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Effetti dell'eccesso di cloruro di sodio in piante di Arundo donax

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(1)

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

D

IPARTIMENTO

DI

S

CIENZE

A

GRARIE,

A

LIMENTARI

E

A

GRO

-AMBIENTALI

E

FFETTI DELL

ECCESSO DI CLORURO DI SODIO IN PIANTE DI

Arundo donax L.

:

Dott.ssa Lucia Guidi

CORRELATORE: Dott. Lorenzo Guglielminetti

:

G

ABRIELLA

M

ELONI

(2)

1

I

NDICE

1 Introduzione 3

1.1 L’agricoltura e l’energia 3

1.2 Le agroenergie e il piano normativo di riferimento 5

1.2.1 Contesto politico e normativo dell’Unione Europea 5

1.2.2 Produzione di energia da fonti rinnovabili in Italia 7

1.3 La biomassa e le agroenergie 10

1.3.1 Definizione di biomassa 10

1.3.2 La biomassa come fonte rinnovabile 11

1.4 Colture da biomassa 12

1.4.1 Colture “dedicate” alla produzione di biomassa 12

1.4.2 Arundo donax L. (Canna comune) 16

1.4.2.1 Esigenze e adattamento ambientale 19

1.5 Problematica della salinità 21

1.5.1 L’importanza del problema della salinità e le sue cause 21

1.5.2 Gli effetti della salinità 23

1.5.2.1 Effetti sul suolo 23

1.5.2.2 Effetti sulla pianta 23

1.5.3 Possibili meccanismi di tolleranza 25

1.5.4 Salinità in Arundo donax 27

2 Scopo del lavoro 28

3 Materiali e metodi 29

3.1 Materiali utilizzati e tecnica di coltura 29

3.2 Analisi della fluorescenza della clorofilla a delle foglie 31

3.2.1 Imaging PAM 33

3.2.2 Resa quantità potenziale (Fv / Fm) 33

3.2.3 Resa quantica effettiva del PSII ( PSII o Yield) 34

3.2.4 Coefficiente del quencing fotochimico (qp) 34

(3)

2

3.3 Estrazione cloruri e lettura al Dionex 34

3.4 Mineralizzazione e lettura allo spettrofotometro di assorbimento

atomico 35

3.5 Valutazione biomassa secca 36

3.6 Prolina 36

3.7 Analisi statistica 36

4 Risultati 37

4.1 Crescita delle piante 37

4.2 Analisi dei minerali 38

4.3 Analisi fluorescenza 46

4.4 Analisi della prolina 48

4.5 Produzione di biomassa secca 49

5 Conclusioni 51

(4)

3 1 Introduzione

1.1 L’agricoltura e l’energia

L’agricoltura ha rappresentato fin dall’antichità il fulcro quasi esclusivo dell’economia umana. Negli ultimi due secoli la situazione ha subito un cambiamento radicale, in maniera particolare quando l’economia ha iniziato a ruotare su un altro tipo di risorse, quali i combustibili fossili, inizialmente il carbone e poi il petrolio e il gas naturale.

Nel corso dell’ultimo decennio però si è assistito ad una crescente preoccupazione generale nei confronti dei combustibili fossili vista la loro natura non rinnovabile, pertanto si è iniziato a prestare una maggiore attenzione alle fonti energetiche rinnovabili, con lo scopo di massimizzare le risorse locali favorendone un uso eco-sostenibile, tenendo conto quindi delle ricadute ambientali del ciclo dell’energia e dei probabili rischi che esso comporta per la stabilità del clima globale.

Secondo quanto enunciato nel "Libro Bianco", le biomasse potrebbero contribuire a incrementare la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili per più dell’80%". In questo modo si ridurrebbe anche la quota di CO2 immessa nell'atmosfera, principale causa dell’effetto serra. A tal proposito il Protocollo di Kyoto, adottato il 10 dicembre 1997, impegna i Paesi industrializzati e quelli con economia in transizione alla riduzione dei gas ad effetto serra mediante azioni mirate fra cui l'utilizzo di fonti rinnovabili di energia.

Nel corso dell’ultimo decennio inoltre si è sempre più consolidata una visione

multifunzionale dell’agricoltura, formalmente riconosciuta come tale in occasione della

Conferenza di Cork (1996) e in seguito accolta da Agenda 2000 (1999); tale multifunzionalità si manifesta tra l’altro attraverso:

la conservazione di pratiche atte a tutelare il paesaggio rurale e a mantenere le sistemazioni idraulico-agrarie, anche in territori predisposti a fenomeni di

marginalizzazione;

la conversione verso modelli colturali a basso input, per l’adozione di metodi

colturali integrati e biologici, ma anche grazie a orientamenti produttivi meno chimicizzati per la rusticità e per l’adattabilità delle specie;

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4 produzioni con finalità non alimentari che permettono di derivare materie

prime a sostituzione dei prodotti di sintesi e l’utilizzazione a tali fini dei sottoprodotti colturali e agroindustriali (Quaderno ARSIA, 2004).

L’intento è di preservare in modo efficace gli equilibri dell’ecosistema contribuendo a promuovere la sostituzione dell’attuale modello energetico, basato sullo sfruttamento delle fonti fossili di energia, con un modello di sviluppo sostenibile basato sull’uso di fonti di energia rinnovabile e modelli colturali a basso input.

Infatti, negli ultimi anni è andato crescendo l’interesse, nelle politiche comunitarie e nazionali, verso il ruolo dell’agricoltura come “serbatoio” di fonti rinnovabili di energia e sull’opportunità di valorizzare le biomasse a fini energetici. Ciò rappresenta una rilevante opportunità sia per il settore agricolo che per quello forestale poiché il punto di forza è la disponibilità di prodotti e sottoprodotti dai quali ottenere energia, in altre parole materie prime non alimentari derivanti da foreste e coltivazioni, residui agro-zootecnici e agro-industriali.

In questo contesto si inseriscono le produzione di biomasse agro-energetiche la cui principale caratteristica commerciale è l’essere prodotti non differenziabili la cui competitività si basa esclusivamente sui prezzi, e per tale motivo definite commodities. Inoltre, il produttore non ha la possibilità di influenzare il prezzo di mercato che sarà frutto dell’incontro della domanda e dell’offerta. Di conseguenza i fattori di competizione decisivi per le imprese saranno la produttività e la capacità dell’imprenditore di beneficiare di economie di scala che rendano bassi i costi di produzione (Frascarelli, 2007).

In conseguenza di tutto ciò il prezzo non pregiudica le prospettive delle colture agro-energetiche, il cui sviluppo piuttosto è strettamente subordinato a diversi fattori, quali:

la presenza di impianti di trasformazione dislocati sul territorio nel raggio di pochi chilometri;

i contratti di filiera tra produttori e trasformatori;

la razionalizzazione delle tecniche colturali in modo da minimizzare i costi economici ed ambientali;

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5 la possibilità di consociazioni tra i produttori di materia prima ed alla presenza di un adeguato sistema di incentivi, previsto sia in ambito comunitario che regionale (Fiorese et al.,2007).

1.2 Le agroenergie e il piano normativo di riferimento

1.2.1 Contesto politico e normativo dell’Unione Europea

Nel corso degli ultimi anni l’Unione Europea ha preso coscienza e rafforzato il concetto che la lotta al cambiamento climatico è un’azione strategica da perseguire in sinergia con le politiche di ristrutturazione del settore energetico, al fine di promuovere un sistema economico-energetico sicuro, pulito e competitivo (Zezza, 2007).

Gli effetti derivanti dall’utilizzo di combustibili di origine fossile si stanno manifestando in modo sempre più tangibile e visibile: l’effetto serra, determinato dall’aumento della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera, e le piogge acide stanno gravemente danneggiando migliaia di ettari di foreste boreali; l’inquinamento dell’aria causato dai gas di scarico (CO, SOx, NOx, benzene) degli autoveicoli e degli impianti di riscaldamento rappresenta nel nostro quotidiano una costante minaccia alla salute pubblica. A livello nazionale, nel 2001 i processi energetici hanno contribuito per l’83.5% alle emissioni complessive di gas-serra, per il 91.8% a quelle di anidride solforosa e per il 98.6% a quelle di ossidi di azoto (APAT, 2003).

