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Grotta Scaloria: il puzzle di un palinsesto

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Academic year: 2021

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Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria

Rivista di Scienze

Preistoriche

fondata da Paolo Graziosi

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Rivista di Scienze Preistoriche - LXVI - 2016, 295-303

Carlo Lugliè*

Grotta Scaloria: il puzzle di un palinsesto

The Archaeology of Grotta Scaloria. Ritual in Neolithic Southeast Italy, edited by Ernestine S. Elster, Eugenia Isetti, John Robb, Antonella Traverso, Monumenta Ar-chaeologica 38, UCLA, Cotsen Institute of Archaeology Press 2016, 418 pp.

Il bello e ponderoso volume in esame, della serie

Mo-numenta Archaeologica edita dal Cotsen Institute of

Ar-chaeology, è il primo dedicato a un contesto della prei-storia italiana: la ben nota Grotta Scaloria ai piedi del Gargano, in territorio di Manfredonia (FG).

Il sito è, incontrovertibilmente, di interesse e notorietà internazionali sia per il contributo fornito dalla sua sco-perta alla definizione dei complessi materiali - in specie ceramici - pertinenti alle tappe in cui si articola il pieno e avanzato sviluppo delle comunità neolitiche del meri-dione della Penisola, sia per la specificità e complessità delle altre evidenze portate alla luce: esse infatti rinvia-no, non senza difficoltà interpretative, ad attività di vita quotidiana e a più problematiche ricostruzioni di com-portamenti di natura rituale, collegati tradizionalmente a un possibile culto delle acque di stillicidio nella camera inferiore (Scaloria bassa) e a pratiche funerarie collettive nella camera superiore (Scaloria alta). Scavato a più ri-prese (1978-1979) a seguito della scoperta e del recupero fortuiti avvenuti nel 1931, il complesso di materiali por-tato alla luce in progresso di tempo e oggi effettivamente disponibile trova in questo volume un’edizione integrale aggiornata, accompagnata da nuove proposte di lettu-ra tlettu-ramite 28 distinti contributi specialistici a firma di 32 autori. Al testo è prezioso complemento una serie di dieci apparati di documentazione integrativa, accessibi-li in un’appendice sul web (http://dig.ucla.edu/scaloria/ appendices).

L’opera, dedicata alla memoria di Marija Gimbutas e di Santo Tiné, autorevoli e indiscussi protagonisti delle ricerche condotte a Grotta Scaloria alla fine degli anni 1970, è frutto dell’impegnativo lavoro editoriale con-giunto di Ernestine E. Elster, Eugenia Isetti, John Robb e Antonella Traverso. Tutti conoscono l’importanza della Grotta Scaloria, ma nessuno concretamente conosce la

natura oggettiva di tale importanza. Il movente preco-nizzato dai curatori è dunque quello di approcciare la definizione dell’evidenza archeologica proveniente dal-la grotta, attuando dal-la coldal-lazione e il regesto dei vecchi dati, nonché di affrontarne l’analisi aggiornata, serven-dosi dell’arsenale metodologico e disciplinare del XXI secolo. In ciò è altrettanto esplicitato, peraltro, il limite rappresentato ab origine dalla indisponibilità di parti es-senziali della documentazione stratigrafica (p. 5: It must

be noted that the excavation data available are limited; detailed floral data and draftman’s drawings of the cave stratigraphy and of each trench are absent) e dalla con-sapevolezza che la gran parte del materiale oggetto dello studio risulti essere decontestualizzato (p. 6: Much of

the material found in the cave is unstratified). Quest’ul-tima condizione è conseguente non solo alla continua frequentazione antica della cavità (intensa e prolungata fino alla media età del Bronzo), ma anche ai ripetuti in-terventi clandestini che hanno interessato i depositi suc-cessivamente alla sua scoperta: si tratta di un fattore che,

a priori, sembrerebbe inficiare il risultato dell’intrapresa interpretazione complessiva dei dati materiali. L’assenza di informazioni di natura stratigrafica sicure e definite, infatti, risulta generalizzata ed esse derivano comunque da superfici di scavo estremamente limitate nel numero e nell’estensione: si tratta di un aspetto rilevante, che con-nota non solo le indagini susseguenti alla prima scoperta nella grotta Scaloria propriamente detta, ma anche quelle effettuate più di recente nel suo prossimo ramo identifi-cato in località Occhiopinto.

