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L’Ucraina e il “grande gioco” sulla scacchiera eurasiatica: lo scontro geopolitico e ideologico tra la Russia e l’Occidente.

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Academic year: 2021

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Corso di Laurea Magistrale in

Relazioni Internazionali Comparate

ordinamento ex D.M. 270/2004

Tesi di Laurea

L’Ucraina e il “grande gioco”

sulla scacchiera eurasiatica: lo

scontro geopolitico e ideologico

tra la Russia e l’Occidente.

Relatore

Ch.mo Prof. Aldo Ferrari

Correlatore

Ch.mo Prof. Duccio Basosi

Laureando

Paolo Cantarello

Matricola 840176

Anno Accademico

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INDICE

1 ABSTRACT 3 INTRODUZIONE 8

PRIMA PARTE

Il contesto geopolitico della crisi ucraina: lo spazio post-sovietico

10

CAPITOLO 1 – La fine dell’URSS

10 1.1 - Le cause interne 15 1.2 - Le cause esterne

17 1.2.1 - I mujāhidīn e la trappola afghana

23 1.2.2 - Il Democracy Program, la NED e Solidarność 31 1.3 - La politica sovietica delle nazionalità

36

CAPITOLO 2 – L’Ucraina

36 2.1 - Breve storia dell’Ucraina: dalla Rus’ alla fine dell’Unione Sovietica 48 2.2 - L’Ucraina post-sovietica: dal 1991 alla rivoluzione arancione

61

CAPITOLO 3 – La Russia post-sovietica

62 3.1 - L’era El’cin 73 3.2 - Putin e la rinascita russa 78 3.2.1 - La svolta conservatrice 82 3.2.2 - Le linee guida della politica estera di Putin

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SECONDA PARTE

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La crisi ucraina e lo scontro Russia-occidente

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CAPITOLO 4 – I rapporti tra la Russia di Putin e l’Occidente

89 4.1 - L’espansione NATO-UE verso est

92 4.2 - La “rivoluzione delle rose” 96 4.3 - Il discorso di Putin alla Conferenza sulla Sicurezza, Monaco 2007 98 4.4 - Il Vertice della NATO a Bucarest, 2008 100 4.5 - La Seconda guerra in Ossezia del Sud, agosto 2008 104 4.6 - Il Partenariato Orientale

106

CAPITOLO 5 – Evromajdan e la risposta Russa

107 5.1 L’Accordo di Associazione e il FMI 110 5.2 Evromajdan 114 5.3 Il colpo di stato 116 5.4 Il ruolo dell’Europa e degli USA 120 5.5 Gli obiettivi americani 133 5.6 Gli errori e i doppi standard dell’Europa 138 5.7 La risposta russa 151 5.8 L’Ucraina post-Majdan 153 5.9 Le relazioni russo-occidentali e la russofobia dopo la crisi ucraina

159 CONCLUSIONI

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1

ABSTRACT

The main topic of this dissertation is the crisis occurred in Ukraine between the end of 2013 and the first months of 2014, which culminated in a deterioration of the diplomatic and trade relations between the Russian Federation and Western Countries. In examining the crisis, I relate the facts from Russia‟s viewpoint, which generally has not been reported by Western media. It permits to understand better this important geopolitical event and why President Vladimir Putin decided to take action in February 2014. I also analyse the crisis in the light of EU and NATO expansion eastward, a strategy which aims to make the United States the sole hegemonic power in the Eurasian continent. This strategy was described in 1997 by Polish-American political scientist, Zbigniew Brzeziński. The main goal of this dissertation is to challenge the West‟s argument that the Ukraine crisis is to be blamed almost entirely on Russian aggression. In this view, the overthrow of Ukraine‟s President merely provided a pretext for Putin‟s decision to order Russian forces to occupy and conquer Crimea. But according to many scholars and political scientists this account is wrong: the West and in particular the United States share most of the responsibility for the crisis. They gave well-publicized political support to the Opposition and backed the nationalist coup d‟état. Putin reacted solely after the ouster of Ukraine‟s democratically elected president. After a referendum requested Crimeans whether they wanted to join Russia or if they wanted to remain part of Ukraine, Putin responded by taking the peninsula, a territory that hosts the historic Black Sea Fleet of the Russian Navy, and where, for historical reasons, the majority of the population is ethnic Russian and Russian-speaking. Moreover, Putin has supported the pro-Russian rebels in the Donbass Region. This dissertation is divided into to parts. In the first part I examine the demise of the Soviet Union, underlying the main internal and external causes of that geopolitical event, and laying particular stress on Reagan‟s intransigent policies towards the Soviets. These policies comprise democracy promotion and support for extremist groups, and are important to be mentioned because they have inspired the policies of all the following U.S. Administrations. The fall of the USSR is important to understand the Ukraine crisis, because it gave birth to an artificial Country, created in the 1920‟s and

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lacerated by its internal contradictions. In the first part I also outline the history of Ukraine and Putin‟s foreign policies guidelines, another two useful elements that help to understand the 2014 crisis and Russia‟s reaction to the ousting of Yanukovich. In the second part of this dissertation I describe NATO and EU expansion eastward, and Europe‟s Eastern Partnership Policy. Then, I analyse the Ukraine crisis. The topics examined in this last chapter comprise: the main causes that triggered the protests in Kiev in November 2013; the most violent stage of the rebellion, caused by Ukrainian far-right paramilitary movements; the role of Western Governments and media during the Euromaydan demonstrations; the ousting of the President of Ukraine Viktor Yanukovich in February 2014; America‟s geostrategic goals in Ukraine; Putin‟s reaction in Crimea; the referendum on the status of Crimea, which has permitted the peninsula reunite with Russia; the beginning of the war in Donbass; the subsequent worsening of Russia-West relation; the economic and social situation in post-Maydan Ukraine. Research has been based on several articles, interviews, essays, reports, and books of some of the most illustrious geopolitical analysts and foreign affairs experts.

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INTRODUZIONE

Ucraina in lingua slava significa “al margine”, “sul confine”. Un nome che riflette un destino, quello di una “terra di mezzo” perennemente contesa fin dal XVII secolo tra l‟Occidente e la Russia. Il suo territorio, caratterizzato dalla quasi totale assenza di frontiere naturali, le attribuisce infatti la tipica morfologia della “terra di confine”, che nel corso della storia l‟ha resa vulnerabile, soggetta a più spartizioni e costretta a fare da cuscinetto tra diversi mondi geopolitici e culturali assai diversi tra loro e in conflitto.

Multietnica fin dal Medioevo (sebbene il ceppo dominante sia sempre stato quello slavo-orientale) l‟odierna Ucraina è un crogiuolo di genti, lingue, culture e religioni diverse, frutto di migrazioni, invasioni, conquiste e commerci. Questo miscuglio di identità rende estremamente difficile un processo di sintesi capace di far germogliare un senso di appartenenza comune e condiviso.

Il corso storico dell‟Ucraina, accumulatosi nei secoli e confluito nei suoi attuali confini – disegnati ed emendati in epoca sovietica per essere puramente amministrativi e battezzati internazionali dopo il crollo dell‟Unione Sovietica – ha portato ad una suddivisione interna del territorio in cui le due aree principali si differenziano tra di loro soprattutto per motivi di carattere culturale, religioso e linguistico, che si riflettono anche sul piano (geo)politico. La parte sud-orientale del Paese è russofona, di religione ortodossa, e profondamente legata (geo)politicamente al mondo russo. Tutt‟altra è invece l‟atmosfera che si respira nella parte occidentale, impregnata di retaggi polacchi e asburgici. La lingua dominante è l‟ucraino, la fede principale è quella greco-cattolica o uniate, e l‟orientamento (geo)politico prevalente è quello nazionalista e filo-occidentale. È questa secolare divisione interna che rende l‟Ucraina odierna una costruzione statuale fortemente incoerente e artificiale.

Il crollo del monolite sovietico, che per decenni aveva controllato l‟Eurasia dalla Germania dell‟Est all‟Oceano Pacifico è stato traumatico e non privo di conseguenze per l‟Ucraina: il travagliato corso post-sovietico del Paese ha condizionato inevitabilmente la storia dei suoi ultimi anni. L‟Ucraina è, fin dalla sua indipendenza, uno Stato dove vige la sola regola della corruzione, consumato dagli oligarchi e dilaniato dalle ingerenze esterne.