È pertanto di particolare importanza l’adeguamento del settore energetico a dei nuovi parametri al fine di contribuire al raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra. A tal proposito, ha rappresentato un punto di svolta la Conferenza di Kyoto del 1997 a conclusione della terza sessione plenaria della Conferenza delle parti (COP3, organo decisionale e di controllo dell’applicazione dell’United Nations Framework Convention on Climate Change) in quanto, a livello internazionale, induce i Paesi a riflettere sulle proprie politiche attraverso il processo di contrattazione per la ratificazione del Protocollo, inoltre delinea obiettivi mirati alla riduzione dell’impatto ambientale. Sostanzialmente ha contribuito a rafforzare o istituire politiche nazionali di riduzione delle emissioni attraverso il miglioramento dell’efficienza energetica, lo sviluppo di fonti rinnovabili (ad esempio, la promozione dell’utilizzo a fini energetici delle biomasse), la diffusione di modelli agricoli più

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6 sostenibili (promuovendo misure di rimboschimento, la riduzione dell’impiego di fertilizzanti, il mantenimento della sostanza organica ecc.) (APAT, 2004).

L’Unione Europea in occasione del Consiglio europeo del marzo 2007, per contrastare l’emergenza climatico-energetica, propone un pacchetto completo di misure per istituire una nuova politica energetica per l’Europa finalizzata tra l’altro a rafforzare la competitività dell’UE, inoltre fissa degli obiettivi molto ambiziosi impegnandosi a ridurre le proprie emissioni di gas serra del 20% e ad aumentare l’efficienza energetica del 20% entro il 2020, all’Italia in modo particolare è stato assegnato un target del 17%.

Gli obiettivi comunitari (fissati nell’ultima Direttiva 2009/28/CE) si ispirano al “principio 20-20-20” e lasciano ai Paesi membri un’ampia facoltà di scelta del proprio mix energetico, a fronte poi della messa a punto di Piani di azione nazionale con obiettivi specifici che saranno ripartiti in maniera differenziata e ponderata sulla base del meccanismo bunder sharing introdotto nell’ambito del Protocollo di Kyoto, ovvero tenendo conto delle posizioni di partenza dei singoli Paesi (Giuca, 2007).

Lo sviluppo di produzioni agro-energetiche risulta quindi stimolato sia per le problematiche ambientali sia per il crescente aumento dei prezzi di combustibili fossili e per la ormai crescente dipendenza energetica dei Paesi instabili dal punto di vista politico, ciò determina insicurezza nelle forniture energetiche e soprattutto notevoli fluttuazioni dei prezzi delle materie prime.

In questo contesto i biocarburanti rappresentano la risposta più immediata all’obiettivo della Comunità Europea di aumentare la quota di energia derivante da fonti rinnovabili disponibili al suo interno, limitando così la dipendenza dai Paesi produttori e contribuendo alla riduzione dei gas serra.

I consumi di elettricità da rinnovabili nell’UE27 siano cresciuti del 61% nel periodo 2000-2010. Nel 2010 i consumi di energia elettrica da fonti pulite ammontavano a 668 TWh con una quota percentuale sui consumi che, come si può notare in Figura 1, ha oscillato tra il 2000 e il 2005 e poi da allora è cresciuta costantemente, raggiungendo nel 2010 il 19.9% contro il 13.6% del 2000. Un’impennata che dovrebbe essere confermata anche negli anni 2011 e 2012, vista l'elevata quota di nuova potenza da fonti rinnovabili installata nell'ultimo biennio: ad esempio solo nel 2012 la nuova potenza di fotovoltaico ed eolico è stata di 28.6 GW,

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7 cioè il 64% del totale della nuova capacità installata nell'anno. I termini assoluti, sempre facendo riferimento ai dati Eurostat (al 2010), va specificato che Germania e Spagna hanno la produzione più elevata: rispettivamente 104 e 97 TWh. L’Austria registra invece la quota più elevata di elettricità da rinnovabili sul totale: 61.4%. Seguono Svezia (54.5%) e Portogallo (50%).

Figura 1: Grafico dell’andamento negli anni (2000-2010) del consumo delle fonti rinnovabili in EU27 (RES) e quota percentuale di energia (Share) (dati EuroStat).

1.2.2 Produzione di energia da fonti rinnovabili in Italia

Nel 2012 gli impianti alimentati con fonti rinnovabili in Italia erano 484.587 con una potenza complessiva di circa 47.345 GWh. Chiaramente le fonti rinnovabili presenti in Italia son di vario tipo: idraulica, eolica, solare e geotermica, fino ad arrivare alle bioenergie.

Fin dagli inizi del 1900, una delle fonti che è stata lanciata inizialmente è quella idroelettrica; negli ultimi anni la potenza degli impianti idroelettrici installata è rimasta pressoché costante (+0.8% medio annuo) mentre le altre fonti rinnovabili sono cresciute in maniera considerevole specialmente grazie ai diversi sistemi

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8 d’incentivazione che ne hanno sostenuto lo sviluppo. Nella Tabella 1 è possibile evincere la situazione su ogni tipo di fonte rinnovabile.

Tabella 1. Produzione da fonti rinnovabili in Italia (Simeri, 2012)

1- I valori della produzione idraulica e eolica sono sottoposti a normalizzazione secondo quanto previsto dalla direttiva 2009/28/CE.

(CIL) Consumo Interno Lordo di energia elettrica: E’ pari alla produzione lorda di energia elettrica al netto della produzione da pompaggi, più il saldo scambi con l’estero (o tra le Regioni). Il CIL equivale al Consumo Finale Lordo di energia elettrica introdotto dalla Direttiva Europea 28/2009/CE.

Nel 2012 in Italia la produzione lorda totale di elettricità scendeva però al di sotto dei 300 TWh, poiché la crisi economica ha provocato una brusca frenata nei consumi tra il 2008 e il 2009 e anche l’andamento degli ultimi anni è discontinuo e strettamente legato alla situazione economica e strutturale generale del Paese. Il peso delle risorse rinnovabili è passato dal 27.4% del 2011 al 30.8% del 2012. La potenza installata in Italia nel 2012 da fonti rinnovabili è cresciuta di quasi 5.900 MW.

La produzione da bioenergie nel 2012 era pari a 12.487 GWh, +15.3% rispetto al 2011 e con un tasso di crescita medio annuo calcolato dal 2000 pari al 19,3%. Nella Tabella 2 sono riportate numerosità e potenza efficiente lorda degli impianti

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9 alimentati con bioenergie (impianti ibridi non inclusi - ossia quelli che producono elettricità principalmente sfruttando combustibili convenzionali: gas, carbone e altro).

Tabella 2. Numerosità e potenza degli impianti a bioenergie in Italia

Gli impianti più numerosi sono quelli alimentati con i biogas (67%), seguiti da quelli a bioliquidi (22.1%) e infine da quelli a biomasse (10.8%). La distribuzione della potenza nelle rispettive tipologie di impianti è di gran lunga più equilibrata: dei 3.802 MW il 37.7% è riferito a impianti che bruciano biomasse, il 35.3% è alimentato da biogas e il restante 27% utilizza bioliquidi. Questo dipende dalla taglia media degli impianti: i biogas hanno potenza installata media pari a meno di 1 MW mentre gli impianti a biomasse e rifiuti arrivano a circa 6 MW medi.

Nel 2012 la potenza degli impianti alimentati con le bioenergie rappresentava l’8% di quella relativa all’intero parco impianti rinnovabile. In termini di produzione da bioenergie Lombardia (23.5%),Emilia Romagna (13.9%), Puglia (11.8%) e Veneto (9.1%) coprono circa il 60% del totale Italia. Tutte le altre Regioni presentano un contributo variabile dallo 0.1% della Valle d’Aosta al 7.4% del Piemonte e della Campania (Figura 2).

(11)

10 Figura 2. Produzione di bioenergie nelle varie regioni italiane.

1.3 La biomassa e le agroenergie

1.3.1 Definizione di biomassa

Per “biomassa” si intende “la frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di

origine biologica provenienti dall’agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, comprese la pesca e l’acquacoltura, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani” (DLgs

28/2011). La biomassa utilizzabile ai fini energetici è rappresentata da tutti quei materiali organici che possono essere utilizzati direttamente come combustibili, in altre parole materiali che possono essere trasformati in altre sostanze (solide, liquide o gassose) di più facile utilizzo in appositi impianti di conversione. Altre forme di biomassa possono, inoltre, essere costituite dai residui delle coltivazioni destinate all’alimentazione umana o animale (paglia), o piante specificatamente coltivate per scopi energetici. Le più importanti tipologie di biomassa sono residui forestali, scarti dell’industria di trasformazione di legno (trucioli, segatura, ecc.), scarti delle aziende zootecniche, scarti mercatali e rifiuti solidi urbani (Foti et al., 2001).

