la polizia politica) procedette alla liquidazione dell'anarchismo politico, e appena due giorni dopo, il 14 aprile, chiuse i battenti il locale.

Fin dalle prime settimane dopo la presa del potere, il Commissario del Popolo per l'Istruzione Lunačarskij aveva rivolto ripetuti inviti a artisti, studiosi e scienziati affinchè offrissero la propria collaborazione al nuovo regime e dessero il loro giudizio sulle misure che era necessario prendere, che riguardavano questioni di estrema importanza, come l'elaborazione di nuove forme di vita artistica, l'istituzione di un soviet Nazionale che si occupasse della tutela di palazzi e musei e di uno, organizzato dal Narkompros, che deliberasse sulle questioni di tipo artistico: «Da parte del popolo, che è diventato padrone della terra russa, – Scriveva Lunačarskij all'intelligencija, – io vi invito, artisti, ad esprimere il parere organizzativo di tutto il mondo artistico su un possibile impiego più razionale, per la cultura nazionale, dei magazzini e dei vivai dell'arte della nostra Repubblica» (Cit. in: Tolstoj 2010, p.33).

Tali inviti, però, vennero sempre respinti dalla Unione degli Artisti che prediligeva l'idea di una organizzazione non governativa. Invece, l'avanguardia accettò la rivoluzione con entusiasmo, ritenendo che essa potesse dare grande spazio a innovative ricerche artistiche: «Ottobre. Aderire o non aderire? – Scriverà poi Majakovskij in Io stesso (Ja sam). – La

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questione non si pone per me (e per gli altri futuristi moscoviti). È la mia rivoluzione» (Majakovskij 1955, I, p. 25).

Accettando l'invito posto dai bolscevichi i futuristi devono affrontare una questione chiave del dibattito letterario nel decennio successivo: come deve essere l'arte nuova? Nel corso degli anni il concetto di “arte proletaria” sostituirà in buona parte quello di “arte nuova”, ma i problemi riguardanti l'una o l'altra domineranno la scena per tutti gli anni '20. Nella fase iniziale, uno dei problemi più scottanti riguardava il ruolo che doveva svolgere l'“arte vecchia” nella costruzione di quella “nuova”: bisognava rifiutarla in toto come relitto di un sistema (o meglio, di un mondo intero) che era stato spazzato via dalla rivoluzione, oppure sforzarsi di recuperare e integrare i suoi risultati più validi? L'arte vecchia doveva fungere da “modello” per quella nuova, o quest'ultima doveva porsi in netta antitesi a quella? E quale ruolo dovevano avere gli artisti in tutto ciò, e quale il proletariato?

I futuristi esprimono con forza le loro idee in proposito nel Decreto n°1 sulla

democratizzazione delle arti, che porta l'eloquente sottotitolo di Letteratura di steccato e pittura di piazza (Dekret n° 1 o demokratizacij iskusstv – Zabornaja literatura i ploščadnaja živopis'), contenuto nel primo e unico numero del “Giornale dei futuristi”, che

uscì il 15 marzo 1918 e venne affisso sui muri delle case di Mosca.

«Da oggi, con la distruzione del regime zarista, è soppressa la presenza dell'arte nei depositi , ripostigli del genere umano, nei palazzi, nelle gallerie, nei saloni, nelle biblioteche, nei teatri <…> Pittori e scrittori prendano subito i colori e i pennelli della loro arte per dare una nuova luce, per dipingere tutti i fianchi, le fronti, i petti delle città, delle stazioni e degli stormi di vagoni sempre in corsa (…) che le vie siano la festa dell'arte per tutti. “Tutta l'arte a tutto il popolo!» (Majakovskij 1955, XII, p. 443); nel Manifesto della

federazione volante dei futuristi (Manifest Letučej Federacij Futuristov), gli ex budetljane

chiedono invece che dopo la schiavitù politica e quella sociale venga abolita quella dello Spirito, che come nel passato, «continua a vomitare una fontana di acqua putrida che viene chiamata “vecchia arte” <…> Noi proletari dell'arte chiamiamo i proletari delle fabbriche e delle terre alla terza rivoluzione, incruenta ma feroce, la rivoluzione dello Spirito» (cit. in: Magarotto 1976, p. 87)

Inoltre, i futuristi pongono le seguenti richieste: che si separi l'arte dello Stato, abolendo così ogni forma di controllo e di patrocinio; che tutte le infrastrutture come musei, cappelle, sale

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di esposizione ed edifici delle accademie vengano messi a disposizione di tutti gli uomini d'arte; che venga garantita a tutti un'educazione artistica generale, poiché l'arte libera può nascere solamente dalla Russia profonda; infine, che le “scorte estetiche” vengano considerate alla pari di quelle alimentari ed espropriate, per essere destinate a un giusto utilizzo da parte di tutti.

A completare il quadro della teoria futurista dell'arte nuova compaiono due appelli singoli rivolti a due diverse e specifiche categorie: l'Appello ai giovani artisti (Obraščenie k

molodym chudožnikam) di David Burljuk,e la Lettera aperta agli operai (Otkrytoe pis'mo rabočim) di Majakovskij. Nel primo, Burljuk invita le nuove generazioni a rinnovare le

istituzioni artistiche, proponendo un piano di divisione dei locali delle accademie e delle scuole in parti uguali tra tutte le correnti delle scuole pittoriche. Tutte le correnti verranno poi rappresentate in un concorso originale, senza esami o graduatorie, in un'atmosfera di studio dove il direttore dell'atelier è sostenuto soltanto dal rispetto e dall'amore dei suoi allievi: «Amici, basta con la schiavitù, l'arte è libera. Basta con gli statuti delle scuole, rifacciamoli da cima a fondo. Una scuola libera darà vita a una creazione libera» (ivi p. 91). Nella sua lettera, Majakovskij chiede agli operai: «quali fantastici edifici innalzerete sul luogo degli incendi di ieri? Quali canzoni e quali musiche si sentiranno dalle vostre finestre?» (Majakovskij 1955, p. 8). A suscitare la maggiore riprovazione di Majakovskij è il fatto che anche dopo la rivoluzione si continui a rappresentare opere come l'Aida o La

Traviata, i cui «spagnoli e conti» sono in evidente contraddizione con la realtà

post-rivoluzionaria. Ritorna, come nel Manifesto della Federazione Volante, il tema della rivoluzione dello Spirito, l'unica capace di spazzare via i «rimasugli della vecchia arte», che potranno al massimo servire come supporto didattico nelle scuole, per lo studio della storia e della geografia. Gli operai devono invece ribellarsi a chi tenta di ammannirgli tale minestra riscaldata in luogo del «pane della viva bellezza» e ricordarsi che «la rivoluzione del contenuto – il socialismo anarchico – è impensabile senza la rivoluzione della forma: il futurismo». In chiusura, a dipingere il mondo del futuro nato dalle rivoluzioni, ritroviamo le suggestioni del Decreto n. 1: «A nessuno è dato sapere da quali enormi soli sarà illuminata la vita di domani. Può darsi che gli artisti trasformeranno in arcobaleni multicolori la grigia polvere delle città, forse dalle creste dei monti risuonerà incessantemente la colossale musica dei vulcani trasformati in flauti, forse costringeremo le onde degli oceani a pizzicare

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corde tese tra l'Europa e l'America».