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I suoi 603.700 chilometri quadrati e i suoi 45 milioni di abitanti, attribuiscono all‟Ucraina un peso non indifferente sulla bilancia degli equilibri che stabiliscono le sfere d‟influenza delle principali potenze mondiali. Ne consegue che il territorio ucraino occupi una posizione strategica di primo piano sullo scacchiere internazionale e, in particolare, su quello eurasiatico, una delle aree geopolitiche di primaria importanza nell‟attuale sistema delle relazioni internazionali, dove si intersecano gli interessi delle principali potenze.

La crisi ucraina può essere letta da molti punti di vista. Secondo l‟establishment e i media occidentali tutto ciò che successe tra la fine del 2013 e i primi mesi del 2014 è da attribuire esclusivamente ai russi. Il canone maggiormente diffuso in Occidente è, quindi, che la Russia sia il solo e unico catalizzatore della crisi, avendo “invaso”, “occupato” e “annesso con la forza” la Crimea e avendo fomentato i ribelli separatisti della regione del Donbass.

Tuttavia, l‟idea che la crisi dipenda solamente da Mosca appare ampiamente infondata e trascura il profondo legame storico-culturale e affettivo che intercorre tra i Russi e gli abitanti dell‟Ucraina sud-orientale. Secondo molti analisti ed opinionisti, è dunque sbagliato imputare alla Russia tutte le colpe e, anzi, è proprio l‟Occidente ad avere le responsabilità più gravi. Fu infatti l‟impeachment anticostituzionale ai danni dell‟allora legittimo presidente ucraino Janukovyĉ, orchestrato da gruppi estremisti dichiaratamente ostili alla Russia nel febbraio 2014 con il benestare dei governi occidentali, che indussse Putin a riprendersi la Crimea, e a supportare i separatisti filo-russi del Donbass. quindi indubbio, secondo molti esperti, che l‟Occidente abbia delle pesantissime responsabilità in merito alla crisi ucraina.

Secondo questa visione, la crisi va interpretata alla luce della volontà degli Stati Uniti di esercitare la propria egemonia sul continente eurasiatico. Le proteste popolari scoppiate a Kiev nel novembre 2013 – a seguito della decisione di Janukovyĉ di non firmare l‟Accordo di Associazione con l‟Unione Europea per approfondire i legami con la Russia e l‟Unione Doganale Eurasiatica – e note come Evromajdan, non hanno fatto altro che fornire a Washington l‟input ideale per realizzare i propri obiettivi: limitare la potenza di Mosca, sottrarle l‟Ucraina – paese cuscinetto fondamentale per la sicurezza

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della Federazione – depotenziarne le esportazioni energentiche e assotigliarne le capacità di manovra militare. In una sola parola: isolamento.

Questo scenario ha trovato nell‟Ucraina un‟eccezionale cartina al tornasole, un punto strategico dotato di “linee di faglia”, proprio come l‟ex Jugoslavia, che gli americani hanno saputo sapientemente sfruttare per distogliere Kiev dall‟influenza della Russia, impedendo a quest'ultima di riorganizzarsi come una potenza eurasiatica. L‟Unione Eurasiatica ideata da Putin ha infatti lo scopo di riunificare economicamente e politicamente lo spazio post-sovietico. L‟Ucraina, con la sua posizione geografica, le sue risorse e il suo peso demografico, avrebbe costituito uno dei pilastri portanti di questo progetto. Gli Stati Uniti vogliono essere così il solo e unico punto di riferimento nell‟area eurasiatica, andando a sottrarre questo primato alla Russia, candidato naturale e storico “padrone di casa”. Per Mosca, infatti, l‟Eurasia non è soltanto mera geopolitica, ma è soprattutto identità, storia e cultura. E questo è un fattore fondamentale, da prendere in seria considerazione, ma gli americani, si sa, hanno scarsa sensibilità per la storia e la cultura dell‟Altro.

Gli USA, cavalcando l‟onda delle proteste e utilizzando la spinta nazionalistica come grimaldello per operare un cambio di regime ai danni di Janukovyĉ e scardinare l‟equilibrio (già abbastanza precario) dello Stato ucraino, hanno spezzato i secolari legami storici, culturali, energetici ed economici che legavano Kiev a Mosca. Così facendo hanno scelto di trasformare l‟Ucraina, ponte tra il mondo europeo e quello russo, nella linea di confine di una nuova “cortina di ferro”, che taglia in due l‟Eurasia.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti: l‟Ucraina è oggi un Paese impoverito, sull‟orlo del fallimento finanziario, diviso e dilaniato da una guerra civile nella regione del Donbass, che non troverà una soluzione pacifica nel breve periodo e, soprattutto, che contempli la condivisione di una stessa entità statale.

Il conflitto nel Donbass, oltre che una guerra civile, rappresenta anche uno scontro geopolitico tra due visioni opposte del mondo: quella globalista e quella sovranista. Gli abitanti del Donbass, in prevalenza russofoni e filo-russi, non hanno riconosciuto fin da subito la nuova giunta di Kiev, poiché essa rappresenta solo una parte degli ucraini e vuole imporre i propri orientamenti filo-occidentali a tutto il resto della popolazione. Essi rigettano dunque gli Stati Uniti, l‟Unione Europea e la NATO, e vogliono fare

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parte di uno spazio comune con la Russia, con la quale condividono profonde radici storiche, culturali e linguistiche. Per questa ragione hanno preferito ribellarsi e rivendicare la propria indipendenza piuttosto che abbracciare l‟Occidente globalista e atlantista. Purtroppo però, questa guerra non fa notizia nei media occidentali. Se qualcosa è trapelato, in modo vago e sottotraccia, è stato subito liquidato come lo scontro tra un governo democratico e i ribelli separatisti sobillati da Mosca.

La crisi ucraina si contraddistinse anche per un livello di disinformazione contro la Russia che non aveva conosciuto precedenti prima di allora. La copertura mediatica degli eventi ucraini, si caratterizzò infatti per una lunga serie di distorsioni e per un‟impostazione di fondo asimmetrica e a senso unico che vide applicare due pesi e due misure nel riportare i fatti ascrivibili alle parti in conflitto.

In generale, la maggioranza dei media racconta molto poco dal punto di vista della Russia; anzi, la maggior parte delle volte, le è contro. Non appena si parla di Russia o di Putin, la stampa occidentale diventa carente di obiettività e di onestà intellettuale. Per questo motivo, in un periodo in cui è in corso una violenta campagna mediatica di demonizzazione della Russia, con questo scritto intendo raccontare la crisi ucraina dal punto di vista russo, soprattutto esaminando i fatti alla luce della volontà degli Stati uniti di voler controllare il continente eurasiatico per evitare che la Russia emerga come potenza, il che spiega, secondo molti analisti, l‟espansione della NATO e dell‟Unione Europea verso est, il fenomeno delle “rivoluzioni colorate” e la politica europea del Partenariato Orientale, che rappresenta il contesto che scatenò la crisi nel 2013.

Per comprendere appieno la crisi ucraina è necessario, a mio avviso, prendere come punto di partenza il tracollo dell‟Unione Sovietica, un evento storico e geopolitico epocale che si verificò a causa del confluire di diversi fattori, dei quali quelli esterni non furono meno decisivi di quelli interni. Negli anni Ottanta, le intransigenti e controverse politiche di Reagan nei confronti dell‟URSS ebbero infatti un ruolo decisivo nell‟indebolirla, tanto quanto le riforme liberalizzanti di Gorbaĉёv.

Sempre nel primo capitolo descrivo la politica sovietica di ingegneria etno-territoriale che ha dato origine all‟Ucraina come la conosciamo oggi, un‟entità statale incoerente, problematica e dilaniata da secolari divisioni interne che, venuto a mancare

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il collante ideologico marxista, si sono palesate improvvisamente con l‟indipendenza del Paese e sono sfociate in una guerra civile.

Tuttavia, per capire questa polarizzazione interna allo Stato ucraino è importante conoscere la sua storia. A tal fine, dunque, nel secondo capitolo ripercorro a grandi linee la storia delle terre ucraine, da sempre contese tra l‟Occidente e la Russia. Dopo di che, descrivo anche il percorso politico dell‟ucraina post-sovietica, caratterizzato dall‟altalena dei rapporti tra l‟Occidente e la Russia, ma soprattutto dallo strapotere dei “clan” oligarchici.

Nel terzo capitolo, invece, illustro le tappe principali della storia politica ed economica della Russia post-sovietica, partendo dai tragici anni Novanta di El‟cin fino all‟avvento di Putin. Inoltre, espongo le linee guida della politica estera della Russia di Putin e le relative dinamiche geopolitiche. Ritengo che questo passaggio sia di fondamentale importanza al fine di capire le contromosse compiute da Mosca nel 2014 dopo il golpe ai danni di Janukovyĉ.

