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DALLA STRADA ALLA CASA. OGGETTI E SPAZI DOMESTICI NEI PERCORSI DI INSERIMENTO ABITATIVO DI PERSONE SENZA DIMORA

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VALENTINA PORCELLANA ‒ CRISTIAN CAMPAGNARO

DALLA STRADA ALLA CASA

OGGETTI E SPAZI DOMESTICI NEI PERCORSI DI INSERIMENTO

ABITATIVO DI PERSONE SENZA DIMORA

1. Dalla strada alla casa

Franco1 ci dà appuntamento a casa sua a metà mattina; il quartiere è quello in cui, fino a

qualche mese fa, viveva in strada, su una panchina, carico di borse. Arriviamo puntuali, suoniamo il campanello, ma non risponde nessuno. Dopo qualche minuto, lo sentiamo tossire, alzarsi faticosamente, vestirsi e infilare le scarpe. Sara, l’operatrice che ci accompagna, ci ha avvertiti che nonostante l’ingresso in casa, Franco continua ad avvolgersi i piedi con le borse di plastica della spesa: «Ne ha un po’ ovunque, sotto i vestiti, nella giacca. Nei sacchetti che tiene dentro le scarpe nasconde i soldi, i documenti e altri oggetti per lui importanti». Parecchi minuti dopo apre la porta e ci guarda con una certa diffidenza. Un odore acre esce dalla porta appena socchiusa. Ci invita ad aspettarci al bar della piazza, dove è solito trascorre alcune ore del pomeriggio. Passa il tempo, ma Franco non ci raggiunge. «Fa così anche con noi» commenta l’operatrice. Il barista, il tabaccaio da cui compra le sigarette, la cassiera del supermercato da cui fa la spesa sono i contatti attraverso i quali gli operatori cercano di avere sue notizie. Mentre ci allontaniamo in auto lo incrociamo lungo la strada: cammina imprecando a voce alta e fumando. «Anche questo è Housing First: la possibilità di scegliere di non accogliere nessuno a casa propria. E noi lo rispettiamo» ci dice Sara mentre la sagoma di Franco scompare dietro di noi (dal diario di campo, ottobre 2016).

L’articolo intende presentare alcuni esiti di un percorso di etnografia dell’abitare legato ad un progetto di inserimento in alloggio di persone che da lungo tempo vivono in strada. L’analisi si colloca all’interno di una riflessione in cui «spazio domestico e

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pratiche dell’abitare emergono come oggetti di studio sicuramente differenziati, ma inevitabilmente interconnessi».2

Il gruppo di ricerca, formato da designer e antropologi, che da alcuni anni lavora insieme sui temi del contrasto all’homelessness, ha utilizzato un approccio interdisciplinare per verificare l’avvio e le prime fasi della sperimentazione italiana di un modello di accoglienza abitativa definito Housing First (HF).3 Nato negli Stati Uniti

negli anni Ottanta e diffuso più recentemente in Europa, dal 2015 l’HF è stato inserito tra le Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta in Italia redatte dalla Direzione Generale per l’inclusione sociale del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale in collaborazione con fio.PSD, la federazione italiana delle organizzazione per persone senza dimora.4 Diversamente da quanto avviene nel

cosiddetto “modello a gradini”, che caratterizza molti sistemi di accoglienza per persone senza dimora,5 l’HF si propone come un cambiamento di paradigma riconoscendo la

casa come diritto fondamentale e non come elemento premiale alla fine di un percorso riabilitativo.6 Il modello è pensato per promuovere l’accesso diretto , ‘dalla strada alla

casa’, ad una residenza stabile e duratura a persone da tempo senza dimora affette da dipendenze e/o con problemi psichiatrici separando l’inserimento abitativo dal 2 S. PITZALIS et al., Etnografie dell’abitare contemporaneo: un’introduzione, «Antropologia», 4, 3, 2017,

p. 7. Su questi temi si veda anche il numero monografico Abitare, «Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali», 62, 2008.

3 Il percorso di osservazione e valutazione a cui ha preso parte il gruppo di ricerca si inserisce tra le attività del Comitato Scientifico del Network Housing First Italia che si è costituito nel 2014 per affiancare e supportare i progetti di inserimento abitativo per persone senza dimora sperimentati da enti pubblici e privati di dieci regioni italiane (http://www.housingfirstitalia.org/). Sull’esperienza del NHFI: cfr. P. MOLINARI, A. ZENAROLLA, a cura di, Prima la casa. La sperimentazione Housing First in Italia,

Milano, FrancoAngeli, 2018; T. CONSOLI et al., The Italian Network for Implementing the “Housing

First” Approach, in «European Journal of Homelessness», 10, 1, 2016, pp. 83-98; C. CORTESE, a cura di, Scenari e pratiche dell’Housing First. Una nuova via dell’accoglienza per la grave emarginazione adulta in Italia. Milano, FrancoAngeli, 2016. Sugli esiti del percorso di osservazione tra design e antropologia: cfr. C. CAMPAGNARO et al., Oggetti, spazi, persone: osservare e valutare le sperimentazioni con un

approccio di design anthropology, in P. MOLINARI, A. ZENAROLLA, op.cit., pp. 178-194; V.

PORCELLANA, C. CAMPAGNARO, “Posso entrare?”. Spazi domestici e oggetti quotidiani in un progetto di

HF, in C. CORTESE, op. cit., pp. 177-191 di cui il presente saggio riprende, ampliando e approfondendo, alcune riflessioni.

4 Il documento è disponibile all’indirizzo: http://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita/poverta-ed- esclusione-sociale/focus-on/Poverta-estreme/Documents/Linee-di-indirizzo-per-il-contrasto-alla-grave-emarginazione-adulta.pdf.

5 In Italia, in assenza di politiche nazionali, ogni città ha strutturato in modo diverso i propri servizi a contrasto dell’homelessness. Lo staircase appoach prevede il passaggio da strutture di prima accoglienza a soluzioni abitative via via più autonome fino all’assegnazione di un alloggio di edilizia residenziale pubblica.

6 Cfr. S. TSEMBERIS, Housing First: The Pathways Model to End Homelessness for People with Mental

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trattamento socio-sanitario.7 All’interno di questo modello, le scelte rispetto alle forme

di abitare sono (o dovrebbero essere) lasciate al beneficiario,8 partendo dal presupposto

che egli ne abbia il diritto e le capacità anziché far fronte alle sue fragilità e carenze all’interno di un progetto educativo predeterminato.9 La casa, quindi, è intesa come

quella ‘nicchia ecologica’ dove stare, stare bene e sentirsi protetti e da cui ripartire per ricomporre la propria storia.10

Per coloro che hanno vissuto a lungo la condizione della strada, però, la decisione di tornare ad abitare una casa non è semplice. Gli operatori sociali coinvolti nella sperimentazione raccontano delle resistenze che le persone oppongono al momento dell’assegnazione della casa, delle malattie che ne segnalano il disagio, della morte che, in modo non infrequente, sopraggiunge insieme all’alloggio. Una volta in casa, inoltre, come sottolinea Manuela Olagnero,11 c’è un ulteriore passaggio da compiere che

richiede tempo, cioè il passaggio da residente ad abitante. Questo delicato passaggio coinvolge anche le reti e gli spazi di prossimità, il vicinato, il quartiere.12 Riappropriarsi

di una casa significa, dunque, ridisegnare la mappa interna ed esterna ad essa, riconfigurare i propri riferimenti spaziali, l’organizzazione del tempo, l’idea di sé e del proprio corpo, il modo di intendere la propria salute, la genitorialità e le relazioni familiari, la sessualità: «il corpo si iscrive nello spazio vissuto e la casa, al contempo, influenza il corpo degli attori sociali: passare per anni per un sottoscala basso porterà al

7 La tipologia di utenza varia molto a seconda del contesto in cui il modello è applicato. Nella sperimentazione italiana è evidente la differenza tra i progetti avviati nelle città del Nord, che coinvolgono persone senza dimora ‘croniche’, da lungo tempo in strada con problematiche psichiatriche e di dipendenza, e quelli avviati nelle città del Sud, i cui beneficiari sono soprattutto famiglie e migranti senza casa, con difficoltà economiche e sociali di inserimento abitativo. Cfr. T. CONSOLI et al., op. cit.

