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Prevenzione della MEFN: gestione della donna RhD negativa in gravidanza, appropriatezza ed efficacia dell'immunoprofilassi anti-D nell`esperienza del SIMT di Livorno

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Dipartimento di Medicina clinica e sperimentale

SPECIALIZZAZIONE IN PATOLOGIA CLINICA E BIOCHIMICA CLINICA

Prevenzione della MEFN: gestione della donna RhD negativa in gravidanza, appropriatezza ed efficacia dell’immunoprofilassi nell‘esperienza del SIMT di Livorno.

Relatore: Prof.ssa Silvia Pellegrini

Correlatore: Dott.ssa Silvia Ceretelli

Candidato: Lavinia Maggiorini

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INDICE

1) INTRODUZIONE 1.1) ANTIGENE RhD

1.2) IMMUNIZZAZIONE ANTI-D

1.3) MALATTIA EMOLITICA DEL FETO E DEL NEONATO 1.4) INDAGINI IMMUNOLOGICHE IN GRAVIDANZA

1.5) INDAGINI DI II LIVELLO: LA BIOLOGIA MOLECOLARE 1.6) IMMUNOPROFILASSI ANTI-D

2) SCOPO DEL LAVORO

3) MATERIALI E METODI

4) RISULTATI

5) DISCUSSIONE

6) CONCLUSIONI

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1) INTRODUZIONE

L’articolo 5 della Legge 219 del 21 ottobre 2005 in merito ai “Livelli essenziali di assistenza sanitaria in materia di attività trasfusionale“ stabilisce quali sono i “servizi e le prestazioni erogati dalle strutture del Servizio Sanitario Nazionale in rapporto alle specifiche competenze disciplinari, in materia di attività trasfusionali“. Questi comprendono le indagini prenatali finalizzate alla prevenzione di problemi immunoematologici e della malattia emolitica del neonato e l’obbligo di tenere un registro dei soggetti da sottoporre alla profilassi (comma 9).

Nel 2014 sono state pubblicate le “Raccomandazioni per la gestione della MEFN” dal gruppo di lavoro SIMTI ( Società Italiana di Medicina Trasfusionale e Immunoematologia) in collaborazione con la SIGO ( Società Italiana di Ostetricia e Ginecologia). L’obiettivo di tale documento è quello di fornire delle linee guida per la prevenzione e la gestione della MEFN (Malattia Emolitica del Feto e del Neonato), in particolare quella da incompatibilità RhD, la più grave e frequente tra queste forme morbose. Tali Raccomandazioni sono rivolte alle Strutture Trasfusionali e a tutte le Strutture pubbliche afferenti al Dipartimento Materno-Infantile, ai Consultori Familiari e alle strutture private che gestiscono la gravidanza (1). La prevenzione della MEFN deve essere garantita, con modelli organizzativi adatti alle realtà locali, a tutte le donne in gravidanza, alle quali deve anche essere assicurata un’adeguata informazione. Le Raccomandazioni riguardano sia la gestione delle indagini diagnostiche che la gestione dell’immunoprofilassi. Inoltre, gli “Standard di Medicina Trasfusionale SIMTI 2017” stabiliscono l’obbligo di adottare specifiche procedure per le indagini

immunoematologiche finalizzate alla prevenzione e allo studio della Malattia Emolitica del Neonato in relazione alla casistica osservata e al grado di specializzazione delle aree assistenziali materno-infantili servite (2).

Il 1 marzo 2019 con la delibera 1371 sono entrate in vigore importanti novità introdotte dalla Regione Toscana nel percorso nascita. L’aggiornamento del protocollo regionale per la gravidanza fisiologica è frutto del lavoro di una serie di gruppi tecnici attivati nell’ambito del Comitato

Percorso Nascita regionale che ha tenuto conto non solo delle precedenti normative ma anche delle più recenti evidenze scientifiche. Nel percorso regionale sono state inserite nuove prestazioni, in particolare alcuni test per determinare il rischio di gravidanza con anomalie cromosomiche e la somministrazione di immunoprofilassi anti-D a partire dalla 28a settimana come procedura di routine. Inoltre è già disponibile una app, hAPPyMamma, che consente di avere tutte le informazioni necessarie sul percorso nascita e di accedere al libretto di gravidanza in formato digitale. hAPPyMamma è un’applicazione promossa dalla Regione Toscana per facilitare le donne

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nell’accesso e nell’utilizzo dei servizi per la gravidanza, il parto ed il primo anno di vita del bambino; la app è stata realizzata dal Laboratorio Management e Sanità della Scuola Sant’Anna di Pisa, in collaborazione con i referenti regionali ed aziendali del percorso nascita e della sanità digitale.

1.1) ANTIGENE RhD

L’antigene Rh è stato scoperto a New York nel 1939 da Levine e Stetson che evidenziarono un anticorpo nel siero di una donna che aveva partorito un bambino morto e successivamente aveva presentato una reazione emolitica in seguito ad una trasfusione con una unità di sangue donata dal marito (3,4,5).

I fenotipi Rh sono controllati da due geni altamente omologhi posizionati sul braccio corto del cromosoma 1 (p34-36) (6,7): il gene RHD codifica per l'antigene D e il gene RHCE codifica per gli antigeni Cc, Ee. Il gene RHCE è stato scoperto nel 1990 e quello RHD nel 1992; entrambi i geni sono costituiti da 10 esoni e si trovano in orientamento opposto, cioè in configurazione coda-coda (5'RHD3'-3'RHCE5 '). La loro stretta vicinanza cromosomica e l’insolito orientamento potrebbero spiegare la loro complessità genetica. I geni RHD e RHCE codificano proteine di 417 aminoacidi che attraversano la membrana dodici volte, formando sei loop extracellulari che rappresentano i potenziali siti per l'espressione degli antigeni Rh (8-10). (Figura 1)

Figura 1: In alto la figura mostra l’orientamento invertito dei geni RHD e RHCE e la delezione di RHD associata al fenotipo Rh negativo. In basso il modello a 6 loop trans-membrana delle proteine RhD e RhCE nella membrana eritrocitaria.

Il fenotipo RhD Negativo è caratterizzato dall’assenza della proteina RhD sulla membrana; è prevalente nella popolazione Caucasica (15-17%), ma è meno comune negli Africani (5%) e negli Asiatici (2%). Molteplici eventi genetici in diverse popolazioni sono responsabili della mancata

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espressione RhD; nei Caucasici è presente una delezione dell’intero gene RHD, mentre negli Africani e negli Asiatici è presente un gene RHD inattivo o silente.

