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Narmer e la nascita dello stato nell'antico Egitto

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Academic year: 2021

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ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BOLOGNA

Dottorato di Ricerca in Archeologia XVIII ciclo

L-OR/02EGITTOLOGIA E CIVILTÀ COPTA

NARMER E LA NASCITA DELLO STATO

NELL’ANTICO EGITTO

Presentata dalla Dott.ssa Silvia Vinci

Coordinatore del Dottorato di Ricerca Relatore

Chiar.ma Prof.ssa Chiar.mo Prof.

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Indice

Introduzione

Capitolo I

La questione terminologica. Tribù, chiefdom, stato: il “caso Egitto”. Le teorie sulla nascita dello stato.

Capitolo II

Da Naqada II a Naqada III: la complessità sociale. Le testimonianze archeologiche tra necropoli e insediamenti urbani.

Capitolo III

 Problemi di comunicazione: la scelta dei significanti. Due esempi tratti dal mondo naturale.

 L’organizzazione territoriale, sociale e politica: un’analisi attraverso tavolozze; vasellame; teste di mazza; avori.

Capitolo IV

 Dal mito alla storia: l’Horus Narmer, “l’Unificatore”.

 L’amministrazione della giustizia e l’organizzazione burocratica.

 Narmer e la consacrazione dell’“Unione delle due terre”. Catalogo delle attestazioni del nome di Narmer

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Introduzione

L’argomento trattato nelle pagine che seguono è di recente interesse nel mondo degli studi egittologici. La sua storia può essere fatta risalire all’epoca degli scavi condotti nell’Alto Egitto da William Matthew Flinders Petrie, durante gli ultimi anni del XIX secolo. Tuttavia, in un primo momento, i reperti portati alla luce durante quegli scavi non furono riconosciuti immediatamente come appartenenti alla storia più antica dell’Egitto ‘faraonico’. Petrie li attribuì ad una popolazione straniera proveniente da est, da lui denominata “New Race”, la cui presenza su suolo egiziano era stata ipotizzata durante la VI dinastia. L’ipotesi della “New Race” portò all’elaborazione di varie teorie riguardanti la nascita dello stato nell’antico Egitto, incentrate sul concetto allora imperante dell’“ex Oriente lux” e oggi ovviamente abbandonate.

Dopo gli scavi delle necropoli di Naqada e Ballas, Petrie riconobbe il proprio errore confrontando i suoi ritrovamenti con altri che erano stati invece scoperti da Jacques de Morgan sempre a Naqada, ma da quest’ultimo attribuiti ad un’epoca precedente quella dinastica.

Spetta comunque a Petrie il merito di aver distribuito in una sequenza cronologica (parzialmente adoperata ancora oggi) i reperti ceramici rinvenuti nelle tombe, secondo le affinità presentate dal vasellame e dagli altri beni dei corredi funerari, e collocando gli oggetti in un ordine di anteriorità o posteriorità gli uni rispetto agli altri. La sequenza ceramica che ne risultò fu divisa in 50 sezioni (“Sequence dates”, abbreviate S.D.) che furono raggruppate in tre fasi o “culture”: Amraziano (la più antica delle tre, S.D. 30-38, dal nome della necropoli di el-Amra a sud di Abydos-Alto Egitto), Gerzeano (S.D. 38-60, dal nome della necropoli di el-Gerza, all’ingresso del Fayyum); Seimaineano (S.D. 60-75, da Semaina, vicino ad Abydos) per concludersi con la I dinastia (S.D. 75-86). Il sistema di Petrie è stato oggetto di revisioni che ne hanno definito meglio le sequenze ceramiche e le fasi culturali ma che ne hanno sancito in definitiva la sostanziale validità. Un apporto decisivo è stato dato nel 1957 da Werner Kaiser che ha proposto un nuovo sistema cronologico, sostituendo la terminologia precedente con il termine “Naqada Kultur”. Kaiser ripartì questa cultura in tre fasi, al loro interno suddivise ulteriormente in quindici sottoperiodi individuati in base alla tipologia e alla posizione delle tombe nella necropoli. La prima fase, Naqada I (a, b, c), corrispondeva all’Amraziano; la seconda fase, Naqada II (a, b, c, d1 e d2), si protraeva oltre il Gerzeano; la terza fase, Naqada III (a1, a2, b1,

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b2, c1, c2, c3) corrispondeva al Semanineano e includeva la I dinastia. Questo sistema, ampiamente adottato, è stato rivisto in anni recentissimi da Stan Hendrickx che ha modificato in parte alcuni sottoperiodi proponendo una griglia cronologica per certi aspetti più precisa. Le ricerche in questo campo continuano e sono mirate a far combaciare, quando possibile, i dati cronologici delle fasi culturali con le complesse sequenze politiche del periodo pre- e protodinastico egiziano.

Parte del primo capitolo è occupata dall’analisi delle questioni terminologiche inerenti alle forme di integrazione socio-politica osservabili nelle società. La scelta dei termini costituisce un aspetto di non secondaria importanza nel tentativo di comprendere le forme di organizzazione politica e sociale che potrebbero essersi verificate in Egitto, fino alla comparsa dello stato. Per questo motivo una parziale trattazione dell’argomento è sembrata utile, anche a fronte di una non infrequente confusione o disinvoltura che accompagna l’utilizzo di alcuni termini, almeno per quanto riguarda l’ambito egittologico. Molte ambiguità di termini -e dei relativi significati- sono riscontrabili anche per le forme di organizzazione che si collocano temporalmente tra due fasi, una antecedente e una successiva, che gli studiosi riescono meglio a riconoscere. È il caso di concetti come “proto-regno” o “proto-stato”, adoperati per descrivere la situazione politica dell’Egitto nel periodo tra la fase di Naqada IIc-d e Naqada IIIa-b.

La discussione sulle questioni terminologiche è inserita all’interno della parte relativa alle teorie sulla nascita degli stati, in cui ampio spazio è dato all’analisi delle ipotesi cosiddette “conflittuali” e “di integrazione”. Una breve esamina rende conto dei vari fattori, individuati di volta in volta da autori diversi o elaborati in correnti di pensiero giustapposte, e interpellati come cause necessarie, sufficienti o a volte solo probabili dell’insorgenza degli stati.

Lo studio effettuato mi ha portato a ritenere più interessante indagare le leggi che soggiacciono all’organizzazione politica di una determinata società, nel tentativo di trovare una risposta non al perché nasca lo stato in Egitto ma a come esso sia regolato all’interno.

Il secondo capitolo affronta il passaggio tra la fase culturale di Naqada II (3400 a.C.) e Naqada III (3200-3050 a.C.) e si occupa essenzialmente dell’analisi dei dati archeologici a disposizione. Sono state prese in considerazione alcune necropoli dell’Alto Egitto per le quali è possibile ipotizzare la presenza di un’élite all’interno delle comunità.

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L’organizzazione spaziale nell’impianto delle necropoli; la disposizione interna delle tombe; le differenze architettoniche, se presenti, tra aree distinte nelle stesse necropoli sono stati i criteri adoperati nell’analisi di queste realtà. Lo studio è proseguito con l’osservazione dei corredi funerari evidenziando, dove possibile, alcuni aspetti relativi agli usi e ai riti mortuari, oltre che all’individuazione di personalità che per quantità e qualità di beni possono essere definite “di rilievo”.

Il confronto con i dati ricavati dalle ricerche condotte nel Delta, sia in ambito funerario sia in ambiente insediamentale, evidenzia un livello di omogeneità e uniformità molto alto, che durante la fase centrale della I dinastia è pressoché totale.

Nel terzo e quarto capitolo trovano spazio alcune ipotesi formulate in base all’analisi incrociata tra dati archeologici e produzione artistica di età tardo-predinastica, che comprende oltre al vasellame ceramico anche tavolozze per cosmesi, teste di mazza cerimoniali, avori decorati.