Nel quarto capitolo descrivo come i rapporti tra la Russia di Putin e il mondo occidentale siano andati via via peggiorando a partire dagli anni Duemila a causa dell‟espansione della NATO e dell‟Unione Europea verso est.

Nell‟ultimo capitolo, infine, analizzo nel dettaglio la crisi scoppiata in ucraina tra il 2013 e il 2014, mettendo in risalto il ruolo attivo dell‟Occidente durante le proteste, gli obiettivi americani, la risposta della Russia, la disinformazione dei media, la situazione economica e sociale dell‟Ucraina post-Majdan e il peggioramento dei rapporti russo-occidentali a seguito della crisi.

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P R I M A P A R T E

I L C O N T E S T O G E O P O L I T I C O D E L L A C R I S I

U C R A I N A : L O S P A Z I O P O S T - S O V I E T I C O

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La crisi ucraina, scoppiata a cavallo tra il 2013 e il 2014, non può essere compresa del tutto senza conoscere il contesto geopolitico in cui essa si colloca, ossia lo spazio post-sovietico. Ritengo dunque fondamentale, in primo luogo, prendere come punto di partenza, il crollo dell‟Unione Sovietica, che ha costituito uno dei più sconvolgenti mutamenti geopolitici a livello globale del Novecento.

L‟Ucraina occupa all‟interno dello spazio post-sovietico un posto del tutto peculiare. Tuttavia, per comprendere le particolarità dello Stato Ucraino è, a mio avviso importante conoscere la sua storia. Per questo motivo, nel secondo capitolo ripercorro a grandi linee i principali eventi storici che hanno portato alla nascita dello stato ucraino con confini attuali. Successivamente, descrivo le sue vicende politiche e sociali dell‟epoca post-sovietica, fondamentali per comprendere appieno la crisi del 2013-2014.

Ritengo altresì doveroso, al fine di capire la crisi ucraina, delineare le linee guida della politica estera di Putin e le relative dinamiche geopolitiche. A tal fine, dunque, nel terzo capitolo illustro le tappe principali della storia politica ed economica della Russia post-sovietica, partendo dai tragici anni Novanta di El‟cin fino all‟avvento di Putin, da molti considerato l‟uomo della rinascita della Russia sotto ogni punto di vista: economico, politico, sociale, spirituale e strategico. Con Putin la Russia è potuta infatti ritornare ad essere sovrana ed indipendente, sempre più assertiva e sicura di sé. Non è di certo la Russia che si aspettavano gli americani dopo la fine della Guerra Fredda: una Russia debole, sottomessa e che rinunciasse alle sue pretese di disporre di una propria sfera d‟influenza nello spazio post-sovietico.

Secondo molti analisti, proprio questo riemergere improvviso della Russia sulla scena globale e la sua assertività stanno alla base della politica occidentale di contenimento della Russia, iniziata alla fine degli anni Novanta con l‟espansione della NATO e dell‟Unione Europea verso est, proseguita con le “rivoluzioni colorate” in alcuni Stati post-sovietici e culminata con la crisi ucraina del 2013-2014. Quest‟aggressivo comportamento dell‟Occidente rientra, agli occhi di molti esperti, in una precisa strategia di isolamento della Russia, dettata dall‟esigenza degli Stati Uniti di evitare che si sviluppino potenze egemoni in Eurasia.

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CAPITOLO 1

La fine dell’URSS

Sono passati quasi trent‟anni dalla dissoluzione dell‟Unione Sovietica, eppure risulta tuttora assai complicato analizzare a fondo le cause che scatenarono quest‟evento storico e geopolitico epocale, inevitabile ma allo stesso tempo sorprendente, per la rapidità e per il carattere straordinariamente pacifico con cui si è svolto. La disgregazione dell‟URSS, come molti altri processi storici, appare come il concorso di più cause, come la conseguenza di un groviglio estremamente intricato di fattori eterogenei. In altre parole, come il risultato del confluire di svariati vettori, sia interni che esterni.

1.1 Le cause interne

Beth A. Fischer, Professoressa dell‟Università di Toronto, segnala l‟esistenza di diverse scuole di pensiero circa la fine della Guerra Fredda e il tracollo dell‟Unione Sovietica1. In particolare, uno di questi filoni di pensiero sostiene che l‟unico artefice della caduta dell‟URSS sia stato Michajl Gorbaĉёv, Segretario Generale del partito Comunista dell‟Unione Sovietica (PCUS) dal 1985 al 1991. Egli tentò infatti di riformare il sistema economico e politico del Paese, adottando provvedimenti liberalizzanti che, al contrario di quanto sperato, produssero una serie di effetti devastanti a livello economico, politico e sociale.

L‟obiettivo principale di Gorbaĉёv era la perestrojka, una “ricostruzione” dell‟ordinamento sovietico. Per esser più precisi, si trattava di una serie di riforme finalizzate alla riorganizzazione dell‟economia e della struttura politica e sociale del Paese. Alla perestrojka si aggiunse la promozione dell‟idea di glasnost‟, spesso tradotta come “trasparenza”2

, che indicava l‟attitudine a discutere liberamente, “in modo trasparente” e critico tutti i problemi del Paese. Con la glasnost‟ Gorbaĉёv fece si che le

1 B.A. FISCHER, US foreign policy under Reagan and Bush, in M.P. LEFFLER, O.A. WESTAD (a cura di),

The Cambridge History of the Cold War, III, Cambridge University Press, Cambridge 2010, pp.

267-288.

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questioni importanti fossero inserite nel dibattito pubblico e non solamente nelle discussioni a porte chiuse tra i dirigenti del partito3. Successivamente, il termine

glasnost‟ fu impiegato anche per indicare tutte quelle politiche volte ad attuare una più

ampia e più limpida circolazione dell‟informazione.

Nel loro complesso, le riforme gorbaĉёviane si rivelarono un vero e proprio fallimento, anche perché, nel 1985, quando Gorbaĉёv divenne Segretario del PCUS, l‟economia del Paese non era affatto sull‟orlo del collasso4, sebbene la produttività industriale fosse già in una fase declinante5. Perciò, uno dei fenomeni che più colpisce nell‟operato riformatore di Gorbaĉёv è la trascuratezza nel considerare gli effetti collaterali dei provvedimenti presi, che causarono danni irreparabili al sistema economico e politico sovietico, e che non fecero altro che peggiorare la qualità della vita dei cittadini6.

Le prime riforme economiche di Gorbaĉёv rimossero molti dei meccanismi economici dell‟epoca sovietica senza però sostituirli adeguatamente7. Infatti, una serie di provvedimenti gorbaĉёviani spalancarono le porte della struttura economica ad imprese non governative, le cosiddette cooperative8, di fatto piccole aziende private, che potevano esercitare ogni tipo di attività economica. Esse potevano, tra le altre cose, fissare i prezzi e vendere. Di conseguenza, esse acquistavano beni dalle aziende statali a prezzi fissati dallo Stato e, successivamente, li rivendevano a prezzi più elevati9. In tal modo crebbe di molto l‟iniziativa privata, causando, però, molte rimostranze da parte della popolazione per gli arricchimenti troppo rapidi dei membri di tali strutture economiche. Si andava così decostruendo in modo completamente disordinato la struttura dell‟offerta produttiva sovietica, alla quale si affiancava una nuova struttura

3 Ibidem.

4 G.P. CASELLI, La Russia nuova. Economia e storia da Gorbačёv a Putin, Mimesis, Milano-Udine,

2013, p. 15.

5 G.A. GUIDI, La democrazia capovolta. Rivoluzioni colorate e conflitti nell’Europa dell’Est, Maltemi,

Milano 2018, p. 82.

6 G.P. CASELLI, La Russia nuova. Economia e storia da Gorbačёv a Putin, cit., p. 17. 7 P. BUSHKOVICH, Breve storia della Russia. Dalle origini a Putin, cit., p. 519. 8 Ibidem, p. 518.

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produttiva privata che, tuttavia, non era affatto il frutto di iniziative imprenditoriali genuine10.

Sul piano politico, le riforme gorbaĉёviane causarono un serio indebolimento del potere centrale che provocò la perdita di controllo sulle periferie. Ciò, insieme alla crisi economica, favorì il sorgere del problema più insidioso che l‟Unione Sovietica si trovò ad affrontare: la questione delle nazionalità e l‟ascesa dei movimenti nazionalisti e separatisti in molte repubbliche dell‟Unione11.