Nondimeno, pur nell’affiorare costante del limite insu-perabile di partenza, lo sforzo prodotto in quest’opera è ragguardevole ed encomiabile, mai scevro di aspetti di interesse anche notevoli, di elementi di novità indiscussa, di ulteriori interrogativi e spunti di riflessione. Lo scopo di raccogliere e mettere nella disponibilità degli specia-listi la maggior parte della documentazione materiale e di scavo esistente è finalizzato alla revisione globale dei dati, condotta secondo approcci metodologici multidi-sciplinari allo stato dell’arte. Lo schema dell’opera si ar-ticola in sette capitoli, inerenti alla rassegna storiografica delle ricerche (cap. 1), all’introduzione generale al sito (cap. 2), alla ricostruzione del contesto paleoecologico di sfondo all’occupazione umana preistorica (cap. 3),

Recensioni

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Recensioni all’interpretazione delle attività di vita e rituali desunte dai resti antropici (cap. 4), alla caratterizzazione delle produzioni materiali ceramiche (cap. 5) e litiche (cap. 6), alla proposta di considerazioni conclusive al lavoro (7). Di seguito ai saggi introduttivi di contestualizzazio-ne storiografica delle ricerche, che rendono conto del-la complessità deldel-la vicenda di studio del sito e deldel-la frammentarietà e dispersione originaria dei dati, si svi-luppa una serie di contributi risultanti dall’applicazione generalizzata e ad ampio spettro di domini disciplinari settoriali: cronologia isotopica radiocarbonica, analisi geo-archeologiche, archeobotaniche, archeo-zoologiche, bio-archeologiche/archeo-tanatologiche, sulla dieta, sul-la mobilità dei gruppi umani documentati, sui comporta-menti tenuti in relazione alla sfera funeraria, sui caratteri tipologici, tecnologici e archeometrici delle produzioni materiali nei diversi ambiti del sistema tecnico. Senza voler esaurire, data l’economia di questa nota, la ric-chezza di nuove acquisizioni presentate nel complesso dei contributi, condotti in genere con rigore e prudenza, segnalo solo alcuni risultati tra i più ragguardevoli. Di estremo interesse l’incremento e la relativa analisi inte-grata delle numerose datazioni assolute ricavate dal sito (Cap. 2.3, Robb): esse comprovano la presenza di episo-di episo-di frequentazione della cavità già in fasi tardo-pleisto-ceniche, quindi nel Neolitico antico di facies Guadone e, grazie anche a 16 nuove determinazioni dirette su reperti osteologici umani, definiscono il contenuto arco tempo-rale (200-300 anni) dell’uso della parte alta della grotta per scopi funerari, riconducibile al Neolitico medio. In relazione a questa stessa fase, inoltre, lo studio micro-morfologico di alcune sequenze pedo-stratigrafiche in-disturbate (Cap. 3.1, Rellini et al.) ha acclarato anche una fase olocenica d’uso abitativo della cavità, con aree specifiche impiegate per attività di combustione e altre per la probabile stabulazione di ovi-caprini; la datazione assoluta degli speleotemi, inoltre, comprova che la de-finitiva occlusione della cavità è avvenuta solo durante l’età medioevale. Tutto ciò costituisce una delle princi-pali novità rispetto alla tradizionale lettura della funzio-ne rituale di Grotta Scaloria. Lo studio paleoambientale del contesto circostante, condotto su base antracologi-ca (Cap. 3.2 Fiorentino e D’Oronzo) si scontra con le difficoltà determinate dallo hiatus stratigrafico tra la più antica sequenza tardo-pleistocenica e quella del pieno Olocene ai fini di una piena comprensione delle dinami-che ecologidinami-che legate alla presenza antropica: pertanto, in base al numero ristretto di campioni analizzati, ten-denze e conclusioni generali sono presentate prudenzial-mente come del tutto preliminari e orientative, indicando tuttavia un ambiente circostante alla cavità semi-aperto, alternato a tratti di bosco deciduo.

Sempre problemi di natura stratigrafica, conseguen-ti all’impossibilità di definire sicure associazioni tra i reperti e all’inquinamento dei livelli di frequentazione pleistocenica e olocenica, limitano la pur meticolosa

re-visione dello spettro delle specie faunistiche raccolte nel-le diverse fasi di scavo (Cap. 3.3, Bartosiewicz e Nyer-ges). Tuttavia, è possibile identificare nella caccia all’a-sino selvatico l’attività di predazione prevalente presso la comunità paleolitica che ha frequentato la grotta, con il probabile trasporto al suo interno di parti seleziona-te delle prede, macellaseleziona-te altrove. L’inseleziona-terpretazione della componente selvatica attestata nei livelli neolitici, mino-ritaria rispetto all’abbattimento stagionale (primaverile/ estivo) e a scopo alimentare di ovi-caprini giovani, resta incerta in riferimento a una sua eventuale implicazione nelle attività rituali praticate all’interno della grotta. L’esitazione nella definizione di punti fermi e associa-zioni affidabili per le varie categorie dei dati raccolti, si evidenzia negli esiti comparati dell’applicazione di due approcci analitici differenti alla caratterizzazione della natura funzionale della grotta, quello fenomenologico-sensoriale (Cap. 3.4, Hamilton et al.) e quello contestua-le (Cap. 3.5, Isetti et al.). Il primo, partendo dall’assun-to che Grotta Scaloria sia uno dei complessi funerari e rituali più elaborati del Neolitico italiano, propone una lettura sensoriale “a ritroso” di un ambiente alla cui de-finizione univoca i contributi specialistici del volume spesso non sono in grado di contribuire con risposte certe: la grotta sarebbe la possibile destinazione di un pellegrinaggio cultuale da parte delle comunità insediate nei villaggi trincerati del Tavoliere, attraverso un

diso-rienting journey, maximized by the final confusion and terror of dropping down a dark hitherto invisible orifice