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11 La biomassa è ampiamente disponibile ovunque e rappresenta una risorsa locale, pulita e rinnovabile. Fra le fonti rinnovabili, le biomasse rappresentano una delle soluzioni più interessanti nella ricerca di nuove risorse energetiche rinnovabili, nel breve-medio periodo, per almeno tre ragioni:

la possibilità di produrre energia con investimenti relativamente modesti; la possibilità di costituire un’alternativa alle colture tradizionali non in grado di reggere la concorrenza di un mercato ormai globalizzato;

la possibilità di immagazzinare quantità rilevanti di carbonio nel suolo (e quindi usufruire dei certificati verdi, cioè bonus economici scaturiti dal Protocollo di Kyoto).

1.3.2 La biomassa come fonte rinnovabile

I processi e i materiali utilizzabili per la produzione di biocarburanti sono svariati, in generale i biocarburanti possono essere distinti in:

biocarburanti di I generazione biocarburanti di II generazione

I “biocarburanti di I generazione”, nella fase attuale di sviluppo delle filiere bio-energetiche, sono ottenuti mediante processi ben noti:

spremitura e transesterificazione a partire da semi di specie oleaginose o da oli e grassi animali residuati dalla cottura o frittura (biodiesel);

fermentazione di zuccheri e amidi derivanti da colture zuccherine e amidacee quali canna da zucchero, frumento, mais etc. (bioetanolo e bio-ETBE),

digestione di biomasse umide (biogas).

Il fatto che biodiesel e bioetanolo possano essere facilmente ricavati dalle più importanti specie agrarie coltivate (frumento, orzo, mais, colza, soia, girasole, sorgo da granella, barbabietola da zucchero, etc.) comporta implicazioni favorevoli di natura economica, considerato che si tratta di specie di solida ed antica tradizione; tuttavia la loro utilizzazione a fini energetici potrebbe determinare risvolti negativi a causa della lievitazione dei prezzi di queste derrate che si origina dalla competizione tra le due destinazioni. L’allarme per tali prospettive è stato lanciato propri dai Paesi in via di

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12 sviluppo che vedono aumentare le difficoltà di approvvigionamento degli alimenti di base (Jean Ziegler, 2007).

È quindi una prospettiva promettente quella di utilizzare “biocarburanti di II

generazione” che possono essere ricavati da biomasse lignocellulosiche (bioetanolo di

seconda generazione) residuate dal settore agricolo, forestale, industriale (alimentare, del legno) o da colture lignocellulosiche dedicate, di gran lunga più abbondanti e a buon mercato. Alcune delle tecnologie utilizzate sono già sperimentate nell’UE dove esistono tre impianti pilota in Svezia, Spagna e Danimarca, per la produzione di bioetanolo (COM 2006, 34). Tra le altre tecnologie che convertono la biomassa in biocombustibili liquidi figurano:

la gasificazione e sintesi di biocarburanti a partire da materiale lignocellulosico (BTL da biomassa a liquidi; l’FT Diesel, diesel di sintesi derivato dal processo di Fischer Tropsch, biodimetiletere, etc);

il trattamento con idrogeno di oli vegetali e grassi animali per la produzione di biodiesel trattato;

la gasificazione di materiale lignocellulosico per la sintesi di biogas (SNG gas naturale sintetico);

la gasificazione di materiale lignocellulosico per la sintesi di bioidrogeno (biogas potenziati).

Prescindendo dagli aspetti più finemente tecnologici ed economici, una valutazione generale sulle colture dedicate alla produzione di biomassa per energia deve comunque rispondere a obiettivi di natura agronomica (nuove colture e sistemi colturali in rapporto alle nuove direttive della Politica Agricola Comunitaria), di natura energetica (in rapporto all’energia ottenibile e a quella impiegata per il suo ottenimento) e di natura ambientale, considerando i risvolti positivi sulla riduzione delle emissioni, con particolare riferimento all’anidride carbonica nell’atmosfera.

1.4 Colture da biomassa

1.4.1 Colture “dedicate” alla produzione di biomassa

Le materie prime fornite dall’agricoltura per produrre energia possono essere residui di coltivazioni destinate ad altri usi, o colture energetiche “dedicate” (energy crops),

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13 ossia appositamente coltivate e completamente destinate alla produzione di energia. Per colture “dedicate” alla produzione di energia sono da intendere tutte quelle specie erbacee e/o arboree che presentano proprietà genetiche, comportamenti fisiologici, esigenze colturali e caratteristiche produttive tali da renderle idonee alla produzione di biomassa, utilizzabile nei diversi processi tecnologici di conversione energetica. Le “colture dedicate” possono contribuire a diversificare inoltre le scelte degli agricoltori ed incrementare la biodiversità funzionale degli agroecosistemi.

Le colture dedicate possono essere di diverso tipo:

specie coltivate o presenti allo stato spontaneo in altri areali; specie spontanee presenti nell’areale ma finora mai coltivate ; specie coltivate per altre destinazioni.

Comune denominatore è, per tutte, l’adozione di sistemi di coltivazione a ridotto impiego di mezzi tecnici. Le colture da energia rispondono anche a richieste di natura socioeconomica, considerando che possono contribuire a un equilibrato sviluppo dei territori rurali:

rappresentando una fonte di reddito aggiuntiva a quello tradizionalmente derivante dall’attività agroforestale;

contenendo i processi di abbandono delle aree meno competitive, in termini di qualità e quantità, per le produzioni convenzionali;

rendendo disponibile una fonte energetica alternativa a beneficio dell’intera società, meno dipendente dai prodotti di origine fossile;

inserendosi in una più razionale gestione dello spazio rurale con potenziali effetti positivi sul piano paesaggistico e sulla salvaguardia della flora e fauna selvatica per l’utilizzo di pratiche colturali meno intensive.

Le colture dedicate, si suddividono in:

1. Arboree da energia (Short Rotation Forestry): ossia piante arboree a rapido accrescimento che, impiantate con un elevato grado di fittezza e gestite con idonee tecniche colturali, vengono ceduate e raccolte con turni di taglio assai più frequenti rispetto alle più tradizionali utilizzazioni del prodotto legnoso. Dalle esperienze condotte finora in Italia, risultano come specie particolarmente adatte il pioppo, il salice, la robinia, pur manifestando

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14 differenti capacità di adattamento alle condizioni agropedoclimatiche, soprattutto in termini di disponibilità idriche, e l’eucalipto, che si è talvolta caratterizzato per una maggiore sensibilità alle basse temperature invernali e ai ritorni di freddo primaverili.

2. Erbacee da energia: Colture erbacee poliennali o annuali, tra cui sono identificabili come specie particolarmente adatte alle nostre realtà regionali il miscanto e la canna comune e il sorgo da fibra. Presentano buone potenzialità anche il cardo (soprattutto nelle aree centromeridionali o dove la disponibilità idrica è limitata) e alcune graminacee che recentemente stanno riscuotendo particolare interesse a livello internazionale (ad esempio, Panicum spp.,

Phalaris spp.).

3. Oleifere da energia: dall’esterificazione di oli vegetali di colza, girasole e soia si ottiene il biodiesel, con proprietà e prestazioni simili a quelle del gasolio minerale. Il biodiesel si caratterizza per l’assenza di zolfo e di composti aromatici, il contenimento del particolato fine e la capacità di contribuire alla riduzione dell’effetto serra. Le colture più facilmente adattabili agli ambienti pedoclimatici italiani sono rappresentate dal girasole e dalla colza, per i quali sono già stati definiti indirizzi di scelta varietale e di tecnica colturale a basso impatto ambientale e costo.

4. Colture da carboidrati: dalle colture zuccherine si produce, per fermentazione dei carboidrati, il bioetanolo che è addizionato alle benzine, previa trasformazione in etil-tertiobutiletere. Tra le specie impiegabili, quelle più sperimentate e diffuse sono la canna da zucchero, il frumento, il sorgo e il mais (ma altre colture di un certo interesse possono essere rappresentate anche dalla barbabietola da zucchero e dal topinambur).

In generale, si può ritenere che la biomassa offre una sufficiente flessibilità nell’approvvigionamento del combustibile, sia in rapporto alla diversità intrinseca nelle diverse fonti di questa (residui agroindustriali, agricoli e forestali, coltivazioni dedicate ecc.), sia in rapporto alle specie agrarie di origine. La biomassa, infatti, può essere utilizzata direttamente nel processo di combustione o può essere trasformata in prodotti combustibili (solidi, liquidi e gassosi) attraverso processi di conversione di vario genere.

