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Tempo e memoria nella poesia di Elena Salibra

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Academic year: 2021

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Sommario

Introduzione……….3

Capitolo I

Vers.es...7

1. La raccolta……….7

2. Le liriche……….11

Capitolo II

Sulla via di Genoard...31

1. La raccolta………..……….31

2. Le liriche……….34

Capitolo III

Il martirio di Ortigia...52

1. La raccolta………..….…52

2. Le liriche……….55

Capitolo IV

La svista...73

1. La raccolta……….……...…73

2. Le liriche………76

(2)

2

Capitolo V

Nordiche...97

1. La raccolta……….……...……97

2. Le liriche………..….100

Conclusioni……….………..122

Bibliografia……….………..124

Ringraziamenti………..…..126

(3)

3

Introduzione

Questo lavoro di laurea magistrale si pone come obiettivo un’analisi delle cinque raccolte poetiche pubblicate da Elena Salibra: un’analisi non generale, ma specificamente dedicata al tema “tempo e memoria”. Durante la lettura della prima raccolta in ordine cronologico (Vers.es, edizioni Diabasis, Reggio Emilia 2004) mi è apparso evidente un continuo richiamarsi dell’io poetico al passato, come tempo e spazio da opporre a quelli di un presente grigio: dato il rilievo che tale tematica rivestiva all’interno dei componimenti, mi è sembrato quindi interessante approfondire l’approccio poetico di Elena Salibra su tempo e memoria – non solo all’interno delle singole raccolte, ma anche nell’evoluzione diacronica della sua produzione poetica.

Il lavoro preliminare è consistito in parte nello studio dei saggi critici composti dalla stessa Elena Salibra, in parte nella lettura delle recensioni scritte dai critici letterari (raccolte sul sito ufficiale della poetessa, www.elenasalibra.it) sulle cinque raccolte poetiche in esame. I primi sono stati utili soprattutto al fine di capire quali autori avessero destato interesse agli occhi di Elena Salibra, potendo così più facilmente ipotizzare una loro influenza nella sua opera poetica (in particolare sono interessanti le riflessioni fatte sulle liriche di Attilio Bertolucci in Voci in fuga, poiché – lungi dal rimanere considerazioni puramente teoriche – sembrano messe in pratica all’interno di alcuni componimenti presi in esame). Le seconde sono servite a fornire numerosi spunti di riflessione per la mia analisi, oltre a confermare alcune intuizioni che mi erano venute in mente durante la lettura delle raccolte (ad esempio la disposizione delle liriche a formare un vero e proprio “iter” poetico in Sulla via di Genoard).

(4)

4 All’inizio di ogni nuovo capitolo ho brevemente introdotto la raccolta in esame, esponendo a grandi linee i contenuti poetici, il momento biografico, l’approccio di Elena Salibra alla tematica di “tempo e memoria”. L’analisi vera e propria è stata invece effettuata su una selezione di liriche, isolata all’interno di ogni singola raccolta per i suoi caratteri di rappresentabilità e significatività: in Vers.es ho analizzato liriche che mostrassero l’ansia temporale di Elena Salibra, esplicata nel contrasto tra un passato idilliaco, un presente anonimo e un futuro impossibile da ipotizzare; in Sulla via di

Genoard ho selezionato una lirica da ognuna delle cinque sezioni in cui il viaggio

poetico si articola, per evidenziare al meglio il suo svolgimento senza trascurare alcuna delle tappe suggerite dalla stessa Elena Salibra tramite la penta-partizione della raccolta; per quanto riguarda Il martirio di Ortigia ho isolato alcuni componimenti che sottolineassero il dissidio interiore della poetessa, nel muoversi incoerente tra la decisione di vivere a pieno il presente e il ritornare con la memoria al tempo e allo spazio passati; da La svista ho analizzato le liriche che più mettessero in risalto lo stordimento dell’io poetico di fronte all’improvviso emergere della malattia, e che al contempo evidenziassero l’inedita predominanza della dimensione presente rispetto ad un passato ormai percepito come lontano, separato; per Nordiche, infine, ho deciso di adottare un approccio simile a quello di Sulla via di Genoard, analizzando liriche da ognuna delle cinque sezioni della raccolta per cercare di capire quale fosse la logica sottesa a tale divisione nelle intenzioni di Elena Salibra.

Le difficoltà riscontrate nel lavoro svolto sono state principalmente legate al materiale preparatorio a disposizione e ad una caratteristica propria del mondo poetico contemporaneo. Per quanto riguarda la prima difficoltà, i testi su cui potermi appoggiare nel cercare supporto per le mie considerazioni non sono numerosi né approfondiscono

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5 specificamente la tematica sulla quale si incentra la mia indagine: le recensioni alle singole raccolte non arrivano, mediamente, neppure ad una decina; oltre a questo, né i saggi critici della stessa Elena Salibra né le suddette recensioni si soffermano puntualmente sul rapporto tra la poetessa e il tempo – i primi perché chiaramente non inerenti alle raccolte, le seconde perché (salvo alcune eccezioni, come il saggio di Marzia Minutelli per Nordiche) analizzanti la singola raccolta solo secondo linee generali. Per quanto riguarda la seconda difficoltà, questa risiede in una complicazione critico-diacronica di cui parlano numerosi studiosi della letteratura contemporanea:

Più difficile è, per ora, caratterizzare e differenziare, anche rispetto alla precedente, la poesia recentissima […] l’orientamento è arduo e aleatorio per chiunque, sia date le obiettive difficoltà di informazione e approvvigionamento personale […] sia ovviamente per la mancanza ancora di un vaglio critico ampio e approfondito […] D’altra parte […] Va assieme a questa tendenza […] la rarità di rapporti selettivi e sistematici con esperienze poetiche e letterarie precedenti, o la loro omologazione e neutralizzazione reciproca.1

Dalla parte degli autori convivono e si intrecciano due atteggiamenti di fondo, apparentemente contrapposti: da un lato, la libertà anti-intellettualistica di chi si affida con fiducia all’espressione immediata di sentimenti individuali, ricominciando tranquillamente da zero; dall’altro, l’atteggiamento di chi, presentendo la fine della poesia, ne recupera gli antichi artifici, magari in chiave manieristica […] Al di fuori di queste linee di tendenza occorre registrare, per la poesia italiana degli ultimi vent’anni, un quadro abbastanza confuso, fatto soprattutto di percorsi individuali.2

Ho scartato quindi l’idea di un’analisi volta a cercare echi di precedenti autori o correnti poetiche nelle liriche di Elena Salibra: pur non mancando di segnalare le evidenti citazioni o le più vaghe reminescenze della passata tradizione, ho deciso di

1

Pier Vincenzo Mengaldo., Introduzione a I poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano 1998, pp. LIX-LX.

2

Alberto Casadei e Marco Santagata, Manuale di letteratura italiana contemporanea, Laterza, Bari 2007, pp. 425, 427.

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6 considerare l’opera della poetessa come un blocco perlopiù a sé stante, concentrandomi soprattutto sulle singole raccolte o sui rapporti che intercorrono tra esse.

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7

Capitolo I

Vers.es

1. La raccolta

Vers.es (edizioni Diabasis, Reggio Emilia 2004) è il titolo della raccolta che segna

l’esordio poetico di Elena Salibra. Si tratta di una prima pubblicazione molto matura: all’epoca, la poetessa ha già compiuto 55 anni, e da tempo occupa la cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea presso l’Università degli Studi di Pisa. Questa particolarità biografica, inedita nella maggior parte dei poeti, può ben spiegare quella tematica che emerge costantemente dalle pagine poetiche di Elena Salibra, comune all’intera raccolta (sicuramente alla prima sezione, Stanze e madrigali, la più ampia e significativa): il tempo.

Questo tema, preoccupazione poetica disseminata per l’opera tutta di Elena Salibra, è qui fin da subito presentato al lettore, quasi a sottolinearne l’importanza: la prima lirica di Vers.es (Capodanno 2000) si apre proprio sulla parola-chiave «…il tempo», e nel significativo titolo (un importante spartiacque temporale: la fine e l’inizio di un nuovo anno, di un nuovo secolo e di un nuovo millennio) ci avverte anche sulla dialettica presente-passato entro la quale si svilupperà la tematica principale.

