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La rappresentazione mediatica della criminalità organizzata da Cosa Nostra ai fenomeni culturali di Gomorra e Suburra

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Academic year: 2021

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1 Sommario

Introduzione ... 2

1- Il crimine come mito a bassa intensità ... 7

2 - Le origini della mafia... 17

3 – La rappresentazione della mafia: gli stereotipi e il rapporto con l’informazione ... 23

4 – Mafia e violenza: la realtà supera l’immaginazione ... 34

5 – Il racconto della mafia nella letteratura ... 41

6 – Il cinema di mafia dagli albori sino al Padrino ... 46

7 - Il racconto della mafia nei media italiani dagli anni ’70 agli anni 2000 ... 56

7.1 – Dai film di Giuseppe Ferrara alla seconda guerra di mafia ... 56

7.2 – Cos’è una mafia story e il successo della Piovra ... 64

7.3 – Dal maxiprocesso all’arresto di Riina ... 72

7.4 – Dalla commedia di mafia ai videogiochi “criminali” ... 80

Capitolo 2 - Gomorra ... 92

1- La camorra nel 1860... 92

2- Cenni storici e caratteristiche della camorra contemporanea ... 99

3 – La condizione del cinema di camorra contemporaneo ...106

4 – Il romanzo Gomorra di Roberto Saviano ...114

5 – Il film Gomorra di Matteo Garrone ...134

6 – Gomorra. La serie ...145

Capitolo 3 - La criminalità organizzata a Roma ... 163

1 - La banda della Magliana e Romanzo Criminale ...163

2 - Brevi cenni su Mafia Capitale ...179

3 – Da Amore tossico a Suburra: il cinema e la televisione raccontano il degrado e la criminalità organizzata a Roma ...187

Conclusione ... 199

Bibliografia ... 203

Sitografia ... 206

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2 Introduzione

Bisogna partire da una premessa personale. Sin da quando andavo al liceo ho sempre avuto un interesse verso tutti quelli che potevano essere i riferimenti culturali di strettissima contemporaneità, soprattutto di tipo nazionale. Non per chissà quale orgoglio patriottico, ma se i miei amici cercavano rifugio nel passato maturando parallelamente un’estremizzata esterofilia che non ho mai condiviso, dall’altro lato io provavo a cercare dei nuovi modelli, ben conscio di esser nato in un momento storico di particolare declino culturale.

Ascoltare gli album dei Baustelle sapendo di esser di fronte ad una copia sbiadita dei migliori dischi di Franco Battiato o vedere Brunori Sas scimmiottare Francesco De Gregori, ha di certo frustrato la mia ricerca personale, per non parlare dell’acclamazione generale attorno a registi quali Paolo Virzì o Gabriele Muccino, considerati un po’ da tutti come i nuovi narratori della borghesia italiana, altra opinione dominante parecchio dura da digerire.

Ricordo che provai per la prima volta una genuina soddisfazione dopo tanta rassegnazione, guardando un prodotto italiano di cui era stata trasmessa da poco la prima stagione, sto parlando di Romanzo Criminale – la serie, serie tv di Stefano Sollima del 2008 tratta dall’omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo. Per la prima volta la produzione era curata e la scrittura non aveva abbozzato personaggi unidimensionali che sino ad allora avevano appiattito così tanto il panorama delle fiction televisive italiane da far sembrare Il maresciallo Rocca un capolavoro del noir.

A Romanzo Criminale – la serie erano seguiti anni di silenzio prima del rilascio nel 2014 di un'altra serie altrettanto ben curata e addirittura priva di personaggi positivi, parlo ovviamente di Gomorra – la serie, tratta dal romanzo di Saviano del 2006. Più o meno in quegli stessi anni avevo letto il libro Gomorra e ne rimasti abbastanza deluso, annoiato oltre che confuso per la difficoltà di etichettare dentro un genere ben definito, un’opera che

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3 mischiava fiction e docufiction in modo anomalo e inedito, almeno per la mia umile esperienza di lettore. Eppure Saviano sembrava offrirmi ciò che cercavo, un nuovo riferimento culturale, un intellettuale di nuova generazione in grado di ergersi ai livelli addirittura di Pasolini.

In linea generale notavo che era il tema della mafia e della criminalità organizzata a proporre un linguaggio diverso nei media italiani, non parlo necessariamente di un cambiamento positivo ma di un mutamento che stava avvenendo a prescindere dalla sua qualità.

Non era nemmeno una novità, se pensiamo che era stata proprio una fiction di mafia negli anni ’80 a superare i confini nazionali imponendosi in tutto il mondo, mi riferisco a La piovra, che per l’epoca proponeva una narrazione incalzante rispettando la tradizionale dicotomia tra il bene e il male.

Questa tesi mi è servita tirare le somme di tale discorso e a maturare uno spirito critico capace di distinguere gli oggetti narrativi validi da quelli che non lo sono affatto.

La rappresentazione mediatica della criminalità organizzata è un processo lungo che deve partire dalle origini della mafia stessa passando per le successive rappresentazioni nella letteratura, nel cinema e nella televisione.

È logico sia stata Cosa Nostra quella più rappresentata nei media almeno fino agli anni 2000, sia per le sue origini arcaiche e ancora oggi non del tutto chiare che per le più recenti guerre di mafia e l’esplicito attacco allo Stato degli anni ’80 e ’90.

Gomorra ha indubbiamente sbaragliato le carte imponendo nel nuovo millennio una sovrapproduzione di libri, film, serie tv e un fitto dibattito pubblico attorno alla camorra, quest’ultima in generale avanzata rispetto alla mafia siciliana, falcidiata dagli arresti degli anni ’90.

Negli ultimi tempi in verità si è assistito ad un ulteriore cambiamento di paradigma che ha visto la rappresentazione mediatica del degrado e della criminalità organizzata

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4 romana prendere il sopravvento sulle storie stesse di camorra, ancora importanti ma non più in grado di incanalare il successo di pubblico e critica di qualche anno fa.

Il moderato successo di Suburra è solo una piccola componente di una narrazione più articolata che non necessariamente tocca le ramificazioni della criminalità organizzata in modo diretto ma preferisce raccontare un disagio sociale in cui sono presenti anche le organizzazioni criminali, banda della Magliana o gruppi di Mafia Capitale che siano.

L’intero discorso ruota attorno al passaggio dalle mafia story delle origini, in cui l’eroe è una figura dell’antimafia, spesso un poliziotto che deve sconfiggere il male assoluto mafioso, ai gangster movie di cui le caratteristiche vengono applicate alla serialità televisiva contemporanea con al centro gruppi corali di personaggi negativi e immorali che sfidano l’ordine costituito.

La parziale restaurazione, per certi versi integrazione tra mafia story e gangster movie che stiamo vivendo negli ultimissimi anni è il punto di arrivo di questo elaborato ma anche l’inizio di un probabile nuovo modo di raccontare storie di mafia, di maggior spessore tecnico e qualitativo.

Per la scrittura di questa tesi ho utilizzato libri e articoli di vario genere, ma anche la sitografia è stata importante soprattutto per aggiornare dati e informazioni oramai obsolete dei testi presi in esame.

I testi di Bernardelli e Grignaffini sono stati determinanti nel fornire gli strumenti concettuali e terminologici utili a studiare ed interpretare le diverse fonti documentarie prese in esame.

Il percorso cronologico che mi ha permesso di raccontare la storia recente di Cosa Nostra intrecciandola con tutti gli oggetti culturali di mafia creati parallelamente è stato possibile sia utilizzando manuali tradizionali come quello di Salvatore Lupo o di John Dickie che testi meno convenzionali, concentrati più sull’immaginario cinematografico e televisivo italiano, penso al libro di Marcello Ravveduto o a quello di Andrea Meccia.

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5 La raccolta di saggi curata da Marina D’Amato sulla trasformazione mediatica del mafioso è stata parzialmente utile per tenere il punto sul rapporto tra informazione e mafia ma anche per effettuare una serie di brevi considerazioni sui primi film di mafia; allo stesso tempo ho ritenuto giusto mettere in discussione la superficiale analisi sui videogiochi di mafia, poco rispettosa del media in questione.

Ortoleva è invece stato il punto di partenza di questa tesi, la principale ispirazione da cui poi è partito il progetto, il suo libro sui miti a bassa intensità è stato a dir poco determinante in tal senso.

