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Il martirio di Ortigia

1. La raccolta

Il martirio di Ortigia è il titolo della terza raccolta poetica di Elena Salibra

(pubblicata ancora una volta con Manni editore, a Lecce nel 2010). Come la precedente

Sulla via di Genoard, è anch’essa divisa in più sezioni: trittico per il martirio di ortigia, incontri, rotte, ipotesi, dopo i giorni di tobia, storielle. Stavolta, tuttavia, il movimento

non è affatto unilaterale e costante: se nella seconda raccolta, infatti, l’andamento in sezioni era dettato dal tema del viaggio, ne Il martirio di Ortigia le vicissitudini dell’io poetico sono mosse soprattutto dal suo continuo entrare in contatto con un “tu” sempre diverso (una delle sezioni si chiama proprio incontri). Da ciò consegue che quell’itinerario diretto da un punto iniziale ad un punto finale proprio di Sulla via di

Genoard sia qua frammentato in più direzioni, ognuna delle quali corrispondente ad un

diverso momento di incontro con i vari interlocutori esterni.

Ma chi sono questi interlocutori, questi “tu” a cui la poesia di Elena Salibra si appiglia così frequentemente all’interno della raccolta? Sono un ampio caleidoscopio di figure. Abbiamo figure di schietto realismo, contrapposte alle riflessioni poetiche dell’io (l’hostess di fine novembre che «sorride» alla storia della poetessa; il notaio di lungarno

53 immaginarie di stampo pirandelliano (il personaggio di l’autore, che non collabora alla realizzazione della short story); figure non umane (il cane Remì di fine novembre); spettri del passato (l’uomo senza nome di al capolinea, sempre «in prima fila/nell’angolo a sinistra ad ascoltare/accordi di parole sulle mie/rime»); figure verso le quali è evidente una tensione affettiva particolare (quell’Ashid a cui sono dedicate tre poesie nella sezione rotte, o il dedicatario senza nome di storielle). Ma si va addirittura oltre, sfociando in un livello di incontro molto particolare – e rilevato giustamente anche da Maria Cristina Cabani nell’introduzione:

La poesia di Elena Salibra prevede sempre un destinatario, un tu. Lungi dal presentarsi come dialogica, essa sembra piuttosto il prodotto di un colloquio interiore in cui il tu (dietro al quale si intuiscono talvolta figure umane definite) sfuma spesso in un altro sé (“anche un bicchiere diviso fra me e me”), cioè in un animato monologo.39

Il “tu” è dunque anche un “io”, talvolta, e il dialogo un monologo tutto interiore con sé stessa nonostante il doppio pronome personale.

Quest’ampia varietà di interlocutori con cui l’io poetico si trova a dover fare i conti è responsabile di quel movimento frammentato di cui dicevamo sopra. Questa assenza di linearità emerge prepotente nel trattamento riservato da Elena Salibra all’onnipresente tematica del tempo. Il martirio di Ortigia è ritenuta (a ragione) dai recensori come una raccolta molto più distaccata da quel fondamentale passato che dominava le pagine di

Vers.es e Sulla via di Genoard.

Nel martirio di ortigia, a differenza della attenta e minuta cronologia interna delle due precedenti raccolte, i segnali temporali si fanno meno insistenti e meno determinati. All’andamento quasi diaristico, o comunque sequenziale, subentra una disposizione sincronica dei testi […] Al passato (l’infanzia, la casa rosa, Ortigia)

54 che si alternava all’oggi in molti testi di Vers.es e di Genoard subentra il presente…40

Le occasioni quotidiane […] alimentano i versi e consentono quell’andamento narrativo perseguito dall’autrice […] La dimensione temporale, prevalente nelle raccolte precedenti, non definisce gli eventi ma li sospende in una duplice ciclicità…41

Tuttavia, più che distaccata dal passato e radicata nel presente, la raccolta appare soprattutto indecisa su come comportarsi al riguardo (probabilmente per quella varietà di situazioni ed interlocutori che ne animano i versi). Chiaramente il passato che emerge dalle poesie dedicate ad Ashid in rotte non è la stessa dimensione confortante de La

casa rosa, ma al contempo sembra quasi “incoerente” vedere liriche ambientate nel

tempo e nello spazio della memoria: la sezione iniziale, infatti (e in parte anche la successiva incontri), sembrava aver definitivamente sancito la fuga dal passato dell’io poetico e la decisione di vivere nel presente («adesso qui con la presente e viva/voglio

ricominciare»42). E anche il fatto che la conclusione dell’intera raccolta si ambienti nel tempo che fu («un tempo/m’aggrinzava la pelle quando lo spazio/tra noi forse non era ancora il nostro»43) è segno evidente di una mancata chiarezza, di una contraddizione (almeno parziale) che fa da contraltare alla sicura fede nella memoria di Vers.es e al difficoltoso ma costante viaggio verso il presente di Sulla via di Genoard.