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8 Memoria e ricordo sono costanti compagni del lettore, all’interno di questa raccolta poetica. Lo sguardo di Elena Salibra si volge spesso al passato in rapide fughe, quasi fosse incapace di vivere appieno nel presente: il ritirarsi nel tempo che fu può assumere sia dimensione privata (Bagnante fuori orario) che pubblica (La casa rosa), fino a toccare addirittura le lontanissime soglie del Mito e della Storia (Sicilia d’autore). Qualunque sia il caso, il sentimento di malinconia con cui ci si approccia al passato è posto in netto contrasto ad un presente per il quale non si prova alcuna empatia (a tratti grigio, ordinario; a tratti straniante; dimensione da cui fuggire, in ogni caso).

Ancora più netta è l’opposizione al futuro, tanto netta da farsi quasi rifiuto. Non si vive mai nel futuro, nei versi di questa prima raccolta: il tempo a venire è rapidamente accennato e subito chiuso in un angolo, o bruscamente messo a tacere da chiuse repentine di verso o di lirica («un’altra meta» è la concessione massima allo slancio nel futuro, che troviamo in 2-2-2000). E i rari accenni a questa dimensione non mancano di caricarsi di un’atmosfera tutt’altro che rassicurante: si passa dall’ «ansia» di un «tempo/impaziente» nella lirica 19 febbraio, ai «brividi» di «un esito di sogni infiniti» nel componimento La bicicletta.

All’opposizione tra un presente anonimo e un passato costantemente rievocato, fa eco il contrasto evidente tra la terra natale di Elena Salibra e lo spazio nel quale la poetessa si muove nel quotidiano. All’anonimo e grigio “nord” (spesso e volentieri taciuto del tutto, assente dalla composizione lirica), si contrappone una Sicilia d’autore evocata con precisione e dovizia di dettagli: elementi botanici, quali «il carrubo» o «l’auracaria», si alternano ai numerosi toponimi e ai luoghi più cari dell’infanzia (sui quali svetta La casa rosa, più volte evocata e alla quale è dedicata un’intera lirica). L’esempio più lampante rimane Odori siciliani, vero e proprio inno ai colori e sapori

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9 della terra natia («peperoncino ‘stratto maggiorana/mostarda timo finocchio mentuccia/noce moscata cannella capperi olive»).

Per tutti questi motivi, mi sembra estremamente centrata e interessante l’analisi effettuata da Marco Santagata nella sua recensione alla raccolta apparsa su Forum

Italicum3: Santagata ci propone, infatti, un elaborato approccio critico al titolo di questo esordio poetico di Elena Salibra, che racchiude e supporta tutti gli elementi che abbiamo sinora evidenziato.

Il titolo della raccolta poetica di Elena Salibra, Vers.es […] è cosi ricco di suggestioni da rappresentare una buona guida per chi si accinga a ricercare alcune chiavi di lettura: intanto, come va letto? Due possibili letture sono di immediata evidenza: Verses oppure Vers punto es. […] Chiunque senta pronunciare Verses non può non associare a quella parola il significato di versi. Del resto, l’inglese

verse significa per l'appunto verso […] Ma questo è solo un primo livello. Anche la

seconda lettura, Vers punto es, contiene una allusione di facile decifrabilità: non può sfuggire, infatti, che quella dizione rimanda, forse parodiandolo, al linguaggio della comunicazione telematica. È una sorta di indirizzo di sito web, nel quale es sta a indicare il dominio: versi nel dominio di es […] In francese, però, vers può essere anche preposizione che indica direzione; e allora il suggerimento sarebbe di tipo dinamico: versi o poesie che vanno verso es. Ma chi è o cos’è questo es, questo segno di dominio telematico? La copertina del libro non lascia dubbi: sono le iniziali dell’autrice. Come dire che il libro di Elena Salibra registra una storia, presenta un cammino che porta a Elena Salibra. Letto cosi il titolo è una forte, quasi spudorata esibizione autobiografica.4

Questa interpretazione sembra davvero molto calzante: Vers.es – giocando sul termine inglese che significa “verso” – ci indicherebbe tra le righe un moto direzionale verso la stessa Elena Salibra, verso la sua biografia e verso la sua poesia (che è poi interamente basata sulla prima). Non sembrano esserci grossi impedimenti ad accettare questa chiave di lettura, anche alla luce di quanto già detto in precedenza: la costante

3 Vol. 40, 1, Primavera 2006 4

Marco Santagata, Vers.es o La dispersione dell’es, in Forum ItalicumVol.40, 1, Primavera 2006, pp. 176, 179

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10 attenzione al tempo ed allo spazio che furono, contrapposta al grigio anonimato del presente quotidiano, fanno effettivamente di quest’opera un’efficace introduzione alla persona Elena Salibra che sta dietro lo scritto poetico – significandolo costantemente con il proprio vissuto.

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2. Le liriche

A) Capodanno 2000

…il tempo ancora il tempo s’incunea tra le griglie dell’anima… un flûte cristallino schiuma di champagne lo spartiacque dell’era ventunesima il vetro si frantuma sulle labbra

per caso delicato si disperde nel cin cin sillabato a metà

siamo ancora insieme uguali e lenti nei due passi di danza appena aperti al fuoco degli anni – usciamo allo scoperto a ricalcare i disegni delle stelle

La poesia che apre l’intera raccolta, si concentra fin dal titolo sul tempo ed il suo trascorrere. Questo è infatti una data, e non una data qualsiasi: Capodanno 2000. Già di per sé, il giorno 1 Gennaio si carica di una suggestione particolare, essendo momento di passaggio tra un anno e il successivo: la specifica situazione dell’anno 2000 è tuttavia ancora più significativa, rappresentando il rinnovarsi di un anno, di un secolo e di un millennio in un solo giorno («lo spartiacque dell’era ventunesima»). Momento di indicibile importanza temporale, il Capodanno 2000 è probabilmente occasione per dare una svolta anche personale, iniziando – a partire da esso – il proprio discorso poetico.

Proprio il termine «il tempo» è soggetto della prima proposizione della lirica. Anzi, ad essere più accorti, ancor prima della parola-chiave l’apertura è affidata ad un segno di punteggiatura, i tre punti di sospensione: come dice il nome stesso, essi suggeriscono solitamente qualcosa rimasto in sospeso, un non detto che sta a monte della poesia e che

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12 viene taciuto. In questo caso, il segno sembra avere ancora un altro significato: lo ritroviamo, infatti, anche nel secondo verso, quasi ad isolare la frase «il tempo ancora il tempo s’incunea/tra le griglie dell’anima» dal resto della poesia. Vista la parchezza dei segni di punteggiatura, non si può non dare importanza a questa duplice ricorrenza (e ad una così breve distanza): viene dunque da pensare che la sezione racchiusa tra due file di punti di sospensione sia quasi un’improvvisa considerazione interna all’io poetico, separata dal contesto della festa di Capodanno. Quasi un monito a sé stesso – per ricordarsi quale sia l’oggetto su cui continuamente si sofferma il proprio discorso poetico – che funziona anche da anticipazione per il resto della raccolta.

«Il tempo» è fin da subito reiterato, non solo dalla congiunzione «ancora» (che indica, appunto, un ritornare) ma dalla duplicazione del termine stesso: esso «s’incunea/tra le griglie dell’anima», quasi come se essa tentasse di difendersi dall’aggressione di un nemico, ma venisse infine piegata e sconfitta. L’effetto di tale scontro è facilmente visualizzabile nell’assenza di punteggiatura, di cui abbiamo già parlato: essa, impedendo all’occhio di avere un riferimento sicuro nella segmentazione della frase, genera (in combinazione con l’andamento ad elenco della rimanente sezione della prima strofa) una cascata inarrestabile di termini, che si susseguono rapidi e quasi impalpabili nella mente del lettore. «un flûte/cristallino», la «schiuma di champagne» e «lo spartiacque dell’era ventunesima» si inseguono tra di loro senza un attimo di fiato, dopo che i punti di sospensione ci avevano accolti in un’atmosfera più distesa e rarefatta5.

Tuttavia, l’ultimo termine dell’elenco si pone in una posizione predominante: occupando un intero verso, rallenta il ritmo quel tanto che basta per imporre al lettore

5

Un’altra possibile interpretazione vede la «schiuma» essere voce del verbo “schiumare”: ho preferito l’ipotesi riportata perché crea un dinamismo che ben si adatta (per contrasto) alla lentezza precedentemente creata dai punti di sospensione.