Il testo curato da Marco Santoro è stato centrale sia per comprendere le origini di Cosa Nostra che per conoscere la dimensione violenta e reale della mafia, permettendomi così di confrontarla con quella mediatizzata e rappresentata al cinema e in tv.

Gli articoli in inglese di Dana Renga sono stati utilizzati soprattutto come punto di partenza per effettuare personali critiche a film e serie tv, penso a I cento passi o a Suburra – la serie, entrambi troppo esaltati dalla Renga soprattutto nel sottotesto omosessuale senz’altro gradevole ma non di certo rivoluzionario nella sua rappresentazione.

Se il libro di Marcella Marmo è stato vitale per capire le origini della camorra anche rispetto a Cosa Nostra, quello curato da Gabriella Gribaudi mi è servito a districarmi nella complessa rete della camorra contemporanea, decisamente difficile da raccontare senza perdersi tra i rami familiari dei diversi clan.

Glynn Ruth con un articolo ha saputo sintetizzare parte dello scenario cinematografico contemporaneo che tratta di camorra, a cui ho aggiunto però mie personali visioni di film che ho ritenuto affini al discorso.

In verità tutta la tesi è caratterizzata da riferimenti cinematografici e televisivi di opere che ben conosco e che ho deciso io stesso di analizzare a seconda dell’argomento trattato.

Se il romanzo Gomorra di Saviano è stato analizzato tenendo conto da un lato del parere più favorevole di Giuliana Benvenuti, dall’altro di quello decisamente più critico di

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6 Alessandro Dal Lago, il film di Garrone è stato considerato sia in termini comparativi rispetto ad altre sue opere meno note che ho avuto modo di vedere, sia in termini più intrinseci utilizzando il libro di Monetti e Pallanch.

La serie ideata da Stefano Sollima su Gomorra ha visto un testo curato da Michele Guerra, Sara Martin e Stefania Rimini portare avanti una serie di riflessioni sui modelli culturali presenti nella serie e sull’impatto del franchise in Italia, tali aspetti sono stati integrati anche stavolta con personali considerazioni e aggiornamenti.

Il capitolo sul degrado romano e la criminalità organizzata della Capitale se da un lato ha visto un fortissimo ricorso a diversi contributi nel paragrafo sulla banda della Magliana e Romanzo Criminale, in cui tra i vari articoli e libri è emerso senz’altro quello che è probabilmente il testo più importante mai scritto sull’universo di Romanzo Criminale, parlo dell’ebook gratuito della ricercatrice emigrata in Francia Marta Boni, dall’altro mi ha permesso di accingere alla sola rivista Meridiana per descrivere la breve storia di cronaca attorno a Mafia Capitale, che ha dedicato un intero ed esaustivo numero alla vicenda. Il degrado urbano romano e Suburra sono stati invece raccontati mediante diversi articoli, non molto stimolanti a dire il vero, forse per la debolezza stessa di alcune delle opere citate.

Per un maggiore approfondimento rimando senz’altro alle sezioni della bibliografia e della sitografia a cui si aggiunge però un’ulteriore sezione in cui ho elencato tutte le fonti audiovisive citate nella tesi e di cui ho visionato la stragrande maggioranza delle opere elencate. Vi ho inserito pure alcuni libri che ho letto come Gomorra di Saviano, Romanzo Criminale di Giancarlo De Cataldo e …che Dio perdona a tutti di Pif.

Per la visione dei film e delle fiction più datate il portale di RaiPlay è stato fondamentale, in parte anche quello di Mediaset Play, per il resto rimangono Sky e Netflix i servizi che dispongono dei titoli di maggiore tendenza citati nella tesi, penso alle due serie

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7 Capitolo 1 - La rappresentazione della mafia nei media dalle origini agli anni 2000

“«Dove andrebbe a finire una storia se non ci fossero dei personaggi virtuosi?» chiede il capitano Smollett,

uno dei due protagonisti di un racconto-dialogo di

Robert Luis Stevenson, I personaggi del racconto […] La risposta dell’interlocutore, che è poi l’affascinante pirata Long John Silver, è: «Se è di questo che vogliamo parlare, dove potrebbe cominciare una storia se non ci fossero cattivi [villains]?»”1

1- Il crimine come mito a bassa intensità

«Vedi? Neanche le guardie sanno più chi sono. Solo andando all’Ikea ho trovato uno che sembrava sapesse tutto di me. Un tassista che mi fa: «Grande René, corsa pagata». A parlare è Renato Vallanzasca artefice insieme alla sua banda di decine di sequestri, rapine e ben sei omicidi negli anni ’70 da scontare con quattro ergastoli. I suoi occhi azzurri fecero tremare il cuore di molte donne ed è numerosa la gente che lo ammira tuttora per le gesta del passato. Egli stesso ama differirsi rispetto ai criminali, soprattutto quelli della banda della Magliana che addita come collusi col potere e i servizi segreti2.

Vallanzasca viene identificato nella percezione collettiva come un bandito d’altri tempi, un Robin Hood milanese con un codice morale ben preciso in cui i bambini, le donne e i poveri non possono essere oggetto di azioni criminali.

La costruzione del mito attorno alla sua figura deve molto alla stampa dell’epoca ma anche il film Vallanzasca - gli angeli del male uscito nel 20103 diretto da Michele Placido e con protagonista Kim Rossi Stuart ha contribuito al rafforzamento di un’aura mitologica

1 Peppino Ortoleva, Miti a bassa intensità – Racconti, media, vita quotidiana, Piccola Biblioteca Einaudi Ns,

Torino 2019, p. 226.

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https://milano.repubblica.it/dettaglio/vallanzasca:-addio-bel-rene-la-vecchia-mala-ormai-non-ce-piu/1749106/1

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8 attorno al noto criminale milanese.

Potrebbe apparire semplice criticare coloro che vedono in un criminale un eroe antisistema che affronta le ingiustizie e i vuoti istituzionali del potere ma parlare di miti contemporanei significa riconoscere l’esistenza di un processo storico che da almeno due secoli ha mutato le società industriali e in cui bisogna considerare tutta una serie di trasformazioni a livello comunicativo e culturale.

Peppino Ortoleva afferma che il «il mito è un racconto che fa da ponte tra il vissuto e il cosmo»4, collega la realtà sensibile descrivibile tramite l’esperienza con l’altro, con l’ignoto, con ciò che stimola l’immaginazione e che non può essere spiegato mediante metodo scientifico. Parliamo di mondi senza certezze che possono risultare maggiormente esplicitati in certe epoche passate rispetto a quella odierna. Bis ogna infatti considerare che i miti si rigenerano nel tempo e spesso trovano margini di sviluppo nei luoghi lasciati senza verità dalla scienza. Il mito è necessario per l’uomo affinché egli possa dare senso alle cose ed è centrale nello studio delle attività umane del passato in particolare se consideriamo che viviamo in mezzo ai miti e che ognuno di noi ne è sedotto in un modo o nell’altro. D’altronde il mito per essere considerato tale deve risultare condiviso e condivisibile altrimenti rimane una semplice storia come tante altre priva di quella forza narrativa in grado di colpire un numero elevato di persone.

Di primo acchito quando sentiamo parlare di mito ci vengono subito alla mente aspetti che sono propri dei miti ad alta intensità5 ma Ortoleva afferma che la società secolarizzata attuale sia impregnata di miti a bassa intensità, di racconti ambientati nel tempo presente o al più in un tempo futuro databile con protagonisti esseri umani o soggetti dotati di qualità umane e dove manca assolutamente l’aspetto cerimoniale e sacro perché si tratta di

4 Ortoleva, Miti a bassa intensità, cit., p. XI.

5 I miti ad alta intensità si caratterizzano per essere ambientati in contesti e periodi remoti rispetto all’epoca in

cui vengono raccontati, in un passato indecifrabile dove i protagonisti sono dei personaggi soprannaturali come gli dei ma anche creature meno nobili appartenenti al regno degli inferi; tale aspetto legittima una certa sacralità dei miti che implica un sistema di obblighi e divieti. Ibid., p. XV.

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9 racconti consumabili nel tempo libero e selezionabili in base ai propri gusti e i propri interessi.

La nascita dello stato moderno con i suoi miti volti ad intensificare e costruire l’identità nazionale e soprattutto lo sviluppo di un’industria culturale fatta di giornali, radio, cinema, televisione e internet hanno posto le basi per la diffusione di questi schemi tanto diversi quanto uguali che si sono tradotti in uno sterminato numero di racconti scritti, proiettati e trasmessi in ogni dove e che proprio grazie a questa costante pervasività sono riusciti ad essere interiorizzati dalle persone6.