Il risveglio della coscienza nazionale all‟interno di alcune repubbliche che componevano l‟URSS non era di certo un fenomeno nuovo. Più volte in passato si erano verificate tensioni e manifestazioni d‟insofferenza nazionalistica, anche se, fin dal 1917, il potere centrale le aveva sempre represse con fermezza12. Gorbaĉёv, al contrario, sottovalutò ampiamente la forza d‟urto dei movimenti di emancipazione nazionali13 e la repressione fu quindi allentata. Il Segretario generale si mostrava, infatti, incerto e titubante nel ricorrere alla forza14. A peggiorare le cose, il fenomeno della glasnost‟ fece si che per la prima volta i media sovietici diffondessero le notizie degli scontri etnici che stavano avvenendo all‟interno dell‟Unione15. In questo modo, la glasnost‟, accompagnata dall‟inefficacia e dall‟insuccesso delle riforme economiche, non fece altro che provocare ulteriori radicalizzazioni dei conflitti nazionali da tempo latenti sotto la superficie, che esplosero definitivamente nel 198816. Gorbaĉёv inquadrò quindi il problema nazionale in una più ampia necessità di promuovere ulteriormente l‟attivismo dei cittadini e un loro più incisivo coinvolgimento nella vita politica del Paese17.

Gorbaĉёv con le riforme della perestrojka voleva rendere efficiente il sistema sovietico e modernizzarlo ma, senza rendersene conto, disarticolò interi settori dell‟economia sovietica. Verso la fine degli anni Ottanta, un vero e proprio mercato non

10 Ibidem, p. 22.

11 A. GIANNOTTI, Fra Europa e Asia. La politica russa nello spazio post-sovietico, G. Giappichelli

Editore, Torino 2016, p. 7.

12 Ibidem, p. 8.

13 A. KAPPELER, La Russia. Storia di un impero multietnico, Edizioni Lavoro, Roma 2006, p. 352. 14 A. GIANNOTTI, Fra Europa e Asia. La politica russa nello spazio post-sovietico, cit., p. 8. 15 Ibidem.

16 A. KAPPELER, La Russia. Storia di un impero multietnico, cit., p. 352.

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esisteva ancora e la fornitura di beni di consumo precipitò in modo catastrofico18. Come se non bastasse, il potere centrale si indebolì, con conseguente perdita di controllo delle variabili macroeconomiche aggregate, dell‟offerta di moneta e del deficit di bilancio, innescando un grave processo inflazionistico. Di conseguenza, la qualità dei servizi erogati peggiorò gravemente, così come il tenore di vita dei cittadini19. Inoltre, con l‟intento di favorire la libertà di espressione, la glasnost‟ generò una situazione di anarchia, in quanto, attraverso un più incisivo coinvolgimento dei cittadini e la loro diretta partecipazione nella vita politica e istituzionale del Paese, le ambizioni nazionali e antisovietiche furono, di fatto, legittimate e messe nella condizione di incidere direttamente sulla conduzione dell‟Unione come mai prima di allora20. In poche parole, con la perestrojka e la glasnost‟ Gorbaĉёv intendeva riformare l‟apparato economico e politico dell‟Unione ma provocò solamente una spaventosa crisi economica e, allo stesso tempo, numerosi conflitti transnazionali.

Quando Gorbaĉёv fu eletto Presidente dell‟URSS il 15 marzo 1990, pensò di potersi dedicare alla fondazione di un nuovo stato federale riformato ma salvaguardato per quanto riguarda i confini, l‟autorità e il ruolo internazionale. Si trattava in pratica di conservare l‟Unione Sovietica come una federazione di repubbliche sovrane e autonome ma fortemente centralizzata e, soprattutto, senza prevedere alcun diritto di secessione, garantendo tuttavia il rispetto dei diritti e delle libertà delle varie nazionalità21.

Questo progetto di rifondazione dello Stato prese il via il 23 aprile 1991 con il cosiddetto “processo di Novo-Ogarёvo”, una serie di trattative tra Gorbaĉёv e i presidenti delle varie repubbliche (esclusi i Paesi Baltici, la Georgia, l‟Armenia e la Moldavia). La strada verso una nuova Unione federale fu però ostacolata da un colpo di stato avvenuto due giorni prima della firma del Trattato di Novo-Ogarёvo che sarebbe dovuta avvenire il 20 agosto.

Il 18 agosto, Gorbaĉёv, mentre si trovava in Crimea per trascorrere un breve periodo di riposo, fu vittima di un golpe organizzato dai suoi più stretti collaboratori e fu trattenuto prigioniero nella sua dacia. Il potere fu assunto dal Comitato Statale per lo

18 P. BUSHKOVICH, Breve storia della Russia.Dalle origini a Putin, cit., p. 519. 19 G.P. CASELLI, La Russia nuova. Economia e storia da Gorbačёv a Putin, cit., p. 19.

20 A. GIANNOTTI, Fra Europa e Asia. La politica russa nello spazio post-sovietico, cit., pp. 12-14. 21 Ibidem, p. 21.

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stato d‟emergenza, composto da funzionari di alto rango, i quali erano intenzionati ad invertire l‟intero processo riformista. Tuttavia, dopo alcuni giorni di confronto dovettero arrendersi. Il fallito putsch ai danni di Gorbaĉёv fece comunque saltare la firma del Trattato di Novo-Ogarёvo e di conseguenza accelerò la fine dell‟Unione Sovietica. Si può quindi affermare che il processo riformatore gorbaĉёviano favorì coloro che ambivano più alla distruzione dell‟Unione Sovietica che alla sua ristrutturazione22.

Tra questi ebbe un ruolo cruciale Boris El‟cin, presidente del Soviet Supremo della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa23. Egli il 6 novembre 1991, decretò lo scioglimento del PCUS, la confisca dei suoi beni e il divieto della sua ricostituzione24. Ad un mese di distanza, l‟8 dicembre, lo stesso El‟cin si incontrò segretamente nella foresta di Beloveţ, in Bielorussia, con i suoi omologhi ucraino Leonid Kravĉuk, e bielorusso Stanislaŭ Šuškeviĉ, per smantellare l‟Unione Sovietica. Ciò avvenne senza una preventiva consultazione con i vertici istituzionali sovietici. Gorbaĉёv, il legittimo presidente dell‟URSS, non venne neppure informato dell‟incontro. Inoltre, nell‟assumere le decisioni di Beloveţ, El‟cin, Šuškeviĉ e Kravĉuk ignorarono del tutto i loro omologhi centroasiatici. Non a caso, il più convinto sostenitore del mantenimento dell‟URSS come un‟unione politica con confini, territorio e forze armate comuni era il presidente kazakho Nursultan Nazarbaev25. Oltretutto, i presidenti delle tre repubbliche slave, agirono in assenza di un qualsiasi mandato popolare, dato che la maggioranza dei cittadini sovietici, interpellati nel marzo del 1991, si era espressa a favore della conservazione dell‟URSS come una federazione rinnovata di Stati riformati in senso socialdemocratico26.

La consultazione popolare per far esprimere direttamente la volontà dei cittadini sul mantenimento dell‟Unione si tenne il 17 marzo in nove repubbliche, mentre fu boicottata dai Paesi Baltici, dall‟Armenia, dalla Moldavia e dalla Georgia27. La media dell‟Unione mostrava un incoraggiante 76,43% di risposte affermative. Inoltre, in

22 Ibidem, p. 14. 23 Ibidem, p. 18.

24 G. GABELLINI, Ucraina: Una guerra per procura, Arianna Editrice, Bologna 2016, formato Kindle. 25 A. GIANNOTTI, Fra Europa e Asia. La politica russa nello spazio post-sovietico, cit., p. 26.

26 P. BORGOGNONE, Capire la Russia. Correnti politiche e dinamiche sociali nella Russia e nell’Ucraina

postsovietiche, Zambon, Milano 2016, p. 23.

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Russia, in Bielorussia e in Ucraina prevalsero i SI con rispettivamente il 71,3%, l‟82,7% e il 70,2%28. I tre leader slavi erano dunque ben coscienti di andare contro il sentimento popolare maggioritario.

