Anno Accademico 2017/2018
Master Universitario di II livello
“Vecchio e nuovo” nel trattamento
delle lesioni coronariche calcifiche.
Revisione della letteratura e caso
clinico
Autore
Dr.ssa Pedemonte Elena
Tutor Scientifico
Prof. Passino Claudio
Tutor Aziendale
INTRODUZIONE pag 3
PREPARAZIONE DELLA LESIONE CALCIFICA pag 3
Aterectomia rotazionale pag 3
Aterectomia con laser ad eccimeri pag 6 Cateteri a palloncino dedicati pag 6
Litotripsia intravascolare pag 7
CASO CLINICO pag 8
DISCUSSIONE pag 11
INTRODUZIONE
L’età media dei pazienti che vengono sottoposti a rivascolarizzazione miocardica
percutanea è in costante incremento e di conseguenza è sempre più frequente il rilievo di
lesioni coronariche calcifiche. Queste, a seconda delle casistiche, si ritrovano con una
prevalenza che va dal 5,9% al 20% (1, 2) e sono più comuni nei pazienti sopra i 75 anni,
diabetici con insufficienza renale. La malattia coronarica ad impronta calcifica è sempre
indice di patologia aterosclerotica avanzata ed aggressiva e si associa ad un aumento del
rischio di eventi clinici avversi (3).
Il calcio è fattore predittivo negativo anche dal punto di vista dei risultati delle procedure di
rivascolarizzazione, incrementa i rischi dell’intervento e rappresenta un vero e proprio
“scoglio” in molte fasi della angioplastica coronarica percutanea (PTCA). Le prime difficoltà
si possono incontrare già al passaggio del filo guida; non è facile portare i cateteri a
palloncino fino alla lesione da trattare e spesso questi non si dilatano a sufficienza. Una
lesione calcifica non ben “preparata” ad accogliere lo stent si traduce in un risultato non
ottimale con malapposizione e sottoespansione dello stent stesso e si associa ad una
maggior incidenza di restenosi e trombosi intrastent (4, 5, 6)
PREPARAZIONE DELLA LESIONE CALCIFICA
La preparazione adeguata della lesione calcifica è il fattore che determina il successo
della procedura di angioplastica. La strategia da utilizzare verrà scelta di volta in volta in
base alle caratteristiche della placca e del paziente. Fra le tecnologie attualmente
disponibili troviamo l’aterectomia rotazionale, il laser ad eccimeri, la litotripsia coronarica e
l’impiego di palloni dedicati.
Aterectomia rotazionale
Il Rotablator (Boston Scientific) tramite una fresa diamantata che gira alla velocità di
fibrocalcifica in maniera selettiva, senza danneggiare i tessuti circostanti. Ne risulta un
cambiamento della geometria della placca con produzione di microparticelle più piccole
dei globuli rossi che verrano fagocitate dai macrofagi. L’impiego del Rotablator è
controindicato in presenza di materiale trombotico, dissezioni e nel trattamento dei graft
venosi. Le dimensioni delle frese sono diverse; solitamente si impiega una fresa il cui
diametro sia in rapporto di 0.6-0.7 con il diametro del vaso da trattare (7). Il Rotablator
prevede l’impiego di un filo guida dedicato (330 cm di lunghezza con diametro di 0,009
inches, diametro massimo in punta di 0,014 inches), in acciaio inossidabile, disponibile sia
nella versione “floppy” che “extra support”. Entrambe le guide sono dotate di scarsa
“crossability” e pertanto solitamente la lesione viene prima superata con un filo guida
convenzionale che successivamente viene scambiato con il filo guida del Rotablator
impiegando un microcatetere o un catetere a palloncino “over the wire” . Come per tutte le
tecnologie “di nicchia” l’uso del Rotablator si associa a una percentuale di complicazioni
lievemente superiore, sia per la complessità della lesione e quindi della procedura, sia per
le caratteristiche dell’aterectomia stessa. Si possono verificare dissezioni e perforazioni
coronariche: su 13.335 procedure annotate nel registro J-PCI, la frequenza osservata di