“Gazeta Futuristov” raccolse pareri negativi da parte degli scrittori moderati (sia politicamente che nell'impostazione estetica), come Evgenij Zamjatin: «I futuristi sono morti. I futuristi non ci sono più: ora ci sono i presentisti... Dal giornale degli ex-futuristi è chiaro senza ombra di dubbio: per loro il futurum è diventato praesens» (Galuškin 2005, p.130). All'estremo opposto, si mostra per ora scettico anche Boris Kušner, che pure entrerà a far parte del Lef (proveniendo, è bene sottolinearlo, non dall'avanguardia, ma dal movimento scitico e socialista-rivoluzionario di sinistra, all'ombra di Ivanov-Razumnik): «Avrebbe potuto essere, avrebbe dovuto essere stupendo, maestoso, vittorioso. E' venuto fuori miserabile. Malinconico e spiacevole come una ricaduta del tifo <…>. E' vergognoso per voi, compagni, assimilare le abitudini degli erbivori e ruminare assonnati la gomma maleodorante» (ibidem).

Quali furono invece le reazioni del neonato potere sovietico alle rutilanti invenzioni del gruppo futurista? Se l'atteggiamento di Lenin era prevalentemente negativo, quello di Lunačarskij tendeva invece ad essere più tollerante, ma non mancavano i motivi di attrito; il futurismo era senza dubbio una fonte di nuove e originali idee estetiche, ma ad essere disturbante era il suo modo di rapportarsi con l'eredità letteraria nazionale. Difatti, le tendenze distruttive dei futuristi verso “l'arte vecchia” mal si conciliavano con gli sforzi compiuti dalle autorità per difendere il patrimonio del passato, e poco valeva che Majakovskij nella sua lettera agli operai scrivesse: «vi protegga la ragione dalla violenza fisica contro le vestigia dell'arte del passato», quando il tono generale dei manifesti era di disprezzo nei confronti di quest'arte.

Inoltre, Lunačarskij era riluttante a rompere definitivamente i rapporti con l'intelligencja tradizionale e ad affidarsi totalmente ai futuristi, i cui programmi sembravano poco consistenti e non adatti alle reali necessità del potere sovietico, che intendeva rompere con la cultura del passato e riconosceva la necessità di nuove forme artistiche, ma allo stesso tempo non desiderava affatto affidare completamente questo compito ai futuristi, che erano temibili anche per la loro imprevidibilità e indipendenza.

Non stupisce quindi che uno dei momenti in cui rapporti tra Lunačarskij e le avanguardie sono più tesi è proprio quello precedente all'uscita di “Gazeta futuristov”, che costituisce quindi uno stacco netto nei confronti del Narkompros e della sua politica, ritenuta troppo

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incline ai compromessi con l'arte vecchia. Tuttavia, già alla fine dell'anno il problema comune della costruzione del socialismo ristabilisce i rapporti tra lo stato e i futuristi, e il ricongiungimento viene sancito dall'entrata dei futuristi nella Sezione delle arti figurative (IZO) del Narkompros (Commissariato del Popolo per l'Istruzione): Majakovskij, Osip Brik, Nikolaj Punin e Natan Alt'man entrarono far parte della sezione di Pietrogrado, mentre Kazimir Malevič, Vladimir Tatlin, Vasilij Kandinski e Aleksandr Rodčenko confluirono in quella di Mosca. Di lì a poco inizia a uscire la rivista dell'IZO “Iskusstvo kommuny”, dove i futuristi la fanno da padrone (fino a pubblicare a caratteri cubitali in prima pagina i più visionari slogan chlebnikoviani dalla Tromba dei marziani).

L'arrivo delle avanguardie spaccò in due fronti contrapposti la struttura interna del Narkompros: l'IZO divenne di fatto il centro di potere delle avanguardie, mentre la Sezione musei e tutela dell'antichità era viceversa il rifugio degli intellettuali di impostazione tradizionale; continuamente irrisi dai loro più giovani colleghi, questi vedevano le attività di Majakovskij e compagni come un vero e proprio assalto dei futuristi al trono vacante dell'arte di stato. Al centro si trovava Lunačarskij, a cui spettava il compito di mantenere una sorta di equilibrio tra le fazioni.

In “Iskusstvo kommuny” l'ottimismo visionario di “Gazeta futuristov” lascia il posto a un atteggiamento più pragmatico, concentrato sulla risoluzione pratica di problemi concreti. Una delle prime questioni ad essere affrontate è quella cruciale inerente al ruolo del proletariato nella produzione della cultura nuova. In merito, Brik e Punin si erano già espressi nel corso dell' incontro “Tempio o fabbrica?”, tenutosi il 24 ottobre a Pietrogrado al Palazzo delle Arti (l'ex Palazzo d'Inverno). Possiamo ricostruire le opinioni dei due teorici dai resoconti dell'incontro che vennero pubblicati sui giornali all'epoca: «Il proletariato non può accontentarsi di quelle arti che alla borghesia sembrano sacre e alle quali essa guarda con tremore <...>. Il proletariato deve compiere un rivolgimento in arte» (Punin); «Il compito del proletariato non è soltanto espellere la borghesia dalle posizioni che essa occupa, ma anche – occupate quelle posizioni – rinnovare la vita intera» (Brik) (Galuškin 2005, p. 300). All'incontro partecipò anche Majakovskij, mantenendosi su posizioni che si riallacciano al Decreto n°1: «Ci serve non un morto tempio dell'arte, dove languiscono opere morte, ma una viva fabbrica dello spirito umano. Ci serve un'arte in fermento, parole in fermento, fermento d'azione <...>. L'arte dev'essere concentrata non nei templi morti dei

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musei, ma dappertutto: nelle strade, sui tram, nelle fabbriche, negli opifici e nei quartieri operai» (ibidem).

Il problema del ruolo del proletariato viene esaminato, insieme alla questione relativa al nuovo metodo artistico, nell'articolo Il drenaggio dell'arte di Osip Brik (Drenaž Iskusstva), dove non mancano, come di consueto, stilettate nei confronti dell'arte del passato, definita come «il miasma di un pantano che deformava bizzarramente i contorni del reale» (Magarotto 1976, p. 95. Originale in “Iskusstvo Kommuny”, 1918, n° 1). Il compito dei proletari diventa dunque quello di prosciugare i pantani, perché l'obiettivo dell'arte deve essere quello di creare la vita, non di deformarla. Per chi non è in grado di farlo, ma sa solo imitare la natura, non c'è posto nella nuova realtà, dove si deve creare la cultura umana: «Fabbriche, officine, laboratori attendono l'arrivo degli artisti che devono offrire modelli di oggetti nuovi, mai visti prima. Gli operai sono stanchi di rifare sempre gli stessi oggetti, permeati dallo spirito borghese <…>. Occorre organizzare immediatamente istituti di cultura materiale, per dar modo agli artisti di prepararsi a creare nuovi oggetti di uso quotidiano per il proletariato e ad elaborare i tipi di questi oggetti, di queste future opere d'arte» ( ivi, p. 96).