È stata proposta, ad esempio, una sorta di “mappa” su cui distribuire alcune realtà urbane probabilmente citate su oggetti datati all’epoca di Narmer, e che potrebbero costituire degli avamposti a carattere commerciale lungo il perimetro esterno del paese, sia nella zona settentrionale sia meridionale. La presenza di gruppi etnici diversi all’interno dello stesso territorio, o in aree limitrofe, è ipotizzata su un particolare studio effettuato sulla tavolozza di Narmer. Le osservazioni a mio avviso più interessanti riguardano comunque le incidenze di ciò che resta, ciò che scompare e ciò che in caso emerge nell’arte e nella produzione della cultura materiale di questo periodo.

Parte del lavoro analizza la gestione e legittimazione del potere politico e sociale all’interno di un’organizzazione di tipo statale. Particolare rilievo è dato all’analisi del sistema simbolico utilizzato dal sovrano, soprattutto per quel che riguarda il serekh (la facciata del palazzo regale in cui è inserito il nome del sovrano), e al significato politico delle alterazioni compiute in questo campo. Questo argomento è stato trattato adoperando sistemi interpretativi propri dell’antropologia politica e culturale.

A queste osservazioni si affiancano la ricerca sull’accettazione di un sistema di norme e valori che appare già costituito ben prima dell’ascesa di Narmer; e sul tipo di specializzazione conseguita da alcuni membri all’interno della società, organizzata gerarchicamente ma che sembra riconosce a tutti gli individui il proprio ruolo come parte di integrante di un tutto.

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Viene ampliato il discorso sulla giustizia sociale e sulle modalità di legittimazione del potere, limitando l’uso di concetti come “monopolio della coercizione fisica” e “consenso”, che pure sono ritenute componenti essenziali alla nascita dello stato.

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Capitolo I

Una “vexata quaestio”: evoluzionismo, istituzionalismo, contro-evoluzionismo.

Il dibattito1 inizia in Europa negli anni compresi tra il 1950 e il 1960 con Vere Gordon Childe e la sua ipotesi di sviluppo a stadi: attraverso ciò che egli chiama “rivoluzione neolitica” (con l’introduzione di un’economia di produzione del cibo, basata su agricoltura e allevamento, e successiva sedentarizzazione delle popolazioni) le società passano da una condizione di “stato selvaggio” a quella di barbarie cui fa seguito la civiltà che porta con sé alla nascita dello stato, attraverso la cosiddetta “rivoluzione urbana”.2

In America, il neo (o tardo)-evoluzionismo culturale affronta la questione teorizzando uno sviluppo unitario, da piccole bande mobili a società centralizzate e poi statali. Negli anni Trenta, Leslie White (evoluzionista universalista, secondo la classificazione delle scuole fatta da Julian H. Steward, altro antropologo tardo-evoluzionista) aveva fondato la sua teoria sul rapporto/equivalenza tra la quantità di energia impiegata (catturata) dal sistema e il suo dipendente progresso culturale.

È a questo punto che Marshall Sahlins ed Elman Service (prima allievi e poi colleghi di White e Steward) propongono le loro ipotesi e le loro teorie dell’evoluzione, basate sempre su una visione progressiva dello sviluppo sociale. Si iniziano a isolare e definire i concetti di “banda, tribù, chiefdom, stato”. Service si fa promotore della “teoria dell’integrazione” secondo la quale il consenso e la libera accettazione dell’autorità si ottengono in cambio di protezione, accesso alle risorse, distribuzione dei beni, gestione della giustizia, ecc. Le stratificazioni sociali sarebbero così una conseguenza di questo scambio e quindi successive alla formazione dello stato.

Opposta a questa teoria è quella, sempre di ascendenza evoluzionista, “del conflitto” avanzata da Morton Fried e secondo la quale le stratificazioni

1 Per un’ampia panoramica sull’argomento e relativa bibliografia si veda F. Giusti, I primi

stati. La nascita dei sistemi politici centralizzati tra antropologia e archeologia, Donzelli Editore, Roma 2002; C.R. Ember - M. Ember, Antropologia culturale, il Mulino, Bologna 1998; M. Frangipane, La nascita dello Stato nel Vicino Oriente, Laterza, Roma – Bari 1996.

2 Lo stesso processo (stadio selvaggio, barbarie, civiltà) era stato postulato dall’antropologo

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sociali e il conflitto stesso sarebbero invece precedenti e, anzi, propedeutiche alla formazione dello stato.

Se per Service il livello più semplice di integrazione politica era costituito dalla “banda”, per Fried è rappresentato dalla “società egalitaria” (che ammette cioè solo livelli minimi di disuguaglianza3). Entrambe queste due forme trovano le loro caratteristiche comuni nella dimensione ristretta del gruppo; nell’ipotetica suddivisione delle attività lavorative per sesso ed età; nella scarsa specializzazione delle funzioni politiche e in una stratificazione sociale pressoché nulla.

Il secondo livello di integrazione socio-politica, all’interno di questo tipo di classificazione, è costituito per Service dalla “tribù” e per Fried dalla “società di rango”. Per “tribù” s’intende un’organizzazione unica che occasionalmente integra più comunità autonome locali, associate tra loro da legami creati su classi di età o su parentela (i cosiddetti clan). Questo carattere sovralocale distingue la tribù dalla banda, per il resto le due forme di integrazione politica sono molto simili. Non vi è un’alta formalizzazione delle funzioni politiche (i leader sono di tipo informale, dotati di autorevolezza ma non di autorità) e non è presente neanche una particolare differenziazione sociale. Se l’economia di sussistenza delle bande, secondo alcuni studiosi, avviene prevalentemente tramite raccolta, quella delle tribù avviene invece tramite agricoltura e allevamento, contribuendo all’adozione di uno stile di vita di tipo sedentario.

Nella “società di rango”, a differenza di quella “egalitaria”, l’accesso al prestigio avviene in maniera diseguale; non è ottenuto da tutti coloro che potrebbero avanzare pretese ma solo da alcuni e questo comporta la comparsa di un gruppo d’élite dal quale emerge la figura del capo, la cui funzione è spesso ereditaria. Anche l’accesso alle risorse economiche e al potere avviene in maniera diseguale ma il leader della società di rango non ha un potere economico e politico molto diverso rispetto al resto della comunità, ha però a differenza degli altri individui maggiore prestigio.

Al terzo stadio Service pone il chiefdom e Fried la “società stratificata”. Il chiefdom o “dominio” ha come la tribù carattere sovralocale, ossia comprende più comunità autonome locali, ma a differenza del sistema tribale ha una struttura formale per gestire l’intera organizzazione. A capo della struttura vi è un leader che ha maggiore potere degli altri. Ogni chiefdom ha

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una propria gerarchia che può comprendere oltre il consiglio e il capo di quel particolare dominio anche gruppi di funzionari più o meno qualificati. La specializzazione interna, e regionale, diventa uno dei caratteri distintivi di questo tipo di integrazione politica ed è accompagnata da una crescente stratificazione sociale. L’accesso alle risorse diventa più esclusivo; la redistribuzione dei prodotti, il controllo del lavoro collettivo, la gestione degli affari religiosi e militari rientrano tra le funzioni di questo capo il cui ruolo è ereditario e spesso permanente. È con questo termine che viene abitualmente designata la situazione politica e sociale dell’Egitto del periodo tra Naqada II e Naqada III.

Così come la “società di rango” può essere vista come una forma intermedia tra la “tribù” e il chiefdom, la “società stratificata” di Fried potrebbe essere considerata una via di mezzo tra il chiefdom e lo Stato. La “società stratificata”, caratterizzata dall’accesso asimmetrico alle risorse vitali tra membri dello stesso sesso e della stessa età, ha in questa teoria un ruolo fondamentale poiché è considerata un fattore essenziale e necessario alla formazione dello Stato.4

Le cause della stratificazione sociale sono individuate da Sahlins nella produzione di surplus agricolo. Viene instaurata un’equivalenza tra l’aumento della produzione agricola e/o l’aumento del potere redistributivo del capo o la comparsa di ruoli di potere. Sia nel caso che il surplus generi la stratificazione, sia nel caso che la stratificazione generi il surplus, ciò che distingue la società stratificata dalle sue forme antecedenti è, secondo questi autori, l’aumento del potere politico esercitato da un individuo e la successiva centralizzazione del potere.