Il breve incontro di Beloveţ tra El‟cin, Kravĉuk e Šuškeviĉ sancì l‟epilogo dell‟Unione Sovietica, smantellata dalle stesse tre repubbliche slave che l‟avevano fondata nel 1922, per essere rimpiazzata da quindici Stati separati, sovrani e indipendenti, undici dei quali (tutti ad eccezione della Georgia e dei Paesi Baltici) sarebbero confluiti il 21 dicembre nella Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), un‟organizzazione non statuale, bensì intergovernativa ed interparlamentare. Il 25 dicembre 1991, Gorbaĉёv, il primo e unico Presidente dell‟URSS pronunciò il suo ultimo discorso al popolo sovietico e rassegnò le proprie dimissioni. Fu così che, in poco più di due settimane cessò di esistere l‟Unione Sovietica, il primo Stato socialista della storia.

1.2 Le cause esterne

Come ho già affermato in precedenza, la fine dell‟URSS fu il prodotto del confluire di svariati vettori. Certamente, le cause interne giocarono un ruolo cruciale nella caduta dell‟Unione. Tuttavia, i fattori esogeni non furono meno decisivi di quelli endogeni. La demolizione del gigante sovietico fu possibile solamente tramite l‟intervento di potenti forze esterne.

Un altro filone di pensiero menzionato dalla Professoressa Fischer29 sostiene infatti che sino stati gli Stati Uniti a vincere la Guerra Fredda, sconfiggendo l‟Unione Sovietica, il loro nemico principale. In questo senso, negli anni Ottanta, il Presidente Ronald Reagan, il quale era ben consapevole che in quel periodo l‟URSS fosse entrata in una fase di declino, adottò una serie di politiche intransigenti che spinsero ulteriormente l‟ex impero comunista verso il collasso.

Reagan giunse alla presidenza degli Stati Uniti senza avere alle spalle alcuna esperienza in politica estera ma portò con sé una profonda ostilità nei confronti del

28 Si veda: Soobščenie Central’noj komissii referenduma SSSR. Ob itogach referenduma SSSR,

sostojavšegocja 17 marta 1991 goda, http://www.gorby.ru/userfiles/file/referendum_rezultat.pdf.

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comunismo30, dimostrandosi il più connotato ideologicamente tra tutti i presidenti americani. Non è un caso che durante i suoi due mandati consecutivi (1981-1989), l‟anticomunismo sia stato il tema dominante della politica estera statunitense.

Com‟è stato detto, l‟Amministrazione Reagan adottò nei confronti dell‟URSS delle politiche aggressive, tra le quali: un potenziamento senza precedenti dell‟apparato militare statunitense, il supporto ai mujāhidīn afghani e, infine, l‟appoggio al movimento sindacale polacco Solidarność. È proprio sul sostegno ai mujāhidīn e a Solidarność che mi soffermo maggiormente nel descrivere le cause esterne che portarono alla caduta dell‟URSS. Ritengo, infatti, che la politica statunitense volta a fornire supporto diretto o indiretto a gruppi estremisti, come nel caso dei mujāhidīn, o a movimenti di protesta pacifici come Solidarność, sia diventata una prassi assai comune nella politica estera statunitense.

Per quanto riguarda il potenziamento delle forze armate, Reagan, nella convinzione che gli Stati Uniti fossero indietro rispetto all‟Unione Sovietica nella corsa agli armamenti – un fatto alquanto discutibile –, intraprese un massiccio rafforzamento militare, il più imponente nella storia degli USA: la spesa per la difesa aumentò del 40 per cento nei primi tre anni del suo primo mandato31. Nel frattempo, per far fronte allo spiegamento dei missili nucleari sovietici SS-20 in Europa orientale, Reagan fece installare nel Regno Unito e nella Repubblica Federale Tedesca missili Cruise capaci di raggiungere l‟URSS.

La politica di potenziamento militare, attuata dall‟amministrazione Reagan, si rivelò vincente: i sovietici non riuscirono a reggere il confronto con l‟Occidente e a tenere il passo con la corsa agli armamenti statunitense, né a colmare il gap tecnologico che li divideva dagli USA, ritrovandosi in una condizione di schiacciante inferiorità. Gorbaĉёv si trovò, dunque, costretto ad adottare un approccio più conciliatorio nei confronti di Washington32.

30 M.A. JONES, Storia degli Stati Uniti d’America. Dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri, Bompiani,

Milano 2009, p. 545.

31 Ibidem.

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1.2.1 I mujāhidīn e la trappola afghana

Anche Reagan comprese l‟importanza di dialogare con il leader sovietico33. Tuttavia, mentre la sua amministrazione cercava di migliorare le relazioni bilaterali con Mosca, la politica americana di confronto con l‟URSS si protrasse fino alla fine degli anni Ottanta in Afghanistan34. Reagan portò avanti infatti la politica di sostegno militare e finanziario ai mujāhidīn afghani che combattevano contro i Sovietici, avviata dall‟amministrazione Carter nel 1979 e denominata Operation Cyclone.

Il termine arabo mujāhidīn (plurale di mujāhid) designa i guerrieri di fede musulmana radicale che combattono il jihād, ovvero “la guerra santa”35. In Afghanistan i mujāhidīn combattevano la loro guerra santa contro il governo laico e progressista di Kabul appoggiato dall‟URSS.

Inizialmente, i mujāhidīn erano addestrati e finanziati dall‟intelligence pakistana. Successivamente, i guerriglieri vennero supportati anche dalla Repubblica Popolare Cinese e dall‟Iran. Ma il contributo maggiore fu concesso dagli Stati Uniti (circa 3,2 miliardi di dollari36), dal Regno Unito di Margaret Tatcher, e dal loro più fedele alleato mediorientale37: la monarchia wahhabita38 dell‟Arabia Saudita.

Una delle menti dell‟Operazione Cyclone fu Zbignew Brzeziński, politologo statunitense di origini polacche e consigliere per la sicurezza nazionale durante la presidenza di James Carter dal 1977 al 1981. Brzeziński, durante un‟intervista rilasciata nel 1998 alla rivista francese Le Nouvel Observateur, ammise che lui stesso giocò un ruolo cruciale nel pianificare la “trappola afghana” dove i sovietici si trovarono invischiati per un decennio prima del loro ritiro. Egli disse:

33 M.A. JONES, Storia degli Stati Uniti d’America. Dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri, cit., p.

546.

34 B.A. FISCHER, US foreign policy under Reagan and Bush, cit., pp. 286. 35 Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/mujahidin_(Dizionario-di-Storia)/ 36 B.A. FISCHER, US foreign policy under Reagan and Bush, cit., pp. 286.

37 B.R. RUBIN, The Fragmentation of Afghanistan: State Formation and Collapse in the International

System, Yale University Press, New Haven 2002, p. 297.

38 Sul wahhabismo si veda: C. MUTTI, “L’islamismo contro l’Islam”, Eurasia, 12/02/2013,

https://www.eurasia-rivista.com/lislamismo-contro-lislam-4/; C.E.B. CHOSKY, “Il wahhaabismo è

diventato un boomerang”, Limes, 04/04/2017,

http://www.limesonline.com/cartaceo/il-wahhabismo-e-diventato-un-boomerang; http://www.treccani.it/vocabolario/wahhabismo/; http://www.treccani.it/enciclopedia/wahhabismo_(Dizionario-di-Storia)/

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(...) fu nel luglio del 1979 che il Presidente Carter decretò l‟ordine di prestare supporto clandestino agli oppositori del regime filo-sovietico di Kabul. Quello stesso giorno scrissi al Presidente che, a mio avviso, quest‟assistenza avrebbe provocato un intervento militare da parte dei sovietici (...) Noi [americani] non abbiamo spinto i russi ad intervenire, ma abbiamo consapevolmente incrementato la probabilità che lo facessero39.

Dunque, la CIA aiutava i mujāhidīn già dalla metà del 1979, molti mesi prima che i sovietici giungessero in Afghanistan, nella speranza che questi si sarebbero sentiti obbligati ad intervenire40. E in effetti, fu proprio così: l‟Armata Rossa fece il suo ingresso in Afghanistan il 24 dicembre 1979, una mossa che si sarebbe rivelata fatale. Ritengo a questo punto doveroso fare un breve passo indietro nella storia ed esaminare dettagliatamente le cause che spinsero l‟Unione Sovietica ad intervenire.