Nel 1946 Stratton utilizzò per la prima volta la denominazione Du (D non determinabile) in campioni con reazioni sierologiche deboli nella tipizzazione D. Ci sono tre gruppi principali di varianti: D-Weak, D-Partial e DEL (Tabella 1). I D-weak sono di solito associati a sostituzioni amminoacidiche nei domini transmembrana o intra-citoplasmatici della proteina RhD. Le varianti più frequenti di D weak sono quelle classificate come Tipo 1,2 e 3; poichè le alterazioni riguardano zone “non critiche” della molecola, tutti gli epitopi risultano espressi e l’esposizione a globuli rossi RhD positivi non determinerà la produzione di anticorpi anti-D (11,12). I D-partial sono di solito associati a sostituzioni aminoacidiche nei loop extracellulari della proteina RhD oppure derivano da geni ibridi in seguito a ricombinazione genica tra RHD e RHCE; sono varianti qualitative

caratterizzate dalla mancanza di uno o più epitopi e i più frequenti sono il DVI nei Caucasici e i DIIIa e DAR negli Africani. Un altro tipo di variante è il DEL, causato da mutazioni nel sito di splicing e nel quale il D viene espresso in modo talmente debole che non può essere rilevato dai metodi sierologici convenzionali e richiede pertanto tecniche speciali come l’assorbimento-eluizione (13). Le tipicità D-partial (mutazioni missense o conversione genica), sono prevalenti negli Africani, le tipicità DEL(mutazioni missense o mutazioni al sito di splicing) negli Asiatici e le tipicità D-weak (mutazioni missense) nei Caucasici (14-16) (Figura 2)

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6 Figura 2: Distribuzione geografica delle varianti del gene RHD

Negli ultimi 20 anni la definizione molecolare delle varianti RhD ha ampliato notevolmente le nostre conoscenze sul polimorfismo dei geni RHD e RHCE con la descrizione di oltre 300 alleli; l’incidenza delle varianti alleliche è dello 0,2-1% nei soggetti Caucasici, ma è

molto più elevata negli individui di origine Africana (14,15).

1.2) IMMUNIZZAZIONE ANTI-D

Nel campo della medicina trasfusionale, l’antigene D è il più importante del sistema Rh ed il più immunogeno dopo gli antigeni gruppo-ematici A e B. È stato largamente documentato che l'80% dei soggetti D negativi se trasfusi con una o più unità di sangue D positivo forma anticorpi anti-D. La somministrazione di una quantità di 0,5 ml di emazie RhD positive può determinare, nel 50% dei casi, la produzione di anticorpi anti-D in soggetti RhD negativi.

In gravidanza un’emmorragia feto-materna di 0.1 ml è sufficiente a stimolare la produzione di anticorpi e prima dell'introduzione dell'immunoprofilassi anti-D, almeno il 20% delle donne D negative che avevano un figlio D positivo si immunizzava (17,18). Da sottolineare che, finora, non sono stati segnalati casi di immunizzazione nei D weak più comuni (Tipo 1-2-3).

Ad oggi le principali cause di immunizzazione sono (Figura 3):

- Immunizzazioni anti-D in corso di gravidanza per emorragie feto-materne (EFM) silenti, solitamente dopo la 28a settimana di età gestazionale (EG), che interessano circa l'1% delle donne RhD negative madri di un feto RhD positivo (26)

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7 - Mancata somministrazione dell'immunoprofilassi

- Inefficacia dell'immunoprofilassi per somministrazioni non congrue all'entità dell'EFM - Possibili errori nella tipizzazione della gravida o del neonato

- Possibili errori nel trattamento trasfusionale delle donne con potenziale gravidico (trasfusione di concentrati eritrocitari con disparità antigenica RhD

Tabella 2: Cause di allo-immunizzazione anti-D

L’anticorpo anti-D può scatenare gravi reazioni trasfusionali emolitiche e la malattia emolitica del feto e del neonato (MEFN), dovuta al passaggio di anticorpi anti-D di classe IgG presenti nel siero materno attraverso la barriera placentare è una grave manifestazione di questo fenomeno (Figura 3).

Figura 3: Patogenesi della MEFN nella madre, nel feto e nel neonato Immunoprofilassi inadeguata Immunizzazione residua Errori analitici Mancata somministrazione Flussi migratori da paesi in via di svluppo/tossicodipenti Errori nella tipizzazione RhD della madre o del neonato

Dose insufficiente Immunizzazione in gravidanza

Errori nella terapia trasfusionale

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1.3) MALATTIA EMOLITICA DEL FETO E DEL NEONATO

L'alloanticorpo anti-D è l'anticorpo più frequentemente responsabile di MEFN (19,20). Prima dell'introduzione dell'immunoprofilassi anti-D, la MEFN secondaria a immunizzazione anti-D colpiva l'1% dei neonati e causava la morte di un bambino ogni 2.200 nati (21). Nonostante

l'introduzione negli anni settanta dell‘ immunoprofilassi post partum nelle gravide RhD negative ne abbia drasticamente ridotto i casi (22), la MEFN da anti-D continua ad essere rilevata in 0,4 su 1.000 nascite e l'alloimmunizzazione eritrocitaria rimane la causa più frequente di anemia fetale (23-25).

La causa fondamentale della MEFN è la reazione tra gli anticorpi materni di classe IgG e gli antigeni presenti sui globuli rossi fetali che ha come conseguenza la loro distruzione,

principalmente nella milza.

La MEFN raramente si verifica durante la prima gravidanza, a meno che la madre non sia stata precedentemente sensibilizzata da trasfusioni. Durante la prima gravidanza avviene

l'immunizzazione materna primaria, caratterizzata dalla produzione di una piccola quantità di anticorpi IgM, immunoglobuline che non attraversano la placenta. Nelle gravidanze successive, e dopo ulteriori esposizioni all'antigene, come risultato dell'immunizzazione secondaria, si producono anticorpi IgG, che possono attraversare la placenta e causare emolisi. La risposta immunitaria dipende dall'entità dell'EFM, dal numero di eventi immunizzanti e dalla capacità di risposta della donna. L'incompatibilità ABO tra madre e feto protegge parzialmente dall'immunizzazione. La distruzione immuno-mediata dei globuli rossi fetali determina anemia che induce, da un lato, eritropoiesi compensatoria con l’introduzione in circolo di eritroblasti, dall’altro, anossia cronica con conseguenti modificazioni della circolazione fetale in senso iperdinamico risultanti in

cardiomegalia e scompenso cardiaco ad alta gittata. Nei casi più gravi può verificarsi la condizione di idrope fetale, caratterizzata dall’accumulo di fluidi o edema in almeno due compartimenti e che può portare alla morte del feto. L’emolisi dei globuli rossi fetali inoltre, detemina un aumento dei livelli di bilirubina che oltrepassa la placenta e viene eliminata attraverso il metabolismo materno; il processo emolitico continua dopo la nascita ed il fegato del neonato non riesce a coniugare

sufficientemente l’eccesso di bilirubina. La risultante iperbilirubinemia, se non trattata, puo‘ portare a gravi danni del sistema nervoso centrale; questa condizione nota come kernittero è caratterizzata dal deposito di bilirubina nei gangli della base e nei nuclei del tronco cerebrale e può esitare in gravi forme di paralisi cerebrale, perdita dell’udito e deficit psicomotori. Se scoperta durante la

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prevenire l’idrope fetale. Lo sviluppo di kernittero può invece essere prevenuto intervenendo precocemente sui livelli della bilirubina con fototerapia o eritro-exchange (27). (Figura 4) E‘ quindi fondamentale individuare le gravidanze a rischio di sviluppare MEFN mediante un corretto programma di screening che consenta un tempestivo intervento terapeutico.