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15 I processi di conversione in energia delle biomasse possono essere ricondotti a due grandi categorie: processi termochimici e processi biochimici. Le tecnologie di conversione sono strettamente dipendenti dalle caratteristiche delle biomasse di partenza, in particolare dal rapporto tra carbonio e azoto e dal contenuto di umidità presente nella sostanza organica da utilizzare.

Le tecnologie per ottenere energia dai vari tipi di biomasse sono naturalmente diverse e diversi sono anche i prodotti energetici che si ottengono. Ad esempio, se un materiale ha molto carbonio e poca acqua, è adatto per essere bruciato al fine di ottenere calore o elettricità; se, viceversa, ha molto azoto ed è molto umido, può essere sottoposto a un processo biochimico che trasforma le molecole organiche in metano e anidride carbonica.

I processi di conversione biochimica permettono di ricavare energia per reazione chimica dovuta al contributo di enzimi, funghi e microrganismi che si formano nella biomassa sotto particolari condizioni e vengono impiegati per quelle biomasse in cui il rapporto C/N sia inferiore a 30 e l’umidità alla raccolta superiore al 30%. Risultano idonee alla conversione biochimica le colture acquatiche, alcuni sottoprodotti colturali (foglie e steli di barbabietola, ortive, patate, ecc.), i reflui zootecnici ed alcuni scarti di lavorazione.

I processi di conversione termochimica sono basati invece sull’azione del calore che permette le reazioni chimiche necessarie a trasformare la materia in energia; essi sono utilizzati per i prodotti ed i residui cellulosi e legnosi il cui rapporto C/N abbia valori superiori a 30 ed il contenuto di umidità non superi il 30%. Le biomasse più adatte a subire processi di conversione termochimica sono la legna e tutti i suoi derivati (segatura, trucioli, ecc.), i più comuni sottoprodotti colturali di tipo ligno–cellulosico (paglia di cereali, residui di potatura delle viti e dei fruttiferi) e taluni scarti di lavorazione (pula, gusci, noccioli).

Tra le varie tecnologie di conversione energetica delle biomasse alcune possono considerarsi giunte a un livello di sviluppo tale da consentire l’utilizzazione su scala industriale, altre necessitano invece di ulteriori sperimentazioni al fine di aumentare i rendimenti e ridurre i costi di conversione energetica.

Le tecnologie più comunemente utilizzate sono la combustione diretta e la digestione anaerobica. La combustione diretta è generalmente attuata in

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16 apparecchiature (caldaie) in cui avviene anche lo scambio di calore tra i gas di combustione e i fluidi di processo (acqua, olio diatermico, ecc.). La combustione di prodotti e residui agricoli si attua con buoni rendimenti se si utilizzano come combustibili sostanze ricche di glucidi strutturati (cellulosa e lignina) e con contenuti di acqua inferiori al 35%.

Le caldaie a letto fluido rappresentano la tecnologia più sofisticata e dispendiosa che sta ricevendo, però, notevoli attenzioni. Essa permette il conseguimento di numerosi vantaggi quali la riduzione degli inquinanti e l’elevato rendimento di combustione.

La digestione anaerobica invece è un processo di conversione di tipo biochimico; consiste nella demolizione, ad opera di microrganismi, di sostanze organiche complesse (lipidi, protidi, glucidi) contenuti nei vegetali e nei sottoprodotti di origine animale che produce un gas costituito per il 50/70% da metano e per la restante parte da CO2. Il biogas così prodotto viene raccolto, essiccato, compresso ed immagazzinato e può essere utilizzato come combustibile per alimentare caldaie a gas per produrre calore o per motori a combustione interna per produrre energia elettrica.

1.4.2 Arundo donax L. (Canna comune)

La canna comune è un elemento tipico del paesaggio italiano: è presente sui cigli stradali e ferroviari, lungo fossi e greti, in appezzamenti abbandonati e, quasi come una costante, a formare piccoli canneti nella vicinanza di orti e fabbricati rurali. La sua diffusione è legata, oltre che alla naturale capacità di moltiplicarsi e di colonizzare nuovi spazi, anche all’utilità che ha sempre avuto nel nostro mondo agricolo. I fusti, infatti, erano impiegati come tutori e sostegni in viticoltura e orticoltura, come materiale leggero per piccole costruzioni e ripari e, laddove scarseggiavano le specie arboree, come combustibile per il suo elevato potere calorifico.

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17 Secondo la classificazione tassonomica, Arundo donax appartiene alla famiglia delle

Graminaceae, oggi dette Poaceae, della tribù Arundinee; al genere Arundo afferiscono

6 specie tipiche degli ambienti caldi e, di queste, in Italia troviamo, oltre ad A. donax, anche la più piccola A. plinii Turra. È una geofita rizomatosa perenne tipica dell’orizzonte mediterraneo; in Italia è comune trovare questa specie in zone di bassopiano e, più raramente, in ambienti submontani in cui la sua sensibilità alle basse temperature può divenire un fattore limitante.

I botanici non sono concordi circa la sua l’origine e la diffusione nel bacino del Mediterraneo. I dati sulla biologia sono molto scarsi (Onofry, 1940). Tuttavia è possibile identificare l’areale di origine della specie che sembra essere piuttosto ampio, estendendosi dal Pakistan fino a tutto il bacino del Mediterraneo, da cui è stata poi introdotta in molte aree dell’Asia e delle Americhe (è oggi naturalmente diffusa anche in ampi territori della Cina, in Messico e in molti stati meridionali degli USA).

Dal punto di vista morfologico, la canna comune presenta un grosso rizoma di durata biennale da cui si dipartono abbondanti radici che si originano sia nella parte superiore sia inferiore dello stesso. La ceppaia dell’età un anno originata da rizoma ha un diametro medio di 0,3 m e si sviluppa a una profondità di 15-20 cm pesando mediamente 800 g. L’apparato radicale raggiunge profondità superiori a 1,5 m già all’età di tre anni ed è caratterizzato da una biomassa fresca complessiva che arriva a valori di oltre 44 kg m-2.

I fusti si originano annualmente dalle gemme dei rizomi e possono raggiungere altezze ragguardevoli, anche di 6-7 m in un solo ciclo vegetativo, rappresentando insieme al bambù la più grande specie erbacea spontanea in clima temperato freddo.

Per quanto riguarda l’accrescimento A. donax evidenzia una rapidità notevolmente elevata avendo fatto registrare valori anche di 7 cm al giorno. Le foglie ricoprono interamente i fusti a formare una guaina protettiva ed hanno una lamina lunga e relativamente ampia, mentre il culmo termina con una vistosa pannocchia costituita da spighette di fiori.

L’infiorescenza (Figura 3) è sterile e per questa ragione la specie si riproduce soltanto agamicamente attraverso l’espansione del rizoma, la dispersione di frammenti dello stesso ed eventualmente con l’interramento di porzioni di fusto con almeno una gemma.

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18 Figura 3. Infiorescenza di Arundo donax.

L’assenza di riproduzione sessuale riduce sensibilmente la variabilità genetica delle popolazioni di canna; tuttavia essa è diffusa in ambienti climaticamente molto diversi tra loro, poiché evidentemente esistono molte “provenienze” di Arundo donax, anche in Italia, con caratteristiche sufficientemente differenti, tali da compensare la bassa variabilità genetica. Questo ha già permesso una certa selezione delle varietà più vocate alla produzione di biomassa, mentre è attualmente in corso l’ulteriore caratterizzazione delle varietà e la selezione dei cloni migliori nelle diverse condizioni pedoclimatiche.

L’idea di poter coltivare la canna comune come specie per la produzione di biomassa ha origini passate. Infatti, proprio nel nostro Paese è stata realizzata una delle più grandi esperienze di utilizzo industriale di questa specie. Fra il 1937 e il 1962 in un’area di bonifica nel basso Friuli furono, infatti, impiantati centinaia di ettari, che nel periodo di massima espansione raggiunsero i 5.400 ettari, la cui produzione alimentava la fabbrica di cellulosa di Torviscosa. La canna è stata per anni la sola materia prima dell’opificio in questione che, oltre alla produzione di cellulosa, estraeva dai fusti anche gli zuccheri solubili destinandoli alla produzione di alcool etilico.