Il 17 luglio 1973, il Re afghano Mohammed Zahir Shah fu deposto da un colpo di stato non violento mentre si trovava all‟estero. Al posto della monarchia venne istituita una repubblica governata dal cugino dell‟ormai ex sovrano, Mohammed Daoud Khan. Quest‟ultimo fu assassinato il 28 aprile 1978 a seguito di una rivoluzione organizzata da un gruppo di ufficiali dell‟esercito tra i quali spiccavano Nur Mohammad Taraki, Hafizullah Amin e Babrak Karmal. La rivolta portò al potere il Partito Democratico Popolare dell‟Afghanistan (PDPA) e alla nascita di uno Stato secolare di ispirazione socialista.

La neonata Repubblica Democratica dell‟Afghanistan con a capo Taraki, adottò una serie di politiche laiche ed eliminò numerose usanze islamiche, ritenute estreme ed oppressive: i diritti feudali vennero aboliti, le donne acquisirono l‟uguaglianza dei diritti, e i matrimoni tra bambini furono vietati41. Taraki si trovò, così, a fare i conti con il malcontento delle frange più intransigenti della popolazione afghana di fede

39 Intervista consultabile in lingua francese in

https://arretsurinfo.ch/oui-la-cia-est-entree-en-afghanistan-avant-les-russes/, 10/04/2018, oppure in lingua inglese in D.N. GIBBS, “Afghanistan:

The Soviet Invasion in Retrospect”, International Politics 37, No. 2, June 2000, pp. 241-242,

http://dgibbs.faculty.arizona.edu/sites/dgibbs.faculty.arizona.edu/files/afghan-ip_0.pdf.

40 P. BUSHKOVICH, Breve storia della Russia. Dalle origini a Putin, cit., p. 515.

41 M. COLLON, Effetto boomerang. Riflessioni su guerra, terrorismo, islam e libertà di espressione,

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musulmana, oltre che con gli Stati Uniti, irritati dal fatto che l‟Afghanistan fosse entrato a far parte della sfera d‟influenza sovietica42.

Nel marzo 1979, nella città di Herat scoppiò una ribellione contro il governo di Kabul. Taraki chiese all‟URSS di accorrere in suo aiuto contro gli insorti43. Inizialmente, la dirigenza sovietica era favorevole ad un intervento rapido, poiché prendeva molto seriamente i nuovi governanti afghani, ritenendoli dei comunisti convinti che miravano a sviluppare una società improntata sul modello sovietico. Inoltre, ogni sfida al loro potere era vista come una rivolta sponsorizzata dagli USA in chiave anti-comunista44. Una convinzione questa che si rivelò essere assolutamente corretta, dato che gli americani, in concerto con i sauditi i britannici e i pakistani, fornivano ai mujāhidīn armamenti, addestramento e finanziamenti. All‟epoca, però, il Cremlino era più propenso alla diplomazia e, per il momento, si trattenne dall‟intervenire militarmente, anche perché Breţnev era interessato ad organizzare un summit con Carter45.

Tuttavia, il colpo di stato del 14 settembre ai danni di Taraki e la sua conseguente uccisione avvenuta l‟8 ottobre ad opera del suo rivale di partito, Amin, fecero pendere la bilancia a favore dell‟intervento militare46. I sovietici, infatti, erano da tempo diffidenti, se non addirittura totalmente ostili, nei confronti di Amin, il quale era visto come una persona sconsiderata ed impulsiva. I leader sovietici sospettavano perfino che egli avesse delle connessioni con i servizi segreti americani47. In effetti, va sottolineato che una volta salito al potere Amin cercò di entrare nelle grazie degli Stati Uniti nel disperato tentativo di ampliare il proprio supporto internazionale. Egli accennò perfino a un possibile cambio di rotta della politica estera afghana. Per questa ragione, i sovietici divennero sempre più preoccupati che Amin potesse adottare un atteggiamento sempre più filo-americano e anti-sovietico48.

42 Ibidem, p. 48.

43 V.M. ZUBOK, Soviet foreign policy from détente to Gorbachev, 1975–1985, in M.P. LEFFLER, O.A.

WESTAD (a cura di), The Cambridge History of the Cold War, III, Cambridge University Press, Cambridge 2010, pp. 89-111.

44 P. BUSHKOVICH, Breve storia della Russia. Dalle origini a Putin, cit., p. 515.

45 V.M. ZUBOK, Soviet foreign policy from détente to Gorbachev, cit., p. 103. 46 Ibidem.

47 D.N. GIBBS, “Afghanistan: The Soviet Invasion in Retrospect”, cit., p.235.

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Fu dunque il timore di perdere la propria sfera d‟influenza in Afghanistan una delle cause che determinò l‟intervento sovietico, oltre alla preoccupazione maggiore che gli americani potessero schierare nel paese mediorientale dei missili da crociera a breve gittata rivolti verso l‟Unione Sovietica49. Il territorio afghano confinava infatti direttamente con la parte meridionale dell‟URSS e perciò assunse una forte valenza strategica, sia per i sovietici che per gli americani50. In aggiunta, la pressante guerriglia dei mujāhidīn, si rivelò un estenuante elemento di disturbo per l‟esercito afghano a tal punto da indurre il presidente Amin a rivolgersi all‟URSS per ottenere supporto militare. Detto ciò, l‟intervento sovietico in Afghanistan non può essere considerato un‟invasione, come comunemente accade, dato che fu richiesto esplicitamente dal Governo afghano51, in linea con il principio del diritto internazionale che afferma che «gli Stati sono liberi di aiutare le autorità dello Stato in cui ha luogo l‟insurrezione, se queste ultime lo richiedono»52. I sovietici decisero quindi di incrementare l‟appoggio militare pur di mantenere al potere il governo comunista, ma smisero di considerare Amin un leader soddisfacente per i loro obiettivi. Fu così chenel corso della prima metà del dicembre del 1979 un certo numero di truppe sovietiche iniziò ad affluire in Afghanistan per accogliere le richieste d‟aiuto di Amin. Tuttavia, fu il 24 dicembre 1979 che prese il via l‟operazione militare vera e propria, denominata Štorm-333. Il 27 dicembre, i sovietici assaltarono il palazzo presidenziale e uccisero Amin e al suo posto misero Taraki, instaurando un governo di più provata fedeltà53.

La decisione del 1986 dell‟amministrazione Reagan di equipaggiare i mujāhidīn con i missili terra-aria Stinger è spesso considerata come il fattore decisivo che smorzò gli sforzi sovietici nel contrastare i guerriglieri islamici e che indusse alla loro ritirata54. Come se non bastasse, alla missione in Afghanistan parteciparono migliaia di soldati sovietici di fede musulmana provenienti dalle repubbliche islamiche dell‟URSS, i quali,

49 V.M. ZUBOK, Soviet foreign policy from détente to Gorbachev, cit., p. 103.

50 A.G. DUGIN, Last War of the World-Island: The Geopolitics of Contemporary Russia, Arktos Media

Ltd 2015, formato Kindle.

51 “L’espansionismo dell’Impero Russo”, Eurasia, 20/03/2013,

https://www.eurasia-rivista.com/lespansionismo-dellimpero-russo/.

52 A. CASSESE, Diritto Internazionale, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 73.

53 P. BUSHKOVICH, Breve storia della Russia. Dalle origini a Putin, cit., p. 515.

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una volta impegnati nella lotta contro i mujāhidīn, aderirono alla loro causa, indebolendo in questo modo la missione sovietica55.

La guerra in Afghanistan rappresentò un momento cruciale della Guerra Fredda in quanto accelerò il collasso dell‟intero ordinamento sovietico. Per dieci anni, infatti, Mosca portò avanti una lotta che era insostenibile per le tasche dello Stato, oltre a costituire un enorme sforzo per il morale sia delle truppe impegnate nel conflitto che di tutto popolo sovietico. Senza dubbio, la politica degli Stati Uniti di supporto bellico e finanziario ai mujāhidīn contribuì non di poco al ritiro delle truppe dell‟Armata Rossa dall‟Afghanistan e, più in generale, al crollo dell‟Unione Sovietica, ma ebbe una conseguenza di gran lunga più nefasta e catastrofica, non solo per l‟Afghanistan, ma per l‟intero Medio Oriente e, infine, per tutto il mondo: essa gettò le basi per l‟avvento del terrorismo islamico moderno56. Infatti, al-Qa‟ida, la nota organizzazione terroristica e paramilitare, fondata da Osāma bin Lāden, affonda le radici proprio nel conflitto afghano.