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13 una sosta ed una riflessione sul passare del tempo e sul cambiamento. Riflessione che viene rafforzata dalle immagini di distruzione della seconda strofa. Il vetro del calice «si frantuma» ed in seguito addirittura «si disperde», mentre le parole della poetessa si spezzano in un «cin cin sillabato a metà»: equiparati nella poesia, l’oggetto materiale-vetro e l’oggetto immateriale-parola sono vittime di uno stesso repentino incrinarsi, simbolo del tempo che passa ed impone mutamenti spesso dolorosi. A queste immagini, fa eco l’andamento grafico della lirica: la seconda strofa è infatti decentrata rispetto alle altre, quasi che questo movimento-rottura venga non solo evidenziato dal significato delle parole, ma anche visualizzato dalla loro disposizione.

La terza strofa si apre su un’importante novità: l’intromissione, nel discorso poetico di un io sinora apparso come isolato, di un “noi”. La poesia di Elena Salibra, infatti, è spesso rivolta ad un “tu” esterno, uno spettatore che sembra sempre coinvolto nelle vicissitudini biografiche (e dunque poetiche) della poetessa. «Siamo ancora insieme uguali e lenti» recita il primo verso: il rallentamento, necessario dopo le sconvolgenti rotture della seconda strofa (costruita su due enjambements), avviene tornando a far coincidere periodo e verso, ed è sottolineato dalla coppia di aggettivi «uguali e lenti». Per la prima volta dall’inizio della lirica, lo scorrere del tempo è visto in un’ottica diversa, alla luce di una certa lentezza e soprattutto di ciò che rimane identico nonostante il passare degli anni.

Questo primo cambiamento di visione non è casuale, perché anticipa l’intromissione di un tempo totalmente diverso all’interno della poesia: si tratta del tempo della memoria, che entra in scena dissolvendo lentamente la realtà presente in quella del ricordo. All’iniziale certezza rallentante della presenza di un “noi”, segue infatti la descrizione di una danza festosa: ma tale descrizione è ben strana, evidenziando come i

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14 «passi di danza» siano «appena aperti/al fuoco degli anni». Dunque i passi sono «appena aperti», c’è ancora tanto da fare prima della fine del ballo: inoltre, gli anni che attendono i due ballerini sono accostati all’elemento del fuoco (simbolo di passione e vitalità). Tale scelta di parole sembrerebbe parlarci di un lungo ed intenso futuro alle porte, ma l’ipotesi suscita qualche perplessità: nelle poesie di questa raccolta, il futuro è dimensione temporale praticamente taciuta o rapidamente accantonata; l’espressione «fuoco degli anni» sembra francamente difficile da abbinare ad una persona di mezza età qual era Elena Salibra al tempo della pubblicazione della raccolta.

Ci viene in aiuto, tuttavia, il segno grafico «–», che segue questa curiosa descrizione della danza: come abbiamo già rilevato, l’assenza di punteggiatura e segni grafici nella lirica è lampante, dunque non possiamo ignorare le rare eccezioni. Sembra possibile ipotizzare che tale segno avverta del definitivo ingresso nel mondo della memoria, e che il quadretto immediatamente successivo a tale segno sia ambientato al suo interno. In quest’ottica, la precedente sezione può essere letta come un’iniziale dissolversi della realtà presente verso quella passata: si spiegherebbero così, in maniera decisamente più soddisfacente, quei riferimenti ad un lungo ed intenso futuro che attende i due ballerini (un futuro che vive solo nella dimensione del passato, in una giovinezza vista in retrospettiva dal presente). La citazione dantesca che chiude la lirica («usciamo allo scoperto/a ricalcare i disegni delle stelle», chiara eco della chiusa dell’Inferno «e quindi uscimmo a riveder le stelle») non fa che rafforzare questa impressione: Dante torna «a riveder le stelle» alla fine del suo travagliato itinerario infernale, con rinnovata fiducia nel futuro che si staglia di fronte a lui (contrapposto all’intricata selva, dove «la diritta via era smarrita»). La citazione si adatta meglio a descrivere i sentimenti di una giovane coppia vissuta nel passato, che non a caratterizzare un io poetico così preoccupato da un

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15 tempo che «s’incunea tra le griglie dell’anima»: l’ipotesi che la poesia si chiuda definitivamente nel tempo della memoria, sembra sempre più plausibile.

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16 B) 2-2-2000

due… uno più uno… mille più mille scintille d’un tempo accalcato nella mente sostrato d’ogni strato d’una storia a venire una grande confusione di armonie

apre il cerchio al numero stabile puoi sperimentare a metà partita l’abile gioco della vita – come il geomètra

tutto ficcato a misurare il cerchio… quel principio… un fulgore improvviso – un’altra meta

La puntuale attenzione al tempo si esemplifica nuovamente fin dal titolo: 2-2-2000 ha sapore futurista, nella sua natura puramente numerica. Il titolo è poi immediatamente recuperato nel primo verso della lirica, anch’esso di gusto quasi matematico: Elena Salibra si diverte a scomporre la data in tre diversi blocchi, dei quali due rappresentano vere e proprie addizioni (questa lirica, come si vedrà, presenta forti richiami al campo scientifico della conoscenza). A separare i blocchi, tornano nuovamente i punti di sospensione, simbolo – anche qui – di riflessione interna all’io poetico (il segno grafico rende bene l’idea di un pensieroso rimuginare interiore).

Il gioco matematico si stempera immediatamente in un enjambement che lega, senza soluzione di continuità, la riflessione iniziale ad una più netta considerazione: il «mille più mille» dell’anno della data, si perde improvvisamente nelle «scintille d’un tempo accalcato nella mente». Questo accumulo temporale, di stampo mnemonico, è definito «sostrato d’ogni strato d’una storia a venire»: dichiarazione programmatica per l’intera raccolta, dove la memoria assume su di sé il ruolo di base strutturale per ogni possibile

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17 evento futuro – nuovamente il futuro è considerato solo in rapporto al passato, ed in esso si esaurisce.

Nella seconda strofa, si intensificano i riferimenti di stampo scientifico. La «grande confusione di armonie» non è di facile identificazione: sicuramente si tratta di elemento paradossale, quasi un ossimoro, che anticipa la figura del «cerchio» (elemento ricorrente all’interno della lirica, considerato spesso simbolo di armonia). Il cerchio è anche elemento chiuso, figura geometrica della ciclicità, ma qui si apre per un attimo – grazie alla chiave-ossimoro della «confusione di armonie» – «al numero stabile». Questa definizione ci porta sempre più dentro al mondo delle scienze: con una piccola variante poetica, essa infatti nasconde il concetto di “numero magico”, proprio della Fisica.

In fisica nucleare, un numero magico è un numero di nucleoni (protoni o neutroni) in corrispondenza del quale i nuclei risultano particolarmente stabili (oppure in corrisponenza del quale nuclei instabili presentano un'instabilità assai minore, una quasi-stabilità).6

Dagli anni Quaranta sono infatti noti diversi 'numeri magici' (2, 8, 20, 28, 50, 82, 126) che descrivono le regole con cui neutroni e protoni si dispongono all'interno del nucleo degli atomi formando dei 'gusci' (orbitali) posti a livelli di energia diversi.7

L’ipotesi interpretativa appare probabile alla luce non solo dell’evidente presenza di elementi scientifici all’interno della lirica, ma anche (soprattutto) dell’effettiva lista di questi “numeri magici. Spicca, per quanto ci riguarda, la presenza esordiale del numero 2: questo, infatti, è numero che ricorre in maniera quasi martellante nel titolo, e che torna anche nel primo verso (non solo nell’iniziale «due», ma anche nelle coppie di addizioni che compongono il resto del gioco matematico).

6 https://it.wikipedia.org/wiki/Numero_magico_(fisica) 7 http://www.ansa.it/scienza/notizie/rubriche/fisica/2013/10/10/nuovo-numero-magico-il-nucleo-atomi_9438579.html

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18 Se questo numero rappresenta un simbolo di stabilità nel mondo della fisica, Elena Salibra nuovamente se ne appropria per parlare del “suo” tempo: in una data simbolica, dove i numeri di stabilità si reiterano più volte (e allora forse è questa la «grande confusione di armonie»?), l’io poetico si abbandona ad una riflessione sulla vita e sul tempo che scorre e si ripete (proprio come nel «cerchio»). La successiva citazione dantesca, non fa che rafforzare questa ipotesi: «puoi sperimentare a metà partita l’abile/gioco della vita» è chiaro eco dell’incipit infernale «nel mezzo del cammin di nostra vita», e conferma non solo l’importanza del momento biografico, ma anche la natura strettamente riflessiva della lirica.