8 Coloro che ottengono un alloggio all’interno dei progetti HF sono definiti come beneficiari, all’interno di un ‘beneficiary-centred approach’. Cfr. D.K. PADGETT et al., Housing First: Ending Homelessness, Transforming Systems, and Changing Lives, Oxford, Oxford University Press, 2015.

9 Resta molto limitata, per esempio, la possibilità di scelta rispetto ai tipi di abitazione e alle esperienze di autocostruzione.

10 Cfr. D.K. PADGETT, There’s No Place Like(a)Home: Ontological Security Among Persons with

Serious Mental Illness in the United States, in «Social Science & Medicine», 64, 9, 2007, pp. 1925-1936; C. PASQUINELLI, La vertigine dell’ordine. Il rapporto tra il sé e la casa, Milano, Baldini Castoldi Dalai,

2004; G. CASTELLI GATTINARA et al., Antropologia della casa. Struttura dell’abitato e rapporti sociali,

Lanciano, Carabba, 1981.

11 Cfr. M. OLAGNERO, La questione abitativa e i suoi dilemmi, «Meridiana. Rivista di storia e scienze

sociali», 62, 2008, pp. 21-35.

12 Sull’importanza di analizzare il contesto, spaziale e temporale, in cui la casa diventa un elemento fondante della sicurezza ontologica: cfr. D.K. PADGETT, op. cit. Sul ruolo del vicinato e delle reti di

relazioni che si costruiscono nel quartiere di residenza, con particolare riferimento a persone con fragilità sociale: cfr. M. PREZZA, M. SANTINELLO, a cura di, Conoscere la comunità: l’analisi degli ambienti di vita quotidiana, Bologna, il Mulino, 2002.

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risultato di incorporazione di uno spazio che si esplicita attraverso una postura curva».13

Si pensi, quindi, quanto possono incidere nelle ‘abilità domestiche’ – intese come abitudini all’abitare – gli anni trascorsi in condizioni di grave emarginazione, tra strada, ripari di fortuna e strutture di accoglienza notturna.14

Per quanto la casa sia al centro dei progetti di HF, anche nella letteratura internazionale sull’inserimento abitativo di persone senza dimora non sembra particolarmente sviluppato l’interesse specifico per spazi e oggetti che concretamente entrano nella vita dei beneficiari. Nell’ormai ampia bibliografia su esperienze di HF, a cui hanno contribuito in modo significativo anche gli antropologi, soprattutto statunitensi,15 si fa riferimento al fatto che, negli obiettivi del progetto, l’individuo può

scegliere il proprio alloggio nel quartiere che preferisce e con le dotazioni di cui ha bisogno; decidere con chi abitare e come farlo; pagare una parte dell’affitto per sentirsene proprietario, essendo intestatario del contratto di locazione. Molto più rari, invece, sono i riferimenti che gli autori fanno al processo di appropriazione materiale e simbolica di quegli spazi e di quanto anche questo sia parte del dominio di scelta e del diritto della persona. Né si dice in maniera esplicita che ruolo e che atteggiamento debbano avere gli operatori sociali che accompagnano i percorsi di inserimento abitativo.16

Entrare nelle case della sperimentazione HF ha significato per noi verificare quanto gli obiettivi del progetto siano realizzati nella pratica quotidiana, quanta libertà sia effettivamente lasciata ai beneficiari e che tipo di relazione si instauri tra persone, spazi domestici e oggetti. Abbiamo voluto indagare l’uso della casa, l’accumulazione graduale di ‘cose’ da parte dei beneficiari e di come gli oggetti concorrano a ‘modulare’ l’esistenza della persona partecipando allo stato di benessere e alla costruzione del senso di sicurezza. Abbiamo infine cercato di comprendere se e come le ‘cose di casa’

13 P. MELONI, op. cit., p. 426.

14 Sulla progettazione degli spazi di accoglienza diurna e notturna per e con persone senza dimora, cfr. C. CAMPAGNARO, V. PORCELLANA, Il bello che cura. Benessere e spazi di accoglienza notturna per

persone senza dimora, «Cambio. Rivista delle trasformazioni sociali», III, 5, giugno 2013, pp. 35-44.

15 Per una sintesi: cfr. D.K. PADGETT et al., Housing First: Ending Homelessness, Transforming

Systems, and Changing Lives, Oxford, Oxford University Press, 2015.

16 Dai focus group organizzati con gli operatori sociali coinvolti nella sperimentazione italiana è emerso quanto il paradigma dell’HF metta fortemente in crisi gli educatori. Formati ad un modello maggiormente strutturato di accoglienza, molti sembrano faticare a sottrarsi ad una progettazione dell’intervento che lasci piena libertà ai beneficiari nello scegliere come organizzare la propria esperienza di vita. Cfr. V. PORCELLANA, C. CAMPAGNARO, op. cit.

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interagiscano con il lavoro degli operatori sociali e come questi possano, attraverso di esse, leggere il processo di accomodation dei beneficiari.17

Abbiamo preso a campione alcune sperimentazioni avviate all’interno del Network Housing First Italia: tre in città nel Nord, una al Centro e due al Sud. Abbiamo visitato 14 case e incontrato 26 abitanti. La maggior parte di essi vive sola all’interno di un appartamento proprio, ma abbiamo fatto visita anche a due gruppi famigliari e a tre coppie di coabitanti. Inoltre, abbiamo organizzato 8 focus group con gli operatori e le operatrici che seguono in prima persona il programma nelle diverse città scelte per l’indagine.

Come abbiamo sperimentato anche in altri percorsi di ricerca-azione a contrasto dell’homelessness,18 design e antropologia possono risultare complementari all’interno

di un orientamento microanalitico sui ‘mondi domestici’ che si concentra sugli elementi simbolici dell’abitare, sull’identità, sulla riappropriazione dei propri spazi di vita a partire e attraverso elementi tangibili come gli oggetti domestici.19 L’interazione tra

l’attitudine trasformativa del design e l’esperienza osservativa dell’antropologia trovano una sintesi suggestiva nel binomio design anthropology, in cui strumenti, metodi, sensibilità e linguaggi sono condivisi e complementari nel comprendere fenomeni e processi e, eventualmente, nel promuovere cambiamenti.20 In particolare, mentre il

17 Il processo di appropriazione degli spazi domestici è definito da Daniel Miller come accomodation o accomodating theory. Cfr. D. MILLER, Per un’antropologia delle cose, Milano, Ledizioni, 2013.

18 Cfr. C. CAMPAGNARO, V. PORCELLANA, Beauty, participation and inclusion. Designing with homeless

people, in S. GONÇALVES, S. MAJHANOVICH, a cura di, Art and Intercultural Dialogue,

Rotterdam/Boston, Sense Publishers, 2016, pp. 217-232; V. PORCELLANA et al., Quando l’antropologia

incontra il design. Riflessioni a margine di una ricerca-azione a contrasto dell’homelessness, in «Illuminazioni», 42, ottobre-dicembre 2017, pp. 229-251.