L'esame di elezione per valutare il grado di anemizzazione fetale, in anticipo sui segni di idrope, è la determinazione del picco di velocità di flusso dell'arteria cerebrale media (ACM-PVS) con eco-Doppler (28,29). Questa tecnica è oggi riconosciuta come la più efficace nell'identificare in modo non invasivo l'anemia moderata-grave ed ha definitivamente sostituito l'analisi spettrofotometrica del liquido amniotico, utilizzata in passato per determinare i livelli di bilirubina (30,31).

Figura 4: Storia clinica della MEFN; esami di screening per casi a rischio di sviluppare malattia e possibili interventi terapeutici

Nella storia naturale della malattia, il feto nel 50% dei casi presenta solo lieve anemia e non necessita di alcun trattamento; nel 25% dei casi può presentare iperbilirubinemia e kernittero; nel rimanente 20-25% dei casi la MEFN da anti-D si può presentare nella sua forma più grave con idrope fetale e morte prima della 34a settimana di EG (32).

Attualmente, con il miglioramento della sorveglianza materno fetale e con la possibilità di

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1.4) INDAGINI IMMUNOLOGICHE IN GRAVIDANZA

Le raccomandazioni per la prevenzionde della MEFN pubblicate nel 2014 dalla SIMTI in

collaborazione con la SIGO definiscono gli esami immunoematologici e strumentali da effettuare nel periodo prenatale e perinatale (Tabella 3).

L’obiettivo di tali raccomandazioni è dare un indirizzo adeguato per la gestione e prevenzione della MEFN con la finalità di promuovere comportamenti omogenei sul territorio nazionale (1).

Secondo tale documento, così come prescritto anche dal libretto di Gravidanza fornito dalla regione Toscana, su tutte le gravide devono essere effettuati presso un servizio trasfusionale (ST),

possibilmente entro il primo trimestre, la determinazione del gruppo ABO e del fattore RhD con metodica convalidata (20,33,34).

Per la determinazione del tipo RhD devono essere utilizzati due diversi reagenti anti-D monoclonali che non devono riconoscere la variante DVI dell'antigene RhD (34,35).

Contestualmente alla tipizzazione di gruppo nel primo trimestre, dovrà essere eseguita sul plasma/siero della gravida la ricerca di anticorpi irregolari antieritrocitari impiegando il test all'antiglobulina indiretto (TAI). Se la ricerca di anticorpi è positiva, al fine di valutare il rischio di MEFN, deve esserne identificata la specificità, il titolo e l'origine, con un'accurata anamnesi immunoematologica e ostetrica della donna.

A 28 settimane di EG, il TAI deve essere ripetuto a tutte le donne indipendentemente dal loro stato RhD (36,37). Assieme al TAI, se non esiste una precedente tipizzazione negli archivi della ST, oltre quella eseguita nel primo trimestre, si suggerisce di ricontrollare il gruppo ABO e RhD (38).

Nelle donne RhD negative che eseguono la profilassi antenatale a 28 settimane di EG, il TAI deve essere eseguito prima della somministrazione dell'immunoprofilassi.

Altre ricerche anticorpali non dovrebbero essere effettuate di routine se il risultato del TAI rilevato a 28 settimane di EG è negativo poichè gli anticorpi irregolari rilevati solo nel terzo trimestre non causano di solito MEFN (39,40).

Nelle donne in cui siano rilevati anticorpi non clinicamente significativi, si raccomanda di ripetere l'identificazione a 24 e 34 settimane di EG, se RhD negative, esclusivamente a 34 settimane di EG, se RhD positive (37).

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Nel caso in cui venga individuato un anticorpo riconosciuto come potenziale causa di MEFN, ne deve essere determinato il titolo con una tecnica standardizzata (per gli anti-D si eseguono le titolazioni con un TAI in fisiologica con incubazione di 60 minuti a 37°, utilizzando anti-IgG). Il valore critico del titolo anticorpale è quello che si associa a un rischio significativo di idrope fetale e per quanto riguarda gli anticorpi anti-D, è pari a 1:32.

Nel caso di gravida con presenza di anticorpi anti-D, o di altri anticorpi clinicamente significativi per MEFN, è necessario eseguire la titolazione dell'anticorpo ogni 4 settimane fino alle 18 settimane di EG; successivamente, ogni 2-4 settimane sulla base della rilevanza clinica e dei valori riscontrati. L'incremento rapido del titolo impone un monitoraggio immunoematologico più frequente e una più stretta sorveglianza materno-fetale.

Tabella 3: Test immunologici raccomandati durante la gravidanza ( Raccomandazioni SIMTI/SIGO n° 1-11) Test immunoematologici Pazienti Settimana di gestazione Gruppo sanguigno

ABO/RhD

Tutte le gravide • Entro il primo trimestre • Alla 28a settimana Ricerca anticorpi

irregolari anti-eritrocitari

Tutte le gravide • Entro il primo trimestre • Alla 28a settimana • Eventi potenzialmente

immunizzanti Identificazione anticorpale Gravide con TAI positivo • Rilevamento iniziale

• Anticorpi non clinicamente significativi: 24 a e 34a settimana per le donne RhD -; 34a settimana per le RhD + Titolazione anticorpale Gravide con specificità

anticorpali clinicamente significative

• Ogni 4 settimane fino alla 18a settimana

• Ogni 2-4 settimane dopo la 18a settimana

• Stretto monitoraggio in caso di rapidi incrementi del titolo

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Le raccomandazioni inoltre suggeriscono, trascorsi almeno 6 mesi dal momento del parto, di ripetere la ricerca di anticorpi anti-D nel siero delle madri RhD negative che abbiano ricevuto somministrazione di immunoprofilassi, per verificarne l’efficacia (Raccomandazione n°19). Una negatività della ricerca anticorpale depone per il successo dell’immunoprofilassi.