Nella terza strofa, la riflessione dell’io poetico viene nuovamente accostata ad un’operazione di stampo scientifico: è «il geomètra» a fare da alter ego della poetessa, mentre si trova «tutto ficcato a misurare il cerchio». Ma questa immagine non rappresenta solo l’ennesima incursione del mondo scientifico nella poesia, bensì anche una citazione dantesca dal canto XXXIII del Paradiso: «Qual è il geomètra che tutto s’affige/per misurar lo cerchio, e non ritrova,/pensando, quel principio ond’elli indige»8

, versi che parlano di una riflessione che è ricerca di un «principio» da parte del «geomètra» - per Dante la comprensione della convivenza di umano e divino in Dio, per Elena Salibra la comprensione di che cosa sia la vita nel suo fluire temporale. Qui abbiamo la definitiva identificazione del «cerchio» con la ciclicità della vita, grazie ad una vera e propria proporzione matematica che si instaura tra la fine della seconda e l’inizio della terza strofa: da «puoi sperimentare» fino a «misurare il cerchio», si legge facilmente come “io poetico:vita=geomètra:cerchio – e in questo senso, il segno grafico

8

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19 «–» sembra assumere proprio il ruolo di “=”, separando perfettamente gli elementi della proporzione poetica.

La chiusura di lirica ci porta nuovamente a riflettere su passato, presente e futuro, visti qua nell’ottica del ciclo vitale. I punti di sospensione tornano a rallentare il ritmo, e ad incorniciare in un’atmosfera rarefatta «quel principio»: in seguito, vediamo l’unica disposizione grafica anomala presente in tutta la lirica nel verso «un fulgore improvviso – un’altra meta». Chiaramente questa chiusura gioca su due ritmi completamente diversi, là dove al rallentamento iniziale dovuto ai punti di sospensione, segue un rapido scatto. Questo è dovuto non solo alla disposizione grafica del verso, ma anche alla scelta di parole e segni grafici: il «fulgore improvviso» ci regala un’idea di subitaneità, e il segno grafico «–» possiede stavolta la funzione di “collegare” i due elementi del verso senza rallentare la spinta iniziale. Alla luce della succitata equivalenza cerchio-vita, sembra possibile parlare del «principio» come di un passato sul quale la mente si sofferma spesso, ed indugia nel farlo (rallentando il ritmo): al contrario, il «fulgore improvviso» potrebbe essere simbolo di un presente che si consuma rapidamente (e soprattutto che, nella sua fulmineità, sottrae la mente dal ripensare il passato). «Un’altra meta» sembra infine concessione estrema al futuro: dimensione di cui spesso si tace nelle poesie della raccolta, è qui relegata in un’espressione secca ed indefinita – non si fa in tempo ad intavolarci una riflessione, possibilità subito negata dalla conclusione della lirica stessa.

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20 C) La bicicletta

Improvvido uno stridio di freni nell’umidore dell’ammattonato preme le ruote e i raggi sbilenchi alla catena dei lavori in corso.

Il respiro ellittico d’un battito s’accorda alla romanza che chiude in lontananza i percorsi leggeri in un tempo di giovinezza – incatramati i giorni ora s’affrettano verso un esito di sogni infiniti

brividi – ombre tutte coperte fremono come festuche in vitro nella piazza

dal nuovo maquillage – la bicicletta rinverte il transito – arco che s’avvalla

nel selciato di basalto alla ricerca d’un varco…

La lirica si apre su una serie di suoni aspri e duri: «Improvvido uno stridio di freni» è verso che contiene numerose liquide vibranti, tutte inserite in gruppi consonantici dalla notevole estensione (“-mpr-“, “str-“ e “fr-“); a questi gruppi, fa eco la duplice doppia consonante del verso successivo («ammattonato»), e ancora le numerose vibranti del terzo verso («preme», «ruote», «raggi»). Tutti questi suoni servono a suggerirci fonicamente il fastidio acuto della frenata della bicicletta, con lo pneumatico che slitta sul terreno umido: la frenata è rappresentata anche a livello grafico, dalla prima di tre anomalie nella disposizione grafica presenti nella poesia.

La situazione, ambientata nel presente almeno fino al primo punto fermo, è connotata negativamente anche a livello di significato: «Improvvido» è termine quasi programmatico, nel suo riferirsi al futuro ed alla capacità di prevederlo9 (e ben più aspro

9

Secondo il vocabolario Treccani, il termine è sinonimo di “Imprevidente”, ovvero «che non prevede (o non sa prevedere) il futuro e soprattutto i mali che possono venire, o non provvede per tempo a

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21 nella connotazione rispetto al suo comune sinonimo, “imprevidente”); i «raggi sbilenchi», poi, sembrano sostegni instabili e cedevoli di un essere vivente incapace di sostenersi con le proprie forze (forse schiacciato dal presente e dall’incombenza del futuro).

L’improvviso fermarsi dell’azione presente porta il soggetto ad effettuare una rapida incursione nel tempo passato. Non appena la bicicletta interrompe il suo moto, ecco un «respiro ellittico» fare la sua comparsa (l’aggettivo non sembra casuale, rimandando ad una figura geometrica che ricorda il «cerchio» visto in precedenza10), e subito proiettarsi in armonico accordo verso il tempo della memoria: per l’esattezza, il «respiro» si va a legare ad una «romanza», e con essa compie un’azione di chiusura che si contrappone nettamente alla linearità della precedente «catena dei lavori in corso» (che è comunque elemento anche realistico, ostacolo contro il quale la bicicletta sbatte e interrompe il proprio moto). Si entra definitivamente nella nuova dimensione temporale, tramite una seconda anomalia dispositiva – qui indicativa, in antitesi alla precedente, di un movimento ben più lento: la «romanza che chiude in lontananza/i percorsi leggeri in un tempo di giovinezza» è un momento di sospensione e delicata malinconia per l’io poetico. È evidente il contrasto con l’asprezza dei primi versi: alle doppie e ai gruppi consonantici aspri, fanno qui riscontro suoni dolci (come la fricativa sonora di «romanza» o la affricata palatale di «giovinezza», o le vocali “e” ed “i”) e termini dal significato nostalgico (spiccano «i percorsi leggeri in un tempo di giovinezza», che si oppongono all’impossibilità e alla pesantezza di movimento riscontrata nel presente).

difendersi da essi»: il termine sembra decisamente consono ad un io poetico che rifiuta quasi totalmente di prendere in considerazione il futuro.

10

(22)

22 Il segno grafico «–» arriva a segnare un repentino cambiamento di ritmo: è finito il tempo di sostare piacevolmente nella memoria, e il presente torna a pesare sull’io poetico in un confronto impari con il passato. Il verso seguente al segno grafico si colora di un paradosso: i giorni del quotidiano «si affrettano», pur essendo «incatramati». La pesantezza iniziale della sostanza collosa di cui sono rivestiti «i giorni», deflagra in una paradossale accelerazione – suggerita non solo dal verbo «si affrettano», ma anche dall’enjambement che collega i due versi senza soluzione di continuità.11

Questo accelerare nel presente porta «verso un esito di sogni infiniti», una nuova incursione indefinita in un futuro quasi terribile nella sua imponenza: la sensazione di paura è enfatizzata dai solitari «brividi» a capo di verso, che anticipano una descrizione grottesca e deformata della piazza popolata di persone. Isolato dai soliti segni grafici «– », il quadro che ci dipinge l’io poetico rappresenta persone come «ombre tutte coperte», che si agitano in continuazione («fremono»): questi esseri oscuri sono paragonati a «festuche in vitro», in una similitudine che è anche ennesima citazione dall’inferno dantesco12 (più precisamente del canto XXXIV, dove si fa riferimento ai dannati conficcati nella ghiaccia creata dal vento di Lucifero, dicendo che «trasparien come festuca in vetro»). La lente poetica deforma quindi lo spazio e il tempo presenti in uno spettacolo dal chiaro gusto infernale nel suo essere popolato da spiriti e dannati, ma rispetto al parallelo dantesco compie un passo ulteriore: la variazione «vitro» (rispetto a «vetro») rimanda, infatti, al mondo scientifico (in particolare alla fecondazione assistita,

11

Repentinità del presente già intravista in precedenza, nel componimento 2-2-2000 (cfr. Cap.I Vers.es, §2B)

12

(23)

23 alla creazione della vita in una provetta), donando all’immagine una nota di modernità – ma anche rafforzandone l’aspetto sinistro.