Le tesi sostenute da Brik provocarono le critiche di ispirazione proletkul'tista sulle pagine della rivista professionale “Žizn železnodorožnika” (“La vita del ferroviere”): «Gli artisti di tendenza borghese, fino a ieri dalle idee ostili al potere proletario, non possono certo fare il drenaggio alla vecchia arte borghese, poiché ciò configurerebbe un matricidio <...>. Il proletariato era e sempre sarà contro quest'ultimo aborto dell'arte borghese, anche se sotto la sigla di futurismo-comunismo». Così Ozol-Prednek nell'articolo “ Arte proletaria – arte

rivoluzionaria (Proletarskoe iskusstvo – revoljucionnoe iskusstvo; Galuškin 2005, p. 309).

Eppure, lo stesso Brik aveva già espresso posizioni simili nell'agosto del 1917, nell'articolo

La democratizzazione dell'arte (Demokratizacja iskusstva), pubblicato nella rivista di

Gor'kij Letopis', dove sosteneva che la rivoluzione poneva inevitabilmente su basi nuove i problemi relativi alla vita sociale e culturale, dato che fino a quel momento «si è considerata come arte “autentica” quella delle classi privilegiate, mentre l'arte per il popolo era “l'arte per i poveri”. Sia i cosidetti “amici del popolo” che gli esteti hanno sempre considerato il popolo come una sorta di bambinetto, senza voler capire che il popolo senza aiuto esterno riconosce le proprie necessità culturali e trova il modo di soddisfarle» (cit. in Lavrov 2005,

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578).

Sempre Brik amplia ulteriormente l'argomento nell'Artista proletario (Chudožnik-proletarii) pubblicato nel secondo numero di “Iskusstvo kommuny”. L'arte del futuro sarà necessariamente proletaria, ne va della sua sopravvivenza stessa, ma da chi dovrà essere creata quest'arte? Alcuni sostengono che anche quest'arte, come tutte quelle precedenti, verrà creata dagli artisti, il cui talento viene dunque considerato come facilmente adattabile alle necessità di ogni genere di consumatore: «Costoro», – scrive Brik, – «non sanno liberarsi dal punto di vista del consumatore borghese sugli oggetti e si sforzano di porre il proletariato in una situazione che non gli si addice per nulla, di mecenate di massa, magnanimamente disposto a farsi divertire con trovate spassose» (cit. in Magarotto 1976, p.102) Da queste teorie deriva una delle principali critiche rivolte al futurismo, quella della sua presunta “incomprensibilità”: «Si sa da un pezzo che quanto più l'arte è comprensibile e accessibile tanto più è noiosa» (ivi, p.103).

Altri (il Proletkul't) danno per scontato che a produrre l'arte proletaria debbano essere i proletari stessi. Ma Brik dissente anche su questo punto, dato che ciò porterebbe solo a forme parodistiche dell'arte del passato, ormai superata. Qual'è dunque la soluzione a questo dilemma? Per Brik, la chiave sta in una figura ibrida, quella dell'artista-proletario, che contiene in sé, in un tutto inscindibile, il talento artistico e la coscienza proletaria. Sopratutto, l'artista-proletario sa di produrre non per esaltare il proprio io, ma per adempiere alla funzione sociale di creare il nuovo, ed è consapevole di appartenere – insieme al proprio talento – al collettivo.

Se Brik si ferma su una posizione “costruttivista” ma tutto sommato moderata (l'arte come regolazione collettiva della vita, produzione collettiva di prototipi industriali), da un punto di vista ormai coerentemente “produttivista” (ossia di negazione dell'arte in quanto tale), il problema del ruolo dell'artista nella nuova società viene affrontato da Ivan Puni nell'articolo

La creazione della vita (Tvorčestvo žizni), particolarmente interessante perchè introduce il

concetto della m a ss i m a u t i l i t à come principio fondante della produzione contemporanea, posizione che verrà successivamente ripresa dai costruttivisti sulle pagine del Lef. Secondo Brik e altri, l'idea dell'arte come “costruzione della vita” dovrebbe portare alla conferma della sua utilità anche nel mondo socialista; per Punin, invece, questa concezione conferma la posizione opposta, ciòè che l'arte in quanto tale sia oramai inutile:

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«Costruendosi spontaneamente, la vita produce (senza la partecipazione dell'artista) grattacieli, strade, macchine, chiavistelli, scuri, seghe, viti, strumenti, materiali vari: sorge un grattacielo ed ecco che l'artista, affascinato dalla sua struttura lineare e volumetrica, soggiogato dalla sua matematica spaziale, dipinge... un grattacielo» (cit. in Magarotto 1976, p.119. Originale in “Iskusstvo Kommuny”, Pietrogrado 1919). L'artista non può partecipare agli aspetti puramente tecnici della costruzione di un oggetto: di conseguenza, la sua partecipazione nella produzione è pressochè nulla. Puni fa anche una distinzione tra due diversi tipi di bellezza, quella tipica della vecchia produzione (incarnata dall'esempio di una tazza a fiorellini) e quella della nuova produzione, dove la costruzione dell'oggetto dipende interamente dalla sua utilità: l'esempio in questo caso è quello di una scala dei pompieri, che ha «un'altra bellezza, racchiusa nella sua costruzione, nella sua massima utilità, portatilità, leggerezza, comodità, e questo per l'appunto è produzione contemporanea». Gli oggetti moderni sono belli e insieme funzionali solo quando ogni loro parte è dettata dall'utilità. Da questa unità di principio nascerà la nuova bellezza, e da essa i nuovi artisti. Coloro che non lo capiscono saranno costretti a cercare rifugio nel cantuccio dell'arte applicata, che si va via via restringendo, fino a quando non rimarrà a loro disposizione un unico spazio creativo: quello del marchio di fabbrica.