Il quarto e ultimo stadio nello sviluppo delle integrazioni socio-politiche è individuato da Service e da Fried nello Stato che, in questa prospettiva, presenta un’evoluzione di tipo quantitativo piuttosto che qualitativo degli elementi caratteristici delle forme di organizzazioni precedenti. Se per Service, lo Stato è l’unica forma di integrazione tra genti diverse; per Fried è, invece, il risultato dello scontro tra gruppi differenziati da un accesso diseguale alle risorse.

4 Secondo C.E. Guksch, la società egiziana dell’Antico Regno, ad esempio, non era una

“società stratificata” ma “di rango”. C.E. Guksch, Ethnological models and processes of state formation - chiefdom survivals in the Old Kingdom, GM 125 (1991), pp. 37-50.

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La scelta dei termini costituisce un aspetto di non secondaria importanza nel tentativo di comprendere le forme di organizzazione politica e sociale che potrebbero essersi verificate in Egitto.

Organizzazioni socio-politiche tipo quella per lignaggi, per clan, o sistemi lignatico-segmentari non possono a mio avviso essere seriamente prese in discussione per l’antico Egitto, poiché hanno come loro punto in comune un aspetto a noi completamente sconosciuto: la parentela.

Senza dubbio, legami di questo genere dovevano essere molto rilevanti e forse anche dominanti5

(se pensiamo al valore dato alla famiglia e alla costruzione di cosmologie “parentelari” testimoniati nelle epoche successive), ma non siamo in grado di poterne stabilire neanche il più piccolo segmento, almeno per il momento. Tuttavia, possiamo ragionare sul significato politico che ha l’assenza o la presenza di legami di parentela tra individui appartenenti ad un’unica comunità o a un sistema più ampio di comunità in rapporto tra loro. Possiamo anche ipotizzare in via del tutto teorica le modalità di comportamento che questi rapporti avrebbero potuto stimolare. Ma non possiamo definire le comunità prese in esame in base ad un presupposto del genere, e purtroppo né lo studio delle necropoli né quello sugli insediamenti urbani è d’aiuto a chiarire questo punto.

Molte ambiguità di termini -e dei relativi significati- sono riscontrabili anche per le forme di organizzazione che si suppone succedano o frappongano a quelle sopra descritte, e che sono abitualmente utilizzate nella letteratura degli studi egittologici sulle origini.

È il caso di concetti come “proto-regno” o “proto-stato”, adoperati per descrivere la situazione politica dell’Egitto nel periodo tra la fase di Naqada IIc-d e Naqada IIIa-b. L’adozione di questi termini si basa sulla necessità di voler distinguere tra strutture politiche che non hanno forma statuale (come i chiefdom) e strutture che invece hanno i caratteri tipici di quel tipo di organizzazione, ma in una misura non ancora completamente sviluppata, in forma incipiente.

Ciò che distingue il chiefdom dallo stato è che «i capi mancano di una effettiva autorità centralizzata e si fondano sul potere dei capi locali, mentre negli stati, il potere è organizzato e segmentato in modo da scalzare le autorità periferiche. Sarebbe la presenza di un apparato burocratico, sia pure

5 M. Campagno, From Kin-Chiefs to God-Kings. Emergence and Consolidation of the State

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embrionale, e di una rete di funzionari assai diversificata al suo interno (in cui le funzioni sono scisse dalle persone e in cui non vige come criterio fondamentale la parentela col capo) a costituire l’aspetto distintivo della forma statale».6

L’utilizzo di termini come ‘proto-stato’ e ‘proto-regno’ complica ulteriormente, da un certo punto di vista, il tentativo di definizione teorica della loro realtà e spesso ciò che rimane è solo una definizione negativa stabilita per ciò che essi non sono: non sono più chiefdom e non sono ancora uno stato. Si tratta chiaramente di una difficoltà intrinseca alla prospettiva evoluzionista, sulla quale sono costruite queste definizioni, che necessita di forme intermedie di sviluppo tali da garantire un graduale passaggio da una forma all’altra. Per questo motivo i termini in questione rimangono da un certo punto di vista sprovvisti di supporti teorici. I principi di causa e effetto sono intrappolati in un sistema circolare che spiega il primo con il secondo e viceversa.

Una nuova e ulteriore categoria, a metà strada tra la fase finale del chiefdom e l’emergere dello stato, è stata introdotta dopo gli anni ’70 da Henri Claessen e Peter Skalník. Il loro studio si è concentrato sulle fasi iniziali della formazione degli stati nelle società preindustriali ed è stato coniato a questo proposito il termine Early State (in italiano stato arcaico che però non equivale ad Archaic State). Secondo la loro definizione, «The Early State is a centralized socio-political organization for the regulation of social relations in a complex, stratified society divided into at least two basic strata, or emergent social classes -viz. the rulers and the ruled-, whose relations are characterized by political dominance of the former and tributary obligations of the latter, legitimized by a common ideology of which reciprocity is the basic principle».7

Negli ultimi lavori di Claessen e Oosten sull’Early State si sottolinea il carattere territoriale di quest’organizzazione socio-economica, gli aspetti politico-ideologici che derivano dalla coincidenza nello stesso individuo del potere religioso e politico, la netta stratificazione tra il capo, i suoi parenti l’aristocrazie e i servi, gli artigiani, ecc.8

6

Giusti, I primi stati, cit., p. 62.

7 Definizione data dai due autori in The Early State e citata nell’articolo di Skalník, Some

Additional Thoughts on the Concept of the Early State, in H.J.M. Claessen - P. Skalník (eds.), The Study of the State, Paris - New York 1981, pp. 339-340.

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All’Early State si è affiancato recentemente un altro termine: l’Early Civilization con cui si individua, secondo alcuni autori, la più anticha forma di società basata sulla divisione per classi.9

Per quanto riguarda invece il significato del termine ‘stato’, resta celebre la definizione data da Max Weber: «Lo Stato è quella comunità umana, che nei limiti di un determinato territorio esige per sé (con successo) il monopolio della forza fisica legittima».10

Sono moltissime le definizioni che nei secoli sono state proposte per il termine ‘stato’, qui ne vengono citate solo alcune piuttosto recenti che sono state significative per l’elaborazione di questo lavoro.

Nel Dizionario Zanichelli di Antropologia11

si dice che lo “stato” è un’organizzazione socio-politica caratterizzata dall’esistenza di un’unità politica centralizzata che detiene il controllo di un territorio, in cui l’uso della violenza è consentito al gruppo dirigente che controlla le risorse e riceve consenso da parte dei governati.

Da un punto di vista più prettamente giuridico, invece, «lo Stato è una società politicamente organizzata perché è una comunità costituita da un ordinamento coercitivo, e questo ordinamento coercitivo è il diritto». Lo Stato è quindi «un ordinamento giuridico. I suoi «elementi», territorio e popolo, sono la sfera territoriale e quella personale di validità di quell’ordinamento giuridico. Il «potere» dello Stato è la validità e l’efficacia dell’ordinamento giuridico».12

Secondo l’antropologo Josè Gil si può parlare di ‘stato’ a patto:

9 Secondo la definizione che ne dà Bruce Trigger queste ‘civiltà primitive’ erano

caratterizzate «by a high degree of social and economic inequality; power was based primarily on the creation and control of agricultural surpluses. While technologies of these societies tended to remain simple, the organization of human labor could sometimes be quite complex. These societies were internally stratified in a hierarchy of largely endogamous classes. Each civilization was based upon exploitative relations, in which a king and a small ruling class extracted surplus production from the lower classes. These surpluses supported an elite style of life that was clearly distinguished from that of the lower classes by its luxuriousness and by the creation of monumental art, architecture, and other status symbols. Both slavery and coercive institutions, such as corvée labor and mandatory military service, existed, but they were less developed than in many subsequent preindustrial societies. … The symbols that were used to conceptualize and discuss social relations in such societies were drawn mainly from the sphere of religion, which at its highest level was subject to state control». B.G. Trigger, Early Civilizations. Ancient Egypt in Context, The American University in Cairo Press 1993, p. 7.

10 M. Weber, Politik und Beruf, 1919, traduz. It. Einaudi 1973, p. 48.

11 U. Fabietti - F. Remotti (a cura di), Dizionario di antropologia - etnologia - antropologia

culturale - antropologia sociale, Zanichelli 1997, pp. 706-707.