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19 1.4.2.1 Esigenze e adattamento ambientale

Gli studi sull’ecofisiologia dell’Arundo donax sono pochi, ed è quindi difficile indicare esattamente i limiti termici della specie. Genericamente si può affermare che questa è sensibile alle temperature molto basse, dannose soprattutto per la vitalità del rizoma, che è tanto più sensibile quanto più il canneto è giovane e quanto più questo è stato impiantato superficialmente; con il passare degli anni, invece, i rizomi tendono ad approfondirsi naturalmente e a beneficiare dell’azione protettiva del terreno nei confronti delle basse temperature. Anche l’epoca dei tagli può aumentare in una certa misura il rischio di danni da gelate perché l’asportazione di fusti e foglie, realizzata nel periodo invernale, fa evidentemente mancare l’effetto protettivo che questi hanno sui rizomi.

Orientativamente, si ritiene che per iniziare l’accrescimento nella fase di ripresa vegetativa, la canna abbia bisogno che le temperature del suolo giungano a circa 13-14°C, ma in una sperimentazione recentemente condotta nell’Italia centrale con due diverse “provenienze”, la temperatura media dell’aria al momento del ricaccio primaverile era addirittura inferiore ai 12°C.

La canna comune è una pianta scarsamente esigente in fatto di terreni. Le produzioni massime di biomassa si ottengono in ogni caso in terreni freschi, profondi e ben drenati, meglio se ricchi di calcio, ma la specie è comunque capace di dare una risposta produttiva accettabile anche in condizioni sub-ottimali; sembra rifiutare soltanto i suoli eccessivamente argillosi, quelli troppo sabbiosi o i terreni comunque troppo superficiali. In ogni caso è sensibile all’eccesso idrico e al ristagno d’acqua al livello dei rizomi poiché questo agevola lo sviluppo di marciumi e batteriosi che possono comprometterne la vitalità.

Per quanto riguarda le esigenze nutrizionali alcune ricerche condotte in proposito, hanno determinato che le asportazioni di nutrienti dal terreno da parte della canna comune si aggirano intorno a 10 kg di azoto, 13 kg di potassio e pochi kg di fosforo per ogni tonnellata di sostanza secca prodotta.

Per quanto riguarda esigenze idriche della pianta è già stato detto come questa sia presente in tutto il territorio italiano, in popolazioni “naturali” che si trovano prevalentemente lungo corsi d’acqua o canali, cioè in zone in cui la disponibilità d’acqua nel suolo non è legata soltanto all’entità delle precipitazioni atmosferiche; la

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20 profondità e la potenza del suo apparato radicale sono comunque tali da rendere la coltura in grado di avvalersi senz’altro anche di falde acquifere poste a profondità superiori al metro.

Alcuni impianti sperimentali di Arundo donax hanno dimostrato di poter mantenere, in asciutto, livelli produttivi interessanti anche in ambienti in cui sono stati registrati ripetutamente nel tempo soltanto 400 mm di precipitazioni annue. Del resto è stato accertato che il valore di efficienza d’uso per l’acqua della specie è molto alto (con circa 100-170 litri di acqua utilizzata per kg di sostanza secca annua prodotta) e alcune esperienze d’irrigazione delle colture condotte in Sicilia hanno dimostrato un livello di risposta tale da non giustificare l’intervento. Il ricorso all’irrigazione può invece essere utile come intervento di soccorso in fase d’impianto della coltura, specialmente in ambienti o in annate particolarmente siccitose. Ne consegue che l’Arundo donax è una pianta particolarmente promettente nell’ambito della produzione di biomasse sia per la caratteristica velocità di crescita elevata, sia per quanto riguarda la sua naturale diffusione, la quale consente di selezionare delle piante con esigenze pedoclimatiche specifiche per diverse zone territoriali. Di notevole importanza è che la canna non richiede particolari lavorazioni colturali, o perlomeno esse sono concentrate nel primo anno di impianto, poiché essendo una specie poliennale non necessita di ulteriori lavorazioni negli anni successivi, ammortizzando quindi i costi del primo anno; inoltre l’Arundo donax presenta una quantità di biomassa prodotta che risulta crescente nel corso degli anni della coltura (Lewandowsky et al., 2003).

Il fatto che l’Arundo donax non richieda particolare lavorazioni e concimazioni, assieme alla peculiarità di tollerare anche bassi regimi idrici consente di ottenere biomassa ad un costo di produzione relativamente basso, ma soprattutto ciò potrebbe consentire la valorizzazione di terreni marginali, ovvero quei terreni che normalmente non vengono utilizzati per le coltivazioni alimentari, quali ad esempio terreni salini.

Tra i terreni marginali, oltre a quelli salini o troppo argillosi, rientrano anche quei terreni, che in seguito ad operazioni umane presentano un elevato contenuto di metalli inquinanti (Zn, Cu, Pb, Cd, Ni e As); l’Arundo donax è una specie che tollera la presenza di inquinanti, quali nichel e cadmio (Papazoglou et al., 2005) e addirittura può

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21 fungere da fito-regolatore in quanto accumula e trasloca fino alle foglie concentrazioni di arsenico fino a 600 g L-1 (Mirza et al., 2010).

1.5 Problematica della salinità

1.5.1 L’importanza del problema della salinità e le sue cause

In agricoltura la tematica della salinità del suolo e delle acque è ormai da tempo diventato un problema di fondamentale importanza per svariati motivi; una salinizzazione del terreno porta spesso a perdite sia di qualità che di quantità di prodotti agricoli. Oltre alla notevole perdita di produzione agricola, la salinizzazione causa altri problemi quali danni alle infrastrutture e contaminazione delle falde acquifere (Pitman et al., 2002). I suoli salini e sodici riducono valore e produttività di ampie aree di tutto il mondo (Follett et al., 1981). Si stima che ogni minuto nel mondo si perdono tre ettari di terreni coltivabili a causa della salinizzazione (F.A.O., 1981). Inoltre, a causa della cattiva gestione del suolo e delle acque, approssimativamente l’8 – 12% (circa 25 milioni di ettari) delle terre irrigate hanno registrato una diminuzione di produttività dovuta all’accumulo di sali (Umali, 2003). In più, altri 70 milioni di ettari sono moderatamente colpiti dal problema.

Specificatamente, nel bacino mediterraneo, circa 16 milioni di ettari sono salinizzati. Sebbene siano più frequenti nelle zone desertiche e semi desertiche, i suoli salinizzati possono trovarsi anche in aree nelle quali tutte le condizioni naturali sarebbero favorevoli alla produzione. Nell’areale mediterraneo spesso la salinizzazione del franco di coltivazione è associata alla cattiva gestione dell’irrigazione. (Tedeschi et al., 1997).

La salinità resta comunque una delle caratteristiche più importanti per definire la qualità dell’acqua irrigua. Essa è determinata dalla dissociazione in acqua di sali minerali. I sali che più frequentemente si trovano disciolti nelle acque sono essenzialmente i nitrati, i cloruri, i solfati, i carbonati e i bicarbonati di elementi alcalini e alcalini terrosi (sodio, potassio, magnesio, calcio); altrettanto interessanti per i loro effetti, sono alcuni singoli elementi (boro, cloro, sodio etc.). Il contributo di un sale alla salinità dell’acqua è tanto maggiore quanto più elevata, è la sua concentrazione ed in particolare quanto più esso è dissociato. L’utilizzo di acque saline comporta tutta una serie di problemi che si traducono innanzitutto in una riduzione di fertilità del suolo

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22 con conseguente maggiore difficoltà nello sviluppo radicale e nel processo di assorbimento dell’acqua da parte delle piante e un’alterazione dei normali processi fisiologici delle piante con intensità diversa a seconda della quantità e qualità dei sali, del tipo di terreno, del clima, della specie coltivata, del suo stato biologico e dell’insieme dei fattori colturali adottati. (Kafkafi, 1991; Läuchli et al., 1990; Maas, 1986).

Un aumento della salinità dell’acqua causa un aumento della pressione osmotica della soluzione circolante del suolo, che si traduce in una ridotta disponibilità di acqua per le piante (Barbieri et al., 1992).

I principali sali che causano salinizzazione sono i clorati, solfati, bicarbonati, carbonati di sodio, potassio, magnesio e calcio.

Le principali cause della salinizzazione nel nostro ambiente sono legate alla redistribuzione dell’acqua e sali solubili, sia sopra che sotto il suolo (B.A.P.,2004).