(p. 105). La lettura contrasta con quella basata sull’ap-proccio contestuale, la quale ultima al riguardo rievoca un ambiente a luoghi ben illuminato, almeno per ciò che attiene alla camera superiore della cavità. Si riconferma comunque, anche secondo quest’ultima analisi, la tradi-zionale interpretazione duale della frequentazione neoli-tica della grotta, di natura abitativa nella camera superio-re e destinata a funzioni speciali in quella inferiosuperio-re. Un sostanziale progresso alle conoscenze è offerto, quin-di, dallo studio della componente osteologica antropica, condotto, ad eccezione di pochi casi, sulla totalità dei re-sti valutata come un aggregato indire-stinto in ragione della difficoltà oggettuale di individuare i singoli complessi scheletrici e di associarli con sicurezza al restante insie-me dei manufatti (Cap. 4.1, Knüsel et al.). Il nuinsie-mero mi-nimo di individui, compreso tra 22 e 31, restituisce uno spaccato rappresentativo della composizione del gruppo, costituito da individui maschili e femminili distribuiti in tutte le classi di età, fuorché tra gli infanti. Tra un terzo e la metà degli individui è comunque ricompreso tra i sub-adulti e, pur nei limiti della frammentarietà del ma-teriale studiato, è stato possibile valutarne uno stato di salute accettabile. Sono stati altresì diagnosticati la pre-senza diffusa di cribra orbitalia, di lesioni dentali legate alla carie, nonché di alterazioni frequenti delle tibie e degli astragali, verosimilmente correlate alla locomo-zione consuetudinaria su terreni ad elevata pendenza. La

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Recensioni determinazione della dieta, peraltro, è stata esperita su campioni osteologici provenienti esclusivamente dalla trincea 10 e - in forma contrastiva - su campioni di fau-na associati, attraverso la caratterizzazione degli isotopi stabili del Carbonio e dell’Azoto nei reperti (Cap. 4.2, Tafuri et al.). Il campione umano prescelto, nel rivelare un’alimentazione fortemente orientata sulle risorse terre-stri vegetali, con un basso apporto di proteine di origine animale e una irrilevante incidenza della componente marina, riflette una forte eterogeneità nell’alta dispersio-ne dei valori di δ15N per individuo, dunque difficilmente riconducibile alla composizione demografica di una sin-gola comunità. Assai simile è il modello derivante dall’a-nalisi degli isotopi dello Stronzio (Cap. 4.3, Tafuri et al.), effettuata in gran parte sugli stessi campioni osteologici e in relazione a un buon numero di ossa che presentano tracce di cut-marks. Pur nella relatività del dato, legata all’entità del campione analizzato, grazie anche a que-sta caratterizzazione si registra una certa variabilità della composizione della popolazione, costituita da individui “locali” (con significativa correlazione nella presenza di

cut-marks) e da individui presumibilmente “non locali”. Simile eterogeneità trova rispondenza in altri siti del Ta-voliere selezionati per comparazione, segnatamente a Masseria Candelaro e a Passo di Corvo, in relazione ai quali è stata ugualmente evidenziata una certa mobilità in alcuni individui. A Grotta Scaloria, in riferimento ad alcuni casi per i quali è stato possibile combinare l’ana-lisi su femori e denti, il dato isotopico ha comprovato una marcata mobilità nell’arco della loro esistenza. La percentuale di variazione rilevata nei tre siti comparati supporta altresì l’ipotesi che a Grotta Scaloria la compo-sizione della popolazione inumata rifletta una eteroge-neità maggiore rispetto a quella che caratterizza i due siti di abitato presi in considerazione, facendo della Grotta il possibile luogo di riferimento per pratiche rituali e funerarie di diverse comunità dislocate in un territorio relativamente esteso.

Chiudendo la serie di studi sulla sezione relativa alla definizione dei comportamenti dei gruppi umani fre-quentatori della grotta, l’analisi tafonomica applicata ai resti antropici affronta a sua volta il tema interpretativo centrale inerente alle pratiche funerarie potenzialmente messe in atto nel sito, con la verifica di eventuali modali-tà multiple di trattamento dei resti e di possibili differenti distribuzioni nei vari segmenti della popolazione (Cap. 4.4, Knüsel et al.). Pur nel limite della possibilità di iden-tificazione, attraverso la documentazione fotografica di differenti campagne di scavo, di solo quattro gruppi di resti riferibili ad altrettanti individui deposti in giacitura primaria o secondaria (sepoltura di un cranio), l’analisi statistica delle porzioni anatomiche documentate rivela che il restante complesso dei reperti osteologici pertiene a deposizioni di resti umani già disarticolati e successiva-mente dispersi, degradati post mortem in antico in segui-to ad azione meccanica accidentale. L’osservazione del