12

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«a) che l’istanza politica detenga, da sola, il monopolio della violenza legittima, ossia il primato di diritto nell’esplicazione della sua potenza;

b) che la relazione politica di ubbidienza prenda forma istituzionale, vale a dire che essa sia creata e fondata dal diritto;

c) che l’organizzazione politica fondi la propria autorità sulla «rappresentazione» della società nel suo insieme.

Questi enunciati coincidono con le tre sfere classiche della definizione dello Stato: potenza, potere e autorità».13

In realtà, in questo caso, più che a una definizione del termine ‘stato’ siamo di fronte all’individuazione, da parte dell’autore, di una serie di condizioni ritenute possibili affinché un’organizzazione di tipo statale nasca e si affermi.

Questo è un esempio di ipotesi della nascita degli stati. La storia degli studi relativa a questo argomento è lunga e controversa, brevemente verranno tracciate le linee principali.

***

Sempre durante gli anni ’60, il dibattito antropologico che aveva visto contrapposto le tesi di Service e Fried, si amplia, con il contributo apportato dalla New Archaeology (o archeologia processuale). Lewis Binford, seguendo in parte le teorie dell’evoluzionismo sociale ma adottando una chiave di interpretazione materialistica, considera le culture come sistemi di adattamento che si conformano in base alla reazione che tali sistemi hanno di fronte a mutamenti di tipo ecologico o culturale. Vengono individuati tre sottoinsiemi correlati: tecnologia; organizzazione sociale; ideologia. Il cardine di quest’ipotesi era il principio di adattamento e la sussistenza materiale ne costituiva l’esigenza principale.

Queste ipotesi furono condivise, sostenute e supportate dagli studi di Kent Flannery che, influenzato dalle teorie dei sistemi, per primo elaborò, agli inizi degli anni ’70, una teoria dello stato definendolo come un sistema caratterizzato da una forte componente decisionale.

Non stupisce che proprio in questo clima Karl Wittfogel sviluppò la sua teoria “agro-manageriale o dell’irrigazione”, secondo la quale è necessario

13 J. Gil, Un’antropologia delle forze. Dalle società senza Stato alle società statuali, Torino

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presupporre un’autorità che coordini i lavori e che disponga di una burocrazia di tipo appunto agro-amministrativo per far fronte alle richieste della presunta ma crescente pressione demografica della popolazione.

L’evoluzionismo continua in questo decennio a esercitare la sua influenza.

L’archeologia subisce l’influenza della teoria del sistema-mondo o della ‘globalizzazione’ (termine usato per la prima volta nel 1974 da uno dei suoi maggiori esponenti, Immanuel Wallerstein), fondata su un approccio economico-politico deciso a sottolineare l’impatto sociale che eventi di questo tipo promossi in un’area x del pianeta possono provocare su altre società. L’intero sistema-mondo sarebbe suddivisibile in tre grandi aree di azione politica ed economica: i centri, le periferie e le semiperiferie. Nella questione sulle origini degli stati questa teoria ha accentuato l’importanza delle relazioni a distanza, evidenziando il ruolo degli scambi all’interno di un complesso sistema di rapporti gerarchicamente distribuiti secondo l’asse centro/periferia.14

Gli anni ’80 sono caratterizzati dalla critica avanzata dall’archeologia post-processuale alla visione deterministica e materialistica della teoria dell’adattamento. “Si ribadisce che il comportamento umano nel suo complesso è culturale e riceve senso dall’azione dell’individuo, inserendosi peraltro in una struttura di significato che dipende dal contesto complessivo.”15

Tutte queste teorie hanno fornito un’ampia casistica degli elementi che contribuirono o determinarono, a seconda degli autori e delle correnti di pensiero, la nascita dello stato.

Le condizioni sine qua non furono rintracciate in “fattori esplicativi”16 come quello ecologico e geomorfologico; quello tecnologico (con la correlata produzione di surplus agricolo); quello demografico (la pressione demografica induce a rinnovare le tecnologiche a disposizione o spinge verso guerre di conquista); o ancora in fattori esterni (contatti con altre società sia in forma pacifica, tramite i commerci, sia in forma bellica, con la comparsa di capi-guerrieri).

14

Giusti, I primi stati, cit.

15 Ibid.

16 Per una rassegna delle teorie e dei fattori esplicativi ad esse collegate si veda M.

Campagno, De los jefes-parientes a los reyes-dioses. Surgimento y consolidación del Estado en el antiguo Egipto, “AULA AEGYPTIACA – STUDIA” 3, Barcelona 2002.

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A questi fattori, a volte considerati unici e scatenanti, si aggiungono quelli estrapolati dalla teoria del consenso, derivati cioè dai benefici prodotti dall’élite: produzione e redistribuzione dei beni; opere idrauliche; scambi interni, a media e lunga distanza; difesa; ideologia (per l’accesso esclusivo al contatto con le divinità); risoluzione dei conflitti interni alla comunità.

Anche la teoria del conflitto ha i suoi fattori esplicativi per la formazione dello stato, e si basano in questo caso sulla violenza esercitata sia all’esterno della comunità (con le guerre di conquista) sia all’interno (conflitti socio-politici tra fazioni o tra élite e resto della società). Il nodo centrale si palesa nel momento in cui la comunità affida l’esercizio di determinate funzioni (militari, economiche, religiose) all’élite, sancendo così la dipendenza da essa.

L’ipotesi della guerra come elemento se non sufficiente, quantomeno necessario alla nascita dello Stato trova oggi ampio consenso tra gli egittologi che, seguendo le osservazioni espresse per primo da Robert Carneiro17

sull’origine conflittuale degli Stati, hanno avanzato nuove prospettive di ricerca, rimodulando alcuni dei termini della questione.

Ogni teoria ha subito, come è ovvio, critiche e revisioni; alcune sono state ormai (quasi) completamente abbandonate, come quella idraulica, ma restano ancora molti punti di discussione sulle altre, affrontati di volta in volta all’interno di questo lavoro.

L’ostacolo maggiore non è rappresentato dalla possibilità di individuare mono-cause o multi-fattori tali da poter giustificare variabilmente il fenomeno della nascita degli stati (molte ne sono state avanzate in passato e altre potrebbero esserlo in futuro), e neanche il tentativo di compromesso tra le due esperienze è destinato, a mio avviso, a produrre spiegazioni esaurienti. E questo per un vizio di forma.

Il punto di critica è in primo luogo il fatto che tutte queste ipotesi si collocano all’interno di un processo che considera la storia delle società come una variazione graduale e continua verso una “destinazione finale” che coincide con il progresso, interpretato come il naturale sviluppo di ciò che lo ha preceduto. Come se il numero 3 fosse tale perché già contenuto nel 2 e questo nell’1, uno sviluppo quantitativo e consequenziale. Una somma di

17 R.L. Carneiro, Una teoria sull’origine dello stato, (articolo apparso per la prima volta in

“Science” 169 (1970), pp. 733-738 con il titolo originale A Theory of the Origin of the State) in U. Fabietti (a cura di), Dalla tribù allo stato. Saggi di antropologia politica, Milano 1991, pp. 131-143.

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elementi che sottolinea la continuità con la forma precedente, mette in sordina o annulla la possibile diversità causata da scelte politiche e culturali differenti e lascia irrisolto il problema di definire ciò che è, se non come tappa transitoria obbligatoria tra due punti.

Per fare solo un esempio: la redistribuzione dei beni da parte di un’élite o di un capo si basa sul presupposto che vi sia in quella comunità una produzione di surplus agricolo. Ora, la presenza di surplus è considerata “normale” dal momento che viene praticata l’agricoltura. Ma non è detto che sia così. Il surplus, quando esiste, non è una conseguenza automatica dell’introduzione dell’agricoltura o del raffinamento di tecniche e tecnologie agrarie. Può essere il frutto di una scelta operata all’interno della comunità e dovuta a motivazioni di vario tipo, non escluse quelle a carattere ambientale, ma che ha tuttavia anche in questo caso la necessità di essere prima osservato, registrato e poi spiegato.