Di fronte allo spettacolo terrificante che gli si para davanti agli occhi, l’io poetico «rinverte il transito» in sella alla bicicletta: ma non è più possibile un rientro nel passato, dunque l’inversione del moto non giova poi a molto. Dopo l’ennesimo segno grafico «– », la bicicletta si riduce ad un «arco che s’avvalla nel selciato di basalto»: oltre alla quasi spersonalizzazione dell’io poetico («la bicicletta» si riduce alla forma geometrica dell’«arco», cerchio incompleto), assistiamo ad un lento sprofondare nel «basalto» (roccia di origine vulcanica dal colore scuro: quasi un richiamo all’inferno della piazza popolata dalle «ombre tutte coperte»). In questo affondare, scopriamo infine quale sia lo scopo invano perseguito dall’io poetico, ovvero l’andare «alla ricerca di un varco» (il «varco» di montaliana memoria che troviamo ne La casa dei doganieri, quella possibilità di fuga dall’aridità della vita a cui il poeta ligure aspira) : la vanità della ricerca (evidenziata graficamente dallo spazio interposto tra i due blocchi di parole), già appesantita dai giorni «incatramati» e dal «basalto»-sabbia mobile, è definitivamente sancita dai punti di sospensione conclusivi, che sembrano suggerire un prosieguo infinito dell’azione ed un’assenza di conclusione.

(24)

24 D) bagnante fuori orario

di gennaio qui la roccia si scalda di sole ancora e il mare dilava i ciotoli che ritrovo uguali – Stai allo scoglio accovacciato paziente a misurare i percorsi d’acqua

quando nel mezzogiorno m’improvviso bagnante fuori orario – Sgallano i detriti dal fondale smosso nella chiarìa di onde increspate. S’attuffano le membra oblique verso l’anfratto dove s’arenava la zattera al riso dei bambini. D’un tratto mi chiedi di tornare – la scena s’assopisce alla luce tarda.

In questo componimento, l’attenzione al tempo è evidente sin dal primo verso: «di gennaio», indica con precisione quale sia il momento stagionale in cui si ambienta la lirica. Un’ulteriore, precisa indicazione in tal senso è data da quel «mezzogiorno», cui si ricollega anche il titolo stesso della poesia. Ma la bagnante non sembra «fuori orario» solo per l’ora ed il mese in cui si sta muovendo: il problema sembra essere ben più radicato di così, e lo si vede nella constatazione iniziale di un reiterarsi interno al soggetto, quello della memoria – «la roccia si scalda/di sole ancora e il mare dilava/i ciotoli che ritrovo uguali».13

13

Questa precisione nel definire il tempo esterno, ed il suo convivere con un tempo interno al soggetto, rimanda ad una caratteristica della poesia di Attilio Bertolucci (citato in apertura della sezione che contiene il componimento in analisi) che la stessa Elena Salibra aveva analizzato: «In Sirio si individuano […] due modi di percepire il tempo: c’è un tempo reale, legato alla natura, ai paesaggi familiari, alla campagna padana, un tempo fatto del consueto volgersi delle stagioni, e c’è un tempo onirico, metafisico, responsabile delle perenni mutazioni dello spirito. Spesso i due tempi si intersecano nel discorso poetico […]» (E. Salibra, Tempo e Memoria nel primo Bertolucci, in Voci in fuga: Poeti italiani del

(25)

25 Questo duplice ritrovamento porta ad un primo scatto all’interno della poesia, ben evidenziato dal segno grafico «–» che più degli effettivi spazi bianchi regola l’andamento logico-temporale del componimento. L’ingresso nel tempo interno del soggetto poetico, che diventa «bagnante fuori orario», va di pari passo con la rapida descrizione della pazienza del suo accompagnatore: questi quasi “concede” il ritorno, la parentesi interiore, nel «misurare i percorsi d’acqua» ovvero l’andare e venire dell’onda marina – parallelo a quello della memoria.

Segue il blocco più lungo dell’intera poesia, l’unico che contenga due punti fermi al suo interno: questi non sono casuali, perché ne mettono in evidenza i tre diversi momenti in cui la parentesi soggettiva si articola. Vediamo anzitutto l’ingresso nel tempo mnemonico, il passaggio attraverso la foschia confusa dei ricordi: la scena dell’ingresso in mare della bagnante, che causa lo smottamento del fondale14

e il molteplice infrangersi dell’acqua, si fa metafora della confusione dei ricordi attraverso cui il soggetto sta cercando di mettere a fuoco qualcosa di più preciso.

Il primo punto fermo segna il definitivo approdo nel tempo interiore della memoria, dove l’io poetico recupera un episodio specifico della proprio passato: non a caso, troviamo in questo blocco di versi l’unico imperfetto dell’intero componimento («s’arenava») ed il riferimento preciso all’infanzia nella figura dei bambini – ben diversi dall’indefinito soggetto poetico, e dal suo altrettanto generico accompagnatore. Altrettanto precisa è l’indicazione di un’atmosfera positiva e lieta, nel «riso dei bambini» che si contrappone all’assenza di emozioni positive e negative nei versi

14

Secondo Lo Zingarelli, “sgallare” significa «Formare una galla, una vescica, per scottature, percosse e sim.». Con una bellissima immagine, quindi, Elena Salibra paragona i corpuscoli solidi che si smuovono dal fondale a piccole vesciche e galle che deturpano l’acqua.

(26)

26 precedenti o successivi a questo blocco. La memoria è dunque viva e nitida, spazio e tempo di immagini puntali e luminose.

Ma la concessione fatta dall’accompagnatore è giunta al termine: il secondo punto fermo isola una prima invasione della realtà esterna nel tempo e spazio interni dell’io poetico. È un’intromissione repentina, e altrettanto improvviso è il posizionamento di “D’un tratto” a conclusione della quarta strofa: dando origine ad un nuovo periodo ed alla nuova situazione con esso, impedisce al ricordo di occupare completamente lo spazio chiuso della strofa, quasi a non dare pausa all’io poetico, ri-proiettandolo immediatamente nel presente da vivere. La richiesta specifica dell’accompagnatore segna il cambio di strofa, ed anticipa l’ultimo importante segno grafico che ci riaccompagna definitivamente nella realtà e nel tempo esterno: quella vivida luce interna che rendeva nitidi i contorni della memoria si sta lentamente spengendo, il buio cala (con un certo sentore teatrale, «la scena si assopisce») in contemporanea al ritorno dell’io poetico nel tempo presente.

Il tema del tempo è dunque qui fortemente legato a quello della memoria. Il presente, definito a livello temporale (ma anonimo, privo di colori ed emozioni), è giustapposto ad un passato indefinito, ma all’interno del quale i colori si fanno più vividi e affiora un ricordo di spensieratezza. L’io poetico vive una parentesi interiore fatta di memoria vivida e lieta, innescata da una semplice epifania (il calore del sole ed i ciottoli dilavati): il tempo esteriore, freddo come il mese di gennaio nel quale la lirica si ambienta, viene adibito a cornice del vero nucleo poetico-narrativo del componimento – ma non è una cornice statica, bensì un vero e proprio elemento continuamente dialogante con il suo corrispettivo interiore, del quale rappresenta una sorta di immagine speculare.

(27)

27 E) La casa rosa

se pensi ai mandorli in groppa al promontorio sotto la grotta del vento – rifugio un tempo dei massari aggrinziti di salsedine – se cerchi quel carrubo ombrello teso alle capanne d’aria disegnate dai bambini se guardi l’araucaria torta

a segnare d’una linea verticale la quaglia dorica

ti si sbianca improvvisa la roccia che in salita s’affretta alla casa rosa (d’agosto padre e figlia contavano le stelle nel terrazzo a mare) la terra ora s’ingrigia al transito d’automobili – uomini in colonna s’affollano alla soglia senza chiedere perdono – fermatevi uomini, non varcate la nicchia là tra le due finestre aperte alla luna – non calpestate là dove i mattoni s’ammassano di scuro e s’ode il rintocco dell’ultima campana

custoditela là la casa rosa

Luogo ricorrente in molte liriche della raccolta, La casa rosa è la casa natale di Elena Salibra, fonte costante di ispirazione poetica15. La lirica si apre sulla descrizione dello spazio circostante tale luogo: ma è una descrizione che, fin da subito, rifugge l’effettiva realtà presente, per tentare una fuga nel passato e – soprattutto – nella memoria. È infatti un’operazione tutta mentale, quella su cui si apre la poesia: al solito referente esterno (un “tu” indefinito, ma sempre presente), l’io poetico chiede lo sforzo di ripensare tutta una serie di elementi che sembrano scomparsi. Che sia una ricerca in una dimensione

15

Per ammissione della stessa autrice, che annota «A Siracusa, nell’isola di Ortigia, si trova la mia casa natale, cui si ispirano molte di queste poesie.» (Vers.es, edizioni Diabasis, Reggio Emilia 2004, p. 63)

(28)

28 ormai passata, appare evidente dall’esplicito riferimento temporale «un tempo», nonché dalla presenza dei «bambini» come simbolo d’infanzia trascorsa.