1.5) INDAGINI DI II LIVELLO: LA BIOLOGIA MOLECOLARE

Le moderne strategie diagnostiche e preventive riguardanti l’immunoprofilassi anti-D hanno evidenziato che la biologia molecolare trova ampia applicazione in ambito ostetrico/prenatale. Le ‘‘Raccomandazioni SIMTI per l’impiego delle metodiche molecolari in immunoematologia“ pubblicate nel 2018 suggeriscono di eseguire la determinazione degli antigeni eritrocitari con metodi molecolari in caso di: varianti RhD, per la gestione appropriata dell’immunoprofilassi in gravidanza; studio della zigosità RhD paterna; tipizzazione genomica del gruppo RhD fetale con metodi invasivi o da plasma materno per la definizione del rischio di MEFN (madre immunizzata) o per la gestione antenatale dell’immunoprofilassi (madre non immunizzata). (Tabella 4)

Tabella 4: Applicazioni cliniche della biologia molecolare nella tipizzazione dei gruppi sanguigni in gravidanza

Approfondimenti diagnostici con indagini molecolari dovrebbero essere eseguiti in caso di

discrepanze o dubbi sierologici nella determinazione del fenotipo RhD. Una corretta classificazione dei D-variant è importante per stabilire l’appropriatezza della somministrazione di

immunoglobuline anti-D che è necessaria esclusivamente in caso di varianti a rischio di sensibilizzazione (41). (Figura 5)

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Le tipicità D-weak tipo 1, 2 e 3 rappresentano circa il 90% di tutti gli alleli RHD riportati nella popolazione Caucasica e secondo le attuali evidenze scientifiche non risultano a rischio di alloimmunizzazione materno-fetale, rispetto a tutte le altre varianti che devono essere altresì sottoposte ad immunoprofilassi anti-D.

Figura 5: Algoritmo diagnostico per la gestione delle discrepanze RhD

Dopo l'identificazione di un anticorpo clinicamente significativo per MEFN, se la coppia acconsente, si può procedere ricercando nel padre del nascituro la presenza del corrispondente antigene e se esso fosse presente verificare la condizione di eterozigosi o omozigosi (42,43). Se il padre è omozigote per il corrispondente antigene e la paternità è certa, il feto è chiaramente a rischio di MEFN. Attualmente per determinare la zigosità RhD si impegano tecniche che utilizzano la reazione a catena della polimerasi o PCR (44). Se il padre è eterozigote per l'antigene verso cui è rivolto l'anticorpo individuato, per le donne che si sottopongono a diagnosi prenatale invasiva per altre indicazioni, si suggerisce la determinazione del genotipo del feto con un test in PCR eseguito su campioni ottenuti da materiale fetale dall'amniocentesi, dai villi coriali o da cordocentesi (45). Queste tecniche invasive, purtroppo, aumentano il rischio di aborto spontaneo, possono far aumentare i livelli anticorpali e non dovrebbero essere utilizzate se non esistono altre indicazioni alla loro esecuzione. Secondo le Linee guida sullo ‘‘Screening prenatale non invasivo basato sul DNA‘‘ approvate dal Consiglio Superiore di Sanità nell’Assemblea generale del 12 maggio 2015, la determinazione genotipica del gruppo fetale RhD può essere eseguita direttamente su campioni di plasma materno tra la fine del primo e l'inizio del secondo trimestre di gravidanza (46). È stato

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infatti dimostrato che, a partire dalla 16a settimana di gravidanza, il DNA fetale cell-free (cfDNA) è presente nel plasma materno in quantità sufficienti (circa 3-6%) per determinare il genotipo RHD fetale con metodiche di PCR- Real Time.

Il cfDNA origina dalla lisi delle cellule materne e placentari. A partire dalla 5a settimana di amenorrea, il citotrofoblasto placentare si ancora alla decidua parietale uterina, le arterie spirali deciduali irrorano le lacune presenti tra la decidua e la placenta, il citotrofoblasto invade e tappezza le pareti delle arterie uterine spiraliformi e le rimodella. Il ricambio delle cellule del trofoblasto, che ricopre le pareti delle arterie spiraliformi, mediato dalle citochine, libera il DNA. I frammenti di DNA fetale degradato contengono circa 180 paia di basi (bp) e sono sospesi nel plasma arterioso. L'introduzione del test con il cfDNA per determinare il tipo RhD fetale riduce la necessità di somministrare le immunoglobuline a tutte le donne RhD Negative. Attualmente sono disponibili diverse metodiche basate sulla tecnica della Real Time PCR che producono risultati con

un’accuratezza superiore al 99%. E‘ stata dimostrata una potenziale riduzione di circa il 40% dell’utilizzo delle immunoglobuline in fase antenatale con la genotipizzazione RHD fetale in 1440 donne RhD-negative (47).

1.6) IMMUNOPROFILASSI ANTI-D

L‘immunoprofilassi come terapia preventiva della MEFN si basa sull'iniezione di immunoglobuline anti-D ottenute per frazionamento di plasma di donatori immunizzati con eritrociti Rh-positivi. La procedura sfrutta il processo di frazionamento a freddo con etanolo o Frazionamento di Cohn, che si basa sulla differenza di solubilità dell'albumina e delle altre proteine plasmatiche in base a pH, concentrazione di etanolo, temperatura, forza ionica e concentrazione di proteine.

La via somministrazione di elezione è quella per via intramuscolare; il muscolo deltoide è un sito appropriato e sicuro per ottimizzare l’assorbimento (48) ma può essere utilizzata anche la regione glutea.

In caso di alterazioni dell’emostasi in cui siano controindicate le iniezioni intramuscolo o nei casi in cui sia prevista la necessità di somministrare elevati dosaggi di Ig anti-D per EFM massive si raccomanda la somministrazione per via endovenosa.

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La gestione delle immunoprofilassi è sotto la diretta responsabilità del Servizio Trasfusionale (legge trasfusionale italiana 107/90 e Legge 219/2005), che sorveglia la corretta somministrazione nelle donne RhD-Negative o D-variant e ne tiene traccia con la tenuta di un registro.

La somministrazione di immunoglobuline anti-D impedisce la formazione di anticorpi diretti contro i globuli rossi del feto Rh positivo; il siero iniettato va a neutralizzare i globuli rossi Rh positivi provenienti dal sangue fetale, ancor prima che il sistema immunitario materno li riconosca come estranei ed inizi il processo di allo-immunizzazione nei loro confronti.