Un altro problema che attira l'attenzione dei futuristi è quello legato all'attuazione pratica del concetto dell'arte “collettiva”: questione affrontata da Boris Kušner nell'articolo L'arte

del collettivo (Iskusstvo kollektiva). Secondo Kušner, pochissimo in realtà è stato fatto per la

creazione della nuova arte dopo la rivoluzione: anche l'unica idea concreta, per l'appunto quella dell'arte collettivistica, è stata formulata in maniera talmente approssimativa e confusa da renderla pressochè irrealizzabile sul piano reale. «L'inesattezza dell'espressione, la superficialità di pensiero che è alla base, generano tutta una serie di equivoci. La definizione “collettiva” è qui intesa nel senso più immediato e letterale, come qualcosa che appartiene al collettivo e che da questo nel suo insieme viene creato. Un presupposto così mal formulato non può che portare a una conclusione illogica: nel socialismo ogni opera d'arte sarà creata collegialmente» (in Magarotto 1976, p. 123. Originale in “Iskusstvo Kommuny”, Pietrogrado 1919, pp. 2-3). Kušner procede quindi a illustrare le possibili applicazioni pratiche di questa definizione: si possono immaginare due diverse forme di collaborazione, ossia la divisione razionale del lavoro di produzione e la partecipazione

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collegiale. La prima condurrà a un'estrema articolazione della produzione artistica, riducendo il lavoro di ogni singolo artista coinvolto in una serie di semplici operazioni meccaniche e ripetitive. Questa soluzione è certamente innovativa, nel senso che non è mai esistita prima del socialismo, ma infrange il principio, fondamentale nell'arte, dell'unità di composizione ed esecuzione: una tale infrazione porterebbe a ulteriore confusione, susciterebbe diffidenza e timore persino nelle menti dei rivoluzionari dell'arte. La seconda ipotesi non contraddice nessuna delle condizioni fondamentali dell'arte, ma difficilmente può essere considerata una novità di carattere prettamente socialista. Il principio di lavoro collegiale è noto dai tempi di Omero, ed era alla base della costruzione delle architetture gotiche e romaniche del Medioevo: se ne deduce che o l'arte è sempre stata collettiva, e che quindi in questo campo il socialismo non ha introdotto nulla di nuovo, o che il principio della partecipazione collegiale non è sufficiente. La chiave del problema, in ogni caso, sta nel fatto che qualsiasi collegio o collettivo, anche quello più ampio, rimane solo una parte del collettività, e non è quindi indicatore delle idee della massa.

L'unico modo per uscire dal vicolo cieco è dividere l'ideazione dell'opera d'arte dalla sua realizzazione pratica, dato che la loro combinazione determina la forma sociale della produzione artistica. La volontà artistica che porta al concepimento di un'opera e alla sua realizzazione può essere quella di un artista singolo: è il caso dell'arte individuale, definita da Kušner come il principio dell'anarchia e il sogno massimo ma mai raggiunto della borghesia capitalistica. Oppure l'idea artistica può essere formulata e portata a termine da un numero più o meno grande di persone. Entrambe queste opzioni sono l'espressione di una società in cui il diritto a creare è ristretto a una piccola cerchia di illuminati, e non prerogativa della massa, ed è quindi in totale contraddizione con i principi socialisti: per creare un sistema innovativo, il socialismo deve spezzare il cerchio e introdurre il principio della divisione tra organo esecutivo e portatore dell'idea estetica. Per la sua stessa natura di società numericamente illimitata, la collettività intera non potrà essere l'esecutrice del prodotto artistico; dovrà quindi essere, per forza di cose, la portatrice dell'idea estetica, di cui affiderà l'esecuzione a un singolo artista o a un comitato operaio secondo i singoli casi. La definizione di arte del collettivo, di conseguenza, sarà questa: «la forma per la quale l'idea dell'opera sorgerà in masse infinitamente grandi, mentre la volontà di realizzarla sarà delegata da queste masse a un esecutore, sia questo un solo artista o un collegio operaio»

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( ivi, p.125).

Nonostante siano passati solo pochi mesi, l'atmosfera in cui viene pubblicata “Iskusstvo kommuny” è già cambiata rispetto a quella in cui veniva pubblicato “Gazeta futuristov”. La chiusura del Caffè dei poeti, la liquidazione del movimento anarchico, la fuga di Burljuk verso l'estremo Oriente Russo e poi in Giappone segnano la chiusura di una prima fase. La grande lotta per il riconoscimento come “arte di stato” è alle porte, e i futuristi non sono più i soli ad ambire a questo ruolo.

Il Proletkul't non si fece sfuggire l'occasione dell'uscita della rivista per sferrare un altro attacco ai futuristi sulle pagine di “Grjaduščaja kul'tura” (“Cultura dell'avvenire”): «In una serie di articoli, i collaboratori, sfruttando la buona fede dei responsabili della rivista, evidentemente non sufficientemente esperti nelle questioni dell'arte contemporanea, con una qual certa insistenza <…> propagandano una tale arte e tali concezioni artistiche, che possono suscitare nelle grandi masse nient'altro che un sorriso» (in Galuškin 2005, p. 309). Già dal secondo numero della rivista, i membri del gruppo pubblicano una serie di interventi che non sono solo programmatici, ma che hanno il duplice scopo di difendere le proprie posizioni e di contrattaccare gli avversari. Anche in questo caso, possiamo vedere come i futuristi cambino radicalmente approccio rispetto alla orgogliosa e sdegnata autoaffermazione dei loro precedenti manifesti, cercando invece di trovare soluzioni pratiche che permettano loro di spezzare l'accerchiamento dei nemici.

Ben indicativo di questo cambiamento è l'intervento Il teatro volante (Letučij teatr) firmato da Brik e Majakovskij e legato alle polemiche che si scatenarono intorno alla messa in scena del Mistero Buffo, e che dimostrarono come il teatro del tempo non fosse ancora pronto alla rappresentazione di opere così originali: «Un teatro strilla che non è assolutamente possibile ammettere “uno spettacolo tendenzioso” nel “tempio dell'arte pura”. In un altro gli attori si fanno continuamente il segno della croce, leggendo righe che suonano insolite e sacrileghe alle loro orecchie. Un terzo teatro, al quale si è riusciti a imporre quest'opera, quasi con la forza, com'è noto, si adopera in tutti i modi perchè sia un fiasco» (in Magarotto 1976, p.107. Originale in “Iskusstvo Kommuny”, Pietrogrado 1918, n°2). Da queste difficoltà nasce il progetto del “teatro volante”, una compagnia di “rivoluzionari della scena” che concentra tutta la sua attenzione sulla recitazione, viaggerà da una località all'altra per venire incontro

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alle esigenze di coloro che desiderano un teatro nuovo e dovrà avere un apparato scenico ridottissimo per facilitare gli spostamenti. I migliori partecipanti possibili saranno non gli attori professionisti «rovinati dalla routine», ma semmai giovani attori, poeti e registi che considerano il loro lavoro come un vero e proprio servizio reso all'arte nuova; il ruolo del “teatro volante” sarà anche quello di favorire con la propria attività la nascita di una nuova corrente teatrale.

Le principali critiche che in questo periodo vengono rivolte ai futuristi sono di considerarsi già “arte di stato” pur mancando di un riconoscimento ufficiale e di essere violentemente negativi verso le opere d'arte del passato; a queste si aggiunge la presunta incomprensibilità dei loro lavori, a cui come abbiamo visto controbatte già Brik ne L'artista proletario.