materiale osteologico rivela una bassa incidenza di com-bustione (4,5%), con caratteri dell’esposizione al calore che peraltro portano a escludere dalle pratiche funerarie adottate la cremazione intenzionale. Di grande rilievo, invece, la presenza di segni di taglio su un buon numero di ossa, la cui morfologia e disposizione preferenziale in corrispondenza di precisi distretti anatomici (clavicole, mandibole, cranio, ossa lunghe) indizia non tanto la ma-cellazione/disarticolazione dei corpi, quanto piuttosto un comportamento di rimozione dei tessuti molli avvenuta a decomposizione già avanzata. Tale osservazione gene-ralizzata sui resti porta gli Autori a considerare la serie osteologica l’esito finale di un comportamento rituale nei confronti dei defunti: scartare porzioni del corpo umano togliendo ad esse il loro valore, assimilandole a qualsiasi altro rifiuto, è un atto che in se stesso si caratterizzerebbe come una ridefinizione del suo statuto, il compimento autentico del rito di passaggio in sé. Sotto questo aspetto, dunque, l’insieme dei resti umani di Grotta Scaloria si configurerebbe piuttosto come una composizione post-rituale, esito dell’ultimo atto rituale.

Nella sezione successiva (Capp. 5-6) si sviluppa la det-tagliata disamina delle diverse categorie di manufatti rinvenuti nelle diverse stagioni di ricerca nel sito, ac-compagnata da un corposo corredo illustrativo di elevata qualità. Tali saggi sono la base per la contestualizzazio-ne territoriale delle fasi di utilizzo della Grotta Scalo-ria e per l’individuazione di potenziali differenziazioni funzionali. In apertura sono analizzati in dettaglio, ar-ticolati per classi di impasto, tecniche e motivi decora-tivi, i complessi ceramici delle diverse aree del sistema di cavità della Scaloria: essi rivelano una distribuzione cronologica e culturale comprendente produzioni del Neolitico antico della facies “impressa”, del Guadone, dell’aspetto di Masseria la Quercia, di Passo di Corvo, prevalenti ceramiche dipinte a bande marginate e sem-plici del Neolitico medio, caratteristiche degli stili epo-nimi della Scaloria bassa e alta, quindi di Serra d’Alto, verosimilmente coeve allo stile Scaloria alta (Cap. 5.1, Traverso). La ripartizione delle caratteristiche preli-minarmente definite viene quindi impiegata per verifi-care la distribuzione stratigrafica nelle differenti unità di scavo individuate nei successivi interventi, effettua-ti nel 1978 (Cap. 5.2, Traverso) e nel 1979 (Cap. 5.4, Traverso e Isetti). Prende sviluppo, inoltre, lo studio di identificazione della distribuzione delle forme vascola-ri raccolte in ovascola-rigine nella sezione infevascola-riore della grotta e nel percorso di raccordo con la camera superiore; lo studio è stato effettuato sulla base della documentazione filmata nel 1967 da Santo Tiné (Cap. 5.3, Isetti e Tra-verso). L’analisi delle forme e delle decorazioni vasco-lari conferma l’originaria attribuzione a un complesso ritenuto tipologicamente e cronologicamente omogeneo, denominato facies della Scaloria bassa-Catignano, con qualche eccezione per alcune forme rinvenute nella par-te alta di accesso nella cosiddetta diaclasi, considerapar-te

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Recensioni provenire dal complesso di materiali della camera alta. Il riscontro puntuale per vasi della camera inferiore in quelli rinvenuti nel villaggio di Catignano in Abruzzo, nel comprovare la contemporaneità dei due contesti, supporta l’impressione che tali fogge fossero largamente distribuite sul piano territoriale e non costituiscano una produzione specifica, destinata esclusivamente alle pra-tiche rituali della Scaloria. Inoltre, la complessità delle decorazioni delle ceramiche della Scaloria fu altresì di stimolo per Marija Gimbutas all’impostazione di uno studio di ampio respiro sul sistema simbolico delle so-cietà neolitiche del Tavoliere, che l’Autrice poneva in relazione col patrimonio comune europeo di derivazione balcanica e greca. A complemento dell’analisi del com-plesso vascolare della grotta e a testimonianza di que-sto suo interesse per la progettazione delle campagne di ricerca 1978-1980, sono presentati alcuni degli appunti manoscritti conservati nel Marija Gimbutas and Joseph