I miti contemporanei possono identificarsi con i personaggi delle fiction e delle serie tv, con gli eroi nazionali osannati dai media e dallo Stato, con gli eroi delle imprese sportive o quelli narrati giornalisticamente dalla stampa7.

In queste circostanze vi è sempre il rischio di abbassare troppo l’intensità del mito al punto tale da normalizzarlo ma questo limite è anche un punto di forza che permette di mischiare la quotidianità delle nostre vite con la straordinarietà propria del mito. D’altronde se il mito ad alta intensità vede una distinzione tra chronos e aion dove il primo è il nostro tempo fatto di vita e di morte e il secondo è un mondo lontano, un iperuranio regolato da altre leggi, quello a bassa intensità vede l’assenza di quest’ultima dimensione, il mito viene speso nel tempo libero e si consolida con l’abitudine intrattenendoci senza allontanarci troppo dalla realtà8.

La costruzione di miti spesso così volatili può favorire forme di svuotamento ideologico e culturale non da poco, la forza del marketing e della buona riuscita nella vendita

6 Theodor Adorno parlava di «nuovo e sempre uguale» riferendosi all’esigenza del pubblico di avere storie con

schemi allo stesso tempo familiari ma non troppo riconoscibili in modo tale che le persone possano usufruire del prodotto senza eccessivi sforzi e senza rischiare di annoiarsi. Alexis de Tocqueville rispetto all’industria letteraria parlava invece del «numero crescente dei lettori e il bisogno continuo del nuovo che essi sentono».

Ibid., p. 12.

7 L’esistenza dei nuovi miti contemporanei non deve indurci a pensare che quelli ad alta intensità non esistano

più, basti pensare alle diverse forme di sincretismo e fondamentalismo religioso. Ibid., p.XIX.

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10 di un personaggio può portare a dimenticare la cronaca dei fatti un po' come è accaduto per Vallanzasca, ricordato più per il suo carisma e il suo fascino romanzato che per i terribili omicidi commessi.

Basti pensare alla pubblicità della Fiat 500 voluta dall’amministratore delegato Sergio Marchionne in persona nel 2007 per festeggiare i 50 anni della vettura in cui in un susseguirsi di immagini vediamo il crollo del muro di Berlino, Fabio Cannavaro con la coppa del mondo di calcio, Totò, De Gasperi, Valentino Rossi, Giovanni Paolo II e tanti altri fino ad arrivare a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e le macerie di Capaci.

Per vendere una macchina ci si appropria della memoria collettiva di un paese, la si plasma a proprio piacimento scegliendo chi è meritevole e si crea così un miscuglio fatto di tante figure mitizzate della nostra società la cui storia viene messa sullo stesso piano creando un appiattimento generale di una certa gravità; l’idea di inserire uno sportivo allora di successo ma dal comportamento non proprio virtuoso9 come Valentino Rossi in mezzo a due vittime di mafia come Falcone e Borsellino ci permette di comprendere i rischi in cui si può incorrere quando il mito diventa patrimonio di tutti e segue logiche di mercato10.

L’aderenza o l’ibridazione con la cronaca è determinante nell’elaborazione di figure mitiche e non solo quando si parla di personaggi realmente esistiti come quelli citati sino ad ora ma soprattutto quando ci riferiamo a personaggi inventati come il criminale immaginario, il gangster di cui si trae spunto da fatti di cronaca realmente accaduti nella sua caratterizzazione e che a sua volta con la sua personalità contagia la narrazione del crimine sviluppata dai giornali.

Warshow afferma che «le città reali producono solo delinquenti, le città immaginarie producono il gangster: che è ciò che desideriamo essere, e che abbiamo paura di

9 Evasore fiscale per decine di milioni di euro.

https://www.repubblica.it/2007/08/sezioni/sport/valentino-evasione/valentino-evasione/valentino-evasione.html

10 Andrea Meccia, Mediamafia – Cosa Nostra fra cinema e TV, Di Girolamo Editore, Trapani 2014, pp.

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11 diventare11». Il criminale viene tratteggiato come una figura demoniaca, cinica che non si piega a nessuna regola, sadica, violenta ed è chiaro che tutto ciò affascina l’uomo civilizzato, colui che segue diligentemente tutte le norme imposte dalla società e che guarda con malcelata invidia e ammirazione al criminale raccontato al cinema e in tv, trova in esso uno sfogo catartico tramite cui esprimere la propria repressione dettata dalla routine quotidiana. La narrazione di un criminale che sfida la società assume connotati a tratti fantastici e sovrannaturali che creano un gap notevole con la realtà dei fatti dove il delinquente o mafioso appare banale, dozzinale, analfabeta e di certo poco affascinante. Lo stesso Al Capone che aveva compreso le potenzialità di una società dettata dall’immagine, provò a negoziare un proprio ruolo in un film di Hollywood e in generale riuscì a cavalcare l’onda di attenzione mediatica ricevuta per mostrarsi più complesso e attraente di quanto in realtà non fosse.

Il criminale proviene dagli abissi della società e può essere paragonato alle creature demoniache della mitologia sacra o ad alta intensità, con la differenza sostanziale che parliamo di esseri umani e non di mostri immortali, parliamo di figure marginalizzate dalla società spesso appartenenti a comunità povere e ghettizzate di immigrati. Si tratta di uomini che partendo dal basso e con uno scarso livello di istruzione effettuano una scalata sociale senza precedenti che li porta ad arricchirsi a tal punto da riuscire illusoriamente a raggiungere la vetta di una piramide sociale che non perdona e rigetta subito in fondo coloro che non appartengono a quel mondo dorato.

Il criminale è consapevole della strada infernale intrapresa con le proprie azioni malevole ma così facendo riesce a plasmare un impero del male fondato su un’economia criminale fatta di prostituzione, di droga, di armi e di violenza capace di sovvertire l’ordine istituzionale di una città.

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12 L’epilogo è sempre drammatico e lo sintetizza bene Lars Von Trier nel film La casa di Jack dove seppur si parli di un serial killer solitario e non di un gangster l’evocazione infernale viene rappresentata senza troppe metafore o giri di parole con il killer che dopo aver cercato invano una giustizia divina per i delitti e le atrocità commesse viene traghettato da Virgilio soltanto nel terzo girone dell’inferno dantesco non riuscendo nemmeno stavolta a toccare il fondo che tanto cercava12.

È chiaro che i gangster movie e le storie di criminali mostrano le disfunzioni della nostra società perché se per Warshow «la felicità diventa il principale problema politico13» almeno nella sfera pubblica, non tutti possono raggiungere l’illusoria felicità del successo e chi riesce ad ottenerla tramite vie non proprio legali, viene sempre e comunque punito.

I criminali ci mostrano un mondo selvaggio erede dei film western ma se lì il disordine era una caratteristica fondante della società, oggi appare paradossale scoprire simili realtà dettate dal caos all’interno di centri urbani così apparentemente civilizzati.

Ortoleva fa l’esempio di Eugène-Francois Vidocq per indicare l’esempio calzante di bene che si ibrida col male, di un criminale che sin da bambino mette a punto rapine e furti per poi diventare a 36 anni capo delle Brigade de Sûreté della polizia, ruolo in cui sfrutta le sue competenze criminali mettendole al servizio dell’ordine pubblico. Vidocq è altresì noto per aver fondato la prima compagnia di servizi di polizia privata14.

All’interno delle storie di criminali la separazione tra il bene e il male non è così netta e marcata, la tendenza a mostrare come l’eroe e il cattivo costituiscano due facce della stessa medaglia è parecchio diffusa; più in generale appare frequente l’idea di mostrare il potere criminale come ombra riflessa del potere legale.

Pensiamo a personaggi letterari come Hannibal Lecter o Dexter, entrambi serial killer

12

https://www.cinematographe.it/rubriche-cinema/focus/la-casa-di-jack-spiegazione-finale-analisi-psicologica/

13 Ortoleva, Miti a bassa intensità, cit., p. 225. 14 Ibid., p.227.

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13 che cacciano assassini con uno spirito d’intuito sorprendente che ci porta a simpatizzare per essi: loro sono l’emblema di questa sovrapposizione.