mortalità intraospedaliera, tamponamento cardiaco o necessità di intervento chirurgico è
del 1,31% e ovviamente le complicazioni sono inversamente proporzionali all’esperienza
del centro e dell’operatore (8). Quando l’aterotomo attraversa una tortuosità può creare
“tunnel” o “ crateri” che predispongono alla perforazione del vaso; questi in letteratura
sono descritti con una frequenza che va dallo 0 al 1,5%. Non è infrequente (0-2,5% dei
casi) che l’impiego del Rotablator si complichi con il fenomeno di “slow-flow/no-flow”
legato alla microembolizzazione distale, all’attivazione piastrinica, al vasospasmo e a
bradicardia riflessa. Questa evenienza può essere prevenuta utilizzando sempre una
velocità adeguata di giri della fresa, riducendo i tempi di ogni singolo passaggio
di perfusione coronarica ed utilizzando farmaci vasoattivi quali nitrati, calcio-antagonisti,
adenosina. Spesso infine, nel trattamento della coronaria destra o di una arteria
circonflessa dominante, si osservano transitori blocchi atrio-ventricolari che possono
richiedere l’impiego di un pace-maker temporaneo. L’operatore deve evitare che la fresa
del Rotablator rimanga incastrata in una lesione calcifica; sono sconsigliate decelerazioni
superiori ai 5000 giri, e occorre assicurarsi che la fresa sia sempre ben distante dalla
porzione in punta radiopaca della guida, prestando attenzione al “feedback” tattile, visivo
e uditivo. Nell’evenienza che la fresa rimanga incastrata può essere sufficiente una
semplice trazione ma a volte è necessario ricorrere alla tecnica del “mother and child” con
catetere dedicato oppure gonfiare un catetere a palloncino nella prossimità della fresa (9).
Il successo procedurale che si ottiene in termini di immediato incremento dell’area
luminale, non si traduce pero’ in un risultato duraturo: nelle metanalisi disponibili
l’incidenza di restenosi sia a breve che a lungo termine è elevata (10). Nel trial ROTAXUS
(11) i buoni risultati ottenuti in acuto tramite l’impiego del Rotablator, devono fare i conti
con un numero significativo di eventi avversi al follow-up (morte, infarto del miocardio,
“target lesion revascularization”) la cui incidenza non è dissimile da quella osservata in
pazienti trattati senza aterectomia rotazionale. Nel gruppo di pazienti trattati con
Rotablator la frequenza di restenosi a due anni, con conseguente necessità di nuova
procedura, è stata del 13,8%; nel gruppo di pazienti trattati con strategia convenzionale è
stata del 16,7% (p=0,58).
Negli Stati Uniti ed in Canada è disponibile anche un altro tipo di aterotomo, il
Diamondback 360° (Cardiovascular Systems Inc) il cui uso non è approvato nei paesi
europei. I trial disponibili (ORBIT I e II) ed i registri multicentrici ne hanno dimostrato la
sicurezza e l’efficacia e i risultati a lungo termine sembrano essere promettenti (target
Aterectomia con laser ad eccimeri
L’aterectomia con il laser ad eccimeri (ELCA) prevede l’impiego di un catetere a fibra ottica
che produce luce ultravioletta al fine di “vaporizzare” sottili strati di tessuto in maniera
selettiva senza danneggiare le zone circostanti (Spectranetics CVX-300). Gli impulsi di
luce ultravioletta hanno un potere di penetrazione di circa 50 micron e pertanto non
raggiungono gli strati più profondi della parete vascolare agendo solo in superficie.
Esistono quattro cateteri di dimensioni diverse e non è richiesto un filo guida dedicato.
Quando si utilizza il laser su un vaso nativo è necessario eliminare il più possibile il mezzo
di contrasto e il sangue tramite infusione di soluzione salina (“flush and bathe”) al fine di
evitare che si generino microbolle che possono essere causa di dissezioni o perforazioni.