Campbell Archive all’Opus Pacifica Graduate Institute di Montecito, in California (Cap. 5.5, Elster). Integra il quadro di studi sulla produzione ceramica un validissi-mo contributo di caratterizzazione archeometrica di un insieme di 32 elementi vascolari provenienti da differenti contesti della grotta Scaloria, selezionati in base alla loro attribuzione crono-culturale a fasi distribuite tra il Neoli-tico anNeoli-tico e recente: ai predetti esemplari di contenitori sono stati aggiunti anche cinque elementi di concotto (Cap. 5.6, Muntoni e Eramo). La selezione del campio-ne è stata finalizzata a identificare eventuali variazioni diacroniche delle caratteristiche delle materie prime e della tecnologia di manifattura, segnatamente nell’ag-giunta del materiale di apertura. Lo studio petrologico in sezione sottile ha rivelato che, mentre i concotti sono stati verosimilmente prodotti con la stessa materia prima di origine locale, raccolta dai depositi di argille esterni alla cavità, i manufatti vascolari sono stati realizzati a partire da differenti argille calcaree, sostanzialmente ri-feribili a nove diversi tipi composizionali, peraltro distri-buiti in coerenza con le fasi cronologiche documentate nel campione e in ogni caso bene attestati in diversi altri siti del territorio. Lo studio archeometrico documenta pertanto la compartecipazione di Grotta Scaloria, nelle sue differenti fasi di frequentazione, alle reti di circo-lazione delle produzioni vascolari della più vasta area circostante, indipendentemente dalla specifica funzione insediativa. Lo studio con la tecnica SEM-EDS di alcuni campioni decorati con pittura, inoltre, ha rivelato che il pigmento rosso è stato ottenuto da una miscela di mine-rali argillosi, ossidi di ferro e idrossidi, mentre il nero deriva dall’aggiunta di manganese: in entrambi i casi le componenti coloranti risultano variamente disponibili in diverse formazioni geologiche della Puglia e indiziano la medesima condivisione ampia di una tradizione tecnolo-gica e circolazione regionale di materie prime attestata dall’analisi del corpo ceramico. Completa il già ricco quadro della produzione ceramica il catalogo di notevoli

esemplari di forme vascolari pertinenti a differenti fasi di frequentazione della Grotta Scaloria e provenienti dalle collezioni degli scavi Quagliati (1931) e Drago (1936), conservate presso il Museo Archeologico Nazionale di Taranto (Cap. 5.7, Gorgoglione et al.).

L’analisi globale della restante produzione materiale si incentra in primis sulla materia litica scheggiata, suddi-visa in saggi curati da diversi autori in riferimento alle serie risultanti da distinte campagne di scavo (1978, es-senzialmente: Cap. 6.1, Conati Barbaro; 1979: Cap. 6.2, Elster). La caratterizzazione della produzione e dell’uso dell’industria litica scheggiata soffre forse ancor più della difficoltà di contestualizzazione stratigrafica, limitando profondamente le possibili inferenze sui comportamenti tecnici complessivi e sulla loro eventuale variabilità dia-cronica. Gli approcci seguiti nei due studi, espressione di scuole non pienamente corrispondenti per principi e metodo, approdano a proposte di classificazione gene-rali su base prevalentemente tipologica, rinunciando fin da principio, per evidenti ragioni di contesto, all’esplo-razione integrale della dimensione funzionale dei ma-nufatti; nondimeno, tra le altre segnalazioni di evidenti alterazioni conseguenti all’uso dei manufatti, sui margini di diverse lame si osservano frequenti alterazioni con pa-tine brillanti, correlabili a strumenti impiegati in intense attività di mietitura di cereali. In generale si individua nel complesso dei materiali la fisionomia ricorrente nelle se-rie litiche dei villaggi neolitici della regione del Tavolie-re, nonché la presenza di manufatti in selce ascrivibili al Campignano con caratteristiche dimensionali più ridotte di quelle documentate nelle aree di miniera del Gargano. Vengono ben distinte, altresì, le componenti più antiche della collezione riferibili al Paleolitico superiore finale. Nell’insieme delle serie litiche, peraltro, sono di parti-colare rilevanza le osservazioni effettuate riguardo allo sfruttamento delle materie prime e alla loro circolazione su scala regionale e interregionale: esse guidano alla for-mulazione di scenari e ricostruzioni ideali sui possibili circuiti di scambio, e, con livelli interpretativi ulteriori, sugli attori e sugli stessi beni immessi in tali circuiti (p. 312). Il tema focale delle possibili interazioni tra sfere culturali distinte, desunte dalla distribuzione di materie prime allogene di varia provenienza e anche da regioni ubicate a grande distanza dalla Grotta Scaloria, è affron-tato simmetricamente anche in relazione ai manufatti in pietra levigata (Cap. 6.3, Garibaldi et al.). Pur senza un’analisi qualitativa della composizione petrografica ma evidentemente su base macroscopica, risulta che, in particolare tra i litotipi metamorfici utilizzati per pro-durre asce levigate, siano attestate eclogiti e giadeiti di origine alpina, come pure ofioliti di provenienza cala-bra. La dicotomia nelle provenienze di queste materie prime sembra rispondere a un diverso valore funzionale/ contestuale assegnato ai manufatti, essendo i primi ri-compresi tra i reperti raccolti da Quagliati all’epoca della prima scoperta della grotta. Per essi, inseriti nel quadro