19 Su questi temi l’antropologia italiana riflette da tempo con contributi di notevole interesse: cfr. F. DEI,

P. MELONI, Antropologia della cultura materiale, Roma, Carocci, 2017; V. LUSINI, P. MELONI, a cura di,

Culture domestiche. Saggi interdisciplinari, numero monografico, «Lares», 3, settembre-dicembre 2014; M. ARIA, Cultura domestica e strategie di distinzione: il significato degli oggetti ordinari tra le famiglie

toscane di classe media, «L’Uomo», n. 1-2, 2012, pp. 231-239; S. GIORGI, A. FASULO, I racconti degli

spazi domestici tra biografia e cultura: la cucina oltre il gendered space, in G. LEONE, a cura di, Vivere l’interculturalità. Ricerche sulla vita quotidiana contemporanea, Milano, Unicopli, 2011, pp. 75-86; S. BERNARDI et al., a cura di, La materia del quotidiano. Per un’antropologia degli oggetti ordinari, Pisa,

Pacini, 2011; V. PADIGLIONE, S. GIORGI, a cura di, Etnografi in famiglia. Riflessività, luoghi e relazioni,

Roma, Kappa editore, 2010; S. GIORGI, C. PONTECORVO, a cura di, Culture familiari tra pratiche

quotidiane e rappresentazioni, «Etnografia e ricerca qualitativa», 2, 2009; C. PONTECORVO et al.,

Raccontare i luoghi “familiari”, in L. FRUGGERI, a cura di, Osservare le famiglie. Metodi e tecniche, Roma, Carocci, 2009; F. DEI, Oggetti domestici e stili familiari. Una ricerca sulla cultura materiale tra famiglie toscane di classe media, «Etnografia e ricerca qualitativa», 2, 2009, pp. 279-293; S. GIORGI, V.

PADIGLIONE, Appropriazioni: negoziare lo spazio domestico in famiglia, «Età evolutiva», 85, ottobre

2006, pp. 62-72.

20 Cfr. W. GUNN et al., a cura di, Design Anthropology. Theory and Practice, London/New York,

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design riesce a cogliere quella che Burtscher chiama ‘biografia degli oggetti’,21

l’antropologia contribuisce a penetrare nei percorsi biografici delle persone e a indagare in maniera critica le relazioni in cui anche gli oggetti sono implicati a vario titolo.22

Nella fase di ricerca sul campo abbiamo coinvolto gli abitanti attraverso percorsi di

videotour all’interno delle loro case; essi sono stati chiamati a rielaborare l’esperienza

che stanno vivendo, producendo nuove forme di conoscenza e di consapevolezza.23 I

videotour, utilizzati come strumento di indagine etnografica degli spazi vissuti, sono

stati realizzati dai ricercatori attraverso l’uso di dispositivi portatili e poco invasivi (spesso la telecamera del cellulare) chiedendo agli abitanti di visitare insieme gli spazi e di descrivere gli elementi considerati più significativi. Superato l’imbarazzo iniziale di entrare in uno spazio intimo, spesso molto ristretto, la presenza dei ricercatori si è rivelata utile – diversamente da quanto sperimentato in altre esperienze di self

ethnography che hanno utilizzato il videotour – per sollecitare il protagonismo e la

narrazione in persone che hanno spesso difficoltà a raccontarsi e che stanno riacquisendo familiarità con gli spazi domestici.24 I prodotti di queste esperienze

Per un’applicazione dell’approccio di design anthropology ai temi degli spazi domestici si veda il recente lavoro di S. PINK et al., Making homes: ethnography and design, London/New York, Bloomsbury, 2017.

21 Cfr. A. BURTSCHER et al., Biografie di oggetti/Storie di cose. Milano, Mondadori, 2009. L’espressione

richiama la ‘biografia delle cose’ e delle merci di cui parla Igor Kopytoff nel suo contributo al volume di A. APPADURAI, The social life of things: commodities in cultural perspective, Cambridge, Cambridge

University Press, 1986.

22 Come scrive Pietro Meloni, infatti, alcune discipline – semiotica, design e architettura tra le altre – hanno «accolto l’antropologia come uno degli orizzonti teorici e metodologici di riferimento per l’analisi qualitativa degli usi, delle cose e degli spazi abitativi», P. MELONI, Introduzione. L’uso (e il consumo)

dello spazio domestico, «Lares», 3, settembre-dicembre 2014, pp. 419-438: 421.

23 Sull’utilizzo del videotour all’interno di spazi domestici, cfr. M. ARIA, op. cit.; F. DEI, op. cit.; C. PONTECORVO et al., op. cit.; S. GIORGI et al., Appropriations: Dynamics of Domestic Space Negotiations

in Italian Middle-Class Working Families, «Culture&Psychology», 13, 2, giugno 2007, pp.147-178; V. PADIGLIONE et al., Come mai questa mattina sembrava un film. Un’etnografia riflessiva in famiglia, in C.

GALLINI, G. SATTA, a cura di, Incontri etnografici. Processi cognitivi e relazionali nella ricerca sul

campo, Roma, Meltemi, 2007, pp.192-219; V. PADIGLIONE, Souvenir, «Antropologia museale», 4, 14,

2006, pp. 84-86. Vi vedano inoltre, cfr. S. PINK et al., op. cit.; S. PAGGI, Antropologia filmica dello

spazio domestico, «Lares», 3, settembre-dicembre 2014, pp. 439-452. Sull’uso di strumenti audiovisivi, in particolare di fotoelicitazione e photo voice, in contesti di fragilità sociale e grave emarginazione, cfr. M. GABOARDI et al., Changing the method of working with homeless people: a photovoice project in Italy,

«Journal of Social Distress and the Homeless», 27, 1, 2018, pp. 53-63; G. SCANDURRA, Photography and

Urban Marginality, «Visual Anthropology», 30, 3, 20017, pp. 261-274; A. STEFANIZZI, B. TRAN SMITH,

Fotografia, partecipazione ed empowerment. La foto elicitazione con persone fragili come pratica collaborativa, in V. PORCELLANA, S. STEFANI, a cura di, Processi partecipativi ed etnografia collaborativa nelle Alpi e altrove, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2016, pp. 195-214; D.K. PADGETT et al., A Picture Is Worth ... ? Photo Elicitation Interviewing With Formerly Homeless Adults, «Qualitative Health Research», 23, 11, 2013, pp. 1435-1444.

24 I contatti con i beneficiari delle case di HF sono stati mediati dagli operatori sociali che si occupano del loro inserimento abitativo. Durante i videotour, agli operatori è stato chiesto di intervenire il meno possibile per lasciare alle persone la possibilità di presentare da sé il proprio ambiente di vita.

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diventano strumenti narrativi attraverso i quali gli abitanti possono «descrivere e raccontare gli spazi in cui vivono, non solo in senso fisico-spaziale, ma anche e soprattutto in senso affettivo-relazionale» e come attivatori della memoria.25 Attraverso

il ‘pensiero narrativo’, infatti, «l’individuo realizza una complessa tessitura di esperienze, mettendo in relazione situazioni presenti, passate e future in forma di “racconto”, e in tal modo le attualizza e le rende oggetto di possibili ipotesi interpretative e ricostruttive».26 Questo tipo di narrazione, oltre ad essere un’occasione

di protagonismo e di ‘voce’ per i beneficiari,27 è particolarmente utile agli operatori ai

fini dell’accompagnamento e della valutazione del grado di appropriazione dei luoghi all’interno di un progetto di HF. Si tratta, infatti, di narrazioni di tipo autobiografico che rispondono alla necessità di «attribuire significato alle proprie esperienze, al proprio vissuto, alla propria storia, costruendo e ricostruendo la propria identità individuale e/o collettiva».28

Spazi e oggetti si rivelano mediatori particolarmente efficaci per parlare delle relazioni che le persone creano intorno a sé.29 Molte discipline che si occupano del tema

dell’abitare riconoscono quanto, attraverso la preparazione della casa e l’inserimento di oggetti propri, la house «a physical structure» possa trasformarsi in home, «a place to relax and to be oneself, where one could freely exercise her/his creativity and talent»30,

diventando espressione dell’identità e della storia personale. Ciò appare ancora più vero per coloro che, per lungo tempo senza dimora, hanno perduto gran parte dei legami familiari e amicali insieme ai beni materiali.31 Dall’esperienza di ricerca all’interno delle

case del progetto HF non emerge soltanto quanto la cultura materiale sia centrale per le relazioni, ma quanto attraverso gli oggetti sia possibile far emergere elementi della propria vita altrimenti ‘indicibili’. Quelli che Véronique Dassié chiama i ‘giardini segreti’32 non riguardano soltanto i ricordi, le esperienze dolorose e le emozioni, ma

25 C. PONTECORVO et al., op. cit., p. 142; V. DESSIÉ, Objets d’affection. Une ethnologie de l’intime,

Paris, CTHS, 2010.