La dinamica dell’accumulo dei sali si può distinguere in due cicli (Munns, 1999; F.A.O., 2000; Tanji, 2002):

salinizzazione primaria; salinizzazione secondaria.

La salinizzazione primaria è detta anche naturale; essa avviene quando l’acqua scompare dal suolo essenzialmente per evaporazione e traspirazione, piuttosto che per percolazione (Sequi, 1989) e quindi chiaramente le regioni aride saranno maggiormente soggette a questo fenomeno e si assiste a fenomeni ciclici di concentrazione salina a causa dell’elevato valore di evaporazione/precipitazione. La salinità primaria può derivare anche da fenomeni di risalita capillare dei sali (dovuta all’evaporazione) e da movimenti sotterranei dell’acqua (Pitman et al., 2002; B.A.P., 2004). Altra causa di salinizzazione è il trasporto di sali dall’oceano a causa del vento e/o della pioggia (che contiene da 6 a 50 mg/kg di sale). La salinizzazione secondaria è anche detta antropogenica poiché appunto è indotta dall’uomo e deriva principalmente l’acqua d’irrigazione utilizzata che può contenere sali residui da operazioni agricole, per cui anche deiezioni animali o fertilizzanti chimici vari e fanghiglie di scarto (Tanji, 2002). Inoltre essa può essere causata da una cattiva gestione dell’irrigazione, sia per quanto riguarda i volumi d’irrigazione che possono essere insufficienti, o ancora una scarsa efficienza d’irrigazione, altresì l’utilizzazione di

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23 acqua salina o di qualità marginale in suoli particolarmente sensibili alla salinizzazione come suoli sodici.

1.5.2 Gli effetti della salinità

La salinità delle acque irrigue ha delle ripercussioni sia sul suolo e la sua struttura, ma soprattutto sulla pianta.

1.5.2.1 Effetti sul suolo

Gli effetti negativi della salinizzazione sul suolo sono in prevalenza due: la deflocculazione e l’innalzamento del pH. Alte concentrazioni di sodio portano ad un suo adsorbimento sulle superfici dei colloidi argillosi ed organici al posto di calcio e magnesio. La generale salinizzazione del terreno porta alla flocculazione, mentre il sodio ha un effetto opposto; il Na svolge, infatti, un’azione deflocculante sulla struttura del terreno, la quale, a lungo termine, favorisce il compattamento del terreno (Richards, 1954; Kovda, 1977). Si generano così problemi di asfissia radicale, dovuti alla minor permeabilità e al peggior drenaggio; inoltre questa peggiore struttura del terreno favorisce a sua volta l’accumulo di sali, portando a un ulteriore aggravamento del problema.

1.5.2.2 Effetti sulla pianta

L’effetto dei sali sulle piante è un risultato combinato fra diversi processi di adattamento morfologici, fisiologici e biochimici allo stress.

In linea di massima possiamo distinguere due tipologie di effetti differenti: morfologici e fisiologici.

1. Effetti morfologici

La sintomatologia che si riscontra in piante sensibili o mediamente tolleranti (non alofite) cresciute su substrati eccessivamente salini è tipica, e generalizzabile a molte specie. I principali sintomi morfologici riguardano alterazioni più o meno evidenti della colorazione delle foglie, e un visibile ispessimento della lamina fogliare (Longstreth et al., 1979; Nolan et al., 1982); inoltre si possono manifestare, sempre sulla foglia, bruciature marginali e necrosi (Bernstein, 1975; Nolan et al., 1982). Se le condizioni

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24 saline perdurano, si assiste a precoce filloptosi, con conseguente accorciamento del ciclo biologico e produttivo (Barbieri at al., 1992).

A tali sintomi, in piante non tolleranti, si collegano alterazioni del metabolismo quali un aumento della resistenza stomatica e della resistenza al movimento dell’acqua all’interno dei tessuti (Maas et al., 1978; Adams et al., 1989), nonché una riduzione dei ritmi di assimilazione di CO2 (O’Leary, 1984). Inoltre da alcuni Autori è stata riscontrata una diminuzione della quantità di fitoregolatori come gibberelline e citochinine, specialmente a livello fogliare (Zeroni, 1988).

2. Effetti fisiologici

Le cause dei sintomi sopraelencati sono gli effetti negativi esercitati dai sali su alcuni processi fisiologici delle piante e sul terreno.

Gli effetti negativi dell’eccesso di ioni nella soluzione circolante sul sistema suolo-pianta si articolano, per quanto riguarda la suolo-pianta, essenzialmente in tre fenomeni (Luttge et al., 1984; Pitman, 1984):

Un incremento del potenziale osmotico dell’acqua del terreno, con riduzione dell’acqua disponibile per l’assorbimento da parte delle piante. Gli effetti che si producono sono paragonabili a quelli di un deficit idrico (water stress) (Walter, 1961; Yeo, 1983; Barbieri at al., 1992). La durata di tale fenomeno può risultare critica per la crescita di specie sensibili, ma può avere un effetto transitorio su quelle più tolleranti (Greenway et al., 1980).

Un aumento nei tessuti della concentrazione di alcuni ioni, in particolare del Na, che hanno un effetto tossico e denaturante nei confronti degli enzimi del citosol, inibendo la sintesi proteica al livello degli acidi nucleici (Bernstein, 1961; Bernstein, 1975). Questo porta a un’alterazione della struttura delle membrane cellulari e dell’integrità funzionale dell’organo in maniera irreversibile; si determina una riduzione di crescita iniziale (riduzione dell’area fogliare, internodi accorciati) e successivamente, nei casi più gravi, imbrunimento, necrosi diffuse e morte dei tessuti. Questo fenomeno è detto salt stress.

Un’alterazione nel bilancio dell’assorbimento di ioni da parte della pianta, con conseguenti squilibri nella concentrazione di elementi nutritivi all’interno dei tessuti (ion imbalance stress). Il motivo è l’antagonismo tra gli ioni, in particolare Na+ contro K+ e Ca2+, e Cl- contro NO3- (Flowers et al., 1986; Lauchli,

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25 1983). Recentemente è stato proposto un modello di risposta bifasica della crescita delle piante alla salinità (Munns et al., 1995). Sulla base di questa ipotesi la crescita risulta inibita inizialmente dalla ridotta assunzione di acqua a livello radicale, causata dal basso potenziale idrico del terreno. In questa fase la pianta va incontro ad uno stress osmotico la cui entità è indipendente dal tipo di sale, ma dipendente dalla pressione osmotica da esso esercitata.

Successivamente l’ulteriore inibizione della crescita è dovuta ad uno stress di tipo tossico che si manifesta prima nelle foglie vecchie, che muoiono a causa del rapido incremento della concentrazione salina nelle pareti cellulari o nel citoplasma, quando i vacuoli non sono più in grado di contenere gli ioni tossici. Quando la perdita delle foglie più vecchie è superiore alla neosintesi, si manifesta un calo nella disponibilità di assimilati con consistenti danni alla crescita.

1.5.3 Possibili meccanismi di tolleranza

Le strategie che le piante possono mettere in atto per fare fronte e, possibilmente, resistere allo stress salino, possono essere distinte in quelle che prevedono l’esclusione o l’inclusione degli ioni.

Le strategie di esclusione degli ioni sono rappresentate da tutti quei meccanismi volti a impedire -o quantomeno limitare- l’effettivo ingresso di ioni tossici all’interno della pianta. Si tratta pertanto nella maggior parte dei casi di impedire, per quanto possibile, l’accumulo dei sali all’interno dei tessuti della pianta, e il conseguente verificarsi dei noti effetti di tossicità e limitazione della crescita. Questo vale in maniera particolare per le parti in espansione, che sono le fotosinteticamente più attive.

I principali meccanismi di esclusione dei sali da parte di queste piante possono essere distinti in:

1. Filtrazione o bloccaggio dei sali. Alcune piante effettuano una ultrafiltrazione attiva che determina un’elevata desalificazione dell’acqua del plasmalemma delle cellule parenchimatiche radicali. Altre piante bloccano il trasporto dei sali verso determinati organi. Per esempio, nella mimosacea Prosopis farcta o in alcune Fabacee, non c’è trasporto salino alle foglie, dato che i sali (in particolare ioni Na+), sono trattenuti a livello delle radici e dei fusti. In alcune specie di graminacee relativamente resistenti (Hordeum, Triticum, Secale) c’è

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26 un’alta selettività di assorbimento dello ione K+ rispetto al Na+ (Rains et al., 1967). Nelle specie di graminacee suddette si verifica un’attiva estrusione del sodio in eccesso a spese di una pompa protonica a base di ATP dalla linfa xilematica nelle radici e nei primi tratti del fusto (Rains et al., 1967; Nassery et al., 1972).