Non tutte le società che hanno la possibilità di produrre surplus lo fanno. Per l’Egitto si potrebbe pensare ad una spinta ecologica, dal momento che il Nilo assicurava un grande raccolto annuo che doveva garantire la sussistenza dell’intera popolazione nei periodi di secca del fiume o durante le annate sfavorevoli. Il carattere intensivo delle colture nilotiche probabilmente assecondò questo tipo di modalità produttiva e la tesaurizzazione delle derrate fu una fondamentale conseguenza di questa situazione.

A rendere ancora oggi più complicata la questione è che, in alcuni casi, nello studio delle fasi culturali e politiche delle società si è soliti utilizzare come parametro fondamentale (anche linguistico) il confronto con i processi biologici osservabili negli organismi viventi.

Nonostante l’ipotesi evoluzionista consideri le differenze tra queste forme politiche come dovute essenzialmente a variazioni di tipo quantitativo (+/- stratificazione sociale; +/- autorità; +/- ricchezza, ecc.), lo sforzo che si deve tentare di fare è quello di individuare le differenze qualitative tra una forma e l’altra, nell’organizzazione interna e generale della società. In questa maniera, anche se la prospettiva di interpretazione di tipo evoluzionista dovesse subire critiche tanto radicali (come sta avvenendo, quasi sempre a ragione) da sancirne la perdita di autorità, le analisi da essa proposte potrebbero essere adoperate al contrario come cose da spiegare.

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È utile a questo proposito ricordare che: «To adapt cultural evolutionism to a modern scientific understanding of human behaviour, it is necessary to stop viewing it as a unilinear process, with all societies evolving along as single path to a common future».18

L’aspra critica che ha scaldato (e continua ancora oggi a vivacizzare) il dibattito tra gli studiosi non ha riguardato soltanto l’evoluzionismo sociale e il tardo-evoluzionismo culturale, ma anche la visione dello stato promossa dall’istituzionalismo e da una certa sociologia dello stato che, ricordando le parole di Kelsen, «assume la forma di biologia sociale» anche se «Il vero scopo della teoria organica, scopo di cui molti dei suoi sostenitori non sembrano consapevoli, non è affatto quello di spiegare scientificamente il fenomeno dello Stato, ma di assicurare il valore dell’istituto dello Stato come tale, o di qualche Stato in particolare; di confermare l’autorità degli organi dello Stato e di accrescere la obbedienza dei cittadini».19

Reificando lo stato lo si considera come un “oggetto naturale”, che oltre a possedere una sua fase embrionale da ricercare nelle forme politiche precedenti, si sviluppa poi seguendo varie fasi evolutive e assume un vero e proprio ‘aspetto’, una ‘forma’, un’‘immagine’ analoga a quella della concezione organica ma in questo caso oggettivata per esempio da una istituzione fisica, materiale, magari un edificio.

Ampie e oculate critiche sono state avanzate a proposito della concezione organica e architettonica delle società da parte di Francesco Remotti nel libro Luoghi e corpi pubblicato nel 1993.20

Tra esse una è rivolta alla preconcetta delimitazione ‘naturale’ -tramite confini prestabiliti- che l’idea della società come “organismo” o “edificio” ha insita in sé. È infatti implicito che una siffatta concezione consideri, nel momento stesso in cui pensa l’evento come a una ‘cosa’, che esso abbia già una sua propria identità, una propria definizione spaziale, fisica e di significato quando, invece, «i confini esistono, ma non pre-esistono alle società e ai loro tentativi di identificazione»21

. «È [inoltre] significativo rendersi conto che la concezione organica della società (o della cultura) è maggiormente predisposta a riconoscere il carattere individuale delle singole formazioni socioculturali, a differenza della concezione architettonica, la quale invece è maggiormente

18 Trigger, Early Civilizations, cit., p. 6. 19 Kelsen, Teoria generale, cit., p. 190.

20 F. Remotti, Luoghi e corpi. Antropologia dello spazio, del tempo e del potere, Torino 1993. 21

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attrezzata a sottolineare il carattere della stabilità e della permanenza. Un organismo ha in effetti un’individualità più netta e inconfondibile di un edificio (una sua fisionomia irripetibile). Ma altrettanto significativo è il nesso (biologicamente fondato) tra il senso dell’individualità e il senso della morte».22

Queste argomentazioni saranno in parte riprese in seguito, a proposito della costruzione dell’idea di identità e stabilità prima e durante il regno di Narmer.

Come suggerisce Campagno,23

noi valutiamo la nostra società, quelle degli altri e quelle antiche soprattutto attraverso l’analisi del grado di sviluppo raggiunto da due elementi per noi fondamentali e sostanziali: tecnologia e amministrazione. Per fare solo un esempio: della società dell’antico Egitto quello che ha maggiormente colpito, e che continua a impressionarci, non è forse la capacità tecnologica adoperata nella costruzione delle piramidi insieme allo strabiliante e capillare apparato burocratico dell’amministrazione?

Senza nulla togliere alla complessa macchina di uomini e mezzi che l’ingegno antico-egiziano ha messo così brillantemente in moto in questi due campi, ciò che in noi suscita meraviglia e ammirazione non è detto che coincida con ciò che gli antichi Egiziani reputavano più importante nella loro scala di valori, pur senz’altro consapevoli della loro eccellenza organizzativa. E non è un caso che proprio Imhotep, il geniale costruttore della piramide a gradoni di Djoser, ossia della più antica costruzione monumentale in pietra che l’antichità ci ha lasciato, non fosse ricordato e venerato dai suoi discendenti in qualità di sublime architetto, ma in quella di medico, fino ad essere assimilato al dio greco Esculapio.

I criteri di valutazione possono quindi essere diversi e distinti a seconda delle società di riferimento, ma questo non significa d’altra parte volere istituire un principio relativistico per cui ogni società è diversa dalle altre e non può essere compresa soltanto che analizzandola al suo interno.

Le forme autarchiche di pensiero politico o investigativo non hanno grande efficacia e non sono particolarmente vantaggiose.

Per quanto detto, diventa, a mio avviso, insostenibile l’idea che lo stato nasca perché in origine c’era una tribù o perché è “naturale” o “normale” che

22 Idid., pp. 173-174.

23

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dal chiefdom si passi all’organizzazione statuale. Lo stato non è un organismo biologico né tanto meno un edificio o, più in generale, un oggetto. Se la forma statuale è la forma migliore di organizzazione politica che l’uomo si può dare (perché ultima nella classifica evolutiva) non dovremmo allora tutti quanti vivere in stati e condurre vite migliori, anche socialmente, rispetto a quelle degli “altri non statalizzati”?

Non credo che siano le cosiddette ‘cause’ che portano una società a dotarsi di un tipo specifico di organizzazione politica piuttosto che un altro, ma le scelte (ragionate o sommariamente vagliate) che vengono compiute a discapito di altre, che sono comunque e inevitabilmente presenti nella gamma di possibilità di cui ogni società, non isolata, dispone.

Le differenze esistono e non rispecchiano stadi evolutivi differenti, ma assetti politici e culturali diversi e particolari. Se così non fosse ricadremmo nelle teorie ottocentesche che vedevano nelle società tribali contemporanee l’espressione di individui politicamente immaturi.

La differenziazione parte dalla risposta che viene data, anche in circostanze simili.

Per fare un esempio: la guerra è uno dei fattori maggiormente accreditati come condizione per la nascita dello stato. Ma consideriamo il caso di più comunità, vicine e magari organizzate in chiefdom, che si dovessero trovare in una situazione di imminente pericolo perché sotto l’attacco di una forza nemica. Possiamo ipotizzare che queste comunità stringano un’alleanza, che si decida di nominare un capo con pieni o parziali poteri militari e che questi sia affiancato da un consiglio di guerra composto da alcuni membri scelti delle élite di ogni chiefdom, la guerra si compie e il leader di quest’alleanza riporta la vittoria.

Tre ipotesi si prospettano:

1) la posizione del leader vittorioso -e quindi anche della sua comunità di provenienza- si è talmente rafforzata e consolidata che il consiglio è troppo debole per fronteggiare la sua totale presa di potere;

2) il ruolo svolto dal leader in quest’occasione viene riconosciuto dai membri delle comunità alleate come utile, necessario ed efficace e si decide di renderlo permanente;

3) superato il pericolo viene ripristinata la situazione precedente all’attacco.