E' noto che l'incidenza della malattia emolitica del feto e del neonato si è ridotta drasticamente dal 15% al 1-2% dopo l'introduzione, nel 1968, della profilassi anti-D al momento del parto per le donne RhD-negative. Attualmente tutte le donne RhD-negative non sensibilizzate che abbiano partorito un neonato RhD-positivo (o D-variant) devono ricevere una dose di immunoglobuline anti-D entro 72 ore dal parto. La dose standard utilizzata in Italia è di 1.500 UI (Unità

Internazionali) che è equivalente a 300 microgrammi di immunoglobuline specifiche (17,18,50). Con la profilassi in fase prenatale alla 28a settimana di EG, l'immunizzazione anti-D si è

ulteriormente ridotta allo 0,1-0,3% (51); quindi è ormai raccomandata una profilassi sistematica alla 28a settimana di gravidanza con la somministrazione di una dose di 1.500 UI di immunoglobuline anti-D. Il titolo anticorpale sviluppato in seguito a immunoprofilassi è considerato protettivo per valori > 1:32 per cui, tutte le donne che al momento del parto presentino valori inferiori, dovranno ricevere una seconda dose di immunoglobuline anti-D.

L'immunoprofilassi antenatale con Ig anti-D nelle donne RhD negative con partner RhD negativo non è indicata, purché sia accertata la paternità. Egualmente, qualora sia stato determinato il genotipo RhD fetale e fosse risultato negativo, non è necessario alcun intervento (44,45,46,52). Se nella determinazione dell'RhD si osserva una discrepanza sierologica, secondo quanto previsto dagli Standard SIMTI è auspicabile che l'attribuzione del fenotipo RhD sia confermato con metodiche di biologia molecolare. Nei casi in cui non sia possibile definire la variante antigenica con analisi molecolari, la donna deve essere considerata come RhD negativa e l'immunoprofilassi deve essere praticata.

La profilassi deve essere eseguita anche dopo un aborto o un evento che possa favorire il passaggio dei globuli rossi fetali nella circolazione materna (emorragia, amniocentesi, cordocentesi, trauma dell’addome, ecc). Per la profilassi a seguito di eventi a rischio di immunizzazione avvenuti fino a 19+6 settimane di EG una dose di 625 UI (125 μg) di Ig è ritenuta sufficiente (53-55).

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Per tutti gli eventi a rischio d'immunizzazione occorsi dopo le 20 settimane di EG così come dopo il parto di un neonato RhD positivo, dovrebbe essere somministrata una dose minima di 625 UI (125 μg) di Ig anti-D, seguita dalla valutazione dell'EFM. Nel caso in cui un test quantitativo per la determinazione dell’entità dell‘EFM, mostri che il volume di emorragia supera quello coperto dalla dose somministrata, deve essere iniettata un'ulteriore dose di Ig anti-D (125 UI ogni mL di eritrociti fetali RhD positivi) (56). (Figura 6)

Figura 6: Raccomandazioni SIMTI per la somministrazione di immunoprofilassi anti-D

Per valutare la presenza di EFM e quantificarne il volume sono state proposte diverse tecniche di laboratorio.

Il test di Kleihauer-Betke è il più noto e da tempo utilizzato. Si basa sulla resistenza dell'emoglobina fetale (HbF) all'eluizione acida: dopo il trattamento con un tampone acido, la percentuale di emazie fetali presenti nello striscio periferico materno viene utilizzata per calcolare approssimativamente l'entità dell’EFM. Il test risulta economico e semplice ma di difficile standardizzazione; si basa sull’interpretazione soggettiva dell’esecutore e la sua precisione è limitata a piccoli volumi di emorragia transplacentare. Un altro limite è rappresentato da risultati falsamente positivi nelle donne con persistenza di elevati valori di HbF o con produzione anomala di HbF durante la gravidanza. Per questi motivi la metodica è indicata solo come test di screening e per emorragie superiori a 2,5 mL è necessaria una rivalutazione dell’entità con metodiche più accurate quali la citometria a flusso (57). Questa tecnica utilizza anticorpi monoclonali diretti contro le cellule RhD positive o, in alternativa, anticorpi monoclonali diretti rispettivamente contro L’HbF e l’isoenzima carbonicoanidrasi, espresso solo nei primi mesi di vita. Il test risulta molto preciso e permette una esatta valutazione quantitativa, risulta però dispendioso e alla portata di pochi laboratori

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In Italia e in altri paesi europei dove la dose raccomandata è di 1500 UI il test per la valutazione della EFM non sempre viene utilizzato (18).

Diversi studi tuttavia hanno dimostrato che circa lo 0,3% delle gravidanze sono associate, durante il parto, a un EFM superiore a 15 mL, quantità non coperta dalla dose di 1500 UI (58-60). Ciò

significa che fino a 3 donne RhD negative ogni 1000 potrebbero essere a rischio di alloimmunizzazione.

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2) SCOPO DEL LAVORO

Nel presidio ospedaliero di Livorno le donne in gravidanza vengono seguite attraverso un percorso diagnostico-clinico-preventivo che segue le normative regionali e che vede la cooperazione di figure professionali multidisciplinari. Tra queste il medico trasfusionista che ha un ruolo centrale nell’esecuzione di test di screening ed eventuali approfondimenti e il ginecologo-ostetrico che monitora il decorso della gravidanza e stabilisce le procedure cliniche e terapeutiche da adottare anche in base alle informazioni fornite dal laboratorio immunoematologico.

Questa collaborazione consente di garantire precisione diagnostica ed appropriatezza terapeutica e si pone lo scopo di evitare immunizzazioni post partum e controllare il buon uso dell’emoderivato Anti-D.

Il nostro lavoro nasce dall’esigenza di verificare l’appropriatezza e l’efficacia del percorso dedicato alla donna in gravidanza nonchè l’adesione alle raccomandazioni SIMTI e alle normative regionali per la gestione degli esami di screening e della somministrazione di immunoprofilassi.

Lo scopo è quello di mettere a punto una strategia di gestione che garantisca un appropriato

scambio di informazioni fra i vari operatori sanitari coinvolti anche nella prospettiva di un migliore approccio in termini di rapporto costo/beneficio.