40 Ivi, p. 5 41

Mara Boccaccio, Recensione in Poesia N.269, Anno XXV, Marzo 2012

42

Cfr. Il martirio di Ortigia, §2B

55

2. Le liriche

A) …in fuga dall’altra terra il martirio

…in fuga dall’altra terra il martirio d’ortigia s’accomoda

nell’angolo

in ombra della sala dove non è traccia di un amore dietro i pentimenti

del pittore. se tu stemperi sul tappeto persiano il garbuglio

dei sensi in un pomeriggio di prima estate sei nel triangolo della memoria o è un miscuglio di colori quel me

e te confusi d’umori nuovi…

La lirica che apre l’intera raccolta è una delle prime in assoluto a livello compositivo: viene infatti pubblicata nel 2008 – appena un anno dopo l’uscita di Sulla via di

Genoard – sulla rivista poetica Almanacco dello specchio, con il provvisorio titolo di Trittico per il martirio di Ortigia – titolo poi allargato all’intera sezione. Il dato è

interessante soprattutto in virtù dell’assenza di titolo nella versione definitiva e dei punti di sospensione che precedono il vero e proprio attacco. Un’altra lirica che non aveva titolo e che si chiudeva su un non detto fatto intuire dal segno grafico che qui si pone in incipit era infatti Genoard non è più tempo d’arrivare, momento di chiusura della precedente raccolta: e forse non a caso questa poesia si apre su una «fuga dall’altra terra», che fa chiaramente eco al viaggio verso il presente della precedente raccolta. Questa lirica, insomma, sembra risentire ancora del momento poetico di Sulla via di

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Genoard (è una delle prime ad essere scritte, presenta un collegamento con la fine della

precedente raccolta) ed è fondandoci su tale ipotesi che andremo ad analizzarla.

Il componimento si apre dunque su una fuga: la fuga del «pellegrino» di Genoard

non è più tempo d’arrivare, o la fuga de «il martirio/d’ortigia»? Verrebbe da dare

credito alla prima ipotesi, non fosse altro la difficoltà di immaginarsi un quadro (qual è questo «martirio/d’ortigia») fuggire «dall’altra terra». In realtà le due ipotesi possono essere conciliabili. Il soggetto del quadro di cui Elena Salibra ci parla è infatti il martirio di S.Erasmo, un santo che venne eviscerato come punizione per la sua fede: leggiamo, a tal proposito, il commento di Nadia Ebani.

Forse l'eviscerazione del santo (che fu lui stesso ramingo, protettore di marinai e tornitori[…]) questo martirio di fuoriuscita delle interiora e della loro attorcigliatura a un argano che le solleva e tornisce, presenta qualche analogia con il martirio, che è mistero di un poeta che è […] in fuga dalla sua mitica isola greca…44

L’estrema tortura del santo pellegrino potrebbe quindi essere metafora di un’intensa sofferenza interiore all’io poetico: forse, addirittura, potrebbe essere la poetessa stessa, dal momento che viene definito «in fuga» e dunque personificato (e allora ancora di più i suoi lineamenti si confondono con quelli del pellegrino della raccolta precedente).

«il martirio/d’ortigia», comunque, «s’accomoda/nell’angolo/in ombra della sala». Terminata la fuga, è il momento di sostare, e il riposo avviene nella zona più buia del luogo dove la lirica si ambienta. Ma c’è di più, perché in questo cantuccio poco illuminato «non/è traccia d’un amore/dietro i pentimenti/del pittore». Viene introdotto un personaggio esterno, che è anche il creatore del quadro: questi si è pentito di

44

57 qualcosa, e ha conseguentemente modificato la sua opera rispetto alla stesura iniziale; a quanto pare la nuova versione copre la «traccia d’un amore» che si è voluto nascondere. Questo cambio d’idea sembra vagamente ombreggiare l’atteggiamento di rinuncia al passato che avevamo visto prendere piede nella precedente raccolta: in tal senso si spiegherebbe bene anche l’accomodarsi «nell’angolo/in ombra della sala» del quadro, o meglio il suo venire spostato lontano dal centro della scena e dagli sguardi dei visitatori (manovra effettuata forse dal pittore stesso, rappresentante di un’io poetico tormentato e dilaniato tra presente e passato qual era quello di Sulla via di Genoard).