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La prima e la seconda ipotesi possono produrre quindi un mutamento sostanziale nelle relazioni delle comunità interessate, dare inizio a un processo di stabilizzazione di queste relazioni, e fornire un imput alla creazione di nuovi sistemi vincolanti di organizzazione politica, atti a controllare le relazioni interne alle comunità interessate ed esterne ad esse.

Ma è anche possibile che prevalga invece la terza ipotesi, quella del ripristino della situazione precedente e questo ci dimostra che la guerra non è elemento sufficiente a far nascere uno stato, perché le risposte possono essere molteplici. Anche nel caso che si cambi strategia e si decida di iniziare una guerra di conquista (da più parti considerata il vero spartiacque tra società non-statali e società statali) non è questa che, a mio parere, provoca la comparsa e l’instaurazione di uno stato, ma potrebbe invece essere proprio la guerra di conquista già una conseguenza a un diverso modo di instaurare, considerare e organizzare relazioni politiche e controlli sociali, e che potremmo idealmente collocare all’interno di un “atteggiamento” di tipo statale.

È importante analizzare l’ipotesi avanzata da Marcelo Campagno, nel suo recentissimo e interessante libro De los jefes-parientes a los reyes-dioses. Surgimento y consolidación del Estado en el antiguo Egipto, secondo la quale affinché si formi lo stato è necessario che vi sia la concomitanza di quattro elementi:

1 essere in un luogo non vincolato dalla pratica della parentela, che si fonda sulla norma della reciprocità e pone un limite al costituirsi di forti differenze sociali e all’uso della forza interno alla comunità;

2 legittimare il monopolio della coercizione fisica; 3 che la pratica statale diventi la pratica dominante; 4 che le relazioni delle comunità in gioco si consolidino.

La ricostruzione di Campagno è suggestiva e le sue osservazioni calibrate e verosimili. Tuttavia, a mio avviso, alcuni punti sollevano delle perplessità. Innanzitutto, l’ampio utilizzo dei concetti di reciprocità e consenso con i quali, molto spesso, si è permesso «di camuffare qualunque forma di

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sfruttamento sotto la veste di normali equivalenze»24

(tipo ‘decima’ in cambio di preghiere sacerdotali). Bisognerebbe valutare più approfonditamente quanto reale e valido sia l’uso di questo concetto applicato ad una realtà storica così antica e poco conosciuta come quella dell’Egitto predinastico.

Il secondo punto non è esclusivo di un’organizzazione di tipo statale ma sembrerebbe propedeutico alla sua instaurazione. Trovo molto utile, infine, l’introduzione del termine ‘pratica statale’ in alternativa a ‘stato’ come forma politica e in sostituzione e opposizione a ‘stato’ come oggetto ‘naturale’.

Sono molti gli aspetti e gli “eventi” che in una società possono concorrere all’adozione di una pratica di tipo statale e in questo possono essere riprese alcune delle situazioni analizzate in precedenza, ma che non costituiscono delle condizioni sine qua non. Sono quei fattori individuati di volta in volta da autori diversi o elaborati in correnti di pensiero giustapposte, e interpellati come cause necessarie, sufficienti o a volte solo probabili dell’insorgenza degli stati.

Ciò che mi sono proposta di indagare non rientra pienamente nella ricerca delle cause che condussero alla formazione degli stati. È inevitabile che ogni teoria abbia i propri “punti di forza”, per questo non è facile dire quale sia quella più verosimile tra quelle meglio costruite. Nondimeno, lo studio effettuato mi ha portato a ritenere più interessante indagare le leggi che soggiacciono all’organizzazione politica di una determinata società, piuttosto che tentare di rintracciarne cause troppo spesso non soddisfacenti. Ancora oggi, e per situazioni notevolmente più vicine nel tempo rispetto a quella dell’antico Egitto, gli studiosi si trovano in gravi difficoltà quando devono interpretare l’adozione di una pratica politica invece di un’altra all’interno di un’organizzazione sociale. Questo mi ha indotto ad affrontare l’argomento da un’altra prospettiva, nel tentativo di trovare una risposta non al perché nasca lo stato in Egitto ma a come esso sia regolato all’interno, alla sua organizzazione tra individui e istituzioni, ai modi di concepire e rappresentare il rapporto con “gli altri”, all’idea di giustizia che è fondamentale per qualsiasi forma di integrazione sociale e politica tra le persone.

24 C. Meillassoux, La comunità domestica e la “circolazione delle donne”: la dialettica

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A questo proposito, studiando la situazione dell’Egitto predinastico un aspetto piuttosto interessante e che sarà approfondito in seguito è quello costituito dai serekh, le “facciate di palazzo” in cui era inserito il nome del sovrano. La loro diffusione su tutto il territorio, aggiunta al dato che contemporaneamente più sovrani (o istituzioni) utilizzarono per esprimere la propria funzione lo stesso sistema semantico indicano un insieme sociale governato dagli stessi principi: un’unità culturale prima ancora che politica.

Erano in uso gli stessi criteri di rappresentazione del potere che veicolavano lo stesso messaggio. Culturalmente l’Egitto era già unificato, almeno 150 anni prima di Narmer. Quello che si compie con lui è la formalizzazione del potere e l’adozione di ulteriori codici di rappresentazione dell’ideologia alla base del suo potere. Ma questo non è ancora sufficiente per definire l’Egitto uno “stato”.

Non credo che la comparsa dell’organizzazione politica in forma statuale sia avvenuta in completa rottura con ciò che precedeva e che -per quanto ipotizziamo- era rappresentato dai chiefdom complessi. Ma non seguendo un processo predeterminato di sviluppo politico, la cultura di una società applica quelle che sono le sue informazioni per garantire la sua continuità, mantiene validi alcuni assunti, alcuni li sopprime e altri li trasforma e quando lo fa è perché ha già sancito la sua legittimità.

Questo non è un lavoro esaustivo sugli aspetti sociali e culturali dell’Egitto di età tardo-predinastica e protodinastica; tuttavia credo che possa considerarsi un tentativo utile a comprendere le leggi della sua organizzazione politica tra il 3300 e il 3050 a.C.

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Capitolo II

Cambiamenti della complessità sociale. Le testimonianze archeologiche tra necropoli e insediamenti urbani.

Secondo le indagini geomorfologiche e idrografiche condotte negli ultimi anni sulla morfologia del Delta e della Valle del Nilo, è possibile ricostruire la storia delle variazioni subite dal fiume che, fino al VII millennio a.C., modificarono notevolmente oltre alla capacità di portata anche il tracciato del percorso. Dopo questa data, una nuova ondata di siccità diede l’avvio al processo di desertificazione della vasta area del Sahara, fino ad allora caratterizzata da un ambiente tipico della savana, e spinse le popolazioni di nomadi e pastori che avevano abitato quei luoghi a concentrarsi lungo la valle e nelle aree di maggiore umidità.

Da questo momento le testimonianze archeologiche si fanno relativamente più numerose e ci permettono di seguire in maniera meno discontinua l’avvicendamento dei siti neolitici nel sud e nel nord del paese, l’Alto e il Basso Egitto.

Le tracce di un Neolitico perfettamente caratterizzato dalla produzione (in realtà minima) di ceramica, da una già raffinata industria litica e da più compositi sistemi di sussistenza sono rintracciabili negli insediamenti localizzati nel Fayyum, la pseudo-oasi circa 80 km a sud-ovest del Cairo. Ed è proprio da questa regione che provengono le prime importantissime testimonianze di produzione alimentare legata alla domesticazione e successiva coltivazione dei cereali (ca. 5200 a.C.).

È stato più volte ipotizzato che l’introduzione dell’agricoltura in Egitto sia da collegarsi ai contatti che questi primi abitanti ebbero con le popolazioni della Palestina e del Vicino Oriente, luoghi in cui questa pratica doveva essere in uso già da tempo. Ma le ultime ricerche condotte da Barbara Barich per conto dell’Università “La Sapienza” di Roma nel Deserto Occidentale testimoniano una fase di raccolta intensiva e di sfruttamento di alcuni cereali selvatici (soprattutto miglio e sorgo) che inducono piuttosto a pensare a un processo locale di coltivazione delle piante e domesticazione degli animali, sin dal IX-VIII millennio a.C.