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Recensioni più ampio delle circolazioni su scala peninsulare delle relative materie prime, in assenza di contesti stratigrafici di sicura attribuzione, sono avanzate proposte di inqua-dramento cronologico tra il Neolitico antico “impresso” e l’eponima facies della Scaloria Bassa. Le caratteristi-che superfici frescaratteristi-che o poco alterate di questo specifico insieme di strumenti in roccia dura levigata corrobora-no l’ipotesi di un loro valore eminentemente simbolico e funzionale legato piuttosto a pratiche di natura rituale che di vita quotidiana. Simile valore sarebbe suggerito anche dai residui di sostanza colorante minerale rilevati sulle superfici abrase di un pestello sferoidale in selce, rinvenuto associato a uno dei pochi casi identificati di sepoltura (la 6/1978). In contrasto, eminentemente pra-tica e connessa alle attività di sussistenza doveva essere la funzione dei numerosi altri elementi rinvenuti nella categoria dello strumentario pesante: lo rivelano osser-vazioni di carattere tribologico e tecnologico rispetto a esemplari frammentati, scartati e/o rifunzionalizzati. Chiudono il quadro degli studi sulle produzioni mate-riali i saggi destinati all’analisi degli strumenti in osso e degli elementi malacologici. Il primo insieme (Cap. 6.4, Pian), rappresentato da 50 elementi, indica una strategia di produzione a partire per almeno la metà da metapo-di metapo-di ovi-caprini. Sotto l’aspetto tipologico funzionale dominano gli strumenti appuntiti quali perforatori, lesi-ne e spilloni, ma non mancano le spatole, gli strumenti immanicati e gli ornamenti, talvolta di raffinata fattura (pendenti, placchette forate e orecchini). La compara-zione tecnologica e tipologica trova prevalentemente riscontro in complessi di manufatti in materia dura ani-male del Neolitico medio-recente dell’Italia del Sud-Est mentre le frequenti e intense usure lasciano ipotizzare il loro impiego (originario?) in attività di vita quotidia-na. Per quanto attiene, invece, agli elementi in conchi-glia (Cap. 6.5, Reese) essi sono ipoteticamente assegnati al Neolitico medio pur nella quasi costante assenza di dati specifici di rinvenimento. Si tratta perlopiù di specie di origine marina, utilizzate per scopi prevalentemente alimentari e, solo in pochi esemplari, come elementi di adorno personale. La quantità piuttosto bassa in frequen-ze assolute degli esemplari interpretabili come resti di pasto, comunque, si correla significativamente al dato sulla paleodieta rilevato dall’analisi isotopica dei resti ossei, indicativo di un apporto trascurabile di cibo di origine marina significativo, data la breve distanza del-la grotta daldel-la costa. Peraltro, numerosi elementi fossili tubulari (Dentalium?), menzionati nella documentazione di scavo come associati a un cranio isolato o collocati in prossimità ad altri resti umani entro una fossa, depongo-no a favore di una possibile funzione di ornamento, come componenti di un copricapo. Le conchiglie terrestri, as-sai meno numerose, sono anche irregolarmente distribu-ite all’interno della cavità e provengono in larga parte dai livelli superficiali. In alcuni casi, peraltro, è difficile escludere che si tratti di intrusioni recenti nella

stratigra-fia. Nell’insieme, il complesso risulta sufficientemente rappresentativo dell’impiego della malacofauna presso i siti del primo Neolitico nell’Italia meridionale per le fasi ipotizzabili come coeve.

Da questa pur compendiaria e parziale rassegna dei ri-sultati conseguiti dagli studi e presentati nei saggi in cui l’opera si articola, è indiscutibilmente manifesto l’ap-porto realmente cospicuo di nuovi dati da essi conferito al complesso contesto informativo della Grotta Scaloria. L’analisi delle conoscenze conseguite ex novo, condot-ta comparativamente a quelle già disponibili sul quadro territoriale circostante e, più in generale, sulla preistoria dell’Italia meridionale, contribuisce a inserire la Grotta Scaloria in una prospettiva più ampia, evidenziandone rispondenze e dissonanze in virtù della sua componente materiale e della sua valenza rituale affatto eccezionale. Al capitolo conclusivo, composto congiuntamente dai quattro curatori del volume, è lasciato il compito di ap-procciare la sinossi dei dati e, soprattutto, di tentare di avanzare ipotesi esplicative delle diverse funzioni assun-te, nell’ambito dei diversi settori della grotta, durante le