26 Ibid.

27 Cfr. G. ZUCCALÀ et al., L’idea di casa dei senza dimora di un programma Housing First, «Psicologia

di comunità», 2, 2016, pp. 9-21.

28 C. PONTECORVO et al., op. cit., p. 143.

29 Cfr. D. MILLER, The Comfort of Things, Cambridge, Polity Press, 2008; ID., Stuff, Cambridge, Polity Press, 2009.

30 M. BORG et al., What Makes a House a Home: The Role of Material Resources in Recovery from

Severe Mental Illness, «American Journal of Psychiatric Rehabilitation», 8, 2005, p. 247.

31 Sugli eventi che conducono in strada e sulla ricostruzione della ‘carriera del senza dimora’, cfr. A. MEO, Vite in bilico. Sociologia della reazione a eventi spiazzanti, Liguori, Napoli, 2000.

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anche quei piccoli fatti quotidiani e quelle abitudini che sono difficilmente narrabili se non attraverso la mediazione degli oggetti e all’interno di una cornice di intimità data dagli spazi domestici.

2. In cucina

Nazdar è una donna curda di circa quarant’anni, madre di tre figli tra i tre e i tredici anni; da qualche anno si è trasferita da Roma in una città siciliana dopo aver lasciato il progetto di accoglienza per richiedenti asilo in cui era stata inserita al suo arrivo in Italia. Il suo ‘caso’ non rientra tra quelli previsti dal progetto HF statunitense, poiché non ha problemi di dipendenza o patologie psichiatriche, né ha vissuto direttamente in strada; la sua situazione, però, rientra pienamente nella definizione di ‘senza casa’ prevista dalla classificazione europea Ethos ed è stata inserita nel progetto di un ente ecclesiastico siciliano che sta sperimentando le modalità di HF.33

Insieme a due operatrici che stanno seguendo il suo percorso, non solo abitativo, veniamo accolti nella casa in cui abita da circa un anno. Dopo una visita alle stanze che la compongono e la descrizione di alcuni oggetti per lei particolarmente significativi, Nazdar ci fa accomodare in cucina, dove sta preparando il the. Ci racconta del suo arrivo in Italia, nel 2010, della permanenza in un centro di accoglienza, il susseguirsi di altre sistemazioni precarie, che ricorda tutte come esperienze dolorose: «Ho sofferto tanto per la casa» ripete più volte. Trasferitasi in Sicilia insieme al marito, con alcuni risparmi riescono a prendere in affitto un alloggio, finché, finiti i soldi, il proprietario taglia loro la luce e l’acqua: «A scuola, i compagni di mia figlia la prendevano in giro dicendo che era sporca. Non potevo lavarle i capelli, non avevamo l’acqua». Lasciata anche quella casa, la famiglia di Nazdar si trasferisce in un monolocale dove resta per quattro anni:

Eravamo in cinque in una stanza. Non c’era una stanza per la mia bambina per giocare. Siamo rimasti quattro anni. Poi abbiamo incontrato loro [le operatrici del progetto HF], abbiamo mangiato insieme il couscous. Ti ricordi? [rivolta ad una delle operatrici]. Ho fatto vedere la casa, ho fatto vedere il divano letto, malissimo, ogni mattina mi alzavo con

33 Il documento è consultabile, nella sua traduzione italiana, all’indirizzo: https://www.feantsa.org/download/it___8942556517175588858.pdf.

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la schiena bloccata perché era malissimo. E poi con pazienza, piano piano, abbiamo trovato qua.

I ricordi passati si alternano a episodi più recenti della vita dei figli, alle battute scherzose sulle sue lezioni di guida ‒ la patente è il suo grande sogno di indipendenza ‒ alla descrizione dei diversi lavori in cui è impegnata e soprattutto alle considerazioni sulla casa:

Sono contenta. Siamo qui da quasi un anno, bene. Qualche mobile non mi piace, voglio cambiare, però, piano piano. Voglio cambiare tutta la mia vita, ho incominciato dalla casa e piano piano…La prima sera qui è stato bellissimo. Mia figlia non credeva di poter avere una stanza solo per lei. Certo che rinnoviamo il contratto qui! E domani pomeriggio arrivano 15 compagni di scuola di mia figlia! Non so come farò, ma devo preparare qualcosa per loro. È bello!

La conversazione prosegue a lungo, seduti sulle sedie pieghevoli disposte intorno al tavolo rotondo della cucina, con il sottofondo della lavatrice e dei cucchiaini che mescolano il the nei bicchieri di vetro ricordo della sua città, Istanbul. Ci offre dei biscotti salati al sesamo nero fatti da lei: ci svela la ricetta e le operatrici la sollecitano a raccontare di altri piatti che le riescono particolarmente bene e che ha cucinato in diverse occasioni, anche pubbliche. Ricordando la sua permanenza nel centro di accoglienza romano, una delle mancanze più gravi, oltre ad avere «un solo bagno per 14 bambini», era l’assenza della cucina che le impediva di scegliere e di preparare il cibo per sé e per i figli. Tullio Seppilli parla di ‘sistema dell’alimentazione’ per descrivere quell’insieme complesso di elementi che compongono e danno forma culturale e sociale al bisogno biologico di nutrirsi.34 Per quanto possa apparire scontato, il cibo non è

soltanto nutrimento, così come la cucina non è soltanto il luogo in cui il cibo è preparato.

Per quanto, come sottolinea ancora Seppilli, gli spazi abitativi si siano ridotti, anche a discapito della centralità della cucina all’interno dello spazio domestico, nelle case che 34 Cfr. T. SEPPILLI, Per una antropologia dell’alimentazione. Determinazioni, funzioni e significati psico-culturali della risposta sociale a un bisogno biologico, «La Ricerca Folklorica», 30, ottobre 1994, pp. 7-14. Si veda anche S. Grilli, Case, cibo e famiglia. Pratiche dell’abitare e della relazionalità parentale, «Lares», 3, settembre-dicembre 2014, pp. 469-490.

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abbiamo visitato il cibo è stato uno degli elementi ricorrenti e la cucina (o lo spazio intorno all’angolo cottura) è stato il luogo in cui siamo stati accolti – anche per mancanza di altri spazi di socialità – e in cui hanno preso vita le nostre conversazioni.35

Arriviamo a casa di Iulian un pomeriggio verso le 14, come concordato. Appena aperta la porta, un invitante profumo di bistecca ai ferri ci raggiunge sulla soglia. Il padrone di casa sta cucinando per il suo amico Sandro, appena tornato in città. Iulian è nato una sessantina di anni fa in una città rumena vicina a Timișoara, «nella regione storica del Banato», come tiene a precisare. Dal 2009 vive stabilmente in una grande città del Nord dopo aver viaggiato a lungo in Italia e in Europa per lavoro. Pur non avendo studiato italiano, lo parla con proprietà, lasciando emergere la sua cultura classica, che comprende anche lo studio del latino «che è alla base della grammatica italiana quanto di quella rumena», commenta dopo una lunga riflessione sulle differenze linguistiche e dialettali che ha incontrato nei suoi spostamenti. Perso il lavoro e dopo molti anni passati in strada, a Iulian viene fatta la proposta, da parte di un ente non profit, di entrare nel progetto di HF. La ricerca della casa nel mercato privato dura alcuni mesi, in cui non si perde d’animo: «Non avevo fretta e niente da perdere». Il monolocale in cui abita da «più di 11 mesi» si trova in un ex albergo trasformato in residence. Racconta di trovarsi bene, anche con i vicini: «cinque arabi, un cinese, dei sudamericani, tutto tranquillo. Ci salutiamo, ci rispettiamo l’uno con l’altro». La stanza di cui si compone l’alloggio è piuttosto ampia e comprende un angolo cottura con alcuni pensili, un divano letto, un tavolo, alcune mensole piene di oggetti, tendine gialle alle finestre, un tappeto, delle piantine regalate dagli operatori che vanno a trovarlo.