Nel film Il Divo di Paolo Sorrentino questo aspetto torna in modo preponderante a maggior ragione se dobbiamo decidere se stiamo guardando un film di mafia o un semplice biopic su uno dei personaggi più influenti della prima repubblica. Il film tra i suoi molteplici sottotesti lascia intuire diverse ambiguità nel rapporto fra Giulio Andreotti e un ecosistema criminale complesso per non dire mafioso: «posso aver commesso molti errori nella mia vita, ma la mafia mai. Mai!15». Dal mitologico bacio tra Andreotti e Riina passando per l’omicidio di Salvo Lima e i diversi processi, serpeggia all’interno del film un’oscurità che mai affiora del tutto ma che ancora di più ci porta ad essere disorientati, segno che il crimine non sempre è impersonato dal gangster dei romanzi di Don Winslow16.

Negli Stati Uniti è più facile che questa ambiguità sia denunciata in altro modo, magari mostrando i modi discutibili in base ai quali ricchi uomini d’affari gestiscono e incrementano il loro patrimonio, basti pensare a film come The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese dove la spregiudicatezza dei gangster movie si adatta ad un contesto di aristocrazia finanziaria, segno che il crimine non necessariamente appartiene all’underworld descritto da Ortoleva.

Il criminale è avido e narcisistico, viene spesso forgiato nella sua caratterizzazione da modelli di stampo rinascimentale che richiamano figure spregiudicate come Cesare Borgia, colui che ha ispirato la sceneggiatura di Scarface o il personaggio di Rico Bandello nel romanzo Piccolo Cesare di W.R. Burnett. Il gangster in questi casi appare concentrato unicamente sull’obiettivo di arricchimento personale e di espansione del proprio potere d’influenza e non sembra esserci un limite alla propria esigenza di costruzione di un impero del crimine; proprio l’incapacità di porsi una soglia oltre la quale fermarsi, trascina questi “piccoli cesari” verso il tracollo progressivo e definitivo del loro castello di carte subendo così

15 Dialogo del film tra Andreotti e il suo parroco. Meccia, Mediamafia, cit., p. 144. 16 Ibid., pp. 143-150.

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14 una punizione esemplare per aver commesso il grave errore di non essersi accontentati. In sostanza possiamo leggere un messaggio moralistico all’interno dei racconti del crimine che contrasta con la sensazione ciclica che se un gangster perde il proprio dominio del male, qualcun altro è già pronto per prendere il suo posto.

Emerge un pessimismo di fondo, un’amarezza dovuta alla sensazione che le cose non cambieranno mai del tutto e la serie tv The Wire di David Simon esemplifica benissimo questo tipo di percezione.

Ambientata a Baltimora e trasmessa sul canale HBO dal 2002 al 2008, The Wire rovescia ma allo stesso tempo conferma i canoni del gangster movie descrivendo un universo chiuso fatto di corruzione, delinquenza e di tanti capi criminali che con parecchia volontà costruiscono il loro regno e con altrettanta disperazione lo vedono dissolversi . Rispetto agli stilemi del genere la violenza che di solito è al centro delle storie di gangster qui appare residuale, viene poco rappresentata, la si percepisce e viene raccontata semplicemente per comprendere i meccanismi di mutazione del sistema criminale della città. La serie ha un ritmo molto lento, è verbosa e richiede una certa dose di concentrazione per essere compresa specie quando vengono descritte le intricate fas i di trasferimento di denaro o beni illeciti che costituiscono il filo da cui il nome della serie.

Le storie raccontate hanno un impianto molto tradizionale, si parla di ghetti, di emarginazione sociale, di politici, di poliziotti corrotti e di criminal i senza scrupoli ma in mezzo a queste figure inflazionate si aggiungono personaggi fuori dagli schemi, vere e proprie mine vaganti come Omar Little17, un eroe del ghetto che ruba ai gruppi criminali del quartiere per dare ai poveri e alla gente in difficoltà, un personaggio tanto complesso quanto semplice nella sua filosofia di non colpire gli innocenti e i più deboli. La sua fine è poco celebrativa e attinente al realismo che la serie persegue.

17 La battuta principale di Omar è “A man must have a code”.

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15 Lo stesso McNulty, il poliziotto teoricamente protagonista della serie, non costituisce la semplice incarnazione del bene, del bravo poliziotto integerrimo, ha dalla sua diverse contraddizioni; pur di raggiungere l’obiettivo prefissato è disposto a tutto, anche ad andare contro la legge stessa, inoltre è un pessimo compagno per le proprie donne e pure un irritante alcolizzato creando un disorientamento letale per lo spettatore che ama dividere in modo manicheo l’eroe dal cattivo.

The Wire sintetizza appieno l’idea di un mondo che mai del tutto potrà davvero cambiare, anche il politico più onesto e rivoluzionario come il sindaco Carcetti si ritroverà a dover scendere a compromessi, a doversi adeguare ad un sistema immutabile dove sono troppi i vincoli e poche le risorse e una generazione di criminali spazzata via dai morti e dagli arresti verrà semplicemente sostituita da quella nascente18.

Il criminale è insofferente a qualunque regola machiavellica, vuole dominare seguendo un retaggio primitivo dove il più spregiudicato e violento vince una guerra selvaggia in cui i tratti di incontenibile sregolatezza sono sempre più accentuati all’interno delle storie del crimine recenti.

È necessario infatti ricordare come le storie di gangster hanno vissuto diverse tappe evolutive, pensiamo al criminale degli anni ’30, bello, cinico e incapace di provare emozioni; questo stereotipo è stato ripreso trent’anni dopo dai vari Martin Scorsese, Roger Corman e Robert Altman che complici dei budget irrisori, si sono visti costretti a scrivere sceneggiature piene di dialoghi per compensare le poche scene d’azione e di violenza. Questo ha favorito la scrittura di personaggi psicologicamente molto più c omplessi, meno caricaturali, dotati di una fragilità che trascina lo spettatore a tifare per loro, sono eroi tragici che cercano di non affogare all’interno della marea nera della grande depressione americana e che ambiscono al sogno americano perseguendolo tramite scorciatoie criminali. Si tratteggia un mondo

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16 malato fatto di ingiustizie e di abusi da parte delle istituzioni dove l’amore diventa una speranza, le donne non sono più oggetti di prestigio sociale. Non ci allontaniamo molto dal personaggio del bello e dannato ma sarebbe riduttivo fermarci a questo.

Con la saga del Padrino negli anni ’70 assistiamo ad un’ulteriore evoluzione delle storie di criminali che passano dal tipico gangster movie al film di mafia vero e proprio con al centro la criminalità organizzata e non più il singolo individuo. La narrazione punta a raccontare la parabola ascendente e discendente del capitalismo rappresentando un mafioso che con volontà e determinazione da self made-man riesce a creare un proprio clan, una propria azienda a conduzione familiare di stampo mafioso che se non fosse per il suo carattere illecito e l’utilizzo indiscriminato della violenza, poco differisce rispetto ad una normalissima azienda con un proprio bilancio da amministrare.

L’etnia di provenienza, raramente si parla di puri americani, costituisce non più uno stigma come accadeva ai criminali degli anni ’30 ma un punto di forza, un tratto di cui andare fieri e che segna un marchio di fabbrica quasi di garanzia per la famiglia che esercita il potere. La famiglia appare legata da un vincolo indissolubile ma la nevrosi al suo interno per i continui problemi e tradimenti da gestire è un elemento costante del genere.

A partire dagli anni ’80 queste caratteristiche si globalizzano, le storie di mafia si geolocalizzano in realtà impensabili, da Hong Kong con la violentissima mafia della Yakuza alle gang nigeriane di Lagos fino ad arrivare ai racconti italiani di Gomorra e Romanzo Criminale. La violenza è sempre più estremizzata, spettacolarizzata e il pubblico si appassiona a storie vicine alla realtà, ispirate alla cronaca, che sempre più formano un agglomerato capace di unire romanzo storico e reality show mediante un filtro esclusivo in grado di far conoscere spaccati oscuri della società con cui difficilmente il cittadino medio può entrare in contatto di persona.

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17 e sparisce in tutto questo un reale interesse a comprendere la mafia e la violenza nelle sue origini e nelle sue complessità storiche19.

2 - Le origini della mafia

«Qui v’è pure la camorra, non meno cattiva della napoletana. La chiamano maffia20», così si esprime il luogotenente del re, il generale Alessandro Della Rovere in una lettera

inviata da Palermo il primo maggio 1861.