2. Mantenimento del turgore cellulare favorito da un incremento della permeabilità all’acqua da parte delle radici.

3. Mantenimento del turgore cellulare mediante sintesi di soluti organici. Si tratta in generale di molecole organiche a basso peso molecolare, quali prolina e betaina.

4. Aumento dello spessore fogliare. Questo adattamento strutturale migliora l’efficienza dell’uso dell’acqua tramite una minore perdita per traspirazione e un’ottimizzazione della conversione fotosintetica della luce.

Le strategie di inclusione degli ioni mirano in genere a indurre maggior resistenza nell’organismo vegetale, servendosi degli stessi ioni della salinità per ridurre l’effetto della siccità fisiologica. Si può in questo senso ritenere che le strategie di inclusione degli ioni comportino una risposta più mirata della pianta al modificarsi delle condizioni ambientali, e in certo qual modo impongono una maggior flessibilità adattativa dell’organismo vegetale.

I meccanismi tramite cui si esplica questo tipo di tolleranza possono essere suddivisi come:

1. Compartimentalizzazione degli ioni nei protoplasmi o loro accumulo nei vacuoli. Le piante includenti gli ioni (in genere specie alofite) effettuano questo tipo di accumulo per creare una pressione osmotica interna maggiore di quella della soluzione circolante (Pitman, 1984). Il fattore limitante di questo meccanismo è il possibile eccesso di ioni tossici nel citoplasma, a cui si associa un decremento dell’anidride carbonica fissata, dovuto anche ad una alta resistenza stomatica (Boyer, 1975; Cowan et al., 1977).

2. Confinamento ed eliminazione degli ioni. Alcune piante alofite eliminano l’eccesso salino per escrezione a livello fogliare, o direttamente per eliminazione di parti in cui i sali siano stati precedentemente accumulati. Per esempio, diverse mangrovie, diverse Plumbaginacee e erbe alofite come

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27 Spartina, Distichlis e talune specie di Atriplex producono ghiandole nel cui

succo cellulare i sali si accumulano, dopodiché la ghiandola muore e si distacca. In altre piante alofite come Plantago marina, Triglochin maritimum e Aster

triporium, l’eliminazione dei sali avviene tramite distacco delle foglie più

vecchie, in cui si ha accumulo (filloptosi).

3. Succulenza salina. E’ una strategia molto diffusa sia tra le alofite di ambiente salinoumido (Salicornia) che tra piante tipiche di spiagge marine della famiglia delle Chenopodiacee, (nonché Laguncularia tra le mangroviacee). Consiste nel contenere gli effetti dannosi di un eccessivo accumulo di sali tramite la loro diluizione, in cellule che assorbono maggiori quantità di acqua e si gonfiano. La validità di questa strategia è dovuta al fatto che non è la quantità assoluta di sale, ma la sua concentrazione, a determinare o meno effetti negativi.

Le piante includenti gli ioni presentano un’elevata capacità di tolleranza ai sali, e molte specie (quali Atriplex hortensis, Salicornia spp., Suaeda maritima) sono studiate per un loro eventuale utilizzo agricolo diretto o come materiale genetico di base per eventuali selezioni di varietà transgeniche per la tolleranza al sale di specie agrarie (Austenfeld, 1976; Norlyn,1980).

1.5.3 Salinità in Arundo donax

L’Arundo donax è classificata come alofita (Williams et al., 2009). Le proprietà generali delle alofite consistono nella resistenza alla siccità, nella capacità di assorbire l'acqua a potenziali molto bassi e la possibilità di accumulare sali nei tessuti o di eliminarli con uno specifico apparato ghiandolare, riducendo inoltre l'intensità della traspirazione e resistendo a cospicui assorbimenti di sodio. I principali meccanismi di adattamento delle piante alofite all’elevata salinità sono tre:

1. lo sviluppo di resistenza all'entrata del cloruro di sodio nella cellula 2. l'accumulo del cloruro di sodio entro i vacuoli cellulari

3. l’eliminazione del cloruro di sodio mediante cellule secretrici presenti nel fusto e nelle foglie.

Secondo i risultati ottenuti da uno studio condotto in Australia (Williams et al. 2009) l’Arundo donax può essere classificato come un’alofita poiché tollera una salinità fino a 25 dS m-1 (o 250 mM) nell’acqua di irrigazione per periodi prolungati.

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28 2 Scopo del lavoro

L’agricoltura ha rappresentato fin dall’antichità il fulcro quasi esclusivo dell’economia umana. Negli ultimi due secoli la situazione ha subito un cambiamento radicale, in maniera particolare quando l’economia ha iniziato a ruotare su un altro tipo di risorse, quali i combustibili fossili. Nel corso dell’ultimo decennio però si è assistito ad una crescente preoccupazione generale nei confronti dei combustibili fossili vista la loro natura non rinnovabile. Si è quindi iniziato a prestare una maggiore attenzione alle fonti energetiche rinnovabili, con lo scopo di massimizzare le risorse locali favorendone un uso eco-sostenibile e contribuendo a promuovere quindi la sostituzione dell’attuale modello energetico, basato sullo sfruttamento delle fonti fossili di energia, con un modello di sviluppo sostenibile basato sull’uso di fonti di energia rinnovabile e modelli colturali a basso input. Le materie prime fornite dall’agricoltura per produrre energia possono essere residui di coltivazioni destinate ad altri usi, o colture energetiche “dedicate” (energy crops), ossia appositamente coltivate e completamente destinate alla produzione di energia; le colture “dedicate” possono essere di vario tipo, chiaramente in base poi alla tipologia di pianta si diversifica anche il tipo di carburante prodotto.

Lo scopo del presente lavoro sperimentale era la valutazione della risposta di piante di Arundo donax a concertazioni elevate di NaCl (256 mM) mediante la valutazione del processo fotosintetico. A questo fine si è utilizzata la metodologia della fluorescenza della clorofilla a che fornisce indicazioni sull’attività fotochimica del fotosistema II e del trasporto elettronico cloroplastico. E’ stata inoltre valutata l’assimilazione degli ioni sodio e cloro e di altri elementi il cui assorbimento potrebbe essere alterato dalla situazione di salinità.

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29 3 Materiali e Metodi

3.1 Materiali utilizzati e tecnica di coltura

Il materiale vegetale utilizzato nel presente lavoro deriva da 80 piantine di Arundo

donax ottenute per micropropagazione nel Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari

e Agro-Ambientali (DISAAA-a) dell’Università di Pisa, gentilmente concesse dal Prof. S. Morini.

Le piante sono state coltivate utilizzando il sistema ortobaleno, il quale comprende una vaschetta, con una mascherina da poggiare sopra la vasca che funga da tappo, la quale è provvista di 10 fori rettangolari in cui vengono inseriti i vasi delle piante; inoltre il kit dell’ortobaleno era munito di tappi che consentivano di chiudere i fori nel caso in cui non ci fosse le pianta.

Il terreno utilizzato per l’esperimento è stato un mix di torba, sabbia e perlite ripartito in proporzione rispettivamente 3:2:1 (p/p/p).

Le piante sono state divise in due gruppi: Controlli: 40 piante irrigate con acqua

Stressate: 40 piante irrigate con una soluzione contenete 15 g L-1 di NaCl (equivalenti 256 mM).

Entrambi i gruppi sono stati coltivati in una comune serra e sono stati trapiantati il 1° Aprile 2013 mentre l’imposizione dello stress salino è iniziata il 13 Maggio 2013 in modo tale da permettere l’acclimatazione delle piante.

Durante il periodo della coltura sono stati eseguiti tre campionamenti: 1. 3° settimana (Martedì, 28 Maggio);

2. 8° settimana (Lunedì, 1 Luglio); 3. 8° settimana (Martedì, 2 Luglio).

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30 Di seguito vengono riportate le varie operazioni svolte durante la coltura.