Alla prima accusa risponde Nikolaj Punin in Futurismo arte di stato (Futurizm

gosudarstvennoe iskusstvo), per il quale queste genere di critiche non sono altro che un

velato riconoscimento della forza del futurismo. Dopo la Rivoluzione d'Ottobre, dice Punin, lo stesso concetto di Stato non è più quello di prima: ora – in tempi di dittatura del proletariato – esso non è altro che “un martello nelle mani del più forte”, e quindi dire che il futurismo è arte di Stato significa riconoscerlo come la più forte tra tutte le correnti artistiche. Inoltre, i futuristi non hanno alcun bisogno dello Stato, in primis perchè nel futuro socialista lo Stato andrà verso l'estinzione (come aveva preconizzato Lenin in Stato e

rivoluzione); secondariamente, perchè lo spirito della rivolta è troppo forte in loro. In

maniera un po' contraddittoria, Punin ammette poi che il movimento utilizzerebbe volentieri il potere statale, se ne fosse investito, per introdurre le proprie innovazioni in maniera duratura, ma che le battaglie dei futuristi a questo proposito si sono rivelate poco produttive. Come spiegare dunque il “trionfo” del futurismo, se le avanguardie non hanno alle loro spalle il supporto governativo? Per Punin si tratta dei vantaggi dati dal possedere una strategia efficace di autopromozione e, sopratutto, dal fatto di possedere una reale forza creativa: «la nuova cultura socialista, l'unica vera tra innumerevoli surrogati, segna il trionfo della gioventù artistica sopratutto perchè proprio questa gioventù possiede una reale forza creativa» (in Magarotto 1976, p. 114. Originale in “Iskusstvo Kommuny”, Pietrogrado 1918, n°4).

L'articolo di Punin si chiude su note trionfali: «Non siamo conquistatori del potere, siamo profeti del futuro. Il “futurismo” non è una delle numerose correnti artistiche, è l'unica

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corrente artistica viva. Si può arrestare, diradare, indebolire il movimento “futurista”, ma non si può distruggerlo, poiché il futurismo non è un'arte di Stato, ma è l'unica via giusta sulla direzione dello sviluppo di un'arte che sia propria di tutta l'umanità» (ibid.).

A Brik – nell'articolo Il dio illeso (Ucelevšij bog) – spetta invece il compito di difendere il gruppo dall'accusa di incitare alla distruzione fisica delle opere d'arte del passato:

Fa specie vedere un terrorista inesorabile, feroce e spietato, pronto a fucilare in nome della vittoria del comunismo centinaia di guardie bianche e di ostaggi, capace di cancellare dalla faccia della terra interi villaggi e città, che si mette a difendere con la bava alla bocca dai “sacrileghi” futuristi i Puškin, i Raffaello, i Michelangelo e altri “sacri padri” dell'arte. Tutti sanno perfettamente che nessuno ha intenzione di distruggere le opere di Puškin, né bruciare i quadri di Raffaello, né fare a pezzi le statue di Michelangelo (in Magarotto 1976, p. 115. Originale in “Iskusstvo Kommuny”, Pietrogrado 1918, n° 4).

Il “Dio illeso” del titolo è la bellezza, il cui tempio, l'arte, riesce a intimidire persino i bolscevichi.

Certamente non si può negare l'importanza e il valore del patrimonio storico e culturale, scrive Brik, ma è ingenuo pensare che si possano trovare in esso le fonti necessarie a placare il desiderio di creatività, e cita il Manifesto futurista di Marinetti: «Entusiasmarsi per un quadro antico significa riversare la nostra sensibilità in un'urna funeraria invece di lanciarla in avanti con il forte movimento dell'atto creativo. E' mai possibile che vogliate guastare le vostre migliori energie in un inutile entusiasmo per il passato, che inevitabilmente vi lascia spossati, diminuiti , calpestati?» ( ivi, p. 116). L'articolo di Brik si chiude con un'esortazione: «Meno sacralità, compagni, meno orpelli preteschi; più coscienza rivoluzionaria, più “creatività” rivoluzionaria!» (ibidem).

Le tensioni, le critiche, gli attacchi reciproci che spaccano le due sezioni del Narkompros costringono lo stesso Lunačarskij a intervenire con una lettera sulle pagine di “Iskusstvo Kommuny” per mettere freno alle “intemperanze” dei futuristi. Il titolo della lettera è, significativamente, Un cucchiaio di antidoto (Ložka protivojadija). In particolare, Lunačarskij cerca di rassicurare i suoi propri stessi collaboratori sulla reale portata dell'atteggiamento distruttivo dei futuristi verso le antichità, che è fonte di particolare preoccupazione all'interno del Commissariato per l'Istruzione proprio per via dei grandi sforzi compiuti dalle istituzioni per tutelare questo patrimonio: sforzi che a volte esposero il Commissariato agli attacchi di «difendere la ricchezza dei grandi signori».

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Nel tentativo di placare gli animi, Lunačarskij cerca di far passare queste tendenze dei futuristi come semplici esuberanze giovanili, e suggerisce di considerarle come una semplice posa, una “malattia di crescita” che passerà loro con l'età. Sottolinea il fatto che alcuni dei futuristi sono stati in realtà in prima linea nella difesa del patrimonio artistico nazionale:

So che il bellicoso futurista Punin, sulle colonne di questo giornale, la cui prima pagina è decorata con gli infuriati versi di Majakovskij, si sta dando da fare con tutte le proprie forze per salvare la tradizione artistica delle icone di Mstëra e si inquieta per il divieto posto dalle autorità locali di esportare le icone fuori dalla cittadina.

Tengo ad assicurare che i migliori dei nostri innovatori sentono profondamente e si rendono conto di quante cose splendide e affascinanti vi siano nel passato, e, come àuguri, sorridono e ammiccano tra loro quando si denigra boriosamente tutto ciò che è antico, ben sapendo che si tratta semplicemente di una posa giovanile, anche se purtroppo immaginano che questa posa sia conveniente anche a loro (in Magarotto 1976, p. 110. Originale in “Iskusstvo Kommuny”, Pietrogrado 1918, n°4)1

Con queste parole termina la parte della lettera di Lunačarskij che venne pubblicata dalla redazione, mentre venne tagliata tutta la seconda parte dell'intervento, dove emerge la preoccupazione di Lunačarskij per Majakovskij e la sua futura evoluzione artistica: a inquietarlo non è soltanto quella che definisce «un'adolescenza che dura troppo a lungo», e che si manifesta nell'insistere del poeta sul mancato riconoscimento del proprio genio da parte della folla, ma anche il fatto che egli sembra avere difficoltà ad associare alla sua forma «nuova, piuttosto rozza, ma forte e interessante» contenuti altrettanto nuovi.