È opportuno contestualizzare come ci fossero diverse implicazioni politiche nella denuncia del luogotenente, non si può di certo parlare di lotta alla mafia; vi era una minaccia senz’altro costituita dai malviventi e dai delinquenti che compivano reati ed omicidi senza essere minimamente puniti ma per il governo unitario il rischio di spinte scissioniste o frammentarie portate avanti dai filoborbonici o dai garibaldini o dai mazziniani era più importante.

Il 10 ottobre 1861 Diomede Pantaleoni, un parlamentare della Destra storica che ha potuto svolgere delle indagini più accurate sulla condizione economica e sociale del Mezzogiorno, scrive un rapporto per il ministro degli interni Bettino Ricasoli dove denuncia dei legami pericolosi che riguardano la Società nazionale governativa con accoltellatori e criminali addirittura nominati in ruoli di comando. Pantaleoni non manca di evidenziare un problema generale di impunità per i delitti commessi ove il mandante e l’esecutore risultano essere spesso noti ma inspiegabilmente lasciati liberi di continuare ad agire.

È una segnalazione importante che punta il dito verso il partito governativo e la stessa rivista “Il Precursore” di Francesco Crispi nel settembre del 1861 si spinge a svelare la struttura di questa organizzazione settaria formata da una gerarchia piramidale con i

19 Ortoleva, Miti a bassa intensità, cit., pp. 215-239.

20 Umberto Santino, Per una storia delle idee di mafia: Dall’Unità d’Italia al questore Sangiorgi, in Marco

Santoro (a cura di) Riconoscere le mafie (cosa sono, come funzionano, come si muovono), Il Mulino, ed. ebook, Bologna 2015, par. 1.

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18 mandatari ai vertici e gli esecutori alla base.

Lo storico Costanza parla di spirito di famiglia per sintetizzare una scalata sociale fondata su matrimoni e relazioni commerciali che porta una famiglia come quella Ferrantelli a divenire particolarmente influente durante i moti di Castellamare in provincia di Trapani del 1862. Si tratta di un’ascesa ambigua fatta di violenza e furti denunciati dalla polizia locale, i Ferrantelli riescono ad incutere timore e influenza nei contadini alleandosi anche con figure più politiche come il possidente Pietro Lombardo che aveva ricoperto persino delle cariche amministrative. Insomma si parla di una vera e propria famiglia mafiosa che approfitta di una situazione di disordine generale dovuta alle proteste dei contadini contro i borghesi cutrara21 per incrementare il proprio controllo sulla cittadina.

In termini un po’ più generali la mafia trae la sua origine dal sistema feudale legato allo sfruttamento del latifondo e da tutta quella zona grigia che contrapponeva il proprietario terriero al contadino, un’area popolata da gabellotti, affittuari e intermediari che progressivamente iniziarono a divenire sempre più influenti rispetto ad un’amministrazione statuale poco efficiente, formando organismi di potere paralleli a quelli ufficiali.

La parola mafia potrebbe avere un’origine ancora più remota riconducibile alla lingua araba, si tratterebbe del nome di una tribù saracena presente a Palermo, la tribù Ma afir22.

Ma uno dei primi documenti scritti dove c’è la parola mafia è la commedia del 1863 I mafiusi di la Vicaria di Palermu di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca dove l’aggettivo mafiusi viene aggiunto solo in seguito quando Mosca assiste ad una lite tra contendenti in cui viene utilizzato questo attributo denigratorio23.

Il testo è utile perché spiega la struttura gerarchica di una vera e propria organizzazione mafiosa operante all’interno del carcere dell’Ucciardone o nuova Vicaria,

21 «I borghesi che si erano divisi la cutra, la coperta, cioè si erano arricchiti impadronendosi delle terre e

avevano in mano l’amministrazione comunale». Ibid., par. 2.

22 Cirino Cristaldi, La mafia e i suoi stereotipi televisivi, Bonfirraro Editore, Enna 2016, pp. 16-17. 23 «Vurrissi fari ‘u mafiusu cu mia» («Vorresti fare il mafioso con me») viene detto da uno dei litiganti e in cui

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19 un’organizzazione chiamata sucività (santa chiesa) dove partendo dal basso abbiamo la menza pampina (mezza foglia), il picciottu di sgarru, il giovane d’onore, il camurrista, il camurrista proprietario e il capo della società con gli “scatti di carriera” legati principalmente all’anzianità. Le pratiche adottate dal gruppo sono molto simili a quelle delle organizzazioni criminali contemporanee con estorsioni per i non affiliati, rituali religiosi per aderire all’organizzazione e principi valoriali di riferimento come quello di umirtà, utilizzabile nel doppio ambiguo significato sia di rimanere umili rispettando i propri superiori sia di essere virili e di non parlare se si vuole tutelare un segreto.

Il barone Turrisi Colonna, deputato, senatore e sindaco di Palermo fu uno dei primi a teorizzare nel 1864 la centralità dell’estorsione e della filosofia protettiva della mafia capace di imporre la sua protezione all’interno delle campagne siciliane e nel commercio sfidando apertamente il potere della forza pubblica, sebbene lo stesso barone fosse considerato legato alla mafia.

Il prefetto di Palermo Filippo Antonio Gualterio nel 1865 parla apertamente di maffia con due effe e denuncia le relazioni illecite intrattenute con essa da diversi movimenti e soggetti politici come i liberali, i Borboni e i Garibaldini24 ma lo Stato italiano fatica ad inquadrare il problema e nel 1867 la Commissione d’inchiesta sulle condizioni morali ed economiche della provincia di Palermo fa pochissimi riferimenti alla mafia25.

Iniziano a svilupparsi narrazioni folkloristiche che evocano un dibattito tutt’oggi presente sull’idea che parlare di mafia sia sbagliato e che si rischia di fare una cattiva pubblicità a città e regioni che dovrebbero essere conosciute per le loro bellezz e.

24 Cfr. Cristaldi, La mafia e i suoi stereotipi televisivi, cit., p. 18.

25 In quegli anni notabili e grandi proprietari terrieri non mancavano di frequentare o pagare la protezione di

mafiosi locali spalleggiandoli e coprendoli anche dinanzi alle indagini delle autorità. Nacque una «sindrome mafiosa» in cui i funzionari governativi «cominciarono a vedere ovunque la presenza della mafia. La mafia era considerata una sorta di partito politico onnipotente, che riuniva tutti gli scontenti nell’isola, fossero questi contadini renitenti alla leva, impiegati degli uffici pubblici gettati sul lastrico dalla riorganizzazione attuata dopo l’unità, religiosi colpiti dalla privatizzazione dei beni ecclesiastici, oppositori dei governi moderati.» Paolo Pezzino, Le mafie, Giunti Editore, Firenze 2003, p.16.

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20 Ovviamente il tema non tocca questi argomenti di stretta attualità ma si abbozza la prima critica a coloro che guadagnano parlando di mafia, in particolar modo Giuseppe Pitrè nel suo testo Usi e costumi e pregiudizi del popolo siciliano del 1870 parla di tradimento per come è stato utilizzato il concetto di mafia da Mosca e Rizzotto e sostiene che la parola mafia dovrebbe indicare «graziosità, bellezza, eccellenza […] non mai braveria in cattivo senso, non mai arroganza, non mai tracotanza26».

Pitrè va ricordato anche perché si oppose con il suo comitato ad uno dei primi esempi di familiare impegnato nella richiesta di giustizia, parliamo del figlio del sindaco di Palermo Emanuele Notarbartolo assassinato nel 1893 in circostanze mai chiarite del tutto.

Ulteriori indagini sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia furono commissionate dallo Stato italiano nel 1875 ma la tendenza era quella di continuare a sottovalutare il problema; i risultati finali della nuova inchiesta non facevano altro che considerare i contadini siciliani in una situazione migliore di quelli del centro-nord e la mafia veniva percepita più come un atteggiamento istintivo di sfida e prepotenza nei confronti dello Stato piuttosto che come un’associazione con una sua struttura organizzata.

In quegli anni il futuro parlamentare Leopoldo Franchetti insieme a Sidney Sonnino scese in Sicilia per un’inchiesta privata da cui nacque il saggio Condizioni politiche e amministrative della Sicilia in cui si afferma l’esistenza di associazioni monopolistiche di stampo mafioso all’interno di alcuni settori come quello della molitura del grano. Niente di particolarmente rivoluzionario se non fosse che Franchetti si rende conto del carattere trasversale in termini di classe sociale del fenomeno mafioso in Sicilia, dove l’assenza di un ceto medio ha favorito la nascita di una violenta classe media gestita da capimafia di estrazione agiata che disciplinano e regolano assassini e ladri inquadrandoli all’interno di una vera e propria industria della violenza. Franchetti riconosce che il problema dovrebbe

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21 essere affrontato dal governo nazionale sia mediante un apposito intervento esterno che tramite l’amministrazione ordinaria.