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19

3) MATERIALI E METODI

Il SIMT di Livorno riceve i campioni delle donne in gravidanza che, in relazione al “Percorso nascita” descritto nel Libretto approvato dalla Regione Toscana (Decreto n. 245 del 20.10.1998), devono essere testati nel primo trimestre per il gruppo sanguigno, fattore Rh e test di Coombs indiretto. Dal 1 marzo 2019, con la delibera 1371, nel terzo trimestre è prevista inoltre

immunoprofilassi per tutte le donne Rh-D negative, previo test di Coombs indiretto negativo. (Figura 7)

Figura 7: Libretto di gravidanza approvato dalla Regione Toscana

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Nello studio sono stati analizzati i campioni delle donne che hanno partorito nell'anno 2018 nel presidio Ospedaliero di Livorno. La prima determinazione di gruppo è stata eseguita sullo strumento automatico ORTHO VISION ( Ortho Clinical Diagnostics) che utilizza una tecnica di agglutinazione su colonna. Le cassette per la tipizzazione ABO-DD Ortho BioVue System sono costituite da 6 colonne che contengono i reagenti e microsfere di vetro. Successivamente

all’aggiunta di eritrociti e dopo centrifugazione, gli eritrociti agglutinati restano intrappolati nelle microsfere di vetro e quelli non agglutinati cadono sul fondo della colonna. (Figura 8)

Figura 8: Metodica ORTHO CLINICAL DIAGNOSTICS di agglutinazione su colonna per la determinazione di gruppo sanguigno

Le prime 3 colonne della cassetta contengono i reagenti per la determinazione del gruppo AB0; questi sono miscele di anticorpi monoclonali murini di classe IgM rispettivamente anti-A, anti-B e anti A,B e sono in grado di agglutinare specificatamente gli eritrociti umani che presentano

l’antigene corrispondente. I risultati della tipizzazione ABO vengono confermati dal gruppo indiretto (sul siero) mediante pannello eritrocitario A e B noto.

La determinazione dell’antigene RhD viene effettuata con l’utilizzo di due diversi antisieri,

contenuti nella quarta e quinta colonna della cassetta, che contengono anticorpi monoclonali umani di classe IgM anti-D in grado di rilevare la maggior parte dei D deboli e parziali ma che non

reagiscono con gli eritrociti di categoria DVI. L’ultima colonna contiene il reagente di controllo.

Nei pozzetti della cassetta vengono aggiunti 50 µl di eritrociti sospesi in soluzione salina allo 0,8% e dopo centrifugazione si ricerca la presenza di agglutinazione.

Le reazioni RhD uguali o minori di 2+ possono indicare un fenotipo D debole o un’agglutinazione spontanea (Figura 9). In questi casi il campione viene ulteriormente testato tramite test indiretto

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all’antiglobulina utilizzando il reagente ORTHO Sera Anti-D che contiene anticorpi monoclonali umani del tipo IgM/IgG ( linee cellulari LDM3/ESD1).

Nelle camere di reazione della cassetta vengono introdotti 50 µl di sospensione eritrocitaria allo 0,8% e 40 µl di antisiero del reagente che vengono incubati a 37° gradi per 15 minuti. Dopo centrifugazione si analizza la reazione di agglutinazione.

La miscela di anticorpi presente in questo reagente è in grado di agglutinare direttamente gli eritrociti D positivi e la maggior parte dei D deboli e parziali, compresi i DVI. Oltre a ciò il reagente rileverà la maggior parte dei D deboli e parziali con TAI.

Figura 9: Reazioni di positività

Per il test di Coombs indiretto lo strumento ORTHO VISION utilizza la cassetta Poli Ortho BioVue System costituita da 6 colonne contenenti il reagente ‘‘Antiglobulina umana, Anti-IgG, -C3d; polispecifica‘‘ composto da una miscela di anticorpi Anti-IgG di coniglio e anticorpi monoclonali di topo Anti-C3b e Anti-C3d.

Nelle camere di reazione della cassetta vengono introdotti50 µl di emazie dei pannelli eritrocitari in sospensione salina allo 0,8% e 40 µl di siero o plasma della paziente.

Dopo incubazione a 37° per 15 minuti e successiva centrifugazione si ricerca la presenza di

agglutinazione. In caso di risultato positivo si procede all’identificazione dell’anticorpo per definire la sua rilevanza clinica

A tale scopo si utilizzano specifici pannelli eritrocitari:

- Pannello ‘‘0,8% BioVue Screen‘‘ che comprende tre flaconi di eritrociti non trattati provenienti da tre diversi donatori e tre flaconi di eritrociti trattati con ficina provenienti dagli stessi tre donatori

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- Pannello ‘‘0,8% RESOLVE Panel C System‘‘ composto da una serie di undici flaconi di eritrociti non trattati più undici flaconi di eritrociti trattati con ficina

Gli enzimi, come la ficina, possono essere utilizzati per modificare alcune componenti della membrana eritrocitaria, aumentando o diminuendo così la reattività di anticorpi specifici contro l’antigene corrispondente.

Le procedure che utilizzano eritrociti trattati con enzimi vengono utilizzate in parallelo con gli stessi eritrociti non trattati.

Ogni flaconcino contiene eritrociti provenienti da donatori di gruppo 0 in sospensione allo 0,8% in un diluente a bassa forza ionica.

Nelle camere di reazione delle apposite cassette BioVue, 40 µl di siero o plasma della paziente vengono testati con 50 µl di ogni cellula non trattata o 50 µl di ogni cellula trattata con ficina; dopo incubazione a 37° per 15 minuti e successiva centrifugazione, agglutinazione o emolisi indicano la presenza di un anticorpo o anticorpi diretti contro gli antigeni corrispondenti presenti sul pannello eritrocitario. I risultati ottenuti sono confrontati con il Profilo antigenico ANTIGRAM fornito insieme ai reagenti che elenca gli antigeni presenti in ogni pannello eritrocitario (Figura 10).

Figura 10: Pannello eritrocitario per identificazione antigenica

Il percorso diagnostico-preventivo dedicato alla donna in gravidanza è stato valutato considerando due indicatori di monitoraggio tra quelli suggeriti dalle raccomandazioni SIMTI per la prevenzione della MEFN:

- Percentuale di donne RhD negative non immunizzate che hanno ricevuto la profilassi antenatale a 28 settimane di EG

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- Percentuale di donne RhD negative non immunizzate che hanno ricevuto Ig anti-D dopo il parto di un neonato Rhd positivo

Per verificare l’efficacia dell‘ immunoprofilassi post-partum abbiamo considerato la percentuale delle donne RHD negative non immunizzate (con test di Coombs indiretto negativo) a distanza di 6 mesi dal parto di un neonato RhD positivo.

Per i nostri indicatori ci attendiamo un valore conforme ai dati riportati in letteratura in merito all’efficacia delle immunoprofilassi ante e post-natale basati sul calcolo delle percentuali di

immunizzazione residue dopo l’introduzione di tale terapia preventiva. Il valore percentuale atteso è quindi inferiore o uguale allo 0,3 % per quanto riguarda la profilassi del terzo trimestre (51) e inferiore o uguale al 2% per quanto riguanto riguarda la profilassi post-natale (61,62).

I dati relativi all‘ appropriatezza delle somministrazioni di immunoprofilassi sono valutati dal medico trasfusionista in modo retrospettivo consultando trimestralmente i registri ostetrici e confrontandoli con i dati immunoematologici delle pazienti.

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4) RISULTATI

Sono stati analizzati i campioni delle 970 donne che hanno partorito nell'anno 2018 nel presidio Ospedaliero di Livorno. Di queste 873 (90 %) donne presentano un fenotipo RhD positivo e 97 (10 %) donne presentano fenotipo RhD negativo (Grafico 1).