Quando sono arrivato qui ero confuso. La prima notte è stata bianca. Non me l’aspettavo, dopo tanti colloqui in ufficio. È stato strano che qualcuno pensasse a me ancora. Non me l’aspettavo. Quando ho preso le chiavi di qui credevo a uno scherzo. Poi, con il loro aiuto [degli operatori] e la mia possibilità ho provato a fare un ambiente amabile per tutti, ma soprattutto per me. Ho creato una casa in cui mi sento proprio a casa.

35 Cfr. R. SASSATELLI, F. DAVOLIO, ‘A cena da noi’. Ospitalità e negoziazioni simboliche della domesticità, «Lares», 3, settembre-dicembre 2014, pp. 503-522; D. MANGANO, La cucina oggi, «Lares»,

3, settembre-dicembre 2014, pp. 491-501; E. PETRIDOU, The Taste of Home, in D. MILLER, 2001, op. cit., pp. 87-104.

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Sandro, con cui Iulian ha condiviso molti anni di strada, commenta: «Iulian potrebbe avere una casa come un diamante invece accoglie gli amici della strada, accoglie loro e le loro cose. Lui non ha mai abbandonato gli amici della strada. Mangiare, una doccia, ci aiuta sempre». Mentre Sandro si affretta a dire che non sta parlando per amicizia o per sentimentalismo, ma «semplicemente perché è la verità», anche Iulian minimizza: «È merito loro [degli operatori] se sono qui. Questa è una casa aperti a tutti, semplice, ma con onestà e rispetto. Queste sono le mie condizioni».

Per accoglierci Iulian ha preparato sul piccolo tavolo vicino al divano letto il caffè, i biscotti e «la marmellata per aggiungere un po’ di dolcezza». Sollecitato dall’operatore che ci accompagna a parlare dei piatti che cucina, Iulian tira fuori da uno dei pensili della cucina le sue conserve e le verdure coltivate in uno degli orti urbani alla periferia della città.

Ve li faccio assaggiare. Cetrioli preparati da me. Assaggia. Le ricette non si dicono, prima assaggia. Un tipo di mozzarella preparata da me. Proviamo. Peperoncini preparati da me. Pomodori verdi. Questi li ho presi dal mio orto. Anche se nei mesi scorsi ho avuto qualche problema di salute sono riuscito a coltivare il mio orto. Queste sono cose speciali che offro solo in occasioni particolari.

E il discorso prosegue elencando le specialità rumene che ha imparato dalla madre e che cucina per gli amici e gli operatori che gli fanno visita.

Anche Enrico ci offre dei biscotti quando andiamo a trovarlo nel monolocale in cui vive da circa un anno. Enrico ha una quarantina d’anni e due figli che vivono con la sua ex moglie. Ha trascorsi di tossicodipendenza e ha passato diversi anni tra la strada e i servizi di prima accoglienza.

L’ingresso dell’appartamento coincide con l’angolo cottura, di fronte si apre un piccolo bagno. La stanza da letto comprende un tavolino a muro, due sedie, il letto e l’armadio. La casa è talmente piccola che con la nostra presenza ci sembra di saturare l’ambiente, ma Enrico scherza, dicendoci che alla festa di inaugurazione c’erano una decina di persone. «Anche quando vengono a trovarmi i bambini è una festa, è come andare in campeggio». Più che parlare dei pochi oggetti che lo circondano, Enrico racconta di sé e di come, proprio grazie alla casa e al fatto stesso di abitare uno

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spazio proprio, per quanto piccolo, sia possibile parlare della sua vita di ‘senza dimora’ come di un’esperienza ormai superata.

È già passato un anno da quando ho la casa. Un anno fa ero ancora in dormitorio. Là sei a contatto con mille e cento teste che la pensano diversamente, tutte le sere polizia, c’erano problemi, persone di tutte le razze e le nazioni. Non è per niente facile. Devi dormire con un occhio aperto, ne succedono di cotte e di crude. La prima notte qui in casa non ho dormito tutta la notte per la gioia. Anche se la casa è piccola, continuavo a fare avanti e indietro. Mi ero seduto sulla sedia e con agenda e penna scrivevo i pensieri. È un discorso di reinserirti piano piano nella società: non dormire sotto i portici o in dormitorio, ma essere solo e avere la tua privacy ti tira su il morale.

I 25 metri quadrati dell’alloggio non gli hanno consentito di portare quasi nulla con sé, ma il rapporto di Enrico con la casa non si basa tanto sugli oggetti, quanto sulla possibilità stessa di avere uno spazio di intimità e di sicurezza grazie al quale sentirsi nuovamente parte della società, come afferma lui stesso, e dal quale ripartire per progettare il futuro. In questo senso, ‘la casa fa l’uomo’ più che il contrario e il ‘mutuo’ per comperare la casa di proprietà che sogna rimanda alle riflessioni di Pierre Bourdieu sull’incorporazione di un habitus formato da «schemi incorporati, costituitisi nel corso della storia collettiva, che vengono poi acquisiti nel corso della storia individuale»36.

Casa è fare la doccia tutti i giorni, avere una lavatrice, fare da mangiare – quando ci sono le finanze, altrimenti si va in mensa – è un tetto sotto cui poter dormire, un posto dove mettere le tue cose, le tue foto, i tuoi ricordi, i vestiti, arredarla un po’ come vuoi […]. La cosa bella è che i miei figli non vedono più il loro padre senza tetto, in mezzo a una strada. È capitato che sono venuti a fare il fine settimana qua. Sono quelle piccole cose che ti riportano alla vita quotidiana, fantastica, tocchi il cielo con un dito. Sogno di poter fare un mutuo e potermi comprare una casa di proprietà.

Come suggerisce Meloni, sono le abitudini a rendere più o meno confortevole la vita domestica, nel senso che «l’abitudine, la negoziazione con lo spazio, ci consente

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di poter vivere e muoverci dentro la casa in totale economia, senza sforzi eccessivi».37 Iulian ed Enrico raccontano entrambi della prima notte in casa trascorsa

senza riuscire a dormire: oltre all’emozione, non erano più abituati al silenzio, al fatto di avere uno spazio proprio; avevano incorporato i ritmi di un sonno leggero, attento a ciò che li circondava, potenzialmente pericoloso. Se dormire appare, come mangiare, un bisogno fisiologico primario, la riflessione antropologica sulle tecniche del sé e la soggettificazione «indicano quanto sia complesso il lavoro di incorporazione delle pratiche, e come esse siano frutto di una performance che diviene successivamente inconsapevole»38.

Anche l’abitudine di poter cucinare deve essere acquisita o riacquisita, anche in relazione alle possibilità economiche per farlo, come sottolinea Enrico. «Ho scoperto che mi piace cucinare tanto quanto a mia figlia piace mangiare quello che cucino. Scusate, infatti, se il fornello è sporco, dovrei pulirlo più sovente e soprattutto dovrei proteggere il muro con delle piastrelle» ci dice mostrando l’angolo cottura visibilmente utilizzato.

Laura e Giuseppe vivono in un’altra grande città settentrionale. Laura è una donna italiana di circa sessant’anni, molto piccola di statura, con un viso rotondo e circondato da due lunghi codini ormai grigi che le scendono sulle spalle. È lei la padrona di casa e lascia poco spazio al suo compagno durante la conversazione che avviene perlopiù in cucina, seduti intorno al tavolo rettangolare accostato al muro. Racconta la sua storia, i soprusi subiti dall’ex marito, i lunghi anni in cui ha girato, prima da sola, poi con Giuseppe, per i dormitori della città. La sua mappa dei servizi di accoglienza diurna e notturna è dettagliata, con nomi di luoghi, di persone, di eventi. L’alloggio del progetto HF in cui abitano da circa un anno è composto da una stanza con due letti separati «così ognuno dorme come vuole», il bagno e la cucina. Anche se gli spazi sono piuttosto ampi e comprendono anche un terrazzino dove ogni tanto mangiano quando fa caldo, a Laura non piace particolarmente: il quartiere in cui si trova le fa paura, non c’è l’ascensore e gli spazi sono limitati rispetto alla casa che aveva un tempo. Eppure, ha scelto lei i mobili e li ha montati insieme a Giuseppe e agli operatori ed è orgogliosa di mostrarli a chi le fa visita.