È interessante l’interpretazione che Angelo Umiltà nel libro Camorra e mafia fornisce della mafia come organizzazione che tesse le proprie fila all’interno di ogni ramo della società penetrandovi in modo capillare: il ricordo va soprattutto alla Piovra, fiction Rai di cui parleremo in seguito.

Nel codice penale Zanardelli del 1890 seppur non si parli esplicitamente di mafia all’articolo 248 si stabilisce che «quando cinque o più persone si associano per commettere delitti contro l’amministrazione della giustizia o la fede pubblica, o l’incolumità pubblica, o il buon costume e l’ordine delle famiglie, o contro la persona o la proprietà, ciascuna di esse è punita, per il solo fatto dell’associazione, con la reclusione da uno a cinque anni27».

In tal senso è utile accennare al processo per associazione di malfattori del 1878 che coinvolge quella che oggi definiremmo un’organizzazione mafiosa a tutti gli effetti, gli Stuppagghieri di Monreale, coinvolti nella prima guerra di mafia della storia contro la fazione rivale dei giardinieri per il controllo dell’acqua. Il processo dopo un percorso travagliato terminerà con l’assoluzione degli imputati ma ciò che interessa in questa sede sono le caratteristiche strutturali dell’organizzazione utilizzate in seguite proprio per plasmare tutti i vari stereotipi e luoghi comuni sulla mafia e la sua rappresentazione mediatica.

Si trattava di un’associazione strutturata in tante sezioni quanti erano i quartieri del comune con capi e sottocapi per ogni sezione e un consiglio direttivo generale alla guida; i circa centocinquanta membri erano legati da un vincolo di sangue che implicava vendette e ritorsioni per chiunque venisse attaccato da soggetti esterni, inoltre avevano l’obbligo di distribuire i proventi delle varie estorsioni e rapine all’organizzazione dovendo allo stesso tempo mantenere il segreto sulla loro affiliazione anche perché una violazione del codice

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22 avrebbe implicato la morte in ventiquattr’ore. I compari giuravano fedeltà all’associazione mediante il tradizionale e celeberrimo rituale religioso della puntura di un dito con conseguente goccia di sangue sull’immagine del santo in questione che poi veniva bruciata. La prova della propria fedeltà avveniva mediante l’ordine di compiere la prima esecuzione utile decisa dai capi28.

Giuseppe Alongi nel 1886 pubblica il libro La maffia ed è rilevante citarlo perché è uno dei primi autori che puntualizza il carattere lucrativo delle organizzazioni mafiose quando le ricerche sino ad allora si erano concentrate principalmente sulla violenza e gli omicidi delle associazioni criminali. Alongi evidenza come la mafia riesce ad intrecciare rapporti ed interessi all’interno di tutti i settori della società da quelli pubblici a quelli privati e la rete d’influenza continua ad espandersi a macchia d’olio, partendo da Monreale l’esercizio del potere mafioso si è difatti esteso a buona parte della provincia palermitana. È una chiave di lettura molto attuale e aderente a quello che sono le mafie al giorno d’oggi, organizzazioni votate al profitto e che pongono gli interessi di bilancio al di sopra di tutto.

Umberto Santino non manca di affermare come alcuni aspetti come quello dell’omertà sono stati spesso inflazionati nella narrazione generale del fenomeno mafioso, la collaborazione con la giustizia è sempre esistita non di certo perché sia diffuso un improvviso pentimento del mafioso che si ravvede e sviluppa un senso di civiltà di cui prima non disponeva ma perché proprio per il carattere fatalista delle regole mafiose, dove la morte diventa un fatto probabile con cui convivere ogni giorno, tradire e collaborare appare l’unica via di fuga quando ci si sente braccati e senza speranza.

Santino riesce ad identificare la funzione sostanziale della mafia nella sua soggettività politica, si parla di mafia sia come ente e signoria territoriale che come organismo in grado di interagire e tessere relazioni con le istituzioni, da quelle ecclesiastiche come le

28 Altre associazioni che avevano la medesima struttura erano i Fratuzzi di Bagheria, l’Oblonica di Girgenti o

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23 confraternite religiose ai diversi gradi di quelle statuali29.

L’intervento da parte dello Stato per contrastare l’espansionismo della criminalità organizzata non è mai risultato convincente ed è sempre stato dettato da criteri emergenziali volti a cercare di sconfiggere un male già sviluppato senza alcuna focalizzazione su un’azione di sradicamento di queste radici. Ciò accade oggi come accadeva durante la fine del XIX secolo quando la percezione diffusa era di una mafia come residuo feudale di un sud ancora troppo arcaico. Negli anni ’60 del XX secolo la rappresentazione della mafia era ancora molto legata a questa visione non più feudale ma rurale e in pochi avrebbero immaginato un adattamento del fenomeno mafioso ai processi di industrializzazione e successivamente di globalizzazione. D’altronde gli stereotipi hanno sempre giocato un ruolo determinante nel tipo di racconto che si è fatto delle organizzazioni mafiose e i media stessi hanno favorito narrazioni che potessero compiacere il più possibile il pubblico assecondando semplificazioni di un certo rilievo30.

3 – La rappresentazione della mafia: gli stereotipi e il rapporto con l’informazione

La narrazione che negli anni la stampa, la tv, il cinema e persino i videogiochi ha costruito attorno alla figura del mafioso gioca sulla forte ambivalenza tra giustizia e illegalità e tra atteggiamenti positivi e negativi. Il mafioso viene dipinto come un criminale violento (il quale però delega al manovale esecutore gli omicidi che quindi appaiono come qualcosa di meccanico, lontano e impercettibile) e allo stesso tempo come un bravo uomo di casa, presente per la propria famiglia e pronto a tutto per difenderla dalle minacce esterne. Non si parla solo di famiglia nucleare ma anche di quella “adottiva”, della famiglia estesa identificabile con il proprio clan. Un familismo amorale che fa suo un certo tipo di stereotipo

29 Per la sociologa Marina D’amato si parla di mafia quando il diritto diventa una concessione: «Laddove la

sopraffazione e la voglia di potere che costituiscono la prassi e il fine della mafia assumono le sembianze di “autorevolezza”, e pretendono il “rispetto”, lì comincia il fenomeno criminale.» Marina D’Amato, Introduzione.

Il ruolo dei media nella costruzione dell’immaginario mafioso, in Marina D’Amato (a cura di) La mafia allo specchio – la trasformazione mediatica del mafioso, Franco Angeli, Milano 2013, p. 15.

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24 inerente i siciliani e la sicilianità come attributo di accoglienza, gentilezza e affetto; qualità che vengono svuotate del loro reale significato per essere adattate in modo paradossale alle organizzazioni criminali con l’utilizzo di convenevoli e atti premurosi da parte dei mafiosi che stridono con le loro pratiche violente.

In una società dov’è sempre più difficile distinguere il bene dal male, il pubblico tende a simpatizzare per i criminali di turno una volta che essi vengono dipinti in modo così umano, si cerca di comprendere le loro ragioni e si intensifica così quella passione per una certa letteratura romantica che rappresenta i criminali come delle figure affascinanti che si ritrovano a compiere scelte orribili a causa di amori e affetti spezzati, tutto questo mentre si sviluppa una letteratura sociale e scientifica che invece elenca gli impietosi atti e crimini del fenomeno mafioso31.