Dalle parole di Lunačarskij si intuiscono le grandi aspettative che egli nutre nei confronti di Majakovskij, e per questo motivo è molto meno indulgente con lui che con i suoi colleghi: proprio perchè il poeta ha una grande talento, per lui la giustificazione delle intemperanze giovanili non vale più:

Si può perdonare, almeno in parte, a un simile ragazzaccio l'invidia che nutre per i confratelli maggiori nel Parnaso e l'incapacità di parlarne senza odio, quando crede che i grandi del 1Aggiungiamo un paio di aneddoti curiosi sul reale atteggiamento di alcuni artisti d'avanguardia nei confronti dei monumenti della cultura passata: durante i combattimenti che infuriarono a Mosca fra bolscevichi e truppe lealiste nel novembre 1917 – e in cui fu pesantemente danneggiata la Cattedrale della Dormizione del Cremlino – «non tutti sanno che a comandare l'artiglieria rossa era il futurista Vasilisk Gnedov» (Gasparov 1994, p. 29); il 13 novembre, alla tutela degli oggetti preziosi del malconcio Cremlino viene preposto dal nuovo governo niente meno che Kazimir Malevič (Vakar, Michienko 2004, 1, p. 389).

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passato con le loro opere eternamente vive impediscano il successo della sua opera, e quando si ostina a considerarsi il maestro più grande di tutti su una terra deserta e tra uomini dimentichi del passato: è più facile senza concorrenti. Così si può soltanto riscoprire l'America o perfino meravigliare con la propria originalità, per aver inventato l'acqua zuccherata. Ma tutte queste cose sono imperdonabili per quell'adulto che Majakovskij dovrebbe ormai essere diventato (ivi, p.111).

Lunačarskij crede nel talento del poeta, ma pensa anche che Majakovskij, nel perseverare in un certo atteggiamento, sia il peggior nemico di se stesso: «Io capisco che la mostruosità dell'autoesaltazione e dello sputare sugli altari dei grandi e che le corse pazze menando botte tra le tombe dei giganti siano dovute alla incomprensione troppo prolungata di un giovane talento. Ma c'è un limite in tutto. Se Majakovskij si ostinerà a ripetere continuamente le stesse cose, cioè a incensare sé stesso e a insultare gli altri, mi creda: oltre il disgusto non potrà ispirare altro» (ibid.).

A scatenare le dispute che avevano spinto Lunačarskij a scrivere la lettera aveva contribuito una serie di componimenti poetici di Majakovskij che erano stati pubblicati su “Iskusstvo Kommuny” e che ben si accompagnavano ai furori antipassatisti di articoli come Il dio

illeso di Brik: si tratta di Ordine all'esercito delle Arti, (Prikaz po armij iskusstva), A quell'altra parte (Toj Strone) e Troppo presto per cantare vittoria (Radovatsja rano). Si può

immaginare come i membri della Sezione musei e tutela delle antichità potessero accogliere versi come «E' tempo / che le pallottole cinguettino sulle pareti dei musei» (in Majakovskij 1955). Per Lunačarskij le esternazioni di Majakovskij sulla rivista non sono altro che «un buffo e meschino travestimento» che lo preoccupa e gli rende difficile difenderlo contro i detrattori: «Ho detto a molti, sgradevolmente colpiti da questo lato meschino di un'artista così promettente: aspettate, ora ha avuto la sua porzione di gloria, ora è cresciuto un po', non ha più bisogno del panciotto giallo, di nessun panciotto con i colori dell'invidia e della

rèclame» (ibid.). Possiamo solo ipotizzare le ragioni che portarono al taglio della lettera:

forse il fatto che Lunačarskij riprendesse le principali critiche che venivano fatte al poeta esponendolo così ad altri attacchi da parte degli avversari che potevano sentirsi “legittimati” dalle parole del commissario; o forse, fu proprio Majakovskij a chiedere l'eliminazione di questa parte della lettera, irritato anche dal tono vagamente paternalistico con cui gli venivano mossi i rimproveri.

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quelli – di segno opposto – del Proletkul't, secondo i cui esponenti il futurismo era una postrema manifestazione dell'arte borghese, un'ubbia dell'intelligencija, e non certo un'espressione del proletariato.

Da qui l'idea delle due “sfingi”, espressa da Pavel Bessal'ko, uno dei leader del Proletkul't pietrogradese, nell'articolo Il futurismo e la cultura proletaria (Futurizm i proletarskaja

kul'tura) pubblicato sulle pagine della rivista “L'avvenire” (“Grjaduščee”): «Il futurismo e la

cultura proletaria, ecco due sfingi che si guardano l'un l'altra e si chiedono: chi sei? Dalla risposta che daranno queste correnti letterarie dipende il loro destino. Una deve distruggere l'altra <...>. Possiamo utilizzare quel che c'è di valido nel loro bagaglio tecnico, ma non dobbiamo permettere al futurismo di imporre il vestito futurista al corpo della cultura operaia. Che siano loro ad agghindarsi con orpelli da buffoni, è quello che si meritano» (in Galuškin 2005, p. 343).

A queste critiche ribatte Brik nel suo articolo Attacco al futurismo (Nalet na futurizmu): «Queste due sfingi non hanno nulla in comune né col futurismo né con la cultura proletaria. Infatti, da quando la cultura proletaria è diventata una corrente letteraria? E da quando si considerano futuristi solo i poeti? Qui c'è un equivoco evidente <...>. Il futurismo e la cultura proletaria continueranno a collaborare pacificamente a maggior gloria della Comune che viene» (ibid).

Proprio sulle pagine di “Iskusstvo Kommuny” viene formulato per la prima volta il progetto di un'unione degli artisti di sinistra. Nel primo numero della rivista, ad opera di un anonimo “gruppo di poeti di sinistra” viene pubblicato l'appello Organizzate le sezioni dell'arte

verbale! (Organizujte Otdely Slovesnogo iskusstva!) Per gli autori dell'articolo questo passo

è necessario per garantire agli artisti dell'arte di verbale buone condizioni di lavoro; attualmente, sostengono, questi ultimi sono costretti ad accontentarsi di quei pochi spazi che sfuggono all'ostruzionismo globale che viene praticato. Proprio per questo motivo, anche i migliori lavori, come Guerra e Universo di Majakovskij o i poemi di Chlebnikov, non riescono ad arrivare alla classe operaia. A poco servono gli sforzi di Lunačarskij, quando nella vita quotidiana gli artisti si scontrano con ogni genere di sbarramenti:

Ecco come vanno le cose: il compagno Lunačarskij raccomanda una commedia e il commissario di un teatro di Mosca dice: “Solo passando sul mio cadavere potrete realizzare i vostri spettacoli nel mio teatro”; il compagno Lunačarskij dà la possibilità di pubblicare cose

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nuove e i relativi commissari affermano che non è possibile sprecare la carta per simili sciocchezze, proibendo nel giorno della prima di distribuire in teatro la commedia già stampata. Quello che finora siamo riusciti a realizzare nel campo dell'arte verbale è quanto il compagno Lunačarskij ha saputo difendere: provate a scalzarlo dal lavoro per quattro settimane e per quattro settimane si arresterà in Russia lo sviluppo della poesia (In Magarotto 1976, p. 99. Originale in “Iskusstvo Kommuny”, Pietrogrado 1918, n° 1).