37 P. MELONI, 2014, op. cit., p. 425.

38 Il riferimento è agli studi del cosiddetto gruppo MàP, che ha rielaborato le riflessioni sulle tecniche del corpo di Marcel Mauss e le teorie foucaultiane. Cfr. F. DEI, P. MELONI, op. cit., p. 87.

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La casa era vuota, quando siamo arrivati c’era solo il lavandino della cucina. Mi piace il bianco e anche il rosa, ho scelto io i mobili bianchi all’Ikea. Qui non cucino, ma da mio padre sì. Tanti che hanno la casa vanno lo stesso in mensa per risparmiare, ma anche per uscire. Anche a me piace a volte andare alla mensa.

3. Tra gli oggetti

Entrare nelle case e conversare con le persone che le stanno abitando fa emergere una dimensione estremamente autobiografica delle esperienze che difficilmente può essere astratta in modelli ricorrenti. Tuttavia, limitandoci alla forma ‘tangibile’ di questi modelli di abitare, potremmo descrivere, come suggerisce Miller, case minimamente allestite, quasi vuote, come quella di Enrico e, in parte, quella di Laura e Giuseppe, e case ‘piene’, sature di oggetti, come quelle di Iulian e della famiglia di Nazdar.39 Ci

sono case vissute, quasi ‘consumate’ e case che appaiono intonse, come se non fossero intaccate neanche dalla presenza delle persone che le abitano. In alcune, gli spazi sono stati progressivamente trasformati attraverso l’uso dei locali, la distribuzione dei mobili e la collocazione degli oggetti. Al contrario, ci sono modi di abitare in cui, ad eccezione dei pochi oggetti necessari, la casa è percepita come un luogo, tendenzialmente neutro e funzionale, da cui partire e a cui tornare piuttosto che un luogo dove stare.40

L’alloggio di Enrico ha le caratteristiche di una ‘casa di transizione’, sia per questioni di spazio, sia per quel desiderio di avere una casa di proprietà in cui ricollocare finalmente i mobili di famiglia che oggi sono conservati in un garage. Gli oggetti che Enrico ha portato con sé nella casa HF sono pochi: un djembe, regalo di un amico che vive ancora in strada e con cui si vede regolarmente, qualche libro che tiene sulla mensola, due fotografie senza cornice, una della madre e una del figlio. «Quando sono rimasto senza casa ho buttato tutti i vestiti. Quando mi serve qualcosa vado a prenderla in un centro gestito da volontari». Gli oggetti intorno ai quali Enrico concentra il suo racconto sono la lavatrice che sta in bagno, lo stendino per i panni che 39 Cfr. D. MILLER, 2009, op. cit.

40 Come evidenzia Borg, l’abitazione per alcuni è «a secure base from which to approach the world. […] In some situations, having a home felt like a direct connection to the outside world through such things as contact with neighbours […] For others, home could be as much a social arena as a refuge for solitary activity». Cfr. M. BORG et al., op. cit., p. 250.

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ha appeso sotto la finestra della camera, il frigorifero collocato in un angolo della stanza, le piastre dove cucina e l’aspirapolvere che la sua vicina di casa gli ha prestato al suo arrivo «e che ormai è praticamente mio». Un altro oggetto di cui Enrico parla a lungo è il condizionatore dell’aria che funziona anche da termosifone. È un condizionatore fisso, piuttosto grande, collocato per terra di fianco al letto. Enrico si lamenta del fatto che le bocchette dell’aria non sono regolabili ed essendo all’altezza del letto gli creano non pochi problemi alla schiena, per cui la notte lo deve tenere spento. L’oggetto diventa occasione per fare emergere una serie di dettagli su come è organizzata l’ospitalità nella casa di HF predisposta dall’ente che gestisce il progetto. Il verbo ‘chiedere’, che viene più volte ripetuto sia da Enrico sia dall’operatore che ci accompagna, sembra richiamare il processo di governamentalità foucaultiano, di controllo e di disciplinamento più che i princìpi di libertà espressi dai programmi HF. Ogni volta che Enrico ha bisogno di qualcosa – che sia un malfunzionamento del condizionatore, il desiderio di ridipingere le pareti o di lavare le tende – deve chiedere alla sezione logistica dell’ente acuendo la sensazione di essere soltanto un ospite temporaneo della casa. A proposito di elettrodomestici, si lamenta scherzando prima di salutarci, gli manca il ferro da stiro, ma non saprebbe dove appoggiarlo.

Anche con Laura parliamo a lungo di un oggetto che, al di fuori della casa, sarebbe difficilmente tema di conversazione. Le piastre a induzione della cucina non le piacciono, non le sa usare, seppure le abbia scelte lei insieme al resto dei mobili della cucina. Da quando è arrivata in casa non ha mai utilizzato il piano cottura, neanche per preparare il caffè e il forno serve per riporre le padelle. Intorno a questo oggetto emergono una serie di racconti che hanno a che fare con le sue abitudini quotidiane: la relazione che ha con il padre da cui va con una certa regolarità «a cucinare la pasta con il ragù», il rituale del caffè preso ogni mattina al bar dell’angolo, il fatto di andare a mangiare in mensa che, oltre ad essere un’esigenza ‘materiale’, rappresenta la possibilità di incontrare persone che si conoscono.41

Diversamente da quelli descritti da Enrico e Laura, gli oggetti che ci mostrano Nazdar e Iulian rientrano nella definizione di ‘oggetti di affezione’42, custoditi con cura

e legati a memorie personali e relazioni importanti. Nel caso di Nazdar, gli oggetti 41 Ottenere la casa, sia all’interno del progetto HF, sia la casa di edilizia popolare non esaurisce i bisogni materiali e relazionali delle persone.

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raccontano una parte della sua personalità creativa e della sua intraprendenza. Nel preparare il tavolo della cucina per offrirci il the, Nazdar dispone sopra le due tovaglie già apparecchiate – di cui una «del mio paese» a cui è molto affezionata – una terza tovaglia rotonda, impermeabile, a pois rossi. A guardarla bene ci si accorge che si tratta del tessuto di un ombrello: «Quando si è rotto io ho fatto questo. Così se cade qualcosa non si bagna» racconta sorridendo. La tovaglia è l’ultimo degli oggetti recuperati e rifunzionalizzati che Nazdar ci fa vedere nel corso della nostra visita. Poco prima, dalla sua camera da letto aveva portato fuori un salvadanaio rotto: «Quando è nato Enzo [il suo figlio più piccolo], Serena [una operatrice diventata sua amica] mi ha regolato questo. Dentro c’erano 300 euro che mi facevano comodo. Da quando l’ho rotto, lo uso come porta cotone». Dalla stanza dei bambini va a prendere un cuscino tondo, che nella forma e nei colori ricorda i biscotti ‘pan di stelle’: «Ho fatto tutto io, tagliato, cucito. Ci sono le foto su Facebook delle cose che ho fatto», dice con soddisfazione quando lodiamo la sua abilità.43 Il riuso che Nazdar fa degli oggetti e la sua capacità creativa,

che comprende anche l’uso delle materie prime in cucina, fanno emergere una serie di strategie di risparmio che convivono con scelte che sembrano di segno opposto. Nel salotto di casa, infatti, fa bella mostra di sé un grande schermo televisivo, di cui la padrona di casa è molto orgogliosa, segno tangibile della sua indipendenza economica dal marito, dal quale si è recentemente separata. Come scrivono Dei e Meloni, infatti, «risparmio e dispendio si implicano a vicenda e formano un sistema atto a esprimere valori trascendenti, nel senso che si riferiscono a nozioni ideali e normative che vanno ben oltre l’orizzonte della quotidianità»44.