Uno dei primi studi culturalisti sulla mafia risale al 1970 con il sociologo tedesco Henner Hess che si cimenta in un approccio oramai superato visto l’impegno delle ricerche attuali a studiare la criminalità nelle sue caratteristiche organizzative, ma comunque utile ai fini del nostro discorso. Per Hess la mafia deve essere considerata nel suo agire sociale in totale contrasto con il sistema normativo legale dominante. La specificità della mafia sta proprio in questo conflitto tra una subcultura legittimata da metodi violenti e criminali ma da un punto di vista sociale molto vicina al sistema culturale siciliano (qui emerge una criticità dello studio, un tratto quasi razzista) e le regole burocratiche dello Stato italiano. Il sistema di regole utilizzato dalla mafia prevede da un lato l’utilizzo di codici a tratti normali, appartenenti alle aspettative che regolano i rapporti tra amici, familiari, clienti e datori di lavoro, dall’altro un insieme di regole esclusive incamerabili dentro il concetto di omertà, che implica una capacità del soggetto di sapersela cavare da solo in ogni situazione, di non dover chiedere nulla agli altri, di non doversi rivolgere minimamente alle autorità statali e

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25 l’abilità di riuscire a difendere da sé il proprio onore e quello della famiglia andando quindi ad identificare sempre più l’omertà come una sorta di virilità da uomo che non deve chiedere mai. Approcci di studio come quello di Henner Hess rientrano in una prospettiva che pone al centro del discorso le forme culturali e che studiano la mafia come gruppo di simboli e valori che si costituiscono, si modificano e si estinguono tramite le interazioni portate avanti dagli attori sociali e dai suoi osservatori32.

Nel testo curato da Marina D’Amato si effettuano una serie di studi sulla rappresentazione della criminalità organizzata all’interno dei principali giornali italiani durante l’arco temporale di riferimento che va dal 2000 al 2009 prendendo come riferimento i quotidiani Il Corriere della Sera, La Repubblica e La Stampa che sono quelli che più di tutti affrontano l’argomento e i due settimanali Panorama e L’Espresso che quantitativamente trattano meno il tema della mafia focalizzandosi più sulle inchieste e meno sulla semplice cronaca dei fatti come avviene invece per i giornali tradizionali33.

Ciò che emerge dai primi risultati è una sostanziale neutralità da parte dei giornalisti quando parlano di mafia, il loro bagaglio valoriale viene esternato solo nel 41% dei casi mentre è inquietante come sia molto diffusa (circa il 47%) l’idea che la criminalità organizzata sia un male inevitabile, a tratti invincibile con lo Stato che può vincere qualche battaglia ma non l’intera guerra. Il problema principale riguarda il modo in cui vengono descritti i criminali, spesso dipinti come persone straordinarie dotate di una personalità carismatica; questo tipo di valutazione tende ad essere effettuata soprattutto nei confronti dei grandi e vecchi boss, di coloro che guidavano le diverse mafie quando ancora c’erano dei presunti ideali e delle regole da rispettare. Di contro per i mafiosi di nuova generazione il tipo di visione adottata li descrive come personaggi in fin dei conti normali, appartenenti

32 Marina D’Amato e Anna De Stefano Perrotta, I valori, in Marina D’Amato (a cura di) La mafia allo specchio – la trasformazione mediatica del mafioso, Franco Angeli, Milano 2013, pp. 148-149.

33 Stefania Capogna, La mafia come notizia. Rappresentazione della mafia nella stampa italiana, in Marina

D’Amato (a cura di) La mafia allo specchio – la trasformazione mediatica del mafioso, Franco Angeli, Milano 2013, p. 47.

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26 ad un universo culturale parallelo rispetto a quello dominante. Si faticano a mettere in chiaro le conseguenze negative delle azioni criminali sull’intera collettività e sulle istituzioni, si preferisce descrivere il fascino e la maestosità degli innumerevoli imperi del crimine senza evidenziarne il costo in termini di disfacimento culturale ed economico.

Secondo i giornali italiani sembrerebbe che gli antichi valori tradizionali della mafia come l’onore e la fedeltà alla famiglia siano quasi scomparsi a tutto vantaggio di orientamenti decisamente più materiali come quelli del profitto e del potere personale, ciò si collega con la credenza diffusa che la mafia sia oramai costituita da giovani senza cervello privi della destrezza e dell’abilità dei vecchi saggi capiclan. L’effetto di un racconto del genere corre il rischio che la mafia venga incorporata all’interno del macro-ambito della criminalità in senso lato, con la graduale scomparsa del concetto di subcultura e dell’universo valoriale attorno al fenomeno mafioso che al massimo possono venire evocati per rimembrare i fasti di una mafia idealizzata che fu ma che oggigiorno parrebbe non esistere più34.

La rappresentazione della mafia all’interno dei giornali implica tutta una serie di responsabilità della stampa che deve saper raccontare il fenomeno mafioso seguendo un filo narrativo logico in grado di far comprendere al lettore ciò che accade e di poter elaborare così una propria idea sull’argomento.

Il giornalismo di qualità non è di certo dominante all’interno del paese, la crisi dei giornali dovuta al boom di Internet ha impoverito ancora di più il settore, sempre più dipendente dal clickbait e dal sensazionalismo del titolo ad effetto; ciò si addiziona ad un problema ben più specifico inerente al modo in cui si racconta la mafia, dove si predilige un’innocua cronaca nera e giudiziaria che sintetizza i fatti del giorno precedente in modo spesso distaccato e neutrale concentrandosi molto sulla mafia militare, quella degli omicidi

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27 e dei corpi lasciati per strada e poco sulla mafia dei colletti bianchi, delle trattative e degli accordi tra potere criminale e potere legale o imprenditoriale.

Il giudice Roberto Scarpinato si spinge ad aff ermare che mentre la stampa dedica ampio spazio a tratteggi della blanda personalità di Bernardo Provenzano, rivelando pure che amava mangiare cicoria e miele, dall’altro lato dimentica di ricordare che uno dei capi del mandamento mafioso del quartiere Brancaccio di Palermo sia stato un medico rinomato, il dottor Giuseppe Guttadauro, qualcuno ben lontano dall’idea del contadino ignorante descritto ampiamente sulle pagine dei giornali35.

Il problema quindi non è quantitativo, di mafia se ne parla tantissimo all’interno dei giornali, esiste però una dimensione qualitativa con forti criticità che in molti casi è assolutamente comprensibile: i giornalisti rischiano la vita ogni qualvolta che con le loro inchieste toccano gli interessi della criminalità organizzata e delle istituzioni colluse; oltre al pericolo fisico vi è quello della denuncia, della querela, del risarcimento danni, tutti strumenti che possono infliggere pesanti costi per il giornale o il giornalista in sé. Inoltre i media non hanno di certo il compito di riprodurre la realtà, bensì di registrarla ritagliando alcune parti di una realtà altrimenti troppo complessa.

È anche vero però che la stampa negli ultimi anni ha costruito un capitale di paura utile ad attrarre il lettore, molti giornali adoperano un linguaggio violento e a tratti apocalittico che si lega a stretto giro con la sindrome securitaria di alcuni partiti politici. Parlare di mafia in modo superficiale mostrandone solamente il lato violento e non quello finanziario ser ve a denunciare un certo degrado sociale talvolta a scopo politico, per screditare un certo colore partitico e difenderne un altro che promette più ordine e disciplina. Scompare una presa di coscienza sull’effetto di rispecchiamento che la stampa è in grado di produrre all’interno

35 Valentina Punzo, I protagonisti. Un’analisi qualitativa della rappresentazione del boss mafioso, in Marina

D’Amato (a cura di) La mafia allo specchio – la trasformazione mediatica del mafioso, Franco Angeli, Milano 2013, p. 162.

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28 dell’organizzazione mafiosa. Infatti la mafia ha sempre dato ampio risalto all’opinione pubblica e al modo in cui viene rappresentata dai media; la comunicazione pubblica fatta di silenzi e di poche parole rientra in un quadro strategico generale capace di destabilizzare gli equilibri interni del gruppo; i giornali dovrebbero riacquisire maggiore consapevolezza del proprio potere mediatico in termini di antimafia ma ovviamente per fare ciò deve esserci una volontà di fondo che latita oggigiorno36.

La cronaca degli arresti è capillare e molto precisa, si descrive il blitz in ogni più piccolo dettaglio, dal numero di carabinieri e poliziotti adoperati, passando per l’orario delle retate fino a riportare intercettazioni e pedinamenti effettuati nei giorni precedenti. Si adopera un linguaggio militare fatto di termini come esercito, guerra, generale o strategia del crimine e dove il boss viene descritto con aggettivi superlativi come il capo dei capi, il superboss, il boss indiscusso o il pericoloso boss.