L’ELCA è stato approvato ormai da più di 20 anni ma il suo uso è estremamente limitato
perché frequentemente gravato da complicazioni; in particolare è descritta un’incidenza di
dissezioni coronariche che va dal 5 al 7%. Più spesso il laser ad eccimeri viene impiegato
per il trattamento di stent sottoespansi (13). In questo caso al posto dell’infusione di
soluzione salina viene utilizzato mezzo di contrasto al fine di ottenere microbolle che
rapidamente si espandono (occupando volume) e implodono generando uno shock
acustico con pressioni anche superiori a 100 atm (effetto termico, meccanico ed acustico).
Cateteri a palloncino dedicati
In commercio sono disponibili cateteri a palloncino dedicati al trattamento delle lesioni
calcifiche al cui uso si può ricorrere sia come primo approccio alla lesione, sia quando
l’aterectomia non è indicata. Ad esempio in pazienti il cui circolo coronarico dipende da un
unico vaso pervio e non potrebbero tollerare un fenomeno di “slow flow/no flow” o in
presenza di dissezioni coronariche, o ancora quando la tortuosità del vaso da trattare è
tale da controindicare l’uso dell’aterotomo. Lo “scoring balloon” ANGIOSCULPT (Biotronik)
gonfiaggio del palloncino la spirale si distende e ruota sul pallone stesso; in questo modo
ne assicura una distensione omogenea e una maggior stabilità con riduzione del rischio di
dissezioni. La forza maggiore si localizza a livello della spirale che va ad “intaccare” la
placca. Il “cutting balloon” FLEXTOME (Boston Scientific) presenta sulla superficie del
palloncino da tre a quattro microlame (a seconda delle dimensioni) che creano delle
microincisioni radiali nella placca fibrocalcifica facilitando la successiva dilatazione con
cateteri a palloncino convenzionali.
Litotripsia intravascolare
Lo Shockwave (Shockwave Medical Inc) è un “device” composto da un catetere a
palloncino che contiene una serie di emettitori elettroidraulici per litotripsia. Gli emettitori
convertono l’energia elettrica in impulsi acustici circonferenziali in grado agire sia sul calcio
superficiale che su quello più profondo nella parete vascolare. Il catetere è connesso
attraverso un cavo a un generatore programmato per rilasciare 10 impulsi (1 impulso al
secondo di un microsecondo ciascuno). La sequenza può essere ripetuta fino a un
massimo di 8 volte (80 impulsi in totale). Le onde sonore prodotte trasmettono una
pressione di circa 50 atmosfere a livello dei depositi di calcio, ma passano attraverso i
tessuti molli senza danneggiarli. Si utilizzano cateteri a palloncino in rapporto di 1:1 con il
diametro del vaso. Durante il trattamento il palloncino deve essere gonfiato a bassa
pressione (4 atmosfere); e portato a 6 atmosfere alla fine del trattamento. In Europa lo
Shockwave ha ottenuto il marchio di conformità CE nel Maggio 2017, grazie ai risultati del
trial DISRUPT CAD I (14), studio premarketing che ha arruolato 60 pazienti. Il successo
procedurale è stato del 95%: (stenosi residua dopo il posizionamento dello stent inferiore
al 50% in assenza di eventi cardiaci maggiori -MACE- intraospedalieri). E’ attualmente in
corso il DISRUPT CAD II, di più ampie dimensioni (120 pazienti in 15 paesi europei) , che
valuterà l’incidenza dei MACE intraospedalieri (morte cardiaca, infarto del miocardio e
ottenere dopo il trattamento con litotripsia e impianto di stent una stenosi residua inferiore
al 50% in assenza di MACE durante il ricovero. Lo studio con OCT (15) dimostra la
peculiarità con la quale questa metodica altera il profilo della placca calcifica.