Nel frattempo, viene dato ampio spazio ad iniziative che nulla hanno di nuovo, come la riedizione dei classici della letteratura o l'invito di intellettuali europei.

L'unico modo per garantire agli artisti di sinistra la possibilità di svolgere il proprio lavoro è la creazione di una sezione letteraria dedicata esclusivamente a loro. Nell'articolo il termine “fronte” per la prima volta si allarga al campo letterario: «Allo stato attuale delle cose questa proposta sarà accolta con indignazione. Nel campo dell'arte la rivoluzione è appena al mese di febbraio. Vi è dell'opportunismo, e solo un unico fronte democratico, da Jeronim Jasinskij a Picasso» (ibid.).

Il compito della sezione sarebbe anche quello di riunire i singoli ingranaggi dell'arte verbale di sinistra in un unico armonioso meccanismo che ne diriga gli sforzi. Qui viene messa in luce un punto che sarà caratteristico anche per il Lef e uno dei suoi punti deboli: l'eterogeneità delle posizioni di coloro che si definiscono artisti di sinistra.

Come migliori rappresentanti del movimento vengono citati Majakovskij, Chlebnikov, Kamenskij, nonché «i maestri della parola e i propagandisti del nuovo (il gruppo di giovani studiosi che si pubblicano le Raccolte di teoria del linguaggio poetico – Sborniki po teorij

poetičeskogo jazyka)”, ossia i formalisti dell'Opojaz pietrogradese ( ivi, p. 98).

Tra le posizioni delle persone citate si mantiene comunque un certo grado di affinità; ma che tale affinità non si estenda a tutte le frange del movimento viene dimostrata dal contrapporsi Viktor Šklovskij e Nikolaj Punin sulle pagine di uno degli ultimi numeri della rivista, in un botta e risposta che compare sotto il titolo di Comunismo e Futurismo (Kommunizm i

futurizm), e che comprende l'articolo di Šklovskij Arte e rivoluzione (Ob iskusstve i revoljucij) e l'immediata risposta di Punin.

L'articolo di Šklovskij è introdotto da una avvertenza da parte della redazione: «Pubblichiamo qui un articolo di V. Šklovskij, Arte e rivoluzione, un articolo in fin dei conti

abbastanza violento per l'accusa che contiene e interessante, se non per le sue idee, almeno per l'argomentazione che le accompagna» (in Magarotto 1976, p. 133. Originale in

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Iskusstvo Kommuny, Pietrogrado 1919, n°17, pp. 2-3).

Perchè l'articolo di Šklovskij è addirittura “violento”? Šklovskij mette in luce quello che secondo lui è il principale e più grave errore non solo del futurismo, ma anche degli altri movimenti letterari contemporanei: l'equiparazione tra la rivoluzione sociale e la rivoluzione delle forme artistiche, dalla quale sono scaturite le idee fuorvianti per cui a un mondo nuovo deve necessariamente corrispondere un'arte nuova, e a sua volta l'arte può essere nuova solo se esprime la rivoluzione, la nuova classe e la nuova percezione del mondo. Per provare queste teorie si adducono inoltre delle prove estremamente ingenue: è il caso del Proletkul't che pretende di dimostrare la propria attualità ricordando le origini proletarie dei propri poeti e scrittori; degli sciti che presentano come genuinamente popolari artisti che scrivono in una lingua frutto dell'incrociarsi della vecchia lingua letteraria con quella delle plebi urbane; questa colpa cade anche sui futuristi, che usano come prova della loro ostilità al regime capitalistico l'odio nei loro confronti da parte della borghesia ai tempi del vecchio regime.

Non c'è nulla di più sbagliato, per Šklovskij, che la convinzione che un cambiamento radicale nel byt («quotidianità», «vita quotidiana») debba necessariamente comportare la nascita di un'arte “nuova”: «L'arte è sempre stata libera dalla vita e nel suo colore non si è mai riflesso quello della bandiera che sventola sulla cittadella» ( ivi, p. 134). Questo errore è molto meno perdonabile nei futuristi, che all'inizio della loro storia erano riusciti ad eliminare il byt stesso dalla loro arte nelle opere zaum' di Chlebnikov e Kručënych.

Šklovskij procede poi a dimostrare con una serie di esempi che l'arte non è influenzata né dal byt e dai rapporti di produzione, né da aspetti classisti o etnografici, né dal mutamento delle condizioni di vita: se questi fattori avessero un qualsivoglia influsso, rinchiuderebbero necessariamente i soggetti artistici in precisi riquadri di tempo e di spazio, impedendo loro di ripetersi in altri contesti.

Se i rapporti di produzione condizionassero realmente l'arte, determinati soggetti artistici sarebbero indissolubilmente legati al luogo dove sono caratteristici determinati rapporti. E' invece un fatto che i soggetti sono mobili e intercambiabili. Se l'influenza del byt fosse concreta, renderebbe possibile identificare con certezza l'origine geografica di un determinato soggetto. Allora perchè la scienza europea non riesce a determinare una volta per tutte se Le Mille e una notte sono state scritte in Egitto, in India o in Persia?

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E se davvero gli aspetti classisti si sedimentano in arte, come mai riscontriamo che le favole russe sui “grandi signori” sono identiche a quelle sui pope? Lo stesso vale per gli aspetti etnografici: il fatto che le storie sugli stranieri siano “reversibili”, ossia siano raccontate da qualsiasi popolo sul conto dei popoli vicini, elimina la possibilità che gli aspetti etnografici siano determinanti per i soggetti artistici.

Bisogna arrendersi al fatto che l'arte non è così elastica da poter essere stiracchiata a piacimento per rappresentare i mutamenti nelle condizioni di vita; se così fosse, dovrebbe crearsi una sorta di selezione naturale dei soggetti artistici, che porterebbe all'estinzione di quelli che non sono più adatti alle mutate condizioni. «Il tema del ratto che troviamo già nelle parole dello schiavo nella commedia di Menandro I litiganti (Epitrépontes) come tradizione puramente letteraria, non sarebbe sopravvissuto fino ai tempi di Ostrovskij e non avrebbe riempito la letteratura come le formiche riempono il bosco» ( ibid.).