Il quadro che emerge da questa ricerca mentale è estremamente variegato e definito: i «mandorli in groppa al promontorio», «la grotta del vento», «l’araucaria torta» e «la quaglia dorica» sono tutti dettagli precisi (elementi botanici, luoghi d’infanzia, addirittura toponimi greci16), di cui il passato si anima e si vivifica. Ad essi si aggiungono pennellate impressionistiche ed invenzioni fantasiose: i «massari aggrinziti dalla salsedine» si stagliano massicciamente a dominare il terzo verso, e sembra quasi di poter toccare la loro pelle rugosa e solcata da una vita vissuta a stretto contatto con il mare; il «carrubo ombrello teso» e le «capanne d’aria» sono giochi mentali dei «bambini», capaci di tramutare un albero di carrube in un grande ombrello, fino addirittura a disegnare nel cielo. Il passato, in tutte le sue numerose componenti, si fa colorato paradiso di evasione per i due viaggiatori del tempo.

Il verso «la quaglia dorica» spicca rispetto al resto della composizione: è infatti il verso più breve in assoluto, un senario. La lunghezza non sembra casuale, poiché questo verso ci avverte di un cambiamento netto: stiamo infatti iniziando la traversata verso il mondo della memoria, segnalata dalla roccia che «sbianca improvvisa»17 (quasi una dissolvenza rapida del reale verso una nuova dimensione) e dalla comparsa della «casa rosa» in cima ad una salita. Il definitivo ingresso è poi sancito dal segno grafico delle parentesi, all’interno delle quali è racchiuso un intimo quadretto familiare («d’agosto padre e figlia contavano/le stelle nel terrazzo a mare») dove è facile notare l’unico verbo

16

Commenta Elena Salibra, a proposito della «quaglia dorica»: «Ortigia era una delle cinque parti della pentapoli. Il suo nome significa dal greco ὄρτυξ “quaglia”. I primi colonizzatori di Siracusa furono corinzi e popoli di lingua dorica: da qui “quaglia dorica» (Vers.es, Ibidem)

17

Immagine analoga (si tratta pur sempre di un’improvvisa confusione nell’ambiente circostante) allo sgallare dei detriti nella bagnante fuori orario (cfr. Vers.es, §2D)

(29)

29 al tempo imperfetto dell’intera lirica – chiaro indicatore di ingresso in un tempo trascorso.

Alla chiusura della parentesi tonda, fa seguito l’immediato ritorno al tempo presente, evidenziato da un enjambement che accelera il ritmo. È lampante il contrasto con le immagini delle prime tre strofe: tutti i colori e i dettagli del passato, si perdono nel presente in un continuo muoversi di automobili (che «ingrigia» la terra, in contrasto con il rosa della casa-simbolo) e in una colonna d’uomini18 (uomini generici, non più i «massari aggrinziti», o il quadretto familiare di «padre e figlia»). Questi uomini, perdipiù, stanno compiendo un sacrilegio: «s’affollano alla soglia», ingombrando la porta della casa rosa-passato con il loro carico di grigio presente, e non sembrano nemmeno voler «chiedere perdono» del loro gesto sconsiderato. Da qui scatta la supplica, quasi il grido dell’io poetico (racchiuso dal solito segno grafico «–»): «fermatevi uomini, non varcate la nicchia», quasi che si temesse che altri potessero superare il confine della dimensione del passato (là dove l’io poetico aveva invitato solo quel generico “tu” ad entrare).

La «luna», che chiude la patetica implorazione agli «uomini in colonna», introduce l’ambientazione notturna su cui si chiude la lirica. Mi sembra di poter parlare di una conclusione in notturna, per due motivazioni: la prima, l’immagine dei «mattoni» che «s’ammassano di scuro»; la seconda, e più importante, per quella che appare come una citazione pascoliana, ovvero «s’ode/il rintocco dell’ultima campana». Questa «ultima campana», infatti, sembra ricollegarsi decisamente alle campane che cullano il poeta di San Mauro nella lirica La mia sera:

18

Tutte queste immagini sembrano rimandare alla «catena dei lavori in corso» vista in precedenza (cfr.

(30)

30 Don … Don … E mi dicono, Dormi!

mi cantano, Dormi! sussurrano, Dormi! bisbigliano, Dormi! là, voci di tenebra azzurra … Mi sembrano canti di culla, che fanno ch’io torni com’era … sentivo mia madre … poi nulla … sul far della sera.19

Anche le campane di Pascoli (non citate direttamente, ma chiamate in causa dall’onomatopea «Don») risuonano nella notte (anzi, nell’«ultima sera»20

, che sembra ricollegarsi all’immagine dell’«ultima campana»), e anch’esse riportano il poeta verso il proprio passato: là dove Giovanni Pascoli ritorna al suo stadio di bambino («Mi sembrano canti di culla,/che fanno ch’io torni com’era»), Elena Salibra torna con la mente alla sua «casa rosa» – supplicando, un’ultima volta, che venga lasciata indenne dal passaggio degli uomini («custoditela là»).

19

G. Pascoli, La mia sera, da Canti di Castelvecchio, Zanichelli, Bologna 1903, vv. 33-40.

(31)

31

Capitolo II

Sulla via di Genoard

1. La raccolta

A tre anni di distanza dalla raccolta d’esordio Vers.es, Elena Salibra dà alle stampe

Sulla via di Genoard (Manni editore, Lecce 2007). Differentemente dall’opera del

2004 – suddivisa in due grandi sezioni (Stanze e madrigali¸ Colloqui per e-mail) sostanzialmente non collegate tra loro – questa nuova raccolta si articola in più sezioni, i cui titoli sembrano indicare un movimento, un viaggio dell’io poetico: Verso Genoard,

Per via, Sosta, Oltre, Ritorno. Come infatti rileva Maria Cristina Cabani nella sua

recensione al volume:

…Sulla via di Genoard appare immediatamente come una raccolta organica e compatta, quasi un piccolo canzoniere. Merita questa definizione classica assai più della prima raccolta, Vers.es, nella quale, pur non essendo del tutto assenti, i segnali di collegamento fra testi e sezioni comparivano con minor regolarità.21

È questa, infatti, la principale novità della nuova raccolta: la sua struttura a canzoniere, il suo svolgere una vera e propria narrazione in versi. Come indicano i titoli delle sezioni, il leit-motiv di questo racconto è il viaggio: un viaggio da sud a nord, dal

21

Maria Cristina Cabani, Salibra – Poesia per l’occhio, poesia per l’orecchio, in «Il Portolano», XIV, 51-52, gennaio-marzo 2008, p. 45

(32)

32 passato al presente, dall’infanzia alla maturità. Elemento di novità, dunque, ma anche di continuità rispetto alla precedente raccolta, nutrendosi delle stesse riflessioni poetiche di

Vers.es.

La natia Sicilia è qui non solo terra colorata e profumata sulla quale la memoria si sofferma malinconicamente, ma un vero e proprio paradiso terrestre dalle spiccate caratteristiche esotiche. Nella prima sezione della raccolta, infatti, non sono rari preziosi esotismi, quasi a dipingere la regione italiana come un affascinante e remoto medio oriente: Al-Aziz, Zisa, Genoard, Elnath, guadalquivir, Mizar, alcazar, la palma blanca, eliopoli, Alèxandros; sono tutti termini che non sembrano parlarci di una realtà nostrana, quanto di luoghi incantati e lontanissimi nello spazio.