Contrariamente all’aterectomia che agisce unicamente sulla superficie del vaso, lungo il
percorso della guida sulla quale corre la fresa, creando una specie di “solco” liscio, la
litotripsia produce una modificazione circonferenziale della placca, nello spessore stesso
della parete, in maniera uniforme. La sezione trasversale del vaso mostra multiple linee di
frattura nel calcio che sono più evidenti là dove il calcio è più rappresentato e favoriscono
la successiva uniforme espansione di cateteteri a palloncino e stent. La litotripsia non crea
un danno alla parete vascolare, non necessita di raggiungere elevate pressioni di
gonfiaggio e non è gravata dal fenomeno di “no-flow/slow flow” poiché non dà luogo a
microembolizzazione distale.
CASO CLINICO
La Signora MT, di 63 anni, è stata ricoverata in Cardiologia per sindrome coronarica acuta.
Nell’anamnesi non vi erano precedenti cardiologici; la paziente era ipertesa senza altri
fattori di rischio cardiovascolare. E’ stata posta in terapia con aspirina e ticagrelor e a
distanza di 24 ore è stata sottoposta a studio coronarografico. L’angiografia, effettuata
attraverso accesso radiale destro, documentava un albero coronarico estesamente
calcifico con malattia subocclusiva dell’arteria discendente anteriore coinvolgente un ramo
diagonale, malattia ai limiti della significatività dell’arteria circonflessa e lesione critica al
secondo tratto della coronaria destra. E’ stata inizialmente trattata la lesione subocclusiva
dell’arteria discendente anteriore (lesione”culprit”). La coronaria sinistra è stata
incannulata con catetere guida EBU 6 fr curva 3,5 e sono stati posizionati due fili guida
nell’arteria discendente anteriore (runthrough) e nel ramo diagonale (BMW); quest’ultimo è
lesione sull’arteria discendente anteriore è stata trattata con catetere a palloncino 2,5 mm
e sono stati impiantati due stent medicati XIENCE ALPINE 2,5 x 12 mm e XIENCE
ALPINE 3,5 x 12 mm. Lo stent prossimale è stato postdilatato con catetere a palloncino
NC 3,75 mm con ottimo risultato angiografico finale. E’ stata quindi incannulata la
coronaria destra (catetere guida Judkins destro 6 fr, curva 4) e la lesione al secondo tratto
è stata superata con filo guida runthrough. E’ stata effettuata una dilatazione prolungata
con catetere a palloncino 2,5 mm e impiantato uno stent medicato XIENCE ALPINE 3,5 x
15 mm. Fin dalle prime fasi del rilascio dello stent è apparso evidente che quest’ultimo non
era sufficientemente espanso nel suo tratto centrale (immagine tipo “dog bone”
all’angiografia). Si è quindi proceduto a postdilatare lo stent mediante gonfiaggi ripetuti di
cateteri a palloncino NC 3,75 mm e 4 mm ad elevate pressioni, senza ottenere alcun
risultato (FIG 1 e 2). La paziente era asintomatica, la coronaria destra era pervia con
flusso TIMI III; si è deciso pertanto di interrompere la procedura ed è stato programmato
un nuovo intervento a distanza di quattro giorni prevedendo l’impiego dello Shockwave.
Durante la degenza si è mantenuto la paziente in terapia con duplice antiaggregazione ed
anticoagulante (eparina a basso PM). Non si sono verificate complicazioni. La seconda
procedura di angioplastica è stata effettuata attraverso accesso femorale destro
(introduttore 6F, catetere guida Judkins destro 6 fr curva 4, filo guida runthrough).