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Allo stato attuale delle nostre conoscenze, quindi, il contributo delle culture vicino-orientali sembra doversi “limitare” all’introduzione di animali domestici come pecore e capre e a quella di cereali più produttivi come orzo e frumento, già coltivati in quelle zone.

È necessario porre l’accento sull’origine propriamente africana della civiltà egiziana e sottolineare la sua “africanità” anche nel percorso formativo della sua identità culturale. Questo sembrerebbe ovvio dato che l’Egitto si trova in Africa, ma c’è stato un tempo in cui per spiegare la comparsa (ritenuta improvvisa) della civiltà egiziana s’ipotizzò l’arrivo di una popolazione conquistatrice e tecnologicamente più avanzata che da est invase e dominò la Valle del Nilo.

I dati archeologici documentano, invece, per il periodo tra il V e il IV millennio a.C., la presenza sul territorio egiziano di piccole comunità caratterizzate ognuna da una propria cultura specifica ma collegata alla tradizione paleolitica precedente e, per quel che riguarda il nord, affine ad alcuni degli aspetti più peculiari della cultura del Fayyum. È il caso di Merimda Beni-Salama, il sito più antico del Delta (5000-4100 a.C.) ai confini con il Deserto Libico, che testimonia in maniera evidente non solo uno stile di vita di tipo sedentario (grazie al ritrovamento di ripari frangivento poi sostituiti dalle più stabili capanne in mattoni crudi) ma anche il culto dei morti, con sepolture sparse disposte all’interno del villaggio, solitamente piuttosto modeste. Nonostante la povertà dei corredi funerari che accompagnano queste antiche sepolture, si sono conservati i prototipi di quella che sarà una delle più importanti insegne regali dei sovrani egiziani per tutta la durata dell’età faraonica: la testa di mazza.

Quasi contemporaneamente a quanto stava avvenendo a Merimda e in diversi siti del nord, un’altra cultura emergeva e questa volta nel sud del paese, a Badari (da qui la definizione “cultura badariana”, ca. 5000-3900 a.C.). In quest’area archeologica sono state riportate alla luce sia le case, di forma ovale e costruite in materiali leggeri come canne, paglia e legno, sia le necropoli, disposte poco lontano dal centro abitato e con tombe che ricalcavano probabilmente la pianta delle abitazioni. Erano fosse rotonde o ovali con pareti talvolta dotate di nicchie e rivestite di stuoie; i corpi, di solito uno per ogni tomba e in qualche caso avvolto in pelle di gazzella o in stuoie, erano deposti in posizione contratta sul fianco sinistro, la testa orientata verso sud e il viso verso ovest. Tutt’intorno al corpo era disposto il corredo funerario che accompagnava il defunto nel suo viaggio ultraterreno: il vasellame in ceramica, con o senza decorazioni, le teste

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di mazza a disco, le “tavolozze per cosmesi” (lastre di scisto o ardesia usate per polverizzare i minerali come la malachite, l’ematite e la galena che servivano da ombretti), rozze punte di freccia in selce ma simili per tecnica e forma a quelle realizzate nel Fayyum e a Merimda, statuette a forma umana e animale in avorio o argilla, pettini e cucchiai in osso, perle e pendenti, amuleti anche in faïence, rarissimi oggetti in rame martellato, offerte di cibo.

La novità più importante introdotta da questa cultura riguarda la ceramica che, seppur meno varia nella tipologia, si distingue da quella prodotta nel nord per la bellezza e la semplicità delle forme e per la maestria dell’esecuzione. Con i bellissimi vasi a superficie rossa lucidata (Polished red class, P-ware) e quelli a bordo nero (i cosiddetti vasi “a bocca nera”, Black-topped class, B-ware) inizia la vera ‘età dell’oro’ della ceramica egiziana, in questo periodo e in quello successivo essa raggiungerà livelli così elevati che non saranno mai più eguagliati nell’intera storia dell’arte ceramica dell’Egitto antico.

La cultura badariana risente, con ogni probabilità, degli influssi provenienti dal Delta del Nilo (soprattutto nell’arte della pietra lavorata: utensili, armi e vasi) ma elabora in maniera sorprendente le proprie capacità, sfruttando verosimilmente anche gli apporti che provenivano dalle zone più meridionali del paese.

La tradizione dei suoi prodotti più pregevoli, come le tavolozze e le ceramiche, prosegue e si affina nel periodo successivo (3900/3800-3500 a.C.) chiamato “amraziano”, dal nome del sito di El-Amrah nell’Alto Egitto.

Questo periodo corrisponde alla prima delle tre fasi in cui gli studiosi di preistoria egiziana sono soliti suddividere la sequenza culturale dell’Egitto predinastico, che nel suo insieme è chiamata “cultura di Naqada”. Il nome deriva dall’area archeologica di Naqada, sempre nell’Alto Egitto sulla riva occidentale del Nilo vicino all’odierna Luxor, scavata nel 1895 da Petrie: è il più importante luogo di sepoltura dell’Egitto predinastico fino ad oggi noto, quasi tremila tombe distribuite tra tre necropoli.

Continua, quindi, durante Naqada I il percorso inaugurato a Badari ma alcuni cambiamenti iniziano a farsi notare: le case, e di conseguenza anche le tombe (già considerate vere e proprie “dimore per l’eternità”), iniziano ad essere costruite su pianta rettangolare, come dimostrano anche alcuni modellini di abitazione; il trattamento destinato ai defunti rimane essenzialmente uguale ma si segnalano casi di smembramento rituale dei corpi ed è attestata la pratica della circoncisione; diventano più frequenti i vasi in pietra e si diffondono

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maggiormente quelli “a bocca nera”; i corredi funerari si arricchiscono con amuleti in zanne di ippopotamo a forma di personaggi barbuti, tavolozze in ardesia e coltelli in selce finemente lavorati con tecnica bifacciale; compaiono in maniera considerevole le pietre preziose, importate dall’Arabia, dal Deserto Libico, dalla Nubia e addirittura dall’Afghanistan.

È sempre la ceramica che anche questa volta subisce il maggior cambiamento e diventa l’elemento distintivo del periodo amraziano (Naqada I). Accanto ai vasi a superficie rossa o nera del periodo precedente, infatti, fanno la loro comparsa i vasi con decorazione a linee incrociate bianche su fondo rosso scuro (White Cross-lined pottery, C-ware). La maggior parte delle decorazioni è di tipo geometrico ma i motivi sono spesso naturalistici: piante vegetali stilizzate, animali finemente caratterizzati (coccodrilli, ippopotami, giraffe, pesci), rarissime rappresentazioni di esseri umani.

La fase amraziana prosegue senza interruzioni il suo percorso nel sud del paese mentre nel Basso Egitto, agli inizi del IV millennio a.C., emerge una cultura molto particolare che, per quanto non completamente omogenea in tutti i suoi aspetti, è stata definita dagli studiosi in maniera non del tutto appropriata “cultura di Maadi-Buto”, dal nome dei due più importanti insediamenti finora scavati, il primo nei pressi dell’odierno Cairo, il secondo nel cuore del Delta occidentale.