Sett. Operazioni di coltura Sett. Operazioni di coltura

Lunedì: 2 L/ vasca +concimazione

Lunedì: 2L/vasca + concime 2g Venerdì: 2L/vasca Lunedì: 2L/ vasca Venerdì: 1 ⅟2 L/vasca Lunedì: 2L/vasca Venerdì: 2L/vasca Lunedì: 2L/vasca+concime 2g; Campionamento Venerdì: 2L/vasca

Lunedì: 2L/vasca + concime 2g Venerdì: 2L/vasca Lunedì: 2L/vasca Venerdì: 2L/vasca Campionamenti Smontaggio coltura

I primi due campionamenti venivano effettuati per la determinazione dei minerali: le piantine (nel primo caso 2 controlli e 2 stressate, nel secondo 4 e 4) sono state prelevate dal sistema di coltura, lavate dal terreno presente e tagliate nelle varie parti della pianta (radici, steli e foglie), dopo di che il materiale è stato essiccato in stufa a 40° per due/tre giorni. Una volta essiccato è stato pesato e in seguito polverizzato e analizzato.

L’ultimo campionamento è stato effettuato al termine della prova; da ogni vasca sono stati prelevati 5 g di sostanza fresca mista tra le varie piantine della vasca, ottenendo così quattro campioni dei controlli e altrettanti degli stressati; inoltre son state prelevate e lavate le radici di due piante (un controllo e uno stressato). I campioni così ottenuti sono stati congelati in azoto liquido e conservati a -80° C fino al momento dell'analisi.

L’andamento delle temperature durante tutto il periodo della coltura viene di seguito riportato.

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3.2 Analisi della fluorescenza della clorofilla a delle foglie

Questa metodologia permette lo studio della fotosintesi in vivo e offre la possibilità di eseguire analisi di tipo non distruttivo sulle foglie. I parametri sono stati misurati utilizzando un fluorimetro, l’Imaging PAM (Hemz Walz, Effeltrich, Germania).

I fluorimetri attualemnte in commercio utilizzano luce modulata per indurre la fluorescenza della Clorofilla a. Quando una foglia viene adattata al buio per un certo periodo di tempo si ha l’induzione della curva di Kantsky (Figura 4).

Una luce di debole intensità permette di misurare F0 dopodiché un impulso luminoso saturante provoca l’aumento della fluorescenza e permette la misura di Fm. Il valore F0 corrisponde alla situazione in cui i centri di reazione del PSII sono allo stato ossidato e l’impulso saturante determina la loro riduzione (Fm). Il rapporto Fv/Fm = [(Fm- F0/Fm] è definito come l’efficienza massima del PSII nel condurre gli eventi fotochimi ed il suo valore ottimale in una foglia è tipicamente tra 0.8 e 0.82.

Dopo il raggiungimento di Fm la foglia viene prima illuminata con luce attinica e si può determinare l’analisi del quencing. Genty et al. (1989) hanno mostrato che la misura dell’efficienza della fluorescenza stazionaria alla luce (Ft) e dell’efficienza della fluorescenza massima alla luce (Fm’) permette di calcolare l’efficienza quantica del trasporto di elettroni a livello del fotosistema II (PSII), ossia l’efficienza fotochimica effettiva alla luce per mezzo della relazione:

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32 Il livello di Ft varia tra F0 e F’m seguendo l’intensità dell’illuminazione (come si può osservare in Figura 4). Questo parametro rappresenta quindi l’efficienza in cui il PSII è in grado di condurre il trasporto elettronico in condizioni di luce.

Figura 4. Cinetica di emissione della fluorescenza della clorofilla (curva di Kantsky). Viene

accesa una luce modulata (↑ML) e viene misurato il valore minimo della fluorescenza (F0).

L’applicazione di un impulso luminoso saturante (↑SP) permette di misurare il valore massimo

della fluorescenza (Fm). Viene quindi applicata una luce attinica (↑AL). Dopo un certo periodo

di tempo viene applicato un altro impulso luminoso saturante che permette di misurare il

valore massimo della fluorescenza alla luce (Fm’). La fluorescenza in condizioni stady-state

viene chiamata Ft. Spegnendo AL, in presenza di luce rosso lontano (FR, far red), è possibile

infine calcolare la resa minima della fluorescenza alla luce (F0’).

Il parametro F0’, ovvero la resa fluorescente minima di un campione illuminato è più basso rispetto ad F0 (come è possibile anche apprezzare dalla Figura 4) e pertanto deve essere determinato; per la sua corretta determinazione la luce attinica deve essere spenta e gli accettori del PSII devono essere rapidamente riossidati con l'aiuto di luce infrarossa. Questo tipo di approccio non è attuabile attraverso lo strumento poiché la luce infrarossa che penetra nella camera causa disturbi nelle immagini della fluorescenza.

La stima di F0’ è effettuata utilizzando l'approssimazione di Oxborough e Baker (1997):

(34)

33 3.2.1 Imaging PAM

L’Imaging PAM, il fluorimetro utilizzato, è adatto a misurare l’efficienza fotochimica del PSII su una superficie fogliare. L’emissione di fluorescenza della clorofilla a acquisita su due canali (rosso - F690 e rosso lontano - F740) tramite una CCD camera (Charge Coupled Device) viene elaborata e visualizzata da un PC portatile sul quale è possibile osservare le caratteristiche di fluorescenza associate a ciascun pixel dell’immagine. Attraverso una finestra di selezione dell'immagine lo strumento è in grado di fornire diversi parametri, le cui immagini vengono mostrate sul display (Image-Window).

3.2.2 Resa quantità potenziale (Fv / Fm)

La fluorescenza è stata eccitata con luce rossa modulata (lunghezza d’onda 650 nm), avente un’intensità sufficientemente bassa tale da non provocare emissione di fluorescenza variabile, ma solo di F0, dopo 30 minuti di adattamento al buio, al fine di assicurare che l’accettore primario del PSII (QA) fosse completamente ossidato.

La foglia è stata, quindi, illuminata per 0.8 s ad elevata intensità (15000 μmol m-2s-1) in modo da indurre la produzione di Fm, corrispondente alla completa riduzione del QA. Dai parametri così determinati è stato ottenuto il rapporto Fv / Fm.

Questo rapporto fornisce una misura dell'efficienza massima del PSII (quando cioè tutti i centri di reazione sono aperti).

Le valutazioni di Fv / Fm in piante adattate al buio, riflettono il potenziale del PSII e sono utilizzate come indicatori delle performances fotosintetiche della pianta. Piante sottoposte a stress fanno osservare valori più bassi di 0.83 mettendo in luce il fenomeno della foto inibizione.

3.2.3 Resa quantica effettiva del PSII ( PSII o Yield)

Questo parametro è calcolato, in accordo con Genty et al. (1989), attraverso la formula e fornisce un’indicazione della resa attuale del PSII in condizioni di luce:

(35)

34

3.2.4 Coefficiente del quencing fotochimico (qp)

Il coefficiente di qP è una misura della frazione dei centri di reazione del PSII che sono aperti e può variare tra 0 e 1; espresso da Schreiber e Bilger come:

3.2.5 Coefficiente del quencing non-fotochimico (qNp)

Il coefficiente qNP è una misura della dissipazione energetiva per via termica ed è definito dall'equazione:

Il coefficiente di qNP è piuttosto sensibile ai cambiamenti dello stato energetico dei cloroplasti (quenching energia-dipendente), per questo motivo è un indicatore molto sensibile delle limitazioni provocate dagli stress ed è utile per una precoce individuazione di alterazione eventualmente indotte.

3.3 Estrazione cloruri e lettura al Dionex

Sono stati pesati circa 100 mg di sostanza secca dei diversi campioni precedentemente suddivisi nelle varie parti della pianta: radici, steli e foglie. Il materiale è stato trasferito all’interno di eppendorf e sospeso in 20 mL di H2O bidistillata precedentemente riscaldata a 60°C, dopodiché i campioni sono stati incubati in agitazione per un’ora ed in seguito centrifugati. Una volta centrifugati è stato prelevato il surnatante e analizzato al Dionex (Dionex Corporation, Sunnyvale, CA).

Il Dionex è uno strumento che permette di effettuare una cromatografia a scambio ionico, nella quale la fase stazionaria solida è costituita da macromolecole contenenti dei siti attivi ionizzati, in cui i controioni possono essere scambiati con altri aventi carica uguale, eluiti con la fase mobile liquida. In questo modo si instaura una sorta di competizione fra i controioni della fase stazionaria e quelli della miscela dei campioni in fase di separazione, durante tale fase gli ioni presenti nella fase mobile vengono separati gli uni dagli altri in base alla diversa affinità per ciascuno dei siti ionizzati della fase stazionaria. Lo strumento presenta inoltre un rivelatore, il quale produce un segnale elettrico analogico (E) che viene digitalizzato e trasferito ad un computer ad

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