Le forme artistiche nuove nascono per sostituire quelle vecchie, ormai usurate, e che hanno cessato di essere artistiche. E' una necessità che già prima dei futuristi aveva percepito Tolstoj, quando scriveva che non si può più creare secondo le forme di Gogol' o di Puškin, ormai superate. Se la grande azione dei futuristi è stata quella di separare arte e byt, il loro orgoglioso «legarsi alla Terza Internazionale» non è altro che un passo indietro, una clamorosa ritirata che li mette allo stesso livello di Belinskij, di Vengerov2 o della Istorija

russkoj intelligencii (Storia dell'intelligencija russa) di Ovsjaniko- Kulikovskij.3

Nella sua risposta Punin ribatte puntualmente a queste accuse di Šklovskij, ricordando che ormai le teorie di Belinskij e di Vengerov non sono altro che cenere, e rinfacciando invece a lui di essersi avvicinato all'indifferentismo decadente di un Brjusov e di un Ajchenval'd, «che già puzza di cadavere» (ivi, p., 135), nonché di perseguire l'idea dell'arte per l'arte: «Che una persona a noi così cara come Šklovskij abbia potuto, seppure per un istante, avvicinarsi a questa intelligencija, ci rattrista proprio per l'amicizia che ci unisce . Tuttavia pensiamo che questo avvicinamento sia frutto di un equivoco e basta» (ibid.).

Per Punin è Šklovskij a sbagliarsi, e ad aver totalmente frainteso le intenzioni del movimento, a partire dall'affermazione secondo la quale i futuristi portano come unica prova della loro affinità al comunismo l'odio di cui sono stati oggetto da parte della borghesia. 2 Semën A. Vengerov e Vissarion G. Belinskij vengono qui citati come esponenti di una linea “socio-populista” in

letteratura.

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Queste parole suonano addirittura beffarde, se le si colloca nel contesto dell'ostruzionismo che i futuristi hanno subito da alcuni dei comunisti di Mosca: la verità è che i futuristi appartengono alla categoria di coloro che hanno il dono della creazione, e in quanto tali saranno sempre perseguitati da ogni individuo mediocre. Ben altre sono le prove che legano il movimento al comunismo, legate alla condivisa visione materialistica che genera «la meccanizzazione della vita, il collettivismo, il determinismo, la programmazione della cultura e, quel che più conta, la creazione, giacché riteniamo che la creazione sia il punto essenziale che avvicina in questo momento il futurismo al comunismo. Oggi non esistono altri movimenti, tranne quello socialista e quello futuriste non esistono altri metodi tranne quelli del futurismo e del comunismo che abbiano di vista il futuro» (ivi, p. 136).

Sopratutto, queste cose uniscono i futuristi alla vera rivoluzione, e non al byt sovietico contemporaneo, ed è questo che li differenzia dagli Sciti e dal Proletkul't: i primi non sono altro che il rimasuglio del byt intellettuale del XIX secolo, e gli altri sono intellettuali moderni che hanno già dimenticato il fatto che i loro padri erano proletari. I futuristi, invece, hanno fin dall'inizio condotto una battaglia senza quartiere contro l'antitesi stessa della creazione, il byt, e combattono ancora, per distruggere sul nascere quegli aspetti di esso che minacciano di intaccare la coscienza comunista: per loro la nuova forma genera un nuovo contenuto, sulla base delle affermazioni di Marx per il quale è la forma\essere a determinare il contenuto, e non viceversa.

Considerare legare la propria arte alla Terza Internazionale una sorta di crimine, come fa Šklovskij, manifesta semplicemente l'ignoranza della vera natura dell'Internazionale, che non può essere considerata come parte del byt, perchè è una forma nuova, futurista. Il desiderio del movimento operaio di creare una società extra-classista è del tutto atipica rispetto al byt, e di conseguenza invalida gli esempi presentati da Šklovskij: «I soggetti non hanno fissa dimora, ma non è forse privo di dimora anche il proletariato? <…> I territori spaziali e nazionali crollano, nascono territori con un unico spazio, livellato, coperto dal proletariato internazionale. Non è forse questa una forma nuova, la nostra forma futurista?» (ivi, p. 138).

In definitiva, Punin si augura che le accuse che vengono mosse al movimento futurista siano frutto solo di un equivoco, nato dal fatto che Šklovskij non ha ben chiari i concetti di byt e di forma (essere) e che inoltre non sappia cosa è realmente la Terza Internazionale.

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Nel gennaio 1919, presso il quartiere Vyborg del PCR, si forma un nuovo collettivo, quello dei kom-futy, i futuristi-comunisti, capeggiati da Boris Kušner. Nel loro programma – pubblicato sull'ottavo numero di “Iskusstvo Kommuny” – essi sostengono che è assolutamente necessario, per il futuro sviluppo della rivoluzione, un rimodellamento su base comunista non solo di ogni forma del byt, ma anche di ogni forma della morale, della filosofia e dell'arte. Questo perchè gli organi culturali ed educativi del potere sovietico mostrano una totale incomprensione del compito a loro affidato, e opponendo le deboli armi di un'ideologia social-democratica «raccattata in fretta e furia» alla molto più longeva esperienza degli ideologi borghesi, finiscono per lasciarsi abbindolare da questi ultimi, che li sfruttano per i loro fini: «Quale compendio di verità assolute viene offerta alla masse la pseudo-dottrina dei padroni. Quale verità valida per tutta l'umanità viene offerta la morale degli sfruttatori. Quale eterna legge di bellezza viene offerto il gusto depravato degli oppressori» ( Kommunisty-Futuristy in Magarotto 1976. Originale in Iskusstvo Kommuny, Pietrogrado 1919, n° 8, p.3).

Per risolvere questa situazione, bisogna dedicarsi senza perdere ulteriore tempo alla elaborazione di un'ideologia veramente comunista, attraverso una lotta feroce a tutte le false ideologie borghesi, costringere gli organi culturali-educativi a sottomettersi alla direzione della nuova ideologia culturale comunista e bloccare sul nascere ogni possibile illusione democratica, che cela in sé pregiudizi e sopravvivenze borghesi; è inoltre indispensabile, infine, sollecitare nelle masse un'attività creativa indipendente.

Per diventare membri del Kom-fut bisogna essere prima iscritti al PCR(b), frequentare un corso sui fondamenti culturali dell'ideologia comunista e sottomettere il proprio lavoro creativo alle disposizioni e alla direzione del collettivo, che possono essere esercitati tramite l'assemblea generale o dalla presidenza. Chi, per qualsiasi motivo, cessa di essere un membro del partito, cessa anche di essere un membro del collettivo.

L'attività del collettivo avrebbe dovuto esercitarsi su un ampio spettro artistico che comprendeva la pittura, la musica, il teatro, la letteratura, la coreografia, la scultura, la grafica, l'illustrazione e i manifesti. Sfortunatamente, l'entusiasmo dei kom-futy per il potere sovietico non era ricambiato, al punto tale che già nel 1919 il comitato del partito di Vyborg rifiutò di registrare la loro organizzazione come collettivo di partito, con la seguente motivazione: «il regolamento del nostro partito non prevede collettivi di tal genere, e

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