Il punto fermo concede al lettore una necessaria pausa dopo un flusso continuo ed interminabile di parole, unicamente sistemate dai continui mutamenti grafico-metrici dei versi (sistemate poeticamente parlando, visto che il discorso logico è costantemente frammentato dai numerosi enjambements). Il periodo successivo si apre su due nuove figure: l’io poetico e un generico “tu”. Chi è questo primo “tu” con cui Elena Salibra si trova a che fare? «se tu stemperi/sul tappeto persiano il garbuglio/dei sensi in un pomeriggio/di prima estate/sei nel triangolo della memoria». Dunque l’interlocutore dell’io poetico è passato, si trova in un’epoca e in uno spazio lontani («nel triangolo della memoria»): questi, inoltre, cerca di stemperare «il garbuglio dei sensi» «sul tappeto persiano». Questo elemento del «tappeto persiano» è un preziosismo esotico che sembra fortemente rimandare a quelle caratteristiche di cui il passato si tingeva in Sulla

via di Genoard. E chi potrebbe essere, allora, questo “tu” fortemente contorto

interiormente, sito nel passato della memoria e legato ad una simbologia così esotica?

Alla luce anche dei versi precedenti sembra di poter considerare questo interlocutore esterno come un “tu” interno all’io poetico stesso: se infatti il pittore pentito fosse l’Elena Salibra di ora, questa figura che si trova «nel triangolo della memoria» potrebbe

58 benissimo essere l’Elena Salibra di un tempo – quella, infatti, che per stemperare «il garbuglio/dei sensi» aveva bisogno di rifugiarsi nel sicuro e confortante passato (qui simboleggiato dal «tappeto persiano» di genoardiana memoria). Non a caso, ricordiamolo, il quadro «il martirio/d’ortigia» che la poetessa pone in apertura rappresenta un’eviscerazione fisica: non sarebbe quindi impossibile pensare che la lirica in cui esso compare ci parli di uno sconvolgente conflitto interiore, di cui quello fisico si fa doppio (con conclusione analoga: da una parte la morte del santo, dall’altra il relegare «in ombra della sala» la parte sconfitta). Tanto più che la poesia si conclude su una nota decisamente meno bellicosa, e facilmente leggibile in tale chiave: «è un miscuglio di colori quel me/e te confusi d’umori nuovi», infatti, sembra suggerire una sorta di unione tra l’io poetico e il “tu” a cui si sta riferendo («miscuglio di colori», «me/e te confusi»). Non è difficile vedere questa chiusa come la dichiarazione di un processo di sintesi tra due diverse concezioni dell’io poetico, due posizioni che si sono ora riunite (pur mantenendo intatta la propria identità in due separati «me/e te» e pur creando un «miscuglio» che dà l’idea di qualcosa di eterogeneo) in qualcosa di nuovo («confusi d’umori nuovi»). La suggestione iniziale che l’Elena Salibra del passato fosse ormai relegata «nell’angolo/in ombra della sala» si è quindi progressivamente fatta meno drastica: la ritrovata dolcezza di «sei nel triangolo della memoria» diviene poi consapevolezza di una presenza che sarà costante, pur essendo (apparentemente) superata («quel me/e te confusi d’umori nuovi…»).