L’angiografia mostrava immagini sostanzialmente sovrapponibili al precedente esame;
prima di procedere al trattamento con shockwave la coronaria destra è stata studiata
mediante OCT (ILUMIEN OPTIS, St. Jude Medical). Le immagini acquisite hanno
evidenziato la presenza di una estesa malattia calcifica concentrica lungo tutto il decorso
del vaso. Lo stent appariva pervio ma assolutamente sottoespanso nella zona centrale
dove misurava circa 2 mm di diametro (FIG 3). Dopo aver effettuato un nuovo tentativo
inefficace di dilatazione dello stent con catetere a palloncino NC 3,75 mm si è proceduto
12 mm è stato avanzato fino a livello dello stent; è stato gonfiato a 4 atmosfere e sono
stati effettuati 8 cicli di litotripsia di 10 impulsi ciascuno. Alla fine del trattamento le
immagini angiografiche mostravano una maggiore espansione dello stent e quest’ultima è
stata ottimizzata mediante postdilatazione con catetere a palloncino NC 4 mm con ottimo
risultato angiografico finale (FIG 4). Lo studio con OCT ha confermato il successo della
procedura (FIG 5) mostrando una buona espansione ed apposizione alla parete
coronarica dello stent e documentando la presenza di una frattura a livello della placca
calcifica esternamente allo stent. L’emostasi femorale è stata effettuata mediante sistema
di chiusura MYNXGRIP (Cordis) e la paziente è stata dimessa a distanza di 24 ore in
duplice terapia antiaggregante. Al controllo ad un mese di distanza si è presentata
asintomatica, in ottimo compenso.
fig 1: dilatazione dello stent con catetere a palloncino NC: immagine tipo “dog bone”; fig 2:
risultato subottimale; fig 3: OCT dopo PTCA; fig 4: risultato dopo Shockwave; fig 5: OCT
dopo Shockwave.
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DISCUSSIONE
L’angiografia coronarica spesso sottostima la presenza di calcio e questo può portare,
come nel nostro caso, a rilasciare uno stent senza che la lesione sia stata adeguatamente
preparata. L’”imaging” intracoronarico fornisce informazioni più accurate e precise,
aiutando l’operatore a comprendere le reali estensione e natura della malattia,
permettendo così di pianificare la procedura nel modo più adeguato. L’IVUS identifica con
facilità il calcio ma la superficie endoluminale di quest’ultimo crea un cono d’ombra che
non rende possibile comprendere l’esatto sviluppo della calcificazione nella profondità
della parete vascolare. L’OCT, nonostante sia dotata di un minor potere di penetrazione
nella profondità dei tessuti, identifica bene la massa di calcio e i suoi contorni,
permettendo di apprezzarne la reale dimensione. Entrambe le metodiche comunque sono
sottoutilizzate durante le procedure di rivascolarizzazione coronarica “routinarie” e
verosimilmente i motivi non sono da ricercarsi nella scarsa confidenza degli operatori
verso le tecniche di “imaging” ma nell’incremento dei tempi e dei costi procedurali. Non è
utopia ipotizzare che in futuro le procedure di angioplastica potranno essere precedute da
uno studio con angio TC dell’albero coronarico che permetta di pianificare l’intervento e la
tecnologia da impiegare, riducendo le complicazioni secondarie alla povertà di
informazioni fornite dalla sola immagine angiografica.
Le tecniche di “debulking” ad eccezion fatta per i cateteri a palloncino dedicati, sono
complesse da utilizzare, richiedono esperienza da parte dell’operatore e non sono prive di
rischi. Un discorso a parte va fatto poi per il trattamento della sottoespansione di uno stent
rilasciato a livello di una lesione calcifica. L’utilizzo dei cateteri a palloncino NC,
preferibilmente corti e di diametro crescente, è ovviamente la prima strada che viene
percorsa. Ma laddove questo trattamento non sia efficace ci troviamo davanti a un
problema difficile da risolvere mediante l’impiego della tecnologia “tradizionale”. Il cateteri
ma non hanno indicazioni nel trattamento di uno stent sottoespanso. In centri con
operatori esperti della metodica si può ricorrere al laser ad eccimeri, potenziato
dall’infusione di mezzo di contrasto (13), anche se l’esperienza in tale senso è limitata : il
registro pubblicato da A. Latib e A. Colombo comprende unicamente 28 pazienti.