Il passaggio ad uno stile di vita completamente sedentario è ormai avvenuto e l’economia è incentrata essenzialmente sull’agricoltura e sull’allevamento del bestiame. Conseguenza diretta di questo nuovo assetto organizzativo è la creazione e la delimitazione dello spazio destinato ad accogliere le sepolture, ben distinto ma vicino all’insediamento, che rimarca due aspetti fondamentali della vita sociale della comunità: sancisce l’appartenenza di un individuo a un gruppo determinato e definisce in termini di proprietà territoriale gli spazi circostanti la necropoli e il diritto di poterli utilizzare (per l’agricoltura, per l’allevamento, per altre attività produttive). Nella zona intorno al villaggio di Maadi sono state scoperte ben tre necropoli, con tombe notevolmente più ricche rispetto a quelle di poco anteriori di Merimda Beni Salama; ed è da notare a questo proposito la presenza di due grandi aree destinate all’immagazzinamento dei cereali (oltre a quelle “private” nei pressi delle case) collocate alla periferia del sito, in maniera simile a quella documentata negli insediamenti del Fayyum. Ma ciò che rende unica Maadi tra i siti preistorici egiziani è la presenza di alcune abitazioni sotterranee, tipiche della contemporanea architettura domestica

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palestinese e importante testimonianza dei contatti intercorsi con questo paese straniero. Il ritrovamento, inoltre, di manufatti in rame fa di Maadi il più antico sito settentrionale per il quale è attestata la lavorazione di questo metallo e, anche in questo caso, testimonia la capacità di organizzare spedizioni per reperire il minerale tramite lo sfruttamento diretto delle miniere del Sinai, per le quali non vi è però alcuna testimonianza archeologica, o attraverso il più probabile commercio con l’area siro-palestinese. Le relazioni con questa zona trovano conferma, oltre che negli esempi già citati di architettura domestica sotterranea, anche per le tipologie ceramiche di chiara importazione palestinese ritrovate nell’abitato e per le più antiche testimonianze mai segnalate in Egitto di asini addomesticati, principale mezzo di trasporto delle merci lungo le vie carovaniere.

Fu la posizione strategica occupata da Maadi che contribuì alla sua fortuna; la centralità rispetto alle rotte che conducevano ai deserti, al Vicino Oriente e che dal sud, percorrendo il Nilo, portavano verso il Mediterraneo permise a Maadi di diventare un grande avamposto commerciale, il centro dei traffici dell’Egitto predinastico. Non è un caso che migliaia di anni dopo nella stessa zona sorgeranno Menfi e poi Il Cairo.

L’organizzazione sociale è ormai fissata su base agricola e si assiste ad un incremento nella specializzazione di particolari attività produttive: l’industria litica continua a perfezionarsi non solo nella produzione di strumenti in selce ma anche in quella di vasi, specialmente in basalto, il commercio a lunga distanza richiede i suoi professionisti e compare la metallurgia.

Incomincia in Egitto il periodo calcolitico che si protrarrà per tutta la durata della civiltà egiziana.

Dopo numerosi cicli climatici che videro l’alternarsi di fasi umide a periodi aridi, le condizioni di vita dell’area nilotica si stabilizzarono intorno alla fine del IV millennio a.C., con un aspetto non molto dissimile da quello attuale. Le aree ad est e a ovest del fiume erano ormai occupate dalle sterminate e desolate distese dei grandi deserti ma il Nilo era riuscito, con un’insistenza metodica durata migliaia di anni, a ricavarsi il suo stretto alveo tra rocce e falesie e godeva ormai di un regime delle acque piuttosto costante. Ai terreni disposti lungo le sue sponde il fiume assicurava una periodica e ricchissima fertilizzazione, grazie al limo depositato durante la puntuale inondazione della piena stagionale.

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L’Egitto è in questo senso davvero “un dono del Nilo”, come lo definì Erodoto, descrivendo il paese in occasione del suo viaggio compiuto nel V secolo a.C.

Rispetto alle durissime condizioni di lavoro sostenute dai contadini greci, quotidianamente alle prese con terreni brulli e bisognosi di continue arature e irrigazioni, il lavoro dei contadini egiziani dovette sembrargli assolutamente meno faticoso e più produttivo. In parte è comprensibile l’opinione di Erodoto, ma non bisogna dimenticare che la meravigliosa fertilità mostrata dalla terra egiziana era il frutto di un enorme, capillare ed efficacissimo sistema di convoglio idrico che richiedeva pesanti sforzi per la costruzione di bacini, cisterne, dighe, canali, per livellare i depositi accumulatisi durante la piena, per riparare gli smottamenti e per modificare, quando necessario, i tracciati del fiume. Erano operazioni lunghe e faticose affidate all’abilità degli ingegneri idraulici e all’esperienza dei contadini e degli operai.

Si dice che l’Egitto sia l’unico posto al mondo dove con un piede è possibile calpestare terreno fertile e coltivato e con l’altro la sabbia desertica, e questa è la più chiara dimostrazione di come l’uomo riesca a plasmare l’ambiente creando con continui interventi il suo paradiso artificiale. Non c’è niente dell’ambiente “naturale” egiziano che non sia costruito, che non risenta della costante attività umana, iniziata in un lontanissimo passato e di certo resa difficoltosa da un “grande fiume” non sempre facilmente domabile.

Il Nilo donò al paese le condizioni ambientali ideali per la vita, offrì la possibilità di sfruttare un’ottima via di comunicazione per merci, uomini e idee, costrinse a una convivenza forzata le genti che abitavano le sue rive e divenne il principale strumento di unificazione culturale.

È il Nilo che rese possibile la nascita dell’Egitto come entità geografica e territoriale e della civiltà egiziana come entità culturale.

Le due culture che si andavano formando nel nord e nel sud del paese (quella di Maadi-Buto e quella di Naqada), nascevano con caratteri differenti ed eterogenei ma non di meno esse appartenevano ad un’unica realtà, nilotica e africana. Non è da escludere che quest’antichissima dicotomia rimase nel ricordo degli antichi-egiziani e contribuì, insieme all’evidente diversità fisica ed economica dei territori occupati, alla creazione dell’espressione “le Due Terre” con cui gli Egiziani stessi definivano il loro paese.

Il processo di fusione tra queste due realtà, che già nel periodo precedente aveva avuto qualche segnale, si rese concreto nella fase successiva, quella di

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Naqada II (3700-3200 a.C., chiamata anche “cultura gerzeana”, dal nome di el-Gerza un sito collocato quasi all’ingresso del Fayyum). Gli scambi con l’Asia sud-occidentale si fecero più vivaci e la cultura del sud si diffuse in maniera più penetrante nel nord, sembra sostituendosi a quella preesistente verso la fase finale di questo periodo.

Le istituzioni sociali ed economiche divennero più complesse e la specializzazione dei mestieri proseguì in maniera rapida. La lavorazione delle pietre dure portò alla realizzazione di prodotti eccellenti: vasi in basalto, breccia e alabastro e lame di coltelli in selce con scheggiatura ad onda. Le semplici tavolozze cosmetiche di epoca badariana e amraziana si trasformarono in oggetti cerimoniali assumendo forma animale e presentando su entrambe le superfici decorazioni con intricate scene a carattere militare, religioso e politico. L’ultimo e più celebre esemplare di questa produzione sarà la Tavolozza di Narmer. Lo stesso accadde per le teste di mazza che, abbandonata la forma a disco in favore di quella piriforme già presente a Merimda, furono scolpite con raffigurazioni a carattere regale (gli esempi più importanti sono rappresentati dalla testa di mazza di Scorpione II, ca. 3200 a.C., e quella di Narmer). Alla produzione di oggetti in rame si affiancò inoltre quella in argento e in oro, sempre più diffuso e ricercato come dimostra il nome stesso dell’antica città di Naqada: Nubt, la “città dell’oro”.

Anche la ceramica si arricchì di nuove tipologie importate dalla Palestina e una di queste, quella dei “vasi ad anse ondulate”, risultò fondamentale per la ricostruzione cronologica della cultura naqadiana.

La produzione vascolare indigena subì dei forti cambiamenti rispetto al periodo amraziano sia nella scelta delle materie prime (ora più raffinate) sia nelle decorazioni; alcune tipologie perdurarono, come i vasi a superficie rossa completamente lucidata. Gli impasti assunsero un colore chiaro tra il rosa e l’arancio, e le decorazioni, in rosso-violaceo, si concentrarono su esseri umani e imbarcazioni munite di cabine e stendardi, insieme con alberi e file di animali e uccelli.

La diffusione di questo tipo di ceramica decorata è testimoniata in tutto l’Egitto, non solo al sud e questo ha fatto pensare ad una produzione su vasta scala piuttosto che al risultato di un’uniformità culturale.

Comunque sia, un dato non esclude l’altro e ciò che emerge da quanto detto finora dimostra che doveva esserci una precisa differenziazione nelle mansioni e

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