diverse fasi in cui la frequentazione neolitica del sito si è articolata. La grande sfida viene raccolta, pur nella chia-ra consapevolezza delle differenze che cachia-ratterizzano in-dividualmente gli stessi curatori per tradizioni di scuola, approcci metodologici adottati e categorie di evidenze oggetto di studio. Ciò su cui maggiormente si focalizza la loro l’attenzione è la dicotomia funzionale che sembra distinguere i due settori principali nei quali si articola la grotta: quello inferiore, oggetto di riti tradizionalmente connessi alla raccolta delle acque di stillicidio attraverso le formazioni stalattitiche (permane, sostanzialmente, la teoria interpretativa di fondo espressa da Tiné nel 1975); quello superiore, luogo adibito ad espletamento dei ritua-li funerari a partire dalla fase iniziale del Neoritua-litico me-dio. In base al contributo essenziale fornito dallo scavo 1978-1979, la nuova interpretazione delle pratiche fune-rarie svolte in quest’ultimo settore della grotta si avvalo-ra come uno dei principali risultati della ricerca illustavvalo-rati nel volume. Rituali di inumazioni primarie singole con o senza corredo, di sepolture secondarie di isolate compo-nenti anatomiche o di asportazione di distretti scheletrici da originarie sepolture primarie si distribuiscono varia-mente per l’intera durata del Neolitico medio, talvolta senza rivestire una posizione cronologica sicura. A que-sti differenti comportamenti rituali d’ambito funerario, faticosamente e tentativamente ricostruiti, è stato quindi possibile aggiungere quello delle sepolture collettive se-condarie, di recente identificazione. Operato con la sepa-razione completa dai tessuti molli già in avanzato stato di decomposizione (tra sei mesi e un anno circa), il rito si compie con la dispersione delle ossa, essendo ormai apparentemente deprivate del loro originario statuto e si-gnificato. L’accatastamento disordinato di ossa prive di connessione, che nelle ricostruzioni del rituale funerario precedentemente proposte era stato ritenuto un effetto

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Recensioni post-deposizionale conseguente alla continua frequenta-zione della cavità con risultante disturbo e dispersione di precedenti inumazioni primarie, ora, sulla base dello studio tafonomico dei resti scheletrici e delle indicazio-ni cronologiche di riferimento, viene riconosciuto come esito di un intervento intenzionale, testimonianza di un rituale di passaggio finale, teso a sottolineare il cambia-mento del corpo da una condizione dell’essere a un’altra. La scarnificazione delle ossa avrebbe potuto significa-re il completamento della trasformazione dal vivente al morto e in ciò connaturare una vera e propria nuova for-ma di rituale, finora ignota alla preistoria italiana e, più in generale, a quella dell’intera Europa.

Muovendo dalle ipotesi interpretative affacciate per dif-ferenti pratiche rituali esplicate nei due settori -inferiore e superiore- della grotta, i curatori si chiedono, in con-clusione, se sia possibile che i riti in parola potessero aver costituito parte di un sistema simbolico unitario. Pur nella riconosciuta assenza di solidi riscontri cronologici e contestuali alla effettiva contemporaneità dei compor-tamenti rituali ipotizzati nelle diverse sezioni della grot-ta, la risposta generagrot-ta, che non si anticipa qui al lettore, è sostanzialmente, seppur ipoteticamente, affermativa e scaturita dall’applicazione al contesto di Grotta Scaloria dell’impalcatura teorico-metodologica offerta dalla so-ciologia dei paesaggi sensoriali (sensory archaeology). Al di là della individuale propensione a condividere o no i presupposti teorici su cui si fondano alcune delle letture interpretative proposte, è fondamentale ed encomiabile lo sforzo di mettere a sistema le categorie dell’evidenza archeologica prodotta da quasi un secolo di ricerche in un contesto straordinario della nostra preistoria. Scaloria

is the site that everybody knows and nobody knows (p. 369): questa asserzione icastica diventa emblema della dialettica sempre aperta nella scienza archeologica, il cui paradigma impone la continua revisione e l’esplicita verifica di coerenza delle tesi proposte, attraverso l’ana-lisi di nuovi dati eventualmente divenuti disponibili. Alla Grotta Scaloria si ha a che fare con un grande palinsesto, prodotto non solo dalla frequentazione antropica nella preistoria recente ma anche da quasi un secolo di storia delle ricerche susseguite alla sua riapertura. Differenti visioni e posizioni teoriche, di carattere storico-culturali, processuale, post-processuale, avvicendandosi nell’ana-lisi del sito, hanno affrontato la restituzione delle diffe-renti stesure di questo testo moltiplicato, agendo sulle disperse tessere del puzzle con ricomposizioni che han-no simultaneamente prodotto nuovi testi, occultando in parte i precedenti.

Pure in simili condizioni, lo sforzo di mettere insieme tutte le informazioni note e raggiungibili non cade vano: anche riprendere in esame un contesto in apparenza tanto profondamente compromesso quanto sconosciuto, costi-tuisce un essenziale atto di avanzamento nella ricerca, nella sua capacità di aprire nuove prospettive e nuove insperate piste.