Questa scelta poetica serve ad un duplice scopo: in primis come opposizione ad un presente molto più riconoscibile nei suoi tratti occidentali (S.Ranieri, Castiglioncello, Livorno…), dal quale si cerca nuovamente di fuggire; in secondo luogo come opposizione ai luoghi della maturità, poiché la stessa Sicilia verrà vista sotto altra luce dall’occhio poetico giunto alla fine del viaggio. È questa una significativa differenza rispetto al rapporto col passato di Vers.es, costantemente vagheggiato come unica dimensione felice: la sezione Ritorno, infatti, ci restituisce un delicato ritratto della terra natia, tuttavia molto diverso dal magico medio oriente siciliano della prima sezione (la città appare «irreale», si percepisce uno «strano tanfo urbano», e il «vuoto» coglie di sorpresa) – tanto diverso che si conclude sulla rassegnata affermazione di perdita (rovesciamento di un luogo dannunziano22), «Genoard non è più tempo d’arrivare».

22

Come rileva Marco Santagata nella sua Introduzione alla raccolta: «L’incipit dell’ultimo componimento cita, capovolgendolo, l’inizio di una delle poesie dannunziane che la scuola ha fissato nella memoria collettiva: “Settembre, andiamo. È tempo di migrare”», p. 5

(33)

33 Alla nuova natura di canzoniere vero e proprio corrispondono liriche non solo decisamente più brevi di quelle di Vers.es, ma soprattutto non sempre chiuse e non sempre auto-conclusive: si hanno poesie implicanti un non detto precedente («che è poi il vento stasera in cima al colle»23), altre che lasciano il lettore nell’attesa di una riflessione o rivelazione ulteriore (quasi un non-finito di Michelangelo; si veda «quella mosca radente sulla tastiera»24), altre ancora talmente rapide da dover essere lette per forza nell’ottica dell’intera sezione (o dell’intera raccolta; si veda «non oltre»25

). Il fatto che molte liriche siano lasciate senza titolo contribuisce ad indebolire la loro identificazione in blocchi poetici a sé stanti, favorendo quindi la lettura delle cinque sezioni da una prospettiva più ampia, meno particolare.

23

Elena Salibra, Sulla via di Genoard, Manni editore, Lecce 2007, p. 37

24

Ivi, p. 22

(34)

34

2. Le liriche

A) a malapena

come è tarda la luce a risalire in occidente il cielo di gennaio

se una voglia mi prende

appena sveglia d’accendere l’oro in quella conca d’acqua dietro al prato.

poi l’ora si fa piena

– stagna tra aranci e tamerici la rena – là dove ombra o uomo certo

stoppano al guado

la palma blanca mi congedo da voi a malapena

a malapena fa parte della sezione che apre la raccolta, Verso Genoard: di essa

rappresenta un’efficace sintesi. Anzitutto, la poesia ha un titolo, come tutte quelle della sezione d’apertura. Questo è un unicum all’interno del volume, e si spiega con la funzione rivestita da questo primo blocco di liriche: esse rappresentano il punto di partenza del viaggio dell’io poetico, la mitica ed esotica Sicilia dalla quale Elena Salibra si congeda «a malapena», e in quanto tali sono trattate come preziose reliquie del passato e precisamente individuate da un titolo. Questa volontà di separare nettamente le liriche della prima sezione dalle successive è evidente anche nella scelta di scrivere i versi poetici in corsivo: e bisogna immaginare che tale scelta serva anche a dare (nel segno grafico distorto rispetto al carattere tondo) il senso di un’esperienza poetica fortemente localizzata nel tempo e nello spazio della memoria, in un passato lontano e intoccabile custodito con estrema cura.

(35)

35 La lirica si apre su un viaggio, l’itinerario che il disco solare compie nell’arco della giornata. Questo è naturale specchio del movimento che l’io poetico si appresta ad intraprendere: la luce del sole è infatti «tarda», e compie uno sforzo notevole a levarsi nel cielo (il verbo «risalire» dà l’idea di una certa pesantezza nel movimento); questa luce deve poi andare verso «occidente», esattamente come dovrà fare la poetessa nel congedarsi dalla sua Sicilia. L’ostacolo al viaggio dell’io poetico viene presto svelato: «se una voglia mi prende/appena sveglia/d’accendere l’oro». Questa immagine di «accendere l’oro» sembra quasi rimandare ad un’altra luce, un bagliore più intenso e prezioso che l’io poetico preferisce seguire rispetto a quello del sole. Stiamo ancora una volta entrando nel mondo della memoria: un ingresso segnalato anche dallo scarto grafico dei versi che prima lentamente (v.3) poi repentinamente e nettamente (vv. 4,5), si allontanano e distinguono dal lento incipit della lirica (interessante anche il passaggio da endecasillabo a settenari e senari, come a muovere da una stasi ad un improvviso guizzo vitale).

Dopo l’unico punto fermo dell’intera poesia («in quella conca d’acqua dietro al prato») avviene un improvviso scarto: infatti «l’ora si fa piena», in contrasto con quella luce «tarda» dei primi versi. Ma cosa indica questa ora che «si fa piena»? Difficile pensare che si possa riferire ad un definitivo ingresso nel mondo della memoria: la presenza del punto fermo non può essere casuale, e viene da pensare che indichi un cambio repentino; a ciò si aggiunga il verso seguente «stagna tra aranci e tamerici la rena», non proprio un idilliaco quadretto come quelli che emergevano ne La casa

rosa.26 Ad illuminare sul significato di questi versi, arriva la citazione dantesca «là dove ombra o uomo certo»: essa, infatti, viene recuperata dal canto I dell’Inferno («qual che tu sii, od ombra od omo certo! », v.66), ovvero l’inizio del viaggio di Dante nei regni

(36)

36 ultraterreni (parallelo del viaggio che Elena Salibra si appresta a percorrere). «Ombra od omo certo» è riferito a Virgilio, guida e maestro del poeta nel suo iter: questi «stoppano al guado/la palma blanca», azione che termina poi nel vero e proprio congedo dell’io poetico («mi congedo da voi a malapena»).

Rileggendo questi versi alla luce della citazione dantesca, viene dunque da pensare che l’inizio del secondo periodo «poi l’ora si fa piena» indichi una presa di coscienza ed una scossa interna alla poetessa (come detto, in opposizione al faticoso «risalire» dell’incipit). Ma cos’è questa presa di coscienza, e a cosa si riferisce? Viene da pensare che l’io poetico si accorga di qualcosa, noti un aspetto che prima gli sfuggiva. Il segno grafico «–» isola un inciso che è anche rivelazione: agli «aranci e tamerici», simboli di colore e sapore della patria/passato (e ulteriore citazione, sia pascoliana che dannunziana), fa riscontro «la rena» che «stagna». Il continuo rifugiarsi nel passato viene quindi recepito in questa epifania come una stasi negativa. Alla nuova consapevolezza si aggiunge l’aiuto della guida: la «palma blanca» è prezioso esotismo associato al mondo della memoria e alla Sicilia mitico-esotica, che viene arrestato prontamente per impedire un contatto con l’io poetico e permettere di effettuare il passo decisivo. La posizione del verso «la palma blanca» è, non a caso, la stessa della coppia di versi «appena sveglia/di accendere l’oro»: essa indica l’apertura dinamica al movimento, contrapposta alla stasi dei versi più lunghi e centrati. Interessante anche leggere il verso «appena sveglia» alla luce del parallelo con il canto I dell’Inferno: come Dante infatti è «pien di sonno» quando inizia il proprio viaggio, così anche Elena Salibra si trova nella situazione in cui i sui sensi si stanno appena destando (ed essendo ancora assopiti la inducono all’errore del cercare rifugio nella memoria, invece di «risalire/in occidente»).

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37 L’inizio del viaggio rimane comunque faticoso: «mi congedo da voi a malapena» è complicato distacco di un io poetico che ha assunto nuova consapevolezza, ma che al contempo non è ancora tanto forte da lasciarsi serenamente il passato alle spalle. Questa difficoltà, d’altronde, è perfettamente parallela ai dubbi dello stesso Dante: anch’egli comincia il proprio cammino all’insegna di una debolezza d’animo che solo il saggio parlare di Virgilio riuscirà poi a vincere nel canto II dell’Inferno («Quali fioretti dal notturno gelo…»).