Quando chiediamo a Iulian quale sia stata la prima cosa che ha portato in casa lui risponde senza esitazione «Morgana», il suo cane. Poi aggiunge: «La mia borsa con le foto, che sono i miei ricordi, la mia vita. Altre cose sono a casa della nonna,45 altre da

mia figlia a Trento, altre ancora in Romania». Mentre parliamo, tira fuori le fotografie dalla borsa e ci chiede di non riprenderle con il video «perché sono della mia nipotina e di mia figlia». Oltre alle immagini conservate gelosamente e nascoste alla vista dei visitatori, ce ne sono altre che possono essere esposte, appese al muro: sono oggetti 43 Sui media digitali in ambito domestico, in particolare sull’uso di Facebook cfr. D. MILLER, Tales from

Facebook, Oxford, Berg, 2011.

44 F. DEI, P. MELONI, op. cit., p. 77.

45 Iulian si riferisce a una signora italiana, ormai ottantenne, che conosce da molti anni e che l’ha sempre aiutato, tenendo tutte le notti il cane di Iulian nella sua casa. ‘Nonna’ è un termine di rispetto, come lui stesso sottolinea.

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altrettanto inalienabili e preziosi, ma che possono essere mostrati all’interno di un allestimento che, con Dei e Meloni, possiamo definire di «intima patrimonializzazione»46:

Là ci sono io. Quello è mio fratello, che è morto. Quello con la pipa sono io. Qui è quando ho fatto la scuola di pilotaggio, paracadutista militare. Qui siamo tutti della mia squadra, in Bulgaria, 21 persone, parliamo del 1984-85. Il mio caporale, il cuoco di squadra, il sergente maggiore. Qui una foto con mio fratello, mia sorella, mia cognata e la mia ex moglie.

La letteratura che si è occupata di oggetti domestici ha tentato varie classificazioni per raggruppare le ‘cose’ di cui si circondano gli abitanti di una casa.47 Tra tutti gli

oggetti, le fotografie sono quasi sempre presenti nelle case che abbiamo visitato; esse sono di difficile classificazione, rispondendo a più di una definizione (oggetti àncora, oggetti testimoni, oggetti segno, oggetti bussola, oggetti densi, oggetti inalienabili, oggetti d’affezione, oggetti monumenti funebri, oggetti memoria, oggetti pesanti…).48

Essi sono tra i primi oggetti che i beneficiari dei progetti HF portano con sé al momento del loro ingresso nella nuova casa. Appese alle pareti, esposte sui mobili quasi come altari votivi o custodite gelosamente come nel caso di Iulian, le fotografie ritraggono sé stessi, i propri genitori o figli e, più raramente, gli amici a memoria dei propri affetti, talvolta perduti.49

Tra quelli che la letteratura definisce ‘oggetti tecnologici’, il televisore, insieme al cellulare e a volte al pc, è un elemento ricorrente nelle case che abbiamo visitato.50

Spesso accesa al nostro arrivo, come nella casa di Laura e Giuseppe e in quella di Iulian, la tv è una ‘presenza’ che tiene compagnia e che garantisce un legame con il mondo 46 Cfr. F. DEI, P. MELONI, op. cit., p. 65.

47 Cfr. P. MELONI, La cultura materiale nella sfera domestica, in S. BERNARDI et alii, a cura di, La

materia del quotidiano. Per un’antropologia degli oggetti ordinari, Ospedaletto, Pacini, 2011, pp. 183-201; F. DEI, 2009, op. cit.; D. MILLER, 2009, op. cit.; E. LANDOWSKI, G. MARRONE (a cura di), La società degli oggetti. Problemi di interoggettività, Roma, Meltemi, 2002.

48 Cfr. D. MILLER, 2008, op. cit.; S. BERNARDI, F. DEI, Gruppo di famiglia in un interno: le fotografie nella cultura materiale domestica, «Studi culturali», 2, 2011, pp. 255-273; P. MELONI, 2011, op. cit.

49 Sempre più spesso le fotografie vengono conservate e portate con sé all’interno del proprio cellulare; in formato digitale possono essere condivise sui social network.

50 Cfr. L. Jayasinghe, M. Ritson, Everyday Advertising Context: An Ethnography of Advertising Response in the Family Living Room, «Journal of Consumer Research», 40, 1, giugno 2013, pp. 104-121; D. MILLER, H.A. HORST, a cura di, Digital Anthropology, London, Berg, 2012; J. LULL, In famiglia. Davanti alla TV, Roma, Meltemi, 2003.

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esterno, ma che non esaurisce i suoi significati nel suo uso, come dimostra il ruolo simbolico che ha nella casa di Nazdar.

Abbiamo conversato con gli inquilini circondati da suppellettili e da oggetti legati alle passioni personali: oggetti utilizzati per decorare gli ambienti, spesso funzionalmente inutili, ma non per questo meno significativi. Tra i molti oggetti esposti nella casa di Iulian ci sono una cartina dell’Italia su cui sono segnate le tappe che lo hanno portato fino al Nord dove ha perso tutto e dove ha iniziato a dormire in strada; c’è il calendario sul quale segna gli appuntamenti a cui non deve mancare, le ricorrenze e le scadenze: «Ho scritto sul calendario anche il giorno in cui Sandro ha fatto Napoleone».51 Un’intera parete è occupata dalle miniature di strumenti musicali di cui è

appassionato. Ci racconta delle tendine che ha scelto e montato alle finestre che affacciano sul cortile e che servono, dice, per tutelare la sua privacy.

Come nel caso di Nazdar, si tratta in molti casi di oggetti di recupero, danneggiati o rimessi a nuovo attraverso pratiche di bricolage. Una poltrona, un abat-jour, un tappeto, delle tende sembrano coniugare le istanze funzionali a quelle «di rappresentanza e di definizione di uno standard di gusto» dell’inquilino,52 lasciando emergere particolari

espressioni di creatività con cui si ‘accomodano’ gli spazi e ci si «accomoda ad essi».53

Così, una gonna gitana diventa la copertura della bombola del gas, una scheggia di specchio organizza l’angolo della toeletta, i ‘brillantini’ del trucco sono distribuiti sul muro della stanza dei bambini per riverberare la luce, un forno diventa dispensa che contiene le pentole e il tessuto di un ombrello rotto si trasforma in coprimacchia impermeabile. Anche in questo caso, funzione e rappresentanza, necessità e gusto appaiono come l’esito di una relazione tra spazio e corpo che si fa intensa con il passare del tempo.54

Il tempo, a sua volta, è un’esperienza concreta nella vita delle persone e della casa: non mancano orologi, calendari, biglietti di vario genere e altri ‘memento’ utili alla gestione degli impegni e delle scadenze, perché la casa, come dice uno dei beneficiari, «è un impegno» a cui è necessario riabituarsi.55 Lo scorrere del tempo si legge anche

51 Si riferisce alla vittoria a un gioco di carte.

52 P. MELONI, 2011, op. cit., p. 187.

53 D. MILLER, 2013, op. cit., p. 88.

54 P. MELONI, 2011, op. cit., p. 196.

55 Daniel Miller parla, in questo senso, dell’agentività della casa, cfr. D. MILLER, a cura di, Home

Possessions. Material Culture behind Closed doors, Oxford, Berg, 2001. Da parte sua, Pietro Meloni sottolinea quanto la casa «impone a chi l’abita di farsi carico dei vincoli che pone, delle scelte obbligate,

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nelle sbrecciature, nei segni dell’usura, nella polvere e nelle ragnatele, nello sporco che si vede e in quello che si sente nell’aria.

I gusti personali, il livello di scolarizzazione, gli interessi culturali emergono dai libri, dai manuali tecnici e da quelli sportivi, dai fumetti. La Bibbia e il Corano stanno insieme a icone, santini, crocifissi, ceri e persino amuleti caccia incubi e ‘acchiappasogni’ a svelare devozioni profonde, superstizioni, paure e speranze. Altre devozioni e ‘accumulazioni’ sono legate alle collezioni, da quelle più strutturate come quella dei modellini di Iulian alla raccolta di conchiglie che Laura conserva in un barattolo della cucina a ricordo di alcuni soggiorni al mare. Altre presenze più ‘vive’ accompagnano la persona: sono quelle di piante ornamentali e di animali domestici, l’uccellino, il pesce e il cane, come Morgana, che «qui a casa sta meglio, prima era più stanca anche se la notte dormiva a casa della nonna e mai in strada o in dormitorio» sottolinea Iulian.

Ciò che appare da questa ‘immersione domestica e multisensoriale’ è l’estremo e intimo legame tra oggetti e persone: ogni oggetto ha senso soltanto nel rapporto con la persona che lo possiede, che lo racconta, che lo usa. Attraverso gli oggetti si recuperano frammenti di vita che testimoniano l’intervento consapevole dell’‘io abitante’ nell’abitare56 e si può capire quanto straordinaria, emotivamente e fisicamente, sia la

soluzione di continuità rispetto a una condizione precedente. 4. Il diritto, il potere e le chiavi di casa

Il nostro interesse ha incrociato ambiti di ricerca diversi, al confine tra l’osservazione e la descrizione degli oggetti nella loro materialità, l’osservazione di pratiche sociali, rappresentazioni e diritti dell’abitare e la raccolta di storie di vita di persone rimaste a lungo senza casa. Come scrive Landuzzi, «non è semplice recuperare le voci della casa, si tratta infatti di rendere intelligibile e decodificare la complessità della storia della casa, espressa nel trascorrere della vita materiale, nelle tracce d’uso, nelle proiezioni di domesticità sugli spazi».57 Ma, come sottolinea Miller, se si imparasse ad ascoltare

in un’intensa e costante opera di mediazione», P. MELONI, 2014, op. cit., p. 424.

56 Cfr. M. VITTA, Le voci delle cose: progetto idea destino, Torino, Einaudi, 2016.

57 C. LANDUZZI, La progettazione dello spazio domestico. Non solo il “costruito”, ma anche il

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questi oggetti, avremmo una voce in più per comprendere la vita delle persone e le loro scelte.58

Abbiamo verificato che spazi e oggetti si configurano come potenti mediatori della relazione e dispositivi narrativi grazie ai quali fare emergere gli elementi più significativi dell’esperienza abitativa, comprese le sue criticità e le criticità legate all’attuazione del progetto HF. Questo presuppone un atteggiamento nuovo e una nuova attenzione, sia da parte dei ricercatori sia degli operatori sociali impegnati nei percorsi di accompagnamento all’abitare, verso forme di presenza o di assenza degli oggetti, di cambiamenti che si verificano nel tempo, ma soprattutto verso nuove modalità di ascolto delle storie delle persone. Durante i focus group gli operatori hanno rivelato di non aver mai ragionato sul ruolo della casa all’interno dell’intervento educativo di HF.59

Eppure la casa ha una parte centrale nella relazione con i beneficiari, dato che è lo scenario in cui si svolge la maggior parte dell’intervento: le visite periodiche previste dal programma HF sono a domicilio; i colloqui, anziché avvenire nei centri di accoglienza o in uffici asettici e spesso respingenti, hanno luogo sul divano di casa o attorno al tavolo della cucina, bevendo un caffè oppure a pranzo, davanti a un pasto che si cucina insieme o che il padrone di casa prepara, spesso esibendo doti e capacità rimaste fino a quel momento inespresse.60

Il videotour, oltre ad essersi confermato un utile strumento di indagine all’interno di un’etnografia dell’abitare, può rivelarsi un «potente supporto da utilizzare nella formazione continua di chi opera quotidianamente in ambito socioeducativo».61 Le

narrazioni mediate dagli spazi e dagli oggetti quotidiani, infatti, sollecitano riflessioni su aspetti educativi che spesso sfuggono perché considerati troppo minuti e che invece possono rivelarsi indispensabili per la valutazione dei percorsi di inserimento. Inoltre, come emerge anche dalle esperienze internazionali sull’inserimento abitativo di persone da lungo tempo senza dimora, c’è un aspetto terapeutico nella narrazione, anche con l’ausilio di strumenti audiovisivi.62 Mostrare e raccontare sono due elementi di potere

che spesso mancano nelle vite delle persone che hanno esperienza di homelessness. A 58 Cfr. D. MILLER, 2009, op. cit.

59 La maggior parte degli operatori coinvolti nella sperimentazione fino a quel momento aveva lavorato soprattutto in strutture di prima o seconda accoglienza notturna di tipo collettivo e con carattere temporaneo.

60 Sul tema dell’ospitalità e del cibo si veda infra § 2.

61 C. PONTECORVO et alii, op. cit., p. 166.

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partire da un nuovo status (cittadino con dimora), sembra possibile sentirsi capaci di ricostruire il passato per poterselo lasciare alle spalle e addirittura raccontarlo in modo che sia di esempio: mostrare ciò che si è riusciti a ottenere può servire a consolidare la nuova immagine di sé. Un’osservazione attenta dei particolari fa emergere elementi che i ricercatori, ma soprattutto gli operatori che accompagnano il percorso di inserimento abitativo, possono interpretare. Gli oggetti, compresi gli elettrodomestici, se attentamente osservati alla luce dell’accomodating theory, possono rivelare la capacità di occuparsi di sé stessi, della sicurezza che la persona ha maturato o della sua difficoltà a svincolarsi dalle reti dei servizi di accoglienza.

Partire dalla descrizione degli spazi e degli oggetti ha sempre condotto a riflessioni più ampie sul futuro e sulle possibilità in cui non si sperava più, così come ha consentito di rievocare momenti di vita passata, rielaborando la perdita della casa e l’inizio della vita in strada. Parlare di casa ha significato raccontare di relazioni che durano e che, anzi, hanno la possibilità di rinsaldarsi grazie agli spazi di intimità, come nel caso di Enrico e dei suoi figli. Ma anche di relazioni che si perdono e di nuove che si stanno costruendo. Ha significato inoltre rappresentare sogni e aspirazioni a lungo desiderati. Durante le nostre visite sono emerse le abitudini che stanno maturando proprio grazie al fatto di avere una casa, mentre altre, profondamente radicate negli anni vissuti in strada e all’interno del circuito dell’assistenza, stentano a lasciare spazio ad un nuovo progetto di vita.

Nonostante difficoltà e contraddizioni nella sua concreta realizzazione, la sperimentazione HF in Italia ha avuto il merito di riportare la casa al centro del dibattito sui diritti fondamentali, sulla libertà e sull’autodeterminazione delle persone. Svincolando l’ingresso in casa dal percorso terapeutico, e dunque dalla valutazione dell’andamento rispetto a obiettivi dati a priori, si realizza un ribaltamento di potere all’interno della relazione tra operatori e beneficiari. Questo passa anche, sia metaforicamente sia concretamente, attraverso gli oggetti. Le chiavi, infatti, sono una ‘sineddoche’ della casa e un simbolo del suo possesso: «Quando me le hanno date non ci potevo credere» ricorda Iulian con commozione. Da parte loro, gli operatori hanno preso atto che, diversamente da quanto avviene in altri luoghi dell’accoglienza in cui gli utenti sono ‘ospiti’, nelle case di HF gli ospiti sono loro: «Le chiavi le ha Laura – sottolinea un’operatrice – noi bussiamo prima di entrare». Così, di fronte alla porta

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chiusa della casa di Franco, essi attendono con rispetto, nonostante la preoccupazione e la frustrazione che questo può generare. Riconoscere la casa come diritto universale significa «ripensare la relazione tra istituzioni, cittadinanza e territorio»63 in un progetto

di democrazia profonda.64

63 S. PITZALIS et al., op. cit., p. 8.

64 Cfr. A. APPADURAI, Il futuro come fatto culturale: saggi sulla condizione globale, Milano, Raffaello

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