Il potere del capomafia viene misurato dai media in base all’estensione di territorio sotto il suo controllo; questo dipende da un fattore centrale come il sistema di protezione-estorsione, lo strumento tramite cui la mafia impone delle tangenti da pagare ai vari commercianti, imprenditori, lavoratori che operano all’interno della propria zona di dominio. Costruire un mercato della protezione privata non è immediato, bisogna prima far percepire la violenza e il disordine in cui si rischia di incappare se non si è protetti dal clan di turno. In tal senso la dimensione della leadership mafiosa è altrettanto messa in risalto dai giornali, nello specifico si tende ad evidenziare il capitale sociale del boss, il network di relazioni costituito da legami forti interni in cui i vari mafiosi sono uniti da un vincolo associativo e da legami deboli esterni tra mafiosi e figure appartenenti alla zona grigia, dai politici agli imprenditori.

Un capomafia come Bernardo Provenzano è stato quasi esaltato da un punto di vista

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29 carismatico per la sua capacità di traghettare Cosa Nostra dalla fase stragista a quella di mediazione e di pace all’interno della quale bisognava saper curare i rapporti con categorie sociali e professionali che rivendicavano interessi di diverso genere. I giornali non mancano di mettere in evidenza questa trasformazione del boss in uomo d’affari rimarcando lo stile di quest’ultimo quando viene arrestato (di solito si fa catturare senza opporre resistenza e invitando alla calma i familiari), l’habitat nel quale vive durante la latitanza (si descrivono veri e propri fortini sotterranei pieni di ogni comfort) e i suoi gusti sfarzosi e borghesi in fatto di cibo con ostriche e champagne che simboleggiano un lusso sfrenato37.

La rappresentazione della mafia nei giornali trova alcuni punti in comune e altri divergenti se analizziamo il tipo di racconto dominante all’interno del merchandising turistico, nello specifico quello siciliano che più di tutti ha cavalcato l’immaginario collettivo del mafioso stereotipato per creare una fetta di mercato proficua fatta di gadget vari come accendini, portachiavi, posacenere, ombrelli, cappelli tutti associabili al brand Sicilia-mafia38.

Un’affinità evidente nei due modelli di narrazione si trova nella centralità attribuita alla violenza mafiosa che prende totalmente il sopravvento rispetto al potere economico della criminalità organizzata; basti pensare alle varie raffigurazioni del mafioso come personaggio maccheronico con baffi, coppola e lupara che richiama un tipo di mafia arcaica, rurale vicina alla figura del brigante. Dall’altro lato se i giornali non mancano oramai di raccontare un certo declino della mafia storica a tutto vantaggio di criminali privi di carisma, di gang a cui spesso viene sottratto il prestigioso attributo di organizzazione mafiosa, il folklore turistico rimane saldamente ancorato al passato: celebre è il magnete de u mafiusu che con baffi e

37 Ibid., pp. 172-177.

38 Il linguaggio stesso del mafioso trae spunto dal dialetto siciliano seppur con rimandi molto distanti dall’uso

comune di certe parole: «quando si dice manzo si intende un equivoco all’interno dell’organizzazione; pulizia rimanda alle misure necessarie da prendere per evitare di essere seguiti dalla polizia; fare l’orologio significa tenere d’occhio qualcuno. Se si parla di contratto ci si riferisce all’assegnazione di un omicidio; vestito vuoto si riferisce a una persona che non ha niente da offrire, ma che cerca di entrare nel giro della mafia; la recinzione si riferisce a un ricettatore; trovare un posto allude a un luogo per una sepoltura; il ratto è una spia, un membro che ha violato l’omertà; il mangiatore di carne sarebbe un poliziotto corrotto.» Cristaldi, La mafia e i suoi

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30 coppola guida una vespa rossa unendo pericolosamente uno dei simboli del boom economico italiano con una figura emblematica a livello parassitario della medesima crescita economica del paese. Pensiamo anche alle magliette con su scritto mafia a caratteri cubitali o quelle che richiamano il classico cliché sull’omertà del «non vedo, non sento, non parlo», così come le cartoline con impresso «minchia! In Sicilia fui!», sono prodotti che risolvono l’ambiguità del rapporto tra mafia e Sicilia, sovrapponendo i due concetti tra loro.

È facile quindi trovare statuette raffiguranti pure donne mafiose vestite però come la tradizione siciliana vuole, con indumenti interi lunghi e larghi e una sorta di copricapo che copre loro i capelli mentre il seno prorompente affiora dal vestito a simboleggiare la bellezza florida mediterranea. Non a caso la visione stereotipata della donna all’interno della famiglia mafiosa è molto affine con il luogo comune che vede la brava moglie e madre siciliana prendersi cura della famiglia stando al suo posto, annullando se stessa e sviluppando una passività utile ad affrontare la violenza e l’autorità del marito39.

Cirino Cristaldi a tal proposito ha effettuato un’indagine su due gruppi costituiti da cento persone l’uno divisi in tre fasce d’età e undici nazionalità chiedendo cosa veniva in mente ad un gruppo sentendo o leggendo il termine Sicilia e ad un altro sentendo o leggendo il termine mafia. Per quanto riguarda il primo campione il termine Sicilia veniva collegato alla parola mafia nel 64% dei casi con altre associazioni mentali curiose da riportare come Berlusconi al 4% o Il Padrino all’1%. Per il secondo campione invece la parola mafia veniva collegata all’Italia nel 66% delle risposte tra il 37% che parlava apertamente di Italia e un 29% che invece ha risposto con Sicilia, Palermo o Corleone; anche in questo caso sono interessanti altre associazioni mentali minoritarie che uniscono la parola mafia a Berlusconi nel 4% delle risposte e a Totò Riina, La Piovra e Lucky Luciano nell’1% dei casi. In totale

39 Nella seconda stagione de L’amica Geniale, fiction RAI tratta dagli omonimi romanzi di Elena Ferrante viene

specificamente trattato questo argomento, seppur nel contesto del rione napoletano, mostrando il declino dei corpi femminili sottomessi ad una società patriarcale che cancella la loro identità fisica e personale.

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31 sui 200 intervistati appartenenti ai due gruppi ben 90 hanno associato la parola mafia alla Sicilia con il 45% dei partecipanti proveniente da undici nazionalità diverse che quindi ha confermato lo stereotipo del siciliano mafioso40.

Il discorso elaborato sino ad ora può trovare una sua sintesi nell’intervista di Bruno Vespa a Salvatore Riina, terzogenito del famigerato boss di Cosa Nostra Totò Riina, avvenuta nella puntata di Porta a Porta del 6 aprile 2016. L’intervista ha suscitato diverse polemiche41 ma alla fine è stata mandata in onda con un discreto sostegno da parte del consiglio d’amministrazione della Rai. Analizziamola un po’.

Vespa presenta l’intervista cercando di enfatizzare il carattere unico di ciò che stava per esser mostrato al pubblico, parlando apertamente di un’intervista al figlio del capo dei capi e quindi adoperando un’espressione che sebbene sia sempre stata molto utilizzata dai media va a colpire l’immaginario collettivo della gente che associa quell’appellativo all’omonima miniserie di Canale 5 del 2007.

Il confronto tra Vespa e Riina non avviene nello studio televisivo del programma, si tratta infatti di una registrazione avvenuta all’interno di un luogo non meglio specificato con poche luci, oscuro e con un’inquadratura soggettiva che riprende di spalle Vespa mentre guarda Salvatore Riina, alternando ciò ad alcuni zoom sul suo volto che servono ad atomizzare l’impenetrabile sguardo, scandagliarlo alla ricerca di qualche dettaglio espressivo che però fatica ad emergere.

Il dialogo tra i due inizia e si conclude su toni assolutamente pacati, non si cerca la polemica perché le domande erano state sicuramente oggetto di un precedente accordo tra

40 Cristaldi, La mafia e i suoi stereotipi televisivi, cit., pp. 24-44.

41 È significativo constatare che le proteste arrivarono soprattutto dal Partito Democratico e dalla Commissione

parlamentare antimafia mentre furono relativamente assenti per quanto concerne la parte politica avversaria con Fabrizio Cicchitto del Nuovo Centrodestra che non condivise il concetto di negazionismo alla base delle critiche nei confronti dell’intervista. La lottizzazione della Rai con Antonio Campo Dall’Orto, direttore generale dell’epoca voluto dall’area renziana di governo e le prese di posizioni politiche nei confronti dell’intervista esprimono il caos di schieramenti partitici di quegli anni, ma il fatto che questa polemica sia stata paradossalmente portata avanti da chi era al governo e non molto dall’opposizione dimostra la divisione dell’opinione pubblica su un tema così scottante. https://www.repubblica.it/politica/2016/04/06/news/riina_rai-137025108/

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