L’aterectomia rotazionale trova applicazione in questo contesto erodendo le maglie dello
stent così come fa con il calcio sulla parete vascolare; in letteratura esistono alcune
piccole serie di casi trattati (16). I rischi sono ovviamente la possibilità che la fresa rimanga
incastrata nelle maglie dello stent (si suggerisce di utilizzare una fresa in rapporto di 0,6
con il lume del vaso da trattare) e l’embolizzazione distale di microparticelle metalliche.
Lo Shockwave in questo scenario si presenta come promettente novità perché facile da
utilizzare e a basso profilo di rischio. In letteratura vi sono ancora poche descrizioni
dell’utilizzo dello Shockwave per il trattamento della sottoespansione di stent. Ali Z.A ha
descritto il trattamento di una restenosi intrastent su arteria discendente anteriore
secondario alla sottoespansione dello stent per l’estesa calcificazione della parete
coronarica. Dopo un tentativo inefficace con cateteri a palloncino NC l’impiego dello
Shockwave ha permesso di risolvere la sottoespansione; le immagini OCT hanno mostrato
il buon risultato ottenuto e la presenza di multiple linee di frattura a livello del calcio nella
zona dove era presente la restenosi (17). Un analogo impiego dello Shockwave è stato
tratteggiato da Watkins S. e coll. per il trattamento di un risultato subottimale con
sottoespansione di stent medicati a livello di una lesione lunga calcifica su coronaria
destra (18). Sono state prese in considerazione diverse opzioni terapeutiche: l’aterectomia
rotazionale, l’ablazione con il laser, la litotripsia intracoronarica e anche la possibilità di
ricorrere a by-pass aorto-coronarico. Lo Shockwave è risultato efficace ed ha permesso
l’ottimizzazione della procedura senza alcuna complicazione. In attesa di pubblicazione è
la descrizione da parte di Morabito G. e coll. del trattamento di una stenosi critica a livello
(19). L’IVUS ha confermato la non espansione dello stent secondaria ala presenza di un
placca estesamente calcifica. Anche in questo caso la procedura con Shockwave ha
permesso di modificare la geometria del calcio, facilitando il successivo trattamento con
catetere a palloncino NC. Gli autori concludono la descrizione del caso clinico
sottolineando la maneggevolezza della tecnica e il suo basso profilo di rischio.
La sottoepsansione di uno stent secondaria alla calcificazione della parete coronarica non
è un’evenienza frequente. Affiancando all’angiografia tradizionale le metodiche di
“imaging” intracoronarico si può comprendere con maggior sensibilità e specificità la
natura della patologia aterosclerotica e questo dovrebbe guidarci ad utilizzare fin da subito
strategie interventistiche che ben preparino la placca, prima dell’impianto dello stent.
Talvolta però, nonostante i “device” e la tecnologia a nostra disposizione, è possibile
sottostimare l’importanza del calcio coronarico ed impiantare uno stent che poi risulterà
sottoespanso. La litotripsia intracoronarica agisce nella profondità della parete vascolare
e non solo in superficie; da qui nasce il grosso del vantaggio della metodica nel
trattamento della sottoespansione di stent. Al momento, nonostante le esperienze siano
assolutamente limitate nel numero e nel tempo, lo Shockwave rappresenta probabilmente
l’unico strumento che racchiude due requisiti fondamentali: la facilità d’uso e il basso
profilo di rischio. Non sono previsti training particolari, è maneggevole e non richiede un
filo guida dedicato. Non danneggia la struttura dello stent e non danneggia la parete
vascolare. E’ ovviamente necessario poter portare il catetere a palloncino attraverso il
punto più ristretto dello stent e questo potrebbe non essere possibile in alcuni casi
(subocclusioni, stenosi particolarmente serrate). La nostra esperienza, basandosi su un
unico caso effettuato, è assolutamente aneddotica. Questo particolare impiego dello
Shockwave è sicuramente “di nicchia” e probabilmente sarà necessario creare un registro
statisticamente significative. E’ solo un inizio, ma pieno di buoni propositi!
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