D’altro canto, indirettamente e implicitamente, questa raccolta di studi punta l’indice sulla esigenza indifferibi-le di garantire -non esclusivamente ad opera degli organi e degli uomini preposti alla tutela del patrimonio- uno sforzo collettivo per la preservazione dei contesti archeo-logici preistorici, la cui ricchezza di informazioni, ai fini della ricostruzione di fasi e modalità di vita delle comu-nità della nostra preistoria, è inversamente proporzionale alle loro condizioni di alterazione. La fragile natura de-gli ecofatti e dei manufatti, della loro effimera relazione fisica e spaziale nei depositi archeologici, ci interroga tutti, in primis in qualità di ricercatori, sulla nostra vo-lontà comune di contribuire alla conservazione attenta e meticolosa del loro pieno potenziale informativo. Sotto quest’ultima prospettiva la cospicua monografia sulla Grotta Scaloria merita più di una semplice recensione. A. Romani, Los comienzos de la Arqueología

prehistóri-ca en Italia en el contexto de la formación de l’Estado nacional, Casimiro, Madrid 2016, pp. 483, figg. 1-46. In anni recenti, complice il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, si è acceso l’interesse per la fase “pionieristica” della paletnologia italiana, coincidente in gran parte con la seconda metà del XIX secolo (si vedano, tra gli altri, Tarantini 2012 e Guidi 2014, pp. 19-359).

Il libro di Antonella Romani che qui si recensisce co-stituisce lo sviluppo dei temi da lei trattati in una tesi di Dottorato discussa all’Università Complutense di Ma-drid nel 2009; il sottotitolo mette in rilievo come l’otti-ca scelta da questa studiosa sia innanzitutto quella del profondo legame tra la nuova scienza e il processo di unificazione italiana che proprio in quegli anni si andava realizzando.

Nella prima parte del volume il capitolo 1 (pp. 27-114) è dedicato proprio al legame tra formazione dello Stato nazionale unitario e fondamenta della preistoria; interes-sante, a questo riguardo, è il rilievo dato alla figura di Carlo Cattaneo (pp. 50-52) come ispiratore dell’ideolo-gia del progresso.

Le stesse caratteristiche della preistoria (si veda lo spec-chietto a p. 45), dimostrano come accanto a un’innega-bile diversità, la forza della nuova scienza stesse in un metodo pienamente iscritto nella temperie positivista contrariamente alle caratteristiche ancora intrise di anti-quaria dell’archeologia classica. D’altra parte l’A. mette bene in rilievo come nella preistoria italiana, nonostante l’accettazione del paradigma evoluzionista sia ben pre-sente una quota di particolarismo storico-culturale evi-dente nelle spiegazioni dei cambiamenti culturali spesso intrise di diffusionismo se non con esplicito ricorso alla categoria delle migrazioni (ma è un tratto comune anche alla preistoria dello stesso secolo di altri paesi europei), un fatto che per lei si lega alla impellente necessità di costruire un’identità nazionale, ma che al tempo stesso è

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RIVISTA DI SCIENZE PREISTORICHE

Vol. LXVI - 2016

INDICE

Ettore Rufo, Lucia Borrelli, I manufatti litici preistorici molisani del Museo di Antropologia

del Centro Musei dell’Università “Federico II” di Napoli ... Nicola Dal Santo, Paola Mazzieri, La fase di VBQ I della stazione di Benefizio: eviden-ze strutturali e cultura materiale ... Filippo Iannì, L’età del Rame nella Sicilia centro-meridionale: nuovi dati dalla valle del Salso ....

Flaminia Arcuri, Claude Albore Livadie, Giovanni Di Maio, Elisa Esposito,

Gilda Napoli, Serenella Scala, Elena Soriano,

Influssi balcanici e genesi del Bronzo antico in Italia meridionale: la koinè Cetina e la facies di Palma Campania ...

Raffaele Carlo de Marinis, Il ripostiglio o i ripostigli di San Lorenzo in Noceto (Forlì) ...

Fabio Rossi, Patrizia Petitti, Eugenio Cerilli, Paleo-environment and archaeological context: the case of Latera Caldera ... Gaia Pignocchi, Alessandro Montanari, La Grotta della Beata Vergine di Frasassi (Genga – AN): vecchi e nuovi dati geo-archeologici... Simona Arrighi, Adriana Moroni, Socio-economic relations and settlement dynamics in the Upper Tiber Valley during the Bronze Age. The case-study of Gorgo del Ciliegio (Tuscany – Italy) ... Luciano Salzani, Jasmine Rizzi, Umberto Tecchiati, La necropoli di Olmo di Nogara (Verona). Scavo 2009 ... Umberto Sansoni, Caratteri di versante e d’area nel contesto rupestre della Valcamonica. Note sulla distribuzione tematica e di fase ...

Andrea Arcà, Naquane, Grande Roccia, dalla scoperta al modello bidimensionale

immersivo ...

Recensioni ...

ISTITUTO ITALIANO DI PREISTORIA E PROTOSTORIA. Attività 2016 ...

NORME PER GLI AUTORI ...

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Finito di stampare in Italia nel mese di aprile 2017 da Pacini Editore Industrie Grafiche – Ospedaletto (PI)

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Riferimenti

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