Nello studio abbiamo considerato il campione delle donne RhD negative che hanno partorito figli RhD positivi che sono risultate 68 (70 % di tutte le donne RHD negative) di cui una con fenotipo D variant (tipizzata con metodica di biologia molecolare ) e 1 con fenotipo CcDuee ( Grafici 2-3).

Grafico 1: Grafico 2: Grafico 3: 0 200 400 600 800 1000 1200

Pazienti che hanno partorito nel presidio ospedaliero di Livorno nell’anno 2018

Totale RhD positive RhD negative 970 0 20 40 60 80 100 97 68 Pazienti RhD negative

Totali Neonato RhD positivo

0 20 40 60 80 68 1 1

Pazienti RhD negative con neonato RhD positivo

Totali D-Variant CcDuee 873

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Nel nostro campione 55 donne (81%) sono di origine italiana e 13 (19%) provenienti da altri paesi: 1 dal Pakistan, 1 dalla Mongolia, 5 dall’Albania, 1 dal Portogallo, 1 dalla Macedonia, 2 dalla Romania, 1 dal Marocco e 1 dalla Francia ( Grafico 4).

Grafico 4:

Abbiamo riscontrato che 13 donne (19%) hanno ricevuto somministrazione di immunoprofilassi alla 28a settimana di gravidanza entro un mese circa dal controllo del test Coombs indiretto ed è stata inviata al SIMT la documentazione relativa all’avvenuta somministrazione; il titolo anticorpale in tutte le donne e' diminuito fino a valori ≤1:4 al momento del parto.

Ventidue donne (32%) hanno mostrato una positivita' per anticorpi anti-D a 32+6 settimane di EG compatibile con la somministrazione di immunoprofilassi alla 28a settimana ma non è stata inviata al SIMT relativa documentazione. In questi casi è necessario un attento monitoraggio del titolo anticorpale per confermare il sospetto di immunoprofilassi non documentata ed escludere un’alloimmunizzazione; in tutti i casi il titolo anticorpale ha mostrato un trend decrescente a confermare la natura passiva degli anticorpi.

Otto donne (12%), tra cui la paziente con fenotipo CcDuee, hanno ricevuto immunoprofilassi prima della 28a settimana di EG in concomitanza con eventi immunizzanti ed è stata inviata al SIMT relativa documentazione; due donne (3%) hanno mostrato un incremento precoce del titolo di anticorpi anti-D compatibile con la somministrazione di immunoprofilassi prima della 28a settimana ma non è stata inviata al SIMT nessuna documentazione. Anche in questo caso il titolo anticorpale di tutte le donne e' diminuto fino a risultare negativo al momento del parto; quattro di

1 5 1 1 55 2 1 1 Distribuzione geografica Pakistan Albania Francia Marocco Italia Romania Macedonia Portogalloa

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queste pazienti hanno ricevuto una seconda dose di immunoprofilassi alla 28a settimana, previo test di Coombs indiretto negativo.

Ventisette donne (40%) non hanno ricevuto immunoprofilassi durante la gravidanza.

Tutte le donne del nostro campione al momento del parto presentavano test di coombs indiretto negativo o positvo per anticorpi anti-D con titolo ≤ 1:4 e hanno ricevuto immunoprofilassi post partum comprese quelle con fenotipo D-variant e CcDuee.

Dopo 6 mesi dal parto solo 7 donne (10%) hanno effettuato il controllo del test di coombs indiretto che in tutti i casi è risultato negativo (Grafico 5).

Grafico 5:

Immunoprofilassi III trimestre Immunoprofilassi I e II trimestre Immunoprofilassi post partum Follow up

0 10 20 30 40 50 60 70 80

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5) DISCUSSIONE

Dall’analisi dei dati emerge che tutte le pazienti hanno eseguito gli esami previsti dal protocollo regionale; il gruppo sanguigno è stato effettuato una sola volta nel primo trimestre di gravidanza insieme con il test Coombs indiretto. Il libretto regionale non prevede la conferma del gruppo alla 28a settimana come indicato dalle Raccomandazioni SIMTI, ma è prevista la ripetizione del test di Coombs indiretto che nelle nostre pazienti è stato regolarmente eseguito; in tutte le gravide RhD negative risultate immunizzate per anticorpi significativi il titolo è stato monitorato per tutto il periodo del secondo e terzo trimestre di gravidanza con cadenza mensile. In caso di test di Coombs negativo per tutte le donne RhD negative viene raccomandata la somministrazione di una dose di immunoprofilassi anti-D alla 28a settimana per proteggere da sensibilizzazioni silenti non

prevedibili che possono avvenire più frequentemente nel terzo trimestre. Nel nostro campione 35 donne (51%) hanno ricevuto immunoprofilassi alla 28a settimana, previo test di Coombs indiretto negativo, come previsto dalla normativa regionale. Il 100% delle donne che hanno ricevuto immunoprofilassi ha mostrato un regolare decremento del titolo anticorpale nel corso della gravidanza, ad indicare l’assenza di allo-immunizzazione. La percentuale di donne RhD negative non immunizzate che hanno ricevuto la profilassi antenatale a 28 settimane di EG quindi è dello 0% e il valore dell’indicatore risulta in linea con il valore atteso secondo quanto riportato in letteratura a conferma dell’efficacia della procedura; infatti una revisione sistematica di studi controllati

randomizzati ha dimostrato che la profilassi prenatale sistemica routinaria eseguita al terzo trimestre di gravidanza conduce a un rischio di immunizzazione dello 0,2% (63). Ad analoghe conclusioni è giunta una metanalisi di studi non randomizzati che ha stimato una riduzione assoluta del rischio di immunizzazione dallo 0,9 % allo 0,3% (51).

Da sottilineare che 33 donne (48%) del nostro campione non hanno effettuato immunoprofilassi alla 28a settimana di EG e le motivazioni di tale scelta non sono pervenute al SIMT. Con la delibera 1371 del primo Marzo 2019 e l’introduzione dell’immunoprofilassi del terzo trimestre nel Libretto regionale di gravidanza si prevede un incremento dell’adesione al protocollo di prevenzione che verosimilmente sarà applicato a tutte le donne RhD negative con test di Coombs indiretto negativo. Possiamo affermare che il principale punto di forza dell’attuale percorso diagnostico-preventivo attraverso il quale sono indirizzate le donne in gravidanza è l‘approccio multidisciplinare che fornisce al ginecologo/ostetrico la possibilità di modulare le scelte clinico-terapeutiche sull‘interpretazione dei referti dei test di screening forniti dal medico trasfusionista. Questo

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garantisce un’appropriata gestione delle immunoprofilassi che sono somministrate a seguito della verifica dell’assetto immunoematologico delle pazienti.