59 B) fine novembre

per farla breve – mi sono persa – rispondo al tuo – ma dove sei – poi – sono qui in agenzia a parlare di poesia. no. a bloccare quel biglietto paris-nagoya – ora

i ciliegi anche lì non sono in fiore. …otto ore di fuso… è sempre inverno. così mi ritrovo indietro o avanti non lo so… in tempo ancora (sono fusa)

…mi scorrono i km

dormo mi sveglio ti guardo di sottecchi che smani di formule.

di rimando a Remì – chiedo – cos’è il tempo per te – china gli occhi tondi e scodinzola perplesso. forse è un amplesso che dura quanto il mondo o è un motore che non carbura – falsa partenza

anche la mia – riprovo a riflettere

quanto contano gli anni i minuti o le morte stagioni una vita

due… adesso qui con la presente e viva voglio ricominciare.

l’hostess sorride è debole la storia

Per quanto riguarda il tema dell’incontro con il “tu” interlocutore poetico, fine

novembre è una delle liriche più significative dell’intera raccolta: situata nella sezione incontri (non a caso), è un componimento che vede infatti la presenza di quattro

differenti “tu” a cui l’io poetico si rivolge (un generico “tu” iniziale; un “tu” compagno di viaggio sull’aeroplano; il cane Remì; l’hostess sulla quale si chiude la lirica). È altresì un componimento importante per il continuo riflettere sulla tematica temporale, sempre

60 centrale nella poesia di Elena Salibra, che sfocia in un’affermazione coraggiosa e quasi programmatica nel finale (affermazione che verrà peraltro smentita dal prosieguo della raccolta).

L’apertura della poesia è nel segno di una mancata chiarezza sia a livello di significato che a livello di significante. Partendo dall’aspetto grafico, il primissimo verso è completamente spostato sulla destra, quasi ad indicare una dimenticanza non- detta che sta a monte dell’intera lirica (non a caso l’incipit asserisce «per farla/breve», come a tagliare un lungo discorso fatto in precedenza): oltre a questo, vi sono numerosi segni grafici «–» combinati ad enjambements che spezzano il ritmo e interrompono il filo logico del discorso (introducendo la voce interiore della poetessa nelle frasi racchiuse tra i segni grafici «–»). A livello di significato, la prima interazione con il “tu” è angosciata e sconvolta: la voce dell’io poetico, che si inserisce prepotentemente nel discorso principale, afferma il suo smarrimento («mi sono persa») e chiede soccorso all’interlocutore («ma dove sei»). Cercando inoltre di ricostruire il filo logico aperto ad inizio del componimento, andiamo incontro a non pochi problemi. Se omettiamo le esclamazioni della voce interiore, otteniamo «per farla/breve[…]rispondo/al tuo[…]poi»: se i primi due blocchi si potrebbero anche combinare tra di loro, cosa dovrebbe rappresentare questo «poi» a cui la poetessa risponde? Sembra più probabile ipotizzare che la confusione dovuta al continuo emergere dell’angosciato io poetico abbia sconvolto anche l’enunciato principale, il quale risulta incompleto.

«sono qui in agenzia a parlare/di poesia. no. a bloccare quel biglietto/paris-nagoya». La confusione regna anche all’interno della seconda strofa, una confusione che ricorda la poesia analizzata in Sulla via di Genoard45 dove la stessa decisa negazione «no»

45

61 interveniva a far chiarezza tra verità e illusione (tra l’altro si trattava di una domenica

d’autunno, decisamente echeggiante la fine novembre del titolo). Le due realtà della

discussione poetica («parlare/di poesia»e del viaggio esotico in Giappone («paris- nagoya») sono tuttavia l’appiglio decisivo per l’io poetico, che recupera le redini del discorso e inizia finalmente a fare chiarezza dentro di sé (l’interiorità è introdotta dall’improvviso utilizzo del corsivo per l’aspetto grafico dei versi).

Le considerazioni dell’io poetico sono tutte all’insegna del tempo, in particolare sullo scorrere delle ore e delle stagioni. La riflessione presenta ancora tratti di dubbiosa incertezza («indietro o/avanti non lo so…»), ma questi sono quasi superati secondo una considerazione decisamente meno drastica del solito: alla usuale contrapposizione fra presente e passato fa qui riscontro una quasi unione delle due dimensioni temporali, all’insegna della considerazione che nonostante le «otto ore di fuso» anche in Giappone «è sempre inverno» proprio come in Italia. La complicazione temporale del cambiamento di fuso diventa dunque la chiave per vedere il tempo in maniera più unitaria, per sapere che «ora/i ciliegi anche lì non sono in fiore» e che si è «in tempo

ancora» (le otto ore di distanza tra le due nazioni non rappresentano, infatti, chissà

quale cambiamento nell’ottica più ampia delle stagioni).