Brzeziński, l‟artefice dell‟Operation Cyclone, non sembrava affatto preoccuparsi di questa conseguenza, anzi, era perfino compiaciuto quando, durante la già citata intervista a Le Nouvel Observteur, rispose così alla domanda se si fosse pentito o meno di di aver fornito armi e consigli ai terroristi afghani e di aver favorito, in questo modo, alla nascita del fondamentalismo islamico:

Pentito per cosa? Quell‟operazione fu un‟idea eccellente. Ebbe l‟effetto di attirare i russi nella trappola afghana e Lei vuole che io ne sia dispiaciuto? (...) Cos‟è storicamente più importane per il mondo? I talebani o la caduta dell‟Impero sovietico? Una manciata di teste calde islamiste o la liberazione dell‟Europa centrale e la fine della Guerra Fredda?57

55 S. GIUSTI, “Da potenza regionale a globale? Il ruolo ascendente della Russia” Atlante Geopolitico

Treccani, 2016, http://www.treccani.it/enciclopedia/da-potenza-regionale-a-globale-il-ruolo-ascendente-della-russia_%28altro%29/.

56 P. BUSHKOVICH, Breve storia della Russia. Dalle origini a Putin, cit., p. 515.

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I mujāhidīn, le cui gesta sono celebrate nel celebre film del 1988, “Rambo III”, e i quali vennero persino ospitati da Reagan alla Casa Bianca58, venivano all‟epoca definiti dai politici e dai media occidentali Freedom Fighters (“combattenti per la libertà”) contro gli “invasori” sovietici. Ma si tratta di una bizzarra concezione di libertà: dopo la ritirata dall‟Afghanistan da parte dell‟Armata Rossa nel 1989, il Paese precipitò infatti in una violenta ed estenuante guerra civile alla cui fine emerse come vincitrice la componente più radicale ed estrema dei guerriglieri islamisti, quella dei talebani59. Questi instaurarono un regime retrogrado e crudele, una vera e propria teocrazia basata sulla sharīʿa, la legge islamica.

Il conflitto afghano contribuì inoltre alla “globalizzazione” del jihād producendo una generazione di mujāhidīn veterani, determinati a combattere in svariati teatri di guerra che si stavano profilando in quel periodo, in particolar modo in Bosnia60 e, come spiegherò più avanti, in Cecenia e in Kosovo, con il placido benestare degli Stati Uniti. Infatti, poiché l‟arma del fondamentalismo islamico si rivelò vincente nel determinare l‟abbandono dell‟Afghanistan da parte dei sovietici e la fine dell‟URSS, gli Stati Uniti, da quel momento in poi, non si sarebbero fatti scrupoli ad usarla ulteriormente per perseguire i loro scopi geopolitici e non vi rinunciano tuttora61, applicando il principio enunciato da James A. Barker III, Segretario di Stato ai tempi di George H. W. Bush. Nel 1994, riferendosi al fondamentalismo islamico, egli dichiarò: «[Noi americani] dobbiamo opporci ad esso solo nella misura in cui i nostri interessi nazionali lo richiedano»62.

58 G. INGERSOLL, “That Time Ronald Reagan Hosted Those ‘Freedom Fighters’ At The Oval Office”,

Business Insider, 10/02/2013, http://www.businessinsider.com/reagan-freedom-fighters-taliban-foreign-policy-2013-2?IR=T.

59 Sui talebani si veda: http://www.treccani.it/enciclopedia/talebani/

60 Sul supporto statunitene ai musulmani bosniaci negli anni Novanta segnalo l’approfondito studio

del docente di strategia presso l’U.S. Naval War College ed ex ufficiale della National Security Agency, J.R. SCHINDLER, Guerra in Bosnia 1992-1995. Jihad nei Balcani, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2012.

61 Sul supporto americano ai jihadisti in vari conflitti segnalo l’interessante studio del giornalista

investigativo belga M. COLLON, Effetto Boomerang. Riflessioni su guerra, terrorismo, islam e libertà

di espressione, Zambon, Milano 2017.

62 D. PIPES, “Interview with James A. Baker III: Looking Back on the Middle East”, Middle East

Forum, September 1994, http://www.danielpipes.org/6304/looking-back-on-the-middle-east-james-a-baker.

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1.2.2 Il Democracy Program, la NED e Solidarność

Negli anni Ottanta l‟Unione Sovietica non si trovava in difficoltà solamente nel cosiddetto “pantano afghano”, che la intrappolò per un decennio in una lunga ed estenuante guerra contro i mujāhidīn alimentati dagli Stati Uniti, ma anche in Polonia a causa delle proteste di massa scatenate dal movimento sindacale Solidarność, anch‟esso supportato e finanziato dall‟Amministrazione Reagan nell‟ambito della lotta contro il comunismo, che fu il marchio di fabbrica della politica estera del presidente-attore.

Già a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, si venne a creare l‟impalcatura ideologica della contrapposizione manichea che caratterizzò tutto il corso della Guerra Fredda: democrazia e libertà americana contro dittatura e oppressione sovietica, e, più in generale, comunista. Tuttavia, da parte degli americani, venne fatto un uso meramente strumentale dei concetti di democrazia e libertà, che non servivano affatto ad incentivare i meccanismi democratici o a liberare i popoli, ma che nascondevano fini più sottili.

Gli Stati Uniti, mentre si mostravano al mondo come i paladini della libertà e della democrazia, si prodigarono parallelamente per organizzare in diverse parti del mondo colpi di stato, instaurare e sostenere numerose dittature, spesso brutali, ma asservite e collaborative, non solo nel nome dell‟anticomunismo, ma anche del liberismo. Infatti, non furono puniti e rovesciati solamente i governi socialisti come, per esempio, quello di Allende in Chile, ma tutte quelle forme di governo che si opponevano al capitalismo, come ad esempio il governo terza-posizionista di Perón e di sua moglie Evita in Argentina, o quello nazionalista di Mossadeq in Iran, reo, quest‟ultimo, di aver smantellato l‟Anglo-Iranian Oil Company e di aver costituito la National Iranian Oil Company. La promozione della democrazia da parte delle varie amministrazioni statunitensi è dunque da sempre perseguita con motivazioni di facciata ed è condizionata da precisi interessi economici e geopolitici. Più che essere utile ad incoraggiare la nascita e lo sviluppo di governi effettivamente democratici, i concetti di democrazia e libertà e la loro promozione servono semplicemente a supportare il progetto egemonico statunitense e il processo di globalizzazione dell‟economia e della finanza, che mina ed erode severamente la sovranità degli Stati.

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Gli accordi di Helsinki siglati nell‟agosto del 1975, sebbene rappresentassero un tentativo per migliorare le relazioni tra l‟Occidente liberale e il blocco comunista, diedero un nuovo slancio alla lotta ideologica contro l‟Unione Sovietica. Il testo della Dichiarazione sui Principi che reggono le relazioni fra gli Stati partecipanti, incluso nell‟Atto Finale, conteneva dieci campi di applicazione63. In modo particolare, il settimo punto, che prevedeva il “rispetto dei diritti dell‟uomo e delle libertà fondamentali inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione o credo”, diede un nuovo impulso alla retorica e alla propaganda antisovietica statunitense64. In aggiunta, fu proprio in seguito a questi accordi che venne fondata la Helsinki Watch, un‟istituzione dedicata al monitoraggio dell‟effettivo rispetto degli Accordi da parte dell‟URSS e che nel 1988 sarebbe diventata la Human Rights Watch, una ONG da sempre vicina agli interessi americani65. Per gli Stati Uniti, gli Accordi di Helsinki si rivelarono dunque un colpo di genio: essi rivitalizzarono la retorica della libertà e dei diritti umani, che conobbe, da quel momento in poi, un impulso senza precedenti.

Com‟è già stato detto più volte, quando Reagan diventò Presidente adottò fin da subito una politica fortemente ostile e aggressiva nei confronti dell‟Unione Sovietica e l‟anticomunismo divenne il tema dominante della sua politica estera. L‟anticomunismo di Reagan risultava, tuttavia, percorso da connotazioni più etiche e religiose che politiche. Reagan seppe far leva sui concetti di libertà e democrazia, attribuendo loro una dimensione escatologica e trascendentale, introducendo il sacro e la religione nel discorso politico, presentato come una lotta tra il Bene (l‟Occidente liberale a guida americana) e il Male (l‟URSS e il comunismo), come una sorta di crociata contro l‟Unione Sovietica66, considerata, appunto, “l‟impero del male” e “il focolaio del male nel mondo contemporaneo”67

.