Per contro l‘attuale sistema gestionale del SIMT di Livorno non permette un interfacciamento diretto con il reparto di Ostetricia per quanto riguarda lo screening prenatale e questo comporta grandi difficoltà ad ottenere informazioni anamnestiche. Un ulteriore difficoltà a reperire

informazioni è data dal fatto che molte donne effettuano l’immunoprofilassi della 28a settimana privatamente o nei vari distretti dislocati nella regione e di tali procedure non viene presa nota nei registri del reparto ospedaliero.

La scoperta di anticorpi anti-D nel siero delle donne RhD negative, che sono monitorate per il Coombs indiretto dopo il primo trimestre, in assenza di notizie riguardanti l’avvenuta

somministrazione di immunoglobuline costringe il SIMT a richiedere un nuovo prelievo per riconfermare l’anticorpo identificato ed effettuarne la titolazione al fine di distinguere i casi di avvenuta immunoprofilassi da quelli di alloimmunizzazione attiva. Inoltre non sempre le richieste che arrivano al SIMT riportano l’età gestazionale della gravidanza che è invece fondamentale per contestualizzare i risultati dei test di screening anticorpale.

Il punto piu‘ debole dell’attuale strategia di gestione delle gravidanze a rischio di

allo-immunizzazione è il follow-up. Nel nostro campione il 100 % delle donne RhD negative che hanno partorito un neonato Rhd positivo e che al momento del parto risultavano non sensibilizzate (titoli anticorpali anti-D < 1:32), ha ricevuto regolare immunoprofilassi (raccomandazione SIMTI_SIGO n°22). Di queste però solo il 10% ha effettuato il controllo del test di coombs indiretto a 6 mesi dal parto e dalla somministrazione della profilassi. Nel 100% dei casi il controllo è risultato negativo. Tale valore risulta conforme alle attuali evidenze scientifiche; è stato infatti dimostrato che la percentuale di successo dell’immunoprofilassi post natale ha raggiunto il 98-99% (61,62).

Purtroppo la mancata aderenza al follow up rende difficile valutare, per quanto riguarda le nostre pazienti, l’effettiva percentuale di donne RhD negative non immunizzate che hanno ricevuto Ig anti-D dopo il parto di un neonato Rhd positivo e la reale efficacia della profilassi post-partum.

I nostri dati pongono l’attenzione sulla necessità di mettere in atto protocolli che assicurino la continuità dei controlli sulle donne a rischio di allo-immunizzazione anche nel periodo successivo al parto.

Momento cruciale per la prevenzione della MEFN è anche è la corretta tipizzazione RhD. Per quanto riguarda la possibilità di eventuali approfondimenti in biologia molecolare, i campioni devono essere inviati ad un centro di riferimento per cui non possono essere gestiti come esami

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urgenti, quindi la strategia cautelativa prevede la somministrazione di immunoglobuline anti-D a tutte le donne con sospetto D-variant nonostante l’appartenenza ai D weak tipo 1,2,3, che, se identificati con indagini genomiche, non verrebbero sottoposti all’immunoprofilassi.

A tale proposito, un altro aspetto emergente che ci deve far riflettere è rappresentato dai flussi migratori sempre più frequenti nel nostro paese, che stanno modificando demograficamente le caratteristiche sia del donatore di sangue afferente ai nostri servizi trasfusionali, sia del ricevente, e nel caso specifico, delle donne che affrontano il percorso della gravidanza.

Le popolazioni Africane sono maggiormente esposte al rischio di immunizzazione, perché presentano una maggiore diversità genetica; inoltre le donne che si affacciano al percorso della gravidanza sono spesso pù giovani rispetto alla realtà taliana e talvolta già immunizzate per precedenti gravidanze non monitorate; è necessario quindi investire nella programmazione di adeguati protocolli di diagnostica immunoematologica completa di I e II livello, anche con la possibilità di eseguire la biologia molecolare in tempi brevi, per una corretta gestione di queste pazienti dal punto di vista della somministrazione dell’immunoprofilassi anti-D.

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6) CONCLUSIONI

Dall’osservazione dei nostri risultati si evince che risulta necessaria la condivisione di protocolli regionali se non nazionali che ci permettano di offrire alla paziente prestazioni omogenee su tutto il territorio. Fondamentale è la possibilità di condividere informazioni immunoematologiche ed anamnestiche tramite un sistema gestionale fruibile dalle varie strutture coinvolte in modo da fornire alle pazienti in gravidanza un’adeguata continuità assistenziale.

E‘ necessario stabilire protocolli prestazionali che rispecchino le realtà locali tenendo conto delle risorse disponibili e dei costi sostenibili ed investire nella creazione di una rete che permetta alla donna a rischio di immunizzazione di entrare in un percorso definito comprensivo di esami di primo e secondo livello. La possibilità di accedere in tempi rapidi anche ad esami di approfondimento in biologia molecolare tramite centri di alta specializzazione designati permetterebbe di gestire nel modo più appropiato i casi D-variant e le eventuali incongruenze di gruppo nelle analisi

sierologiche e di evitare somministrazioni non necessarie.

Acquisire la maggior sicurezza e competenza possibile nella somministrazione delle

immunoprofilassi è fondamentale per garantire la razionalizzazione dell’approvvigionamento sempre più difficoltoso delle immunoglobuline anti-D.

Da questo punto di vista sarebbe importante anche adeguare le dosi da somministrare sulle esigenze delle singole pazienti tramite esami mirati a stabilire l’entità della EFM, come la

citometria a flusso, che al momento, come sottolineato anche dalla Raccomandazioni SIMTI-SIGO 2014, in Italia non vengono eseguiti di routine.

Risulta importante inoltre avere un riscontro della gestione delle immunoprofilassi che vengano effettuate negli ambulatori ostetrici durante la gravidanza; al SIMT, allegata alle richieste, dovrebbe pervenire regolarmente la documentazione relativa alle sommistrazioni avvenute e all’età

gestazionale e dovrebbe essere consentito accesso in tempo reale alle informazioni anamestiche delle pazienti che sono fondamentali per poter interpretare in modo completo e consapevole i risultati degli esami immunoematologici di laboratorio.

Da considerare anche la presenza di un medico trasfusionista negli ambulatori

ostetrico-ginecologici dove possano essere condivisi e discussi direttamente i casi a maggior rischio di allo-immunizzazione.

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Infine l’aderenza al follow up post-partum dovrebbe essere assicurata da adeguate campagne di informazione riguardo l’importanza di verificare l’efficacia della terapia somministrata, anche in caso di eventuali gravidanze successive, e dall’attuazione di protocolli di richiamo per tutte le donne che abbiano ricevuto immunoprofilassi al momento del parto.

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