La complessa e importante riflessione temporale affatica l’io poetico («(sono fusa)») sino a farlo crollare nel sonno, durante il quale si compie la maggior parte del viaggio «…mi scorrono i km». Il risveglio è all’insegna di un doppio incontro con un “tu” esterno, per quanto poco dialogato. Il primo interlocutore è tutto indaffarato nel suo impiego («smani di formule») e il contatto tra questi e l’io poetico non può andare oltre un silenzioso «ti guardo di sottecchi». Questo “tu” potrebbe essere un compagno di viaggio estremamente radicato nel reale, che non si perde in riflessioni poetiche ma è

62 ben concentrato sul suo concreto lavoro: tuttavia viene da pensare che possa trattarsi di un nuovo riferimento ad un “tu” interiore, ad un’altra Elena Salibra. L’autorizzazione per tale ipotesi viene da due fattori: l’uso del corsivo, che abbiamo detto essere segno di una riflessione interiore (e difatti scompare nel colloquio con i due successivi interlocutori); la possibilità che quello smaniare di formule sia da riferirsi alle complicate riflessioni effettuate in precedenza (oltre al fatto che l’immagine sembra rimandare al «geomètra» già visto in 2-2-200046). Al ritorno totale nel mondo esterno segue invece il secondo incontro con il “tu”, che porta stavolta ad un colloquio – per quanto silenzioso e vano: il “tu” è di specie canina, e alla fondamentale domanda «cos’è/il tempo per te» «china gli occhi tondi e/scodinzola perplesso», lasciando l’io poetico insoddisfatto. Tale insoddisfazione porta ad una nuova riflessione sul tempo, dall’esito contrastante: «forse è un amplesso/che dura quanto il mondo» sembrerebbe indicare un piacere costante, eterno, nel segno di un’immobilità temporale che unifica passato, presente e futuro; «o è un motore/che non carbura» è invece la constatazione desolante di un potenziale che non riesce mai ad esprimersi a pieno (e, combinata al successivo «falsa partenza/anche la mia», sembra indicare una realtà che si ancora al passato ed è incapace di aprirsi verso il futuro – sia per una «falsa partenza» che per una mancata carburazione).

Dal “dialogo” con Remì la riflessione si sposta nuovamente nell’interiorità, e assume i toni di una lunga citazione leopardiana: «le morte stagioni» e «la presente e viva» sono un chiaro riferimento a L’infinito del poeta di Recanati. Come in Sulla via di Genoard era stata una citazione dantesca a farsi primo slancio verso l’accettazione del presente47

,

46

Cfr. Vers.es, §2B

47

63 così adesso è Leopardi a guidare verso un’importante affermazione risolutiva come «adesso qui con la presente e viva/voglio ricominciare». Sembrerebbe dunque che tutti i dubbi e la confusione presenti nelle strofe precedenti siano stati risolti definitivamente in una visione ottimista, dove è possibile per l’io poetico abitare nel presente senza rimuovere completamente la dimensione temporale del passato a lui così cara (anzi, partendo da riflessioni su di essa per accettare la sua nuova partenza, che non è più «falsa» come prima). Ma l’ultimo incontro con il “tu”, l’ennesimo non-dialogo con un interlocutore altro da sé (dopo la conversazione spezzata con il primo “tu”, il silenzio con il secondo e l’impossibilità di specie con il terzo), getta un’ombra su questa conclusione idilliaca. Difatti «l’hostess sorride», e il suo sorriso non sembra di approvazione o di sostegno, quanto una smorfia un po’ ironica: il sorriso deriva dal fatto che «è debole la storia», che la speranzosa risoluzione a tutto il ponderare fatto sino a qui non sia davvero convincente – che forse l’io poetico sia ancora inevitabilmente legato ed intrappolato ad una dimensione diversa da quella «presente e viva».

64 C) alla conceria

Il dolce inferno della conceria dalla terrazza m’appariva dove

– pecora o capra

– tra le vasche prona al varco

mi preparavo al tuo giudizio

china insieme a quei lavoranti che non hanno tregua ma vanno ora e sempre. mentre affogavo tra i liquidi immondi e le zaffate d’ammonio nell’ansa striata come una pelle stesa

[anche tu soffocavi al fumo del tuo fiato] con un nodo alla gola per l’ultima volta ti spinsi a sostare ma capii

che eri d’altra razza.

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