Tuttavia, i concetti di democrazia e di libertà promossi da Reagan assunsero una concezione strettamente utilitaristica: essi vennero arruolati al servizio esclusivo del liberismo. In altre parole, la libertà concepita come mezzo di emancipazione dei popoli,

63 Atto Finale consultabile in https://www.osce.org/it/mc/39504?download=true.

64 G. METTAN, Russofobia. Mille anni di diffidenza, Sandro Teti Editore, Roma 2016, p. 283. 65 Ibidem.

66 Ibidem, p. 285.

67 M.A. JONES, Storia degli Stati Uniti d’America. Dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri, cit., p.

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venne svuotata di tutto il suo contenuto sovversivo per essere relegata al mero ambito economico. Del resto, Reagan, mentre da un lato si opponeva fermamente ai governi socialisti o terza-posizionisti in America Latina, dall‟altro supportò i regimi liberisti in Chile, Argentina, Uruguay e Paraguay, promuovendoli come “non violatori dei diritti umani” e agevolando l‟approvazione da parte della Banca Mondiale di prestiti nei loro confronti per un totale di 484 milioni di dollari68.

Il protagonismo delle organizzazioni transnazionali e internazionali agevolò il processo di globalizzazione, che iniziò a maturare in modo più compiuto a partire dagli anni Ottanta. In questo periodo, la sovranità degli Stati cominciò a venire erosa tanto dall‟esterno quanto dall‟interno. Dall‟esterno in quanto molte delle funzioni statuali furono assunte dalle organizzazioni internazionali come l‟Fondo Monetario Internazionale (FMI) o la Banca Mondiale (BM). E dall‟interno perché gli Stati Uniti costruirono una rete transnazionale di organizzazioni non governative (ONG) con uffici all‟estero che, promuovendo l‟universalizzazione dei valori occidentali, quali la democrazia e i diritti umani, cominciarono ad intaccare la sovranità politica ed economica degli Stati e ad influenzare le loro società69, agevolando così il processo di globalizzazione economica, politica, sociale e culturale. È quindi partendo da queste valutazioni che è possibile inserire il programma di diffusione della democrazia, iniziato dall‟Amministrazione Reagan, nel più ampio progetto di globalizzazione, utile esclusivamente agli Stati Uniti per raggiungere l‟egemonia globale.

Il 1982 fu l‟anno in cui venne simbolicamente inaugurata la politica di promozione della democrazia americana all‟estero. Reagan, in un discorso tenuto al Parlamento britannico, annunciò infatti che gli Stati Uniti avrebbero di lì a poco dato vita ad un programma indirizzato a «rafforzare le strutture democratiche (...) che avrebbero permesso ai popoli di scegliere la propria strada, di sviluppare la propria cultura»70. Reagan comunicò, inoltre, che l‟American Political Foundation (APF), si sarebbe occupata di redigere questo programma di promozione della democrazia.

68 D. BASOSI, “The ‘missing Cold War’”. Reflection on the Latin American debt crisis, 1979-1989, in

A. KALINOVSKY, S. RADCHENKO, The End of the Cold War and The Third World. New Perspectives on

Regional Conflict, Routledge, London 2013, pp. 208-228

69 G.A. GUIDI, La democrazia capovolta. Rivoluzioni colorate e conflitti nell’Europa dell’est, Maltemi,

Milano 2018, p. 16.

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L‟APF fu una commissione fondata nel 1979 da un gruppo di funzionari governativi, accademici, esponenti dell‟élite imprenditoriale ed industriale, e dell‟establishment politico e diplomatico. Tra questi figuravano anche personalità dell‟apparato decisionale statunitense, uomini del calibro di Henry Kissinger e il già citato Zbignew Brzeziński, entrambi ex consiglieri per la sicurezza nazionale71. Il programma dell‟APF fu finanziato con 300 mila dollari dall‟Agency for International Development (AID) e prese il nome di The Democracy Program72.

Il Democracy Program richiedeva l‟istituzione di una ONG privata, ma che fosse patrocinata sia dal Partito Democratico che da quello Repubblicano, con il compito di promuovere la democrazia all‟estero. Fu così che nel 1983 venne fondata la National

Endowment for Democracy (NED). Sebbene assuma le vesti di una ONG, la NED è

controllata e finanziata dal Congresso degli Stati Uniti. Molti dei fondi che la NED riceve dal congresso vengono successivamente destinati ad altre due ONG, l‟International Republican Institute (IRI) del Partito Repubblicano e il National

Democratic Institute (NDI) del partito democratico73. Inoltre, la NED è in grado di condurre delle vere e proprie covert operations, azioni clandestine ed illegali all‟estero. Infatti, come affermò nel 1991 Allen Weinstein, co-fondatore e primo presidente della NED: «Molto di quello che facciamo oggi, veniva fatto segretamente dalla CIA 25 anni fa»74. La NED fu fondata anche a seguito delle rivelazioni che coinvolsero la Central

Intelligence Agency (CIA) negli anni Settanta a causa della condotta a volte criminale

che adottava l‟agenzia spionistica nell‟eseguire i colpi di stato. La CIA era ormai diventata il bersaglio dell‟opinione pubblica sia mondiale che statunitense e persino una fonte di imbarazzo per il Governo americano75. Inoltre, le covert operations svolte dalla CIA a lungo andare avevano pregiudicato la possibilità effettive di rovesciare i governi

71 W.I. ROBINSON, Promoting Polyarchy: Globalization, US Intervention, and Hegemony, Cambridge

University Press, Cambridge 1996, pp. 89-90.

72 D. LOWE, “ Idea to reality: the NED at 30”, cit.

73 G. SUSSMAN, “The Myths of ‘Democracy Assistance’: U.S. Political Intervention in Post-Soviet

Eastern Europe”, Monthly Review, 01/12/2006,

https://monthlyreview.org/2006/12/01/the-myths-of-democracy-assistance-u-s-political-intervention-in-post-soviet-eastern-europe/.

74 Citato in W. BLUM, Rogue State: A Guide to the World’s Only Superpower, Zed Books, London 2002,

p. 149,

https://ia801600.us.archive.org/32/items/WilliamBlumRoguestate2002/William%20Blum%20-%20Rogue%20State%20%5B2002%5D.pdf.

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sgraditi a favore di esecutivi più collaborativi ed allineati con gli Stati Uniti, rafforzando, al contrario, i movimenti avversi all‟influenza americana e favorendo, in alcuni casi, l‟instaurarsi di governi fortemente ostili agli USA76.

Qualcosa andava dunque fatto per porvi rimedio, ma senza mettere fine alle ingerenze statunitensi negli altri Paesi. Per questo, l‟Amministrazione Reagan diede alla luce la National Endowment for Democracy, un‟organizzazione con un nome piacevole, ma che facesse quello che la CIA stava facendo ormai da decenni, eliminando così lo stigma negativo associato a quest‟ultima77. Tuttavia, sebbene non compia il lavoro sporco della CIA, la NED interferisce ugualmente negli affari interni di Paesi stranieri78. In questo modo, però, l‟ingerenza nella politica interna di un altro Stato non assume una veste ufficiale e violenta, ma scaturisce da diverse iniziative informali di soft power e di propaganda, e attraverso il supporto politico o finanziario ai partiti e ai media di opposizione, e ai gruppi di protesta, stabilendo così legami con vari esponenti della società del paese target nel quale si vuole intervenire. Eppure, i sostenitori della NED continuano ad affermare che le attività svolte dalla ONG non debbano essere in alcun modo considerate delle ingerenze. Tuttavia, le azioni della NED hanno varcato e varcano tuttora i limiti della legalità79. Il diritto internazionale vieta esplicitamente le ingerenze negli affari interni di un altro Stato e obbliga gli Stati al rispetto della sovranità territoriale80.

Il principio di “non intervento negli affari interni” è stabilito anche dagli Accordi di Helsinki. Il punto VI della Dichiarazione sui Principi che reggono le relazioni fra gli Stati partecipanti afferma che: «Gli Stati partecipanti si astengono da ogni intervento, diretto o indiretto, individuale o collettivo, negli affari interni o esterni che rientrino nella competenza interna di un altro Stato partecipante»81 .

76 G.A. GUIDI, La democrazia capovolta. Rivoluzioni colorate e conflitti nell’Europa dell’est, cit., pp.

69-70.

77 W. BLUM, Rogue State: A Guide to the World’s Only Superpower, cit., p. 148. 78 Ibidem.

79 L.F. DAMROSCH, “Politics Across Borders: Non intervention and non forcible influence over

domestic affairs”, The American Journal of International Law, Vol. 83, No. 1, 1989, p. 19.

80 A. CASSESE, Diritto Internazionale, cit., p.71-73.

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