(38)

38 B) domenica d’autunno

domenica d’autunnno

no è l’inizio di giugno.

scoppiano le petunie sul balcone oltre le sbarre della bagarre cittadina.

scrivo di mattina [caro z] perché c’è un cantare di uccelli nel capannone in rovina

…la tua partenza di prima mattina

… la tua partenza di prima mattina mi lascia in giacenza

una serie di cose per le ore a venire.

il tempo è scaduto. sono in attesa di transito.

dammi un’idea di contorno una residua certezza alla fine del giorno…

Questa coppia di liriche fa parte di quel cospicuo gruppo a cui Elena Salibra non ha assegnato un titolo preciso: si trovano entrambe nella seconda sezione, Per via, nella quale emerge un sentimento di confusione e disorientamento riguardo al tema del tempo, così chiaro e controllato in Vers.es. Le due poesie sembrano instaurare, fra loro, quel dialogo di cui Maria Cristina Cabani parla nella sua recensione al volume:

…l'autrice crea di continuo visibili agganci fra un testo e l'altro, dando al lettore la sensazione che, giunti alla fine di una poesia, di rado sigillata da un punto fermo [...] resti ancora qualcosa da dire27

27

Maria Cristina Cabani, Salibra – Poesia per l’occhio, poesia per l’orecchio, in «Il Portolano», XIV, 51-52, gennaio-marzo 2008, p. 45

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39 La mancanza di punto fermo alla fine di domenica d’autunno e i puntini di sospensione all’inizio di …la tua partenza di prima mattina sembrano confermare questa ipotesi, ulteriormente supportata dal fatto che entrambe le poesie vengano scritte nello stesso momento della giornata, di mattina («scrivo di mattina», «di prima mattina») e che l’ultimo verso della prima lirica vada a rimare con il primo della seconda. Un altro elemento che sembra favorire la lettura continuata dei due componimenti è la presenza di questo «caro z», che diventa poi interlocutore nella seconda lirica (al quale ci si appella per un senso di smarrimento dal quale si vuole cercare di uscire).

La poesia domenica d’autunno si apre all’insegna della confusione temporale, nell’equivoco tra due stagioni completamente diverse. L’errore è evidenziato non solo dalla brusca intromissione della negazione «no», ma anche – graficamente – dall’uso alternato di corsivo e carattere tondo: non a caso, come abbiamo già rilevato, il corsivo è solitamente usato per indicare il vagheggiamento del passato, laddove poi il tondo va ad indicare il tempo presente. C’è dunque un’immediata reazione dell’io poetico all’intromissione della stagione autunnale, che riporta il discorso all’estate che si sta aprendo: tuttavia il punto fermo che segue tale imposizione è solo una pausa verso nuove confusioni interiori. Difatti il successivo periodo si fa quadretto floreale nello sbocciare delle petunie (che addirittura «scoppiano», quasi un conflitto bellico tra natura e umano con la «bagarre cittadina»28), ma il carattere usato per tale descrizione è nuovamente il corsivo – quasi a far convivere il passato con la situazione presente, a cui l’io poetico ha forzatamente rivolto la propria attenzione.

(40)

40 Con un nuovo punto fermo ed un netto scalino grafico, Elena Salibra si riappropria completamente del proprio presente: il discorso torna infatti ad essere espresso in carattere tondo. Eppure ci sono ancora alcuni elementi che lasciano pensare. Anzitutto, la presenza del «caro z», il cui nome completo è taciuto e inscritto tra parentesi quadre. Come detto più volte, in una poesia dove il segno grafico è raro non si possono ignorare queste eccezioni: le parentesi quadre ricorrono pochissime volte in tutta la raccolta, e racchiudono sempre termini o informazioni relativi al passato. In particolare notiamo che nella lirica di apertura del volume (sulla via di Genoard) il primo verso recita «Al-Aziz [Zisa]», un’altra «z» fra parentesi quadre: il «caro z» potrebbe dunque essere un senhal per indicare genericamente il passato, quel passato da cui è difficile distrarsi. Il «cantare d’uccelli/nel capannone in rovina» è di più difficile interpretazione: certo è che questo canto non è gioioso, perché l’immagine del «capannone in rovina» fa pensare ad una prigione o una trappola mortale, rispetto alla quale il «cantare» diviene quindi incessante richiesta d’aiuto. Si potrebbe pensare allora che il canto sia tentativo di richiamo costante nei confronti dell’io poetico, e che il «capannone in rovina» sia un po’ il contraltare decadente di quella «Zisa»29

che si nasconderebbe sotto il «caro z».

A questo punto il discorso continua nella seconda lirica del dittico, introdotto dai puntini di sospensione iniziali. La partenza del «caro z» crea una reazione a catena, per cui alla poetessa rimangono «in giacenza/una serie di cose per le ore/a venire»: l’inedita condizione di mancato rifugio nel passato (così comune nella raccolta precedente) coglie impreparata Elena Salibra, che si trova a dover fare i conti con il futuro nelle «ore/a venire». Come sempre, però, il futuro è tabù: il punto fermo e lo scalino grafico

29 Su cosa sia la Zisa ci informa la stessa Salibra nelle note al testo (Sulla via di Genoard, Manni editore,

Lecce 2007, p. 85): «…La Zisa (al-Aziz, la splendente), residenza estiva dei re normanni». Simbolo dunque di grandiosità e meraviglia passata, qui contrapposta al desolante spettacolo del capannone presente.

(41)

41 tacciono sullo svolgimento della «serie di cose», e ci portano direttamente ad una nuova condizione presente, «il tempo è scaduto». Questo verso lapidario indica non solo la fine delle «ore/a venire», ma anche la nuova consapevolezza dell’io poetico. Alla constatazione temporale, infatti, segue quella spaziale, «sono in attesa/di transito»: è «scaduto» il periodo in cui si poteva costantemente rifugiarsi nel passato, e il «transito» che si attende è quello verso la definitiva conquista di una nuovo “sentimento del tempo”. La rappresentazione grafica della lirica evidenzia questo importante passaggio: il verso «il tempo è scaduto» si trova sbalzato rispetto al corpo della poesia (ad indicare un cambiamento rispetto alla situazione precedente) e la separa perfettamente in due parti; l’idea del «transito» è resa da un nuovo movimento grafico, che rende il senso del movimento.

Tuttavia i dubbi e l’attaccamento al passato emergono un’altra volta nel finale: al «caro z» è affidata l’ultima accorata richiesta, «dammi un’idea di contorno una residua/certezza alla fine del giorno». Il «transito» non sarà facile, e l’io poetico si sente un po’ sperduto all’idea: dato che non può più rifugiarsi personalmente nella memoria, chiede almeno che ci sia una qualche manifestazione di essa nel presente che possa fungere da appiglio sicuro nelle difficoltà che ci saranno. La speranza finale rimane aperta nei punti di sospensione finali, che lasciano l’intero discorso in sospeso – esattamente come in sospeso sono, al momento, l’esito del viaggio poetico nonché il viaggio stesso.

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42 C) nove/dieci marzo

S’è sciolta tutta la neve in un fiat

da un giorno all’altro – nove/dieci marzo. se il treno va e viene ansimando nell’unico

binario s’incrementa il divario d’oggi e ieri sul filo di tensioni che

attramano gli invia-ricevi-aggiungi

nuovo – dopo il bip salta Crevalcore

poi un flashback in sms mi chiarisce il nuovo itinerario – neve nebbia fitta incollata al finestrino fumo odori umori rottami lamiere

alla rinfusa e niente nel binario unico

Il viaggio di Elena Salibra prosegue nella sezione Sosta: come rivela chiaramente il nome, questo breve blocco poetico è una pausa momentanea, nella quale perlopiù si assiste a dialoghi con precisi interlocutori (tre poesie parlano di e con Roberto Benigni, un’altra reca in calce “a c.g.”) o comunque a momenti statici dove la riflessione ha la meglio sull’azione. La lirica nove/dieci marzo che chiude la sezione, tuttavia, riesce a farsi magnifica sintesi di momento contemplativo e momento attivo, incorniciando perfettamente l’attimo in cui l’io poetico torna a mettersi in viaggio. L’idea di scarto e cambiamento è d’altronde già indicata nel titolo, con il rapido succedersi di date contigue che indica avanzamento temporale (forse non a caso reso graficamente da quel corsivo che simboleggia il passato – da mettere alle spalle – e che tornerà nella lirica sotto una luce completamente diversa da quella osservata sinora).

La poesia si apre su di un’importante novità nell’ambiente circostante: «s’è sciolta tutta la neve in un fiat/da un giorno all’altro». In un rapido e fulmineo momento (un

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