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L’esercizio provvisorio dell’impresa del fallito

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Academic year: 2021

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L’esercizio provvisorio dell’impresa del fallito

Francesco Fimmanò

Università del Molise – Facoltà di Economia Via de Sanctis; Compobasso; Codice Postale 86100 ITALY

Tel (ufficio): 0874 4041 Email: fimmano@virgilio.it

Sommario – 1. Il ruolo dell’esercizio provvisorio nel quadro della liquidazione riallocativa; 2. Tutela dei creditori e conservazione dinamica dell’impresa – 3. I presupposti della continuazione. - 4. L’anticipazione cautelare dell’esercizio provvisorio; 5. La situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa: il bilancio prefalli-mentare – 6. L’esercizio provvisorio disposto nella sentenza dichiarativa di fallimento; 7. La continuazione tempora-nea autorizzata successivamente. 8. Gli oneri informativi - 9- Gli effetti sui contratti in corso di esecuzione. - 10. La cessazione dell’esercizio provvisorio.

Abstract

This paper seeks to provide an in-depth discussion of the decision to proceed with the provisional opera-tion of a bankrupt enterprise.

Once there is no longer the prospect of the bankrupt firm overcoming its financial problems (after, among other things, the abrogation of the receivership procedure), bankruptcy law proceeds with a reallocative

liquidation based on the special management model, in particular adopting the option which, during

re-cent years when the so-called Prodi-bis measure has been used, has had the most success: selling the en-tire company or its branches to third parties based on the determination of the Extraordinary Commis-sioner, a decision which entails the continuing operation of the insolvent company for a year, thereby guaranteeing, as much as possible, the safeguarding of employment levels. Nevertheless, the interest of

creditors in the case of bankruptcy remains the primary, if not the sole, objective, even though this may

entail giving creditors (or, in any case, the body representing their interests) a more active role. The pre-bankruptcy hearing, which had become a more common means for the debtor to defend his rights even be-fore the reform, can thus be used to monitor and protect the company, similar to what is provided by the so-called observation period under French law.

The crucial problem, particularly in the case of the provisional operation of the bankrupt company, is to

balance the sacrifices imposed by the safeguarding of certain individual (or group) interests in order to

provide as many advantages as possible to the system as a whole. [editor's note]

Il presente contributo vuole evidenziare ed approfondire il tema della previsione dell’esercizio provvisorio nella fattispecie fallimentare.

La legge fallimentare, abbandonata definitivamente la illusoria prospettiva del “risanamento” dell’impresa del fallito (con l’abrogazione tra l’altro della procedura dell’Amministrazione controllata), segue la via della liquidazione riallocativa sul modello dell’Amministrazione straordinaria ed in particolare dell’opzione che, in questi anni di applicazione della c.d. Prodi bis, ha riscosso maggiore successo, ovvero la cessione a terzi dei complessi aziendali o di rami, enucleati dal Commissario Straordinario, sulla base di un programma di prosecuzione dell’esercizio dell’impresa insolvente della durata di un anno che garanti-sca, per quanto possibile, la salvaguardia dei livelli occupazionali. L’interesse dei creditori nella fattispe-cie fallimentare, tuttavia, rimane la finalità prioritaria se non addirittura unica, anche se si evolve in virtù dell’attribuzione agli stessi (o quanto meno all’organo esponenziale del ceto creditorio) di un ruolo più

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at-tivo. L’utilizzazione dell’istruttoria prefallimentare, che pur ha visto arricchire anche prima della riforma il suo ruolo in relazione all’esercizio del diritto di difesa del debitore, può essere dunque orientata a fun-zioni di monitoraggio e tutela dell’impresa, analogamente ad esempio a quanto avviene per il c.d. periodo

di osservazione previsto dalla legislazione francese.

Il nodo concreto, specie nell’istituto dell’esercizio provvisorio dell’impresa del fallito, rimane quello di

equilibrare i sacrifici imposti dalla tutela di determinati interessi individuali (o di categoria) in funzione

dei vantaggi che ne possono derivare per il sistema nel suo complesso.

1 – Il ruolo della prosecuzione dell’attività economica nel quadro della

liqui-dazione riallocativa

L’impostazione del legislatore della novella, già nella legge delega (ove è previsto che “…il

cu-ratore predisponga un programma di liquidazione…, specificando… se è opportuno disporre

l’esercizio provvisorio dell’impresa o di singoli rami di azienda anche tramite l’affitto a terzi..”)1,

presenta una continuità logica ed ideologica rispetto alla disciplina dell’Amministrazione

straor-dinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, riformata nel 1999 proprio con l’idea di

ag-ganciarla successivamente alla riforma delle altre procedure concorsuali2. In questo senso va letta in particolare la previsione di una liquidazione programmata mediante una gestione intermedia dell’impresa, diretta od affidata a terzi, propedeutica ad una alienazione dei valori aziendali nell’interesse precipuo dei creditori e quindi più proficua in termini di massimizzazione dell’attivo

La legge fallimentare, abbandonata definitivamente la illusoria e per alcuni versi demagogica prospettiva del “risanamento” dell’impresa del fallito (con l’abrogazione tra l’altro della procedu-ra dell’Amministprocedu-razione controllata), segue la via della liquidazione riallocativa sul modello dell’Amministrazione straordinaria ed in particolare dell’opzione che, in questi anni di applica-zione della c.d. Prodi bis, ha riscosso maggiore successo, ovvero la cessione a terzi dei complessi aziendali o di rami, enucleati dal Commissario Straordinario, sulla base di un programma di

pro-secuzione dell’esercizio dell’impresa insolvente della durata di un anno che garantisca, per

quan-to possibile, la salvaguardia dei livelli occupazionali.

1 Art. 6 lettera a), n. 10, della Legge 14 maggio 2005, n. 80, di conversione del D.l. 14 marzo 2005, n. 35,. 2 In virtù del D. Lgs. 8 luglio 1999 n. 270, si registrò un sostanziale rovesciamento dei poteri decisori in merito all’ammissione alla procedura nelle varie fasi e alla sussistenza dei presupposti anche economico-finanziari, pri-ma spettanti all’autorità amministrativa e poi assegnati al tribunale in funzione di un’accentuata

giurisdizionaliz-zazione. L’individuazione dei presupposti sulla scorta di apposita relazione commissariale, viene a concretizzarsi

nell’esistenza di effettive possibilità di recupero delle attività aziendali, da attuarsi alternativamente: attraverso la cessione a terzi dei complessi aziendali, sulla base di un programma di prosecuzione dell’esercizio d’impresa della durata di un anno che garantisca, per quanto possibile, la salvaguardia dei livelli occupazionali; oppure at-traverso la ristrutturazione economico finanziaria dell’impresa, sulla base di un programma della durata di due anni destinato al risanamento dell’impresa (scelta raramente effettuata nella pratica).

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Nella novella tale programma di prosecuzione (o di liquidazione conservativa) viene attuato con gli strumenti dell’esercizio provvisorio e dell’affitto endoconcorsuale, ma senza la previsione di istituti che facilitino l’emersione tempestiva della crisi e consentano la propedeutica radiogra-fia dell’impresa al fine di adottare le scelte più idonee.

Il precedente disegno di legge delega c.d. Trevisanato enunciava invece come principi diret-tivi “l’obiettivo della valorizzazione degli organismi produtdiret-tivi e dei patrimoni assicurando il

mi-glior soddisfacimento possibile dei creditori” 3 sulla base della “…emersione tempestiva della

crisi d’impresa e l’attivazione delle iniziative volte a porvi rimedio” (art. 2, lett. a e b)4.

Una proficua conservazione riallocativa, specie se realizzata utilizzando l’esercizio provviso-rio, richiede infatti una istruttoria preconcorsuale tempestiva ed invasiva, a prescindere dall’iniziativa e dalla collaborazione del debitore, in grado di garantire il reale monitoraggio del tipo di impresa, del tipo di crisi e conseguentemente di articolare in modo flessibile le ipotesi di soluzione e scegliere, laddove opportuno, gli strumenti funzionali alla conservazione e valoriz-zazione degli assets produttivi funzionanti (o funzionali ad altro imprenditore), per una più profi-cua vendita.

3 Sul tali aspetti del progetto Trevisanato mi permetto di rinviare a Fimmanò, in Crisi dell’impresa e insolvenza, Atti del relativo Convegno. Isernia, 18 ottobre 2003, Quad. Giur. comm., Milano, 2005. Cfr. pureFabiani,

Rifor-ma <<condivisa>> della legge fallimentare: un’impresa possibile, in Foro it., 2004, V, 125. Questo disegno di

legge, in tema di salvaguardia dei valori aziendali, prevedeva che in caso di accesso alla procedura di composi-zione concordata il debitore mantenesse la gestione dell’impresa (art. 3 lett. f) sotto il controllo dei commissari giudiziali. Nel caso in cui il debitore, poi, non fosse ricorso alla procedura di crisi, era contemplata la possibilità di un piano di regolazione dell’insolvenza alternativo alla liquidazione endoconcorsuale di un gruppo di

credito-ri o terzi interessati avente ad oggetto la conservazione anche parziale dell’impresa (art.5, co. 40 lett. a). Era pre-visto altresì l’esercizio provvisorio, anche parziale, se compatibile con la conservazione del valore del patrimonio (art. 13 lett. d). Veniva poi espressamente contemplato l’affitto endoconcorsuale, anche per rami con determina-zione dei casi di concessione all’affittuario della preladetermina-zione all’acquisto (lettera f) ed il conferimento in una o più società, anche di nuova costituzione e con procedura semplificata, di beni, crediti o complessi aziendali con i rap-porti contrattuali in corso. Più ampio ed articolato l’intervento realizzato dalla seconda commissione Trevisanato c.d. ristretta, con la previsione di una analitica regolamentazione della gestione provvisoria (cfr. in particolare gli artt. 146 e 147 in supplemento al Fall., 2004, n. 8, con presentazione di Fabiani).

4 Nella legislatura precedente il Ddl 7458, all’art. 2, comma 2, lett. dd) prevedeva “l’articolazione della procedura in due fasi: la prima di osservazione della durata massima di novanta giorni, volta all’accertamento della reale consistenza dell’impresa e del patrimonio del debitore ed alla scelta della concreta soluzione da adottare; la se-conda di attuazione di un programma di risanamento totale o parziale dell’impresa ovvero, in via alternativa, di liquidazione ed in ogni caso di soddisfacimento dei creditori; con la fase di osservazione facoltativa nel caso di consecuzione della procedura di crisi in procedura di insolvenza”. Nello schema Trevisanato pur mantenendo le c.d. procedure di allarme si accoglieva un modello più simile alla Insolvenz Ordnung tedesca ove può inserirsi, in ogni momento della procedura liquidatoria, e quindi anche sin dall’inizio, la proposta di un piano alternativo (c.d. piano dell’insolvenza), dal contenuto più vario (ristrutturazione dell’impresa, cessione totale o parziale dei beni, liquidazione pura e semplice) (al riguardo cfr. Guglielmucci, Il diritto concorsuale tedesco fra risanamento e

li-quidazione, in Giur. comm.., 2003, I, 152; Jorio, Modelli europei e scelta tra sistemi a gestione giudiziaria o am-ministrativa, in Fall., 1998, 952). Le modifiche all’impianto tradizionale del sistema tedesco riflettono alcune

caratteristiche tipiche del modello americano della Corporate Reorganization, chapter 11 dell’U.S. Bankruptcy

code (sul tema Di Massa, Il diritto concorsuale statunitense fra risanamento e liquidazione, in Fall., 2003, 954

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Un sistema in cui gli organi del fallimento, dopo aver valutato le caratteristiche dell’impresa sul piano dimensionale, strutturale, dell’astratta redditività e del mercato di riferimento, possano assumere scelte decisive in ordine alla direzione da seguire5 già prima della sentenza di fallimen-to.

D’altra parte è proprio a seguito della dichiarazione di insolvenza, quando l’impresa viene sottratta all’imprenditore, che si determina il maggior danno economico e sociale del fallimento specie per mancanza di rapidità dell’azione che richiede una reale ed approfondita conoscenza della fattispecie.

Ed al riguardo nella riforma sembra mancare la previsione di una tempestiva fase di

osserva-zione che proprio la nuova disciplina in tema di esercizio provvisorio rende ancora più opportuna.

Difatti, come si vedrà meglio più innanzi, una effettiva valutazione comparativa nella senten-za dichiarativa di fallimento dei potenziali danni derivanti all’impresa dall’improvvisa interruzio-ne dell’attività e del relativo pregiudizio dei creditori ai fini dell’eventuale esercizio provvisorio (art. 104, comma 1, l. fall.), richiede qualcosa di più della mera conoscenza ex actis della fatti-specie concreta esaminata.

Tuttavia soccorre a questo specifico fine, a nostro avviso, l’uso alternativo della istruttoria

prefallimentare cui il tribunale può dar luogo, cercando anche in via autonoma i relativi supporti

probatori e disponendo eventualmente perizie, ispezioni e consulenze tecniche6.

Si tenga conto che al riguardo determinante è il nuovo disposto dell’art. 15 che sancisce ai commi 7,8,9, che “Il Tribunale può delegare al giudice relatore l’audizione delle parti. In tal caso il giudice delegato provvede, senza indugio e nel rispetto del contraddittorio, all’ammissione ed all’espletamento dei mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti d’ufficio. Le parti possono nominare consulenti tecnici. Il tribunale, ad istanza di parte, può emettere i provvedimenti

caute-lari o conservativi a tutela del patrimonio o dell’impresa oggetto del provvedimento, che hanno

efficacia limitata alla durata del procedimento e vengono confermati o revocati dalla sentenza che dichiara il fallimento, ovvero revocati con il decreto che rigetta l’istanza”.

5 In tal senso anche Minutoli, L’istruttoria prefallimentare nella prassi dei Tribunali e nelle prospettive di

rifor-ma, in Dir. Fall., 2001,I, 965.

6 Si pensi all’ispezione giudiziale sul modello di quella prevista all’art. 2409, c.c., anche nell’ambito dei poteri di cui all’art. 738, co. 30, c.c.,. Si è osservato già prima della riforma che, alla stregua di atti applicativi dei poteri inquisitori, sono ammissibili l’ispezione di cose (ex art. 118, c.p.c.) e l’ordine di esibizione di documenti (ex art. 118 c.p.c. e 2711, comma 2, c.c.); anche se resta discusso se tali mezzi di prova esigano il rispetto di tutte le nor-me sostanziali e processuali o se il principio della prova libera influenzi una sorta di deformalizzazione (Cfr. al riguardo in particolare già Ferro, L’istruttoria prefallimentare, Torino, 2001, 293 e Prassi fallimentare dei

tribu-nali italiani, in Fall., 2003, 711 s. e 1038 s.). La Ctu, al contrario, implica necessariamente una sequenza

proce-dimentale complessa, caratterizzata da una regolazione del contraddittorio che va dall’udienza di giuramento al possibile intervento con ctp, dalla facoltà di deposito di osservazioni scritte alla rappresentazione al giudice di questioni incidentali. Non comporta questi inconvenienti, il ricorso, previsto in generale all’art. 68 c.p.c., ad un esperto ausiliario del giudice per chiarimenti e valutazioni tecniche senza peculiari formalismi.

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I limiti che si ponevano ad una valida istruttoria, in questa prospettiva, erano d’altra parte prevalentemente organizzativi, specie per la carenza di strumenti e personale dell’ufficio e la dif-ficoltà di disporre ispezioni, a differenza di quanto avviene ad esempio in materia di indagini pe-nali, ove peraltro vengono assorbite le maggiori risorse7. La novella contemplando in modo am-pio la possibilità di nominare consulenti tecnici risolve le questioni che venivano sollevate al ri-guardo anche in relazione alle relative spese8.

La possibilità poi, seppure ad istanza di parte, di emettere provvedimenti cautelari a tutela

dell’impresa, consente in linea di principio anche soluzioni particolarmente invasive, come

me-glio vedremo più avanti.

L’utilizzazione dell’istruttoria prefallimentare, che pur ha visto arricchire anche prima della riforma il suo ruolo in relazione all’esercizio del diritto di difesa del debitore, può essere dunque orientata a funzioni di monitoraggio e tutela dell’impresa, analogamente ad esempio a quanto avviene per il c.d. periodo di osservazione previsto dalla legislazione francese9.

L’istruttoria in passato è stata infatti utilizzata solo per verificare l’esistenza dell’insolvenza, visto che in un procedimento comunque sommario, qual è quello per la dichiarazione di fallimen-to, veniva escluso che di regola si potesse dar luogo a mezzi di prova di lunga indagine10.

Peraltro un monitoraggio preconcorsuale più incisivo richiede attività preventive di indagine ed analisi che presuppongono l’invasività dell’istruttoria giudiziale, considerata la cronica man-canza di reale ausilio dell’imprenditore, il quale spesso non ha alcun interesse a collaborare

7 Pur essendo le ragioni dell’economia, in quella sede, certamente meno pregnanti. Si è osservato che la polizia giudiziaria ed in particolare la guardia di finanza è assorbita nella prassi operativa dalle indagini penali, e quindi dedica pochissimo tempo alle richieste provenienti dall’ufficio fallimentare. Spesso perciò i giudici si acconten-tano di quanto, più o meno spontaneamente, viene prodotto dal debitore e dal ricorrente, salve eventuali integra-zioni richieste, attraverso ordini di esibizione, ad uffici finanziari e previdenziali (sull’argomento Fabiani,

L’istruttoria prefallimentare, in Fall., 1994, 498 s.).

8 Già prima della novella in verità si riteneva, almeno in linea di principio, ammissibile per i giudici disporre una consulenza tecnica (sul modello di quella prevista per il concordato preventivo in funzione del giudizio progno-stico che il Tribunale formulava sulla liquidabilità del patrimonio offerto) per fornire elementi rilevanti in ordine alla verifica di attendibilità della documentazione contabile acquisita e alla sua eventuale riclassificazione (in par-ticolare dei bilanci), al fine di poter disporre di un quadro reale (Patti, Istruttoria prefallimentare, cit., 941). Re-stava però il citato problema dell’armonizzazione delle sequenze procedimentali con i tempi del procedimento sommario e dell’individuazione del soggetto correttamente onerabile delle relative spese, che secondo l’impostazione preferibile era il creditore vista la possibilità di applicazione del principio della soccombenza an-che al procedimento fallimentare, secondo un’ottica ricostruttiva nel senso della prevalenza dell’interesse privato (la novella supera comunque i dubbi circa il regolamento delle spese, che saranno poste a carico della procedura, nell’ipotesi in cui il giudizio si chiuda con la dichiarazione di fallimento, e del ricorrente nell’ipotesi di reiezione dell’istanza di fallimento).

9 Il modello dell’osservazione corrisponde sostanzialmente a quello introdotto dalla legge per la disciplina della Amministrazione straordinaria ed alla funzione istruttoria e di indagine attribuita nella prima fase ai Commissari; e trova l’origine storica in quanto concepito vent’anni fa dal legislatore francese.

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all’esame di una situazione da cui potrebbe emergere inequivocabilmente il suo stato di insolven-za11.

Tuttavia, anche nel precedente sistema, dal carattere sommario dell’accertamento non deriva-va, alcuna preclusione in termini di ampiezza dell’istruttoria e di ricorso a prove, dovendo peral-tro il giudizio di rilevanza e ammissibilità essere condotto sotto il profilo dell’utilità effettiva e della compatibilità con le esigenze di speditezza del procedimento, specie per le prove di lunga indagine12.

Quest’ultima categoria non ha alcuna base dogmatica, esprimendo viceversa il “criterio della durata, riferito alla tipicità modale della loro assunzione, un dato di prassi più che di sistema co-dificato”13. Il carattere d’urgenza insomma permetteva e permette l’accesso a tutti gli atti di istru-zione, non consentendo al contrario una dilatazione temporale incompatibile con la durata circo-scritta attraverso la semplificazione propria della sommarietà14.

La collocazione della legittima tutela del credito in una sfera di rilevanza giuridica non stret-tamente privatistica, ma piuttosto connotata da un interesse pubblicistico, ravvisabile nella rego-lazione dei rapporti economici di mercato, pone il giudice incaricato dell’istruttoria nella condi-zione di delibare, nel contesto procedimentale camerale15, a trattazione tendenzialmente celere, la

11 Su informazione e "monitoring” come strumenti giuridici invece preventivi dell'insolvenza cfr. da ultimo Gal-letti, La ripartizione del rischio di insolvenza, Bologna 2006.

12 Per cognizione sommaria si intende quella parte della tutela cognitiva decisoria idonea a dar luogo al giudicato, diversa quindi dalla tutela sommaria cautelare, da quella esecutiva e da quella volontaria. La tutela sommaria contenziosa si differenzia da quella cognitiva ordinaria in quanto mira ad accordare tutela in via anticipata, urgen-te ed effettiva, mentre si differenzia da quella cauurgen-telare, esecutiva e volontaria in quanto urgen-tende a perseguire un risultato che possa essere dotato del massimo grado di stabilità (il giudicato) sia a seguito della mancata opposi-zione della parte che subisce il provvedimento, sia in esito alla definitività del procedimento cognitivo ordinario in cui quello sommario si sia trasformato (Fabiani, L’istruttoria cit., 491). Il giudizio che conduce alla dichiara-zione di fallimento si distingue da quello a cognidichiara-zione piena per le modalità più essenziali e snelle; e da ciò non può derivare la preclusione di prove costituende, ma al massimo una compressione meramente temporale dell’istruttoria (Millozza, Procedimento cautelare, diritto di difesa e tutela giurisdizionale ordinaria, in Dir. fall., 1976, I, 109).

13 Così Ferro, L’istruttoria cit., 270.

14 Ferro, op. ult. cit., 271, in questa logica osservava che i due principi dell’officiosità (quanto all’iniziativa) e dell’inquisitorietà (quanto al regime delle prove) sono reciprocamente attivi nell’assicurare effettività ad un pri-mario interesse pubblico: la tempestiva fotografia dei reali sintomi di crisi finanziaria dell’impresa commerciale, che deve tradursi al più presto nel suo accertamento con sentenza, essendo tuttora un valore il monitoraggio dello stato di salute negativo da convertirsi subito dopo in un’ablazione dei poteri direttivi dell’impresa stessa. Si os-serva ora che il legislatore della riforma “… sembra aver voluto disegnare – anche sotto il profilo del regime della prova – i percorsi di un procedimento fondamentalmente sorretto dal principio dispositivo, salva l’attivazione dei poteri officiosi del tribunale, resi necessari dai profili di interesse generale sottostanti alla proce-dura fallimentare, nonché il tradizionale limite dei diritti e delle situazioni non disponibili” (De Santis, Sub. Art.

15, del Commentario par. 13).

15 Il 1° co. del nuovo art. 15 l. fall. sancisce che il procedimento per la dichiarazione di fallimento si svolge di-nanzi al tribunale in composizione collegiale «con le modalità dei procedimenti in camera di consiglio», e quindi con le modalità previste dagli att. 737 ss. c.p.c. Il modello camerale viene ritenuto il più idoneo ad «assicurare

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situazione di crisi dell’impresa nella sua più ampia e variegata sfera di manifestazione, non stret-tamente legata alla pretesa creditoria del ricorrente16. Peraltro, in virtù di queste caratteristiche della procedura, il tribunale fallimentare può anche autonomamente disporre17 l’acquisizione di qualsiasi elemento di giudizio18 come conferma ora la possibilità normativa di provvedere

“…senza indugio e nel rispetto del contraddittorio, all’ammissione ed all’espletamento dei mezzi

istruttori richiesti dalle parti o disposti d’ufficio”19.

A seguito della novella, esistono dunque tutte le condizioni per un uso alternativo dell’istruttoria in funzione della tutela dell’impresa mediante atti di istruzione tipici, cui aggiun-gere i mezzi codificati per i procedimenti camerali, ivi compresi quelli di natura ispettiva, con

modi di assunzione atipici strumentali alla ratio dell’accertamento.

Contestualmente al decreto di fissazione dell’udienza (o anche, se del caso, successivamente), si potranno infatti disporre gli accertamenti ritenuti necessari20.

Insomma il Tribunale ha modo di valutare l’opportunità, in relazione alle diverse fattispecie concrete, di assumere, già nella fase prefallimentare e poi nella sentenza dichiarativa di fallimen-to, scelte consapevoli sull’indirizzo da dare alla crisi comparando l’interesse dei creditori e le prospettive di liquidazione riallocativa.

speditezza del rito, pienezza di contraddittorio e diritto alla prova, appellabilità della sentenza» (così nella citata

Relazione governativa di accompagnamento). In effetti – come la stessa Relazione ha cura di ricordare – la

giuri-sprudenza considera oggi la giurisdizione camerale come un «contenitore neutro», nel quale possono trovare spa-zio sia i provvedimenti di cd. «volontaria giurisdispa-zione», sia i provvedimenti di natura «contenspa-ziosa».

16 Così Patti, Istruttoria prefallimentare, cit., 940. Nel procedimento prefallimentare, connotato da un carattere di sommario accertamento, l’istruttoria ha una struttura deformalizzata, intesa a contemperare, in un bilanciato equilibrio, le diverse esigenze da assicurare: da una parte, un’adeguata garanzia del diritto di difesa del debitore e, dall’altra, un celere accertamento dei presupposti per la sua dichiarazione di fallimento.

17 Anche l’art. 30, d. lgs. n. 270 del 1999, prevede che “il tribunale entro trenta giorni dal deposito della relazio-ne, tenuto conto del parere e delle osservazioni depositati, nonchè degli ulteriori accertamenti eventualmente

di-sposti, dichiara con decreto motivato l’apertura della procedura di amministrazione straordinaria, se sussistono le

condizioni indicate dall’art. 27. In caso contrario, dichiara con decreto motivato il fallimento”.

18 Era già frequente nella prassi far intervenire, oltre all’avvocato difensore del fallendo, altri consulenti al fine di interloquire come qualunque terzo ex art. 739, ult. co., c.c., (Guernelli, L’istruttoria prefallimentare. La

dichiara-zione di fallimento, in Dir. fall., 1999, I, 318).

19 Si tenga conto che le principali fonti di prova sono prevalentemente di natura documentale, essendo rappre-sentate dai bilanci, dalla contabilità in genere, dalle dichiarazioni fiscali, dai libri giornali con relativi inventari di chiusura di esercizio, dai libri matricola, dai registri dei cespiti ammortizzabili, dalla documentazione bancaria e commerciale in genere. Per cui il problema non è rappresentato dall’ampiezza delle prove o dall’ammissibilità dell’assunzione, considerate le fonti citate, ma dagli strumenti nella concreta disponibilità del giudice per la mate-riale acquisizione e soprattutto per la c.d. riclassificazione delle stesse (Fabiani, L’istruttoria, cit., 498 s.; Patti,

Istruttoria, cit., 941).

20 E’ verosimile che a ciò si procederà, almeno di norma, mandando l’esecuzione degli accertamenti in parola alla guardia di finanza. Le risultanze di tali accertamenti saranno poi sottoposte al vaglio del contraddittorio tra le parti nel corso dell’udienza, che sembra un passaggio indispensabile ai fini dell’utilizzabilità delle stesse in sede di decisione (Così De Santis, op. loc. ult. cit.).

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2 – Tutela dei creditori e conservazione dinamica degli organismi produttivi

Il tormentato rapporto nell’ambito del fallimento tra salvaguardia degli organismi produttivi e tutela dei creditori, centrale nella vicenda della continuazione dell’attività economica, trae origine dal fatto che nelle fasi di crisi conclamata l’azienda, o alcuni suoi rami, possono sopravvivere alla

diaspora concorsuale, purchè ciò non comporti pregiudizio ai creditori. E la procedura, nella

nuova impostazione, può servirsi degli strumenti di conservazione dinamica del complesso orga-nizzato di beni e persone, solo laddove la scelta sia opportuna sul piano economico nel senso di

utile alla proficua liquidazione.

L’interesse dei creditori rimane la finalità prioritaria se non addirittura unica, anche se si

e-volve in virtù dell’attribuzione agli stessi (o quanto meno all’organo esponenziale del ceto credi-torio) di un ruolo più attivo. Il fine della mera prosecuzione dell’attività economica in funzione del mantenimento dell’occupazione non è contemplato nel fallimento, a differenza di quanto ac-cade per l’Amministrazione straordinaria21. L’unica norma che prende in considerazione questo

profilo è l’art. 104 bis, l. fall., in tema di affitto, ma solo come elemento comparativo al fine della scelta dell’affittuario, in quanto il contratto ha funzioni conservative e non di liquidazione in sen-so proprio ed il relativo canone ha del pari funzioni diverse dal prezzo di vendita. Ed in questo contesto non v’è alcuna incoerenza sistematica (anzi) nel fatto che il riferimento “alla conserva-zione dei livelli occupazionali” scompaia del tutto nelle norme di cui all’art. 104 e 105, l. fall.,22.

Il nodo concreto, specie nell’istituto dell’esercizio provvisorio dell’impresa del fallito, rimane quello di equilibrare i sacrifici imposti dalla tutela di determinati interessi individuali (o di cate-goria) in funzione dei vantaggi che ne possono derivare per il sistema nel suo complesso.

Si tratta di un “criterio di composizione di interessi confliggenti cui spesso si è fatto ricorso” nel diritto commerciale (in particolare societario e cartolare), ove il sacrificio di un interesse indi-viduale può giustificarsi “in vista di un beneficio per l’intera categoria di appartenenza del sog-getto il cui interesse individuale viene sacrificato”. I creditori del fallito sono spesso “anch’essi imprenditori: pertanto, il sacrificio che sopportano nella loro tutela individuale può essere com-pensato dal beneficio che la disciplina adottata comporta per l’intero sistema delle imprese di cui sono partecipi” 23. Questa dovrebbe essere la nuova prospettiva del fallimento, anche in chiave di

21 Art. 63 d.lgs. n. 270 del 1999.

22 In tal senso invece Sandulli, Art. 104 bis, in La Riforma della legge fallimentare, a cura di Nigro- Sandulli, T. II, Torino, 2006, p. 615.

23 Così Calandra Buonaura, Liquidazione dell’attivo fallimentare: profili problematici e prospettive di riforma, in Riv. dir. fall., 2003, I, 161 s., che aggiunge che la valenza di questo criterio può risultare indebolita dalla pre-senza rilevante di creditori che non rivestono la qualità di imprenditori, per i quali il beneficio non si produce quanto meno in via diretta. Salvo che questi creditori non godano già di una specifica tutela in ragione della debo-lezza della loro posizione e\o della natura del loro credito (ad es. il privilegio dei crediti di lavoro previsto dall’art. 2751 bis, c.c.).

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analisi economica, come procedura potenzialmente in grado di salvaguardare l’interesse

oggetti-vo dell’impresa in cui convive l’interesse dei creditori.

Al fine di evitare la dispersione dei valori aziendali, la legge fallimentare ante riforma con-templava espressamente soltanto l’istituto dell’esercizio provvisorio dell’impresa del fallito, che a sua volta rivestiva funzioni diverse a seconda della fase del procedimento in cui veniva dispo-sto. Già da tempo tuttavia la giurisprudenza 24, aveva introdotto nella prassi lo strumento 25 alter-nativo dell’affitto endoconcorsuale 26 eventualmente preceduto, od affiancato per un determinato

ramo, dall’esercizio provvisorio.

Si è spesso dubitato della efficacia ed efficienza degli istituti di gestione endofallimentare non configurando modalità di realizzazione dell’attivo e ritardando la finalità ultima della proce-dura che è quella di soddisfare il più rapidamente possibile le ragioni creditorie27. Invero, la

con-cezione del fallimento quale procedura meramente esecutiva tendente a soddisfare rapidamente le ragioni creditorie, trova fondamento essenzialmente nella “reazione culturale alla teoria istituzio-nale dell’impresa, che con l’ideologia corporativa si era tentato di affermare nella codificazione del 1942, piuttosto che in una serena valutazione (anche sotto il profilo storico e sistematico) del dato normativo” 28.

Infatti, la celerità non è perseguita dalla legge in sé ma proprio in funzione della tutela dei

creditori, e non sempre la mera rapidità della liquidazione dell’attivo realizza la migliore tutela

24 Cfr. Cass. 18 gennaio 1982, n. 324, in Foro it., 1983, I, 2263 s.; Trib. Monza, 19 aprile 1992 (ord.) in Giur.

comm. 1994 , II, 155 ed in Fall., 1993, 190; Trib. Napoli 6 maggio 1999, in Giur. na,, 2000, 143. Cass. 25

mar-zo 1961, n. 682, in Giust. civ., 1961, I, 969, in Dir. fall., 1961, II, 655 e in Foro it., 1961, I, c. 1143; App. Napoli 29 settembre 1959, in Dir. fall., 1959, I, c. 685; Trib. Roma 29 luglio 1959, in Dir. fall., II, 692. Ma si veda pure Pajardi, Casi clinici di diritto fallimentare, I, Milano, 1959, 69 s.; Dimundo– Cristiani, Affitto di azienda e

falli-mento, in Fall., 2003, 5 e La prassi dei Tribunali italiani in materia di fallifalli-mento, Milano, 1982, II, 64. Si

rile-vava che esistono <<dei casi in cui il titolo di godimento dell’azienda è tale da non consentire comunque la li-quidazione di questa: di guisa che - esercizio provvisorio a parte - unica risorsa rimane proprio l’affitto. Basti pensare al fallimento dell’usufruttuario d’azienda, quando il titolo costitutivo vieti la cessione dell’usufrutto (art. 980 cod. civ.). In tal caso si potrà tutt’al più ammettere che l’affitto dell’azienda incida sulla liquidazione di quei soli beni che, in quanto disponibili senza intaccare integrità e funzionalità dell’azienda stessa si ritengano - se-condo una tesi autorevole, ma molto contrastata - acquisiti in proprietà dell’usufruttuario. Detta tesi porta però a ritenere, per coerenza, che la proprietà dei beni stessi passi ulteriormente all’affittuario: di guisa che, a ben vede-re, la stipulazione del contratto d’affitto non solo non rinvierebbe la loro liquidazione, ma s’identificherebbe con essa>> (Rivolta, L’affitto e la vendita dell’azienda nel fallimento, Milano, 1973, 19).

25 La Relazione al capo VII della nuova legge fallimentare evidenzia che alcuni istituti sono stati elaborati sulla base di “….prassi virtuose poste in essere dai tribunali più attenti che da tempo adottano soluzioni liquidatorie

che privilegiano la duttilità e la rapidità delle operazioni di cessione, cercando di superare le farraginose e poco efficienti norme sulle vendite, modellate sul sistema delle esecuzioni coattive individuali”.

26 Sul quale si rinvia al nostro commento all’art. 104 bis, l. fall., .

27 Si è sostenuto in passato, in particolare, che “la continuazione dell’esercizio dell’impresa è un modo sussidiario ed eventuale, di liquidazione: cioè di trasformazione e di liquidazione dell’impresa fallita, non diverso, quanto alla sua natura e finalità, dalla alienazione, anche se rispetto a questa si presenta, normalmente, come un mezzo preparatorio e preliminare, con effetti dilatori” (Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano 1974, 1552).

28 Così Sandulli, Esercizio dell’impresa nelle procedure concorsuali e rapporti pendenti, in Giur. comm. 1995, I, 199.

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dei loro interessi. Una procedura impostata in funzione della sola rapidità potrebbe portare gli or-gani ad alienare a più persone i singoli beni del complesso con un ricavo inferiore a quello rag-giungibile mediante una vendita unitaria, oppure a vendere l’azienda ad un prezzo basso, perché ad esempio in quel momento la platea dei soggetti interessati all’acquisto, per motivi di mercato o

di informazione, è ridotta. L’esercizio provvisorio non implica necessariamente ritardi nella

li-quidazione in quanto non impedisce la tempestiva vendita globale dell’azienda ed anzi può essere preordinato proprio a tale forma di liquidazione dell’attivo.

L’esercizio provvisorio pur se inserito in un Capo unitario con la liquidazione dell’attivo ri-guarda comunque la fase di amministrazione dei beni del fallito, risolvendo sostanzialmente i problemi della organizzazione e della custodia. Amministrazione e liquidazione non sono attività tra loro incompatibili, anzi la seconda presuppone che i beni da alienare siano mantenuti nella piena efficienza e redditività sino a quando non vengono venduti. In ogni caso, considerato che la finalità principale del fallimento è la liquidazione del patrimonio del debitore assoggettato alla procedura, è evidente che l’esercizio provvisorio deve essere funzionale alla stessa e questo è il motivo dell’inserimento sotto nel medesimo Capo.

3 – I presupposti della continuazione dell’impresa del fallito

L’esercizio provvisorio dell’impresa è uno strumento conservativo del patrimonio29, preparatorio

della liquidazione 30 e di carattere temporaneo, con la differenza rispetto all’affitto che la gestione

provvisoria spetta direttamente al curatore e non ad un terzo 31.

I due istituti pur avendo finalità analoghe, ossia la conservazione della funzionalità dell’azienda all’esercizio dell’impresa e la tutela dell’avviamento in funzione della più proficua

29 V’è chi distingueva nell’esercizio provvisorio la fase meramente conservativa, in quanto diretta a realizzare una vera e propria continuazione dall’altra più propriamente liquidatoria (al riguardo cfr. Cavalaglio, L’esercizio

provvisorio dell’impresa nel fallimento (profili funzionali), in Giur. comm., 1986, I, 234)

30 Per Ragusa Maggiore, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, 1994, 416, doveva escludersi “…che in sè l’affitto dell’azienda del fallito appartenga agli strumenti di liquidazione aziendale; mediante l’affitto, infatti, si vuole recuperare il massimo di utili possibili dall’azienda del fallito. Inoltre, l’affittuario tende a ripristinare la gestione sotto il profilo del profitto, sicchè alla fine di fronte ad un’azienda vitale può anche discutersi di risana-mento dell’impresa col risultato che alla liquidazione potrebbe sostituirsi la ripresa stessa dell’attività imprendito-riale, per effetto di un concordato. In tal senso, quindi, non sembra che sussista una ratio differente tra affitto d’azienda ed esercizio provvisorio dell’impresa escludendosi in entrambi i casi un’attività meramente liquidativa. E ciò anche alla luce dell’art. 3, legge 23 luglio 1991, n. 223, che concede all’affittuario il diritto di prelazione sull’azienda concessagli in affitto, in caso di liquidazione".

31 Se ne deduceva che l’affitto presupporebbe l’esercizio provvisorio e sarebbe assoggettato alla disciplina, ricca di cautele, sancita dall’art. 90 della legge fallimentare (Pajardi, Casi clinici di diritto fallimentare, I, Milano, 1959- 1966 (quattro volumi), 334; Id., Casi clinici, II Vol., cit., 281 s.; Id., Casi clinici, III Vol., cit., 358; Trib. Ariano Irpino 20 aprile 1958, in Foro it., 1959, I, 691).

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liquidazione possibile, differiscono in modo netto 32 anche nel nuovo impianto normativo. La

continuazione temporanea dell’impresa del fallito continua a rientrare in una sorta di gestione

pubblica processuale 33 in cui viene sostanzialmente dissociato l’esercizio dell’attività economica

dalla responsabilità e dal rischio, normalmente concentrati nello stesso soggetto 34. Tuttavia se il

legislatore del 1942 aveva essenzialmente concepito l’esercizio provvisorio dell’impresa come strumento amministrativo della procedura, il legislatore della novella ha collegato la fattispecie espressamente alla fase liquidatoria, ritenendola, unitamente all’affitto, uno strumento propedeu-tico alla massimizzazione dell’attivo 35.

Il fallimento assume tutti i rischi dell’esercizio dell’impresa ed è responsabile per tutte le ob-bligazioni contratte dal curatore nella gestione, con l’aggiunta che i crediti essendo sorti in co-stanza di procedura sono in prededuzione, come in modo quasi pleonastico l’ultimo comma del nuovo art. 104, l.fall., precisa. In pratica, il c.d. rischio di impresa incombe sulla procedura e quindi in via indiretta sui creditori concorsuali 36. Nell’affitto, invece, è l’affittuario-imprenditore

ad assumersi rischi ed obblighi derivanti dalla gestione dell’azienda 37 ed il fallimento rimane del

tutto indenne da qualsivoglia responsabilità correndo rischi assai più limitati 38.

32 La continuazione temporanea rimane fase “interna” del procedimento fallimentare sebbene con un contenuto amministrativo e contabile autonomi (Vitale, Fallimento, VIII, «Custodia e amministrazione delle attività

fallimentari», in Enc. Giur. Treccani, vol. XIII, Roma, 1990, § 6).

33 Secondo una certa impostazione un aspetto deteriore della procedura fallimentare nella sua evoluzione storica sarebbe proprio la sua lenta ma graduale processualizzazione, prodromo logicamente inevitabile del fatto che è l’amministrazione e la liquidazione di una impresa è affidata a giudici e ad avvocati, anzichè a managers (Bonsi-gnori, Introduzione al diritto fallimentare, Torino, 1993, 14). La riforma in questa linea contempla la possibilità di nominare quali curatori anche “coloro che abbiano svolto funzioni di amministrazione, direzione e controllo in società per azioni, dando prova di adeguate capacità imprenditoriali e purché non sia intervenuta nei loro confron-ti dichiarazione di fallimento” (art. 28, comma 1, lett. c l. fall.).

34 Invero una certa dottrina ha collegato strutturalmente l’ipotesi della continuazione dell’esercizio alla salva-guardia dell’integrità del patrimonio aziendale e la sua cessazione alla liquidazione e, dunque, definitiva riparti-zione della massa attiva (Vitale, Fallimento, VIII, Custodia e amministrariparti-zione delle attività fallimentari , cit., par. 6). Si è sostenuto tuttavia che l’istituto sarebbe disancorato dalla «liquidazione vera e propria» (in tal senso Andolina, Liquidazione dell’attivo ed esercizio provvisorio dell’impresa nel fallimento, in Dir. fall., 1978, I, 181 ss.).

35 Già prima in questo senso Cass., 9 gennaio 1987, n. 71, in Giur. comm. 1987, II, 562.

36 Non può essere condivisa, infatti, la tesi di chi (Mossa, Trattato del nuovo diritto commerciale, I, Milano, 1942, 393 s.) ha sostenuto che in caso di affitto la qualifica di imprenditore commerciale spetta anche al locatore oltre che all’affittuario. Contra: Ascarelli, Corso di diritto commerciale. Milano, 1962, 355; Casanova, Le

impre-se commerciali, Torino, 1955, 151; Auletta, Dell’Azienda, in Comm. Cod. civ. Scialoja-Branca, 78; Pavone La

Rosa, Affitto d’azienda e responsabilità per le obbligazioni contratte dall’affittuario nell’esercizio dell’impresa, in Riv. dir. comm., 1954, II, 351 s.; De Martini, L’usufrutto d’azienda, Milano 1950, 301 s.).

37 Già Cass. 18 gennaio 1982, n. 324, in Foro it., 1983, I, 2263, ha ritenuto non affetto da nullità il contratto in-tervenuto tra fallito e terzo, in virtù del quale il terzo ha chiesto ed ottenuto dalla curatela l’affitto dell’azienda del fallito, che a propria volta si è obbligato a rivalere l’altro, una volta tornato in bonis di tutte le obbligazioni assun-te a causa della gestione (nella specie era stato accertato che l’attività imprenditoriale era stata realmenassun-te esercita-ta dal terzo affittuario).

38 L’eventuale perdita od affievolimento dell’avviamento, il mancato pagamento dei canoni di affitto, la potenzia-le dispersione del capitapotenzia-le circolante e la generica possibilità che la liquidazione sia ostacolata. Per la tendenziapotenzia-le

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E’ chiaro perciò che si tratta di istituti diversi, assoggettati a discipline espressamente diverse,

ma non sempre alternativi: la stessa azienda dopo essere stata oggetto di esercizio provvisorio

di-sposto con la sentenza dichiarativa di fallimento può infatti diventare oggetto di affitto

endocon-corsuale, anzi il primo strumento può essere funzionale ad una migliore utilizzazione del secondo 39. Può, peraltro, verificarsi che un ramo del complesso produttivo venga affittato e con la parte

residuale la curatela continui una gestione provvisoria 40.

Di converso, esistono dei casi in cui l’esercizio provvisorio è inattuabile ed è necessario uti-lizzare l’affitto, oppure casi in cui è l’affitto ad essere improponibile. Si pensi all’ipotesi dell’azienda sopravvenuta al fallito in costanza di procedura o dell’azienda ancora integra appar-tenente ad un imprenditore cessato, in tal caso è preclusa la possibilità di ricorrere all’esercizio provvisorio in quanto l’impresa non è più del fallito o non lo è mai stata. Al contrario si pensi all’ipotesi in cui il debitore non era proprietario dell’azienda, ma solo affittuario in virtù di un contratto con divieto di subaffitto (art. 1624 c.c.), ebbene in questo caso sarà possibile ricorrere soltanto alla continuazione temporanea.

L’istituto, anche a seguito della riforma, può essere disposto in momenti diversi della proce-dura e per assolvere a funzioni differenti: con la sentenza dichiarativa di fallimento oppure

suc-cessivamente (e non più dopo che sia stato reso esecutivo, con decreto, lo stato passivo), in una

complessiva strategia destinata comunque ad essere assorbita dal programma di liquidazione. In linea di principio rimangono due le fasi in cui la misura può essere disposta (anche se cro-nologicamente scadenzate in modo del tutto innovativo) ma finalizzate ad obiettivi differenti, che in passato avevano portato una parte della dottrina a sostenere che si trattasse addirittura di due istituti distinti, in cui quello previsto dal primo comma del vecchio art. 90, l. fall., poteva essere funzionale ad interessi diversi da quello dei creditori, vista l’assenza di connessioni letterali tra pregiudizio da scongiurare ed interesse del ceto creditorio.

Innanzitutto, l’esercizio provvisorio può essere disposto in via autonoma dal tribunale ma sol-tanto con la sentenza dichiarativa del fallimento, mentre prima questo potere poteva essere eserci-tato sino al momento dell’esecutività dello seserci-tato passivo.

Nella prima fase l’istituto può essere diretto, anche nella nuova disposizione, ad evitare un danno grave (e non più irreparabile) non necessariamente ai creditori ma all’impresa e per l’effetto a tutti i soggetti che possono conseguentemente riceverne pregiudizio: quindi sarebbe

preferenza pratica dell’affitto rispetto all’esercizio provvisorio Abete, Il novello “esercizio provvisorio”: brevi

notazioni, Dir. fall., 2006, I, 659.

39 In particolare Guglielmetti, Il fallimento come pretesa causa di estinzione del diritto al marchio, in Riv. dir.

ind., 1962, II, 278, riteneva ammissibile l’affitto di azienda durante l’esercizio provvisorio.

40 In un’ipotesi del genere il divieto di concorrenza, di cui all’art. 2557 c.c., non si applicherebbe all’ufficio fal-limentare, che da un lato affitta un ramo dell’azienda e dall’altro continua l’esercizio di parte dell’attività econo-mica del fallito, in quanto la legge vieta di iniziare una nuova impresa, ma non di continuarne una già esistente.

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giustificato dalla soddisfazione dell’interesse socio-economico, anche nei casi in cui si concretiz-za nella gestione in perdita di un’impresa parassitaria. 41

Tuttavia l’art. 104, l. fall., aggiunge, proprio per evitare la dilatazione generata in passato dall’interpretazione riferita, che la sentenza di fallimento può disporre l’esercizio “purché non

ar-rechi pregiudizio ai creditori”. Pare così accolta l’opinione di quanti, nel vigore della vecchia

di-sciplina, già ritenevano che il danno grave e irreparabile dovesse essere valutato non soltanto dal punto di vista dei vantaggi economici per la massa dei creditori, ma anche in rapporto alle possi-bilità di sopravvivenza dei compendi produttivi ancora vitali. 42

La valutazione del prospettico pregiudizio tuttavia appare molto difficile da fare per il Tribu-nale in sede di dichiarazione di insolvenza, a meno che non sia stata effettuata la prospettata i-struttoria prefallimentare “invasiva”, che permetta di conoscere concretamente la vicenda di crisi trattata 43.

Nella seconda fase (successivamente) non solo non è più richiesta sul piano cronologico l’esecutività dello stato passivo ma addirittura l’esercizio può essere disposto, a nostro avviso, anche prima della presentazione del programma di liquidazione (come espressamente previsto per l’affitto) anche perché il comitato dei creditori viene ormai immediatamente costituito sulla base delle scritture contabili e delle risultanze documentali del fallito, potendo successivamente essere modificato nei componenti all’esito dell’adunanza per la verifica del passivo (art. 40, l. fall.,). In tal caso l’esercizio deve essere assistito dal criterio dell’economicità, tanto è vero che la norma prevede che il giudice delegato (e non più il Tribunale) può autorizzare la continuazione, come nella versione precedente, solo se c’è il parere favorevole del comitato dei creditori. Del pari,

41 Nella prassi si è spesso dilatata l’utilizzazione dell’istituto oltre i limiti previsti dal legislatore; così si è avviata la procedura di esercizio provvisorio per completare un ciclo produttivo industriale iniziato, con le materie prime già acquistate; per vendere merce deperibile; per assicurare la continuazione di un pubblico servizio in concessio-ne; per completare la costruzione di un immobile, allo scopo di venderlo in condizioni più appetibili dal mercato; per mantenere in vita un’azienda al fine di non disperderne l’avviamento, etc. (al riguardo Pellegrino,

Acquisizio-ne, custodia ed amministrazione delle attività fallimentari: esercizio provvisorio dell’impresa, in Le procedure concorsuali, Trattato diretto da Ragusa Maggiore- Costa, II, Torino, 1997, 401 s.; Lo Cascio, Il fallimento e le

altre procedure concorsuali, Milano, 1991, 235).

42 Rivolta, L’esercizio provvisorio dell’impresa nel fallimento, Milano, 1969, 135. Invero secondo alcuni il dan-no grave e irreparabile andava ricondotto agli interessi dei creditori del fallito con la conseguente necessità di su-bordinare, quindi, il provvedimento del Tribunale al ricorrere dei casi in cui si fosse ravvisata l’opportunità e la possibilità di procurare un vantaggio agli stessi; diametralmente opposta era invece la tesi sostenuta da coloro i quali ritenevano che il danno potesse riguardare anche i dipendenti e i clienti dell’impresa (ad esempio, nelle im-prese di pubblica utilità o con un elevato numero di dipendenti), precisando, tuttavia, che in tal caso, l’esercizio provvisorio poteva essere disposto solo a condizione che non fossero pregiudicati i creditori del fallito, la cui ri-levanza doveva essere sempre considerata prevalente. Secondo altri ancora il «danno grave e irreparabile» avreb-be dovuto riguardare la perdita dell’avviamento o la necessità di provvedere all’ultimazione di lavorazioni in cor-so, il deprezzamento del magazzino, la perdita di valore del marchio, l’inevitabile deprezzamento collegato allo smembramento del complesso aziendale, la mancata riscossione dei crediti.

43 Sul tema già Fimmanò, Le prospettive di riforma del diritto delle imprese in crisi tra informazione, mercato

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come si vedrà, l’esercizio può essere disposto anche dopo l’approvazione del programma di li-quidazione attraverso una modifica dello stesso ex art. 104 ter, co. 50, l.fall., laddove l’esercizio provvisorio appaia come sopravvenuta esigenza.

Si tratta invero di una seconda fase “aperta” in cui l’esercizio provvisorio può essere disposto in più occasioni.

Orbene, già prima della riforma, l’attribuzione di un’efficacia vincolante al parere dei credito-ri evidenziava una chiara volontà legislativa di condizionare l’esercizio provvisocredito-rio alla valuta-zione di coloro che sono interessati solo ad una economica liquidavaluta-zione e non sono influenzabili da istanze, per così dire, extraimprenditoriali. Nella Relazione alla novella si legge che “…proprio in questo secondo caso che si può cogliere l’aspetto può significativo

dell’innovazione, essendosi qui voluto accentuare che l’istituto, a differenza di quanto previsto dall’art. 90 del regio decreto del 1942, risponde non più al solo interesse privatistico di consen-tire un miglior risultato della liquidazione concorsuale, ma è aperto a quello pubblicistico di uti-le conservazione dell’impresa ceduta nella sua integrità o in parte, sempre che il ceto creditorio

non ritenga di trarne nocumento”44.

In tutte le diverse fasi la continuazione può avere finalità conservative dei valori aziendali, ma giammai essere utilizzato in funzione del risanamento dell’impresa appartenente al debitore fallito, obiettivo assolutamente estraneo alla procedura fallimentare in quanto tale 45. Peraltro la

prospettazione nella sentenza di fallimento di un’ipotesi di risanamento, da attuarsi per il tramite dell’esercizio provvisorio, “inciderebbe sulla configurabilità stessa dell’insolvenza e, dunque, sulla legittimità della declaratoria fallimentare”46.

Nel fallimento l’azienda (e non l’impresa) come complesso di beni e persone organizzati me-diante l’attività di coordinamento dell’imprenditore può sopravvivere, nel senso che si estingue solo a causa della concreta ed effettiva disgregazione dei fattori della produzione 47.

L’impresa, intesa come attività economica dell’imprenditore fallito, può essere continuata dal curatore non per risanarla ma per mantenere in vita quella organizzazione di beni e persone che ne costituisce lo strumento 48.

44 Abete, op. cit., 665 osserva che <<…l’esplicita correlazione del pregiudizio da scongiurare con l’interesse del ceto creditorio non costituisce una reale novità: si è anticipato che il prevalente orientamento esegetico aveva o-pinato nel senso che l’istituto in esame fosse in via esclusiva destinato alla salvaguardia degli interessi dei credi-tori e, quindi, che non potesse essere “gravato” da aspirazioni di matrice diversa, di rilievo “pubblicistico”, con-nesse al risanamento dell’impresa quale “bene per la collettività”>>.

45 In tal senso Cass., 9 gennaio 1987, n. 71, in Giur. comm., 1987,II, 562, contra: Trib. Messina 8 lglio 1981, in

Dir. fall., 1982, II, 1257. Contra in qualche modo Trib. Avellino 14 ottobre 1964, in Foro pad., 1965, I, 1417.

Sul tema cfr. Cavalaglio, L’esercizio provvisorio cit., 235 s.

46 Meoli, La continuazione temporanea dell’esercizio dell’impresa, in Fall., 2005, 1045. 47 Cfr. Cass. 9 giugno 1981, n. 3723, cit. 2492.

48 D’altra parte già nella Relazione del Guardasigilli al codice del ‘42, sull’impresa in generale (n. 34), è chiara la distinzione tra impresa in senso funzionale, come attività professionale organizzata dell’imprenditore, ed impresa in senso strumentale come organizzazione del lavoro e degli altri strumenti produttivi cui dà luogo l’attività

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pro-L’esercizio provvisorio ad opera della curatela, nonostante l’ampliamento normativo che ne contempla le potenzialità di istituto funzionale alla valorizzazione dell’attivo, o almeno al conte-nimento del depauperamento dei valori aziendali49, rimane nel suo complesso un fenomeno

ecce-zionale, e meglio ancora residuale (rispetto all’affitto), estraneo per sua natura alla fisiologia dei compiti dell’ufficio fallimentare, che può essere autorizzato solo in casi particolari50 e nei limiti51

e con le garanzie previste dalla legge52.

4 – L’anticipazione cautelare dell’esercizio provvisorio

L’esercizio provvisorio, alla luce di quanto detto, è strumentale alla liquidazione riallocativa dei valori aziendali ai fini della prospettiva liquidatoria della stessa, quale alternativa “preferi-bile” alla vendita dei singoli beni, come disposto dall’art. 105 l. fall. . L’esercizio è, così, “provvisorio” nell’attesa che l’ufficio fallimentare abbia la possibilità di verificare, program-mare ed eseguire la scelta liquidatoria della universalità. L’esercizio è altresì “provvisorio” fintanto che la possibilità di liquidazione della azienda sia effettivamente realizzabile.

Si vuole dire, in altri termini, che la continuazione dell’attività di impresa ha ragion d’essere fino a che non sia stata realizzata la liquidazione dell’azienda (o di suoi rami od

as-sets), ovvero questa divenga irrealizzabile, ovvero realizzabile con migliori risultati a

fessionale dell’imprenditore. Quest’ultima “in fondo è sì ancora una espressione dinamica, cui mette origine l’attività, ma allorché si distacca dal suo autore acquista il carattere più statico dell’azienda” (Ragusa Maggiore,

Imprenditore Impresa Fallimento, Padova, 1979, 253).

49 Si è osservato che nella vecchia legge fallimentare l’esercizio provvisorio non era interpretabile come “possibi-lità di accrescere la massa attiva, in ragione di un avviamento e di una predisposizione funzionalizzata dei beni aziendali che il lungo decorso procedimentale avrebbe deprivato, o perlomeno sminuito, di qualsiasi profittabilità economica” (Lo Cicero, L’affitto endofallimentare dell’azienda e l’esercizio provvisorio dell’impresa, in

www.dircomm.it, 2005, n. 10, 1). Il legislatore della novella ha concepito tale fattispecie collegandola

espressa-mente alla fase liquidatoria dell’attivo, ritenendo che “le fattispecie possano rappresentare un elemento non tra-scurabile della produzione dell’attivo e dunque, connotare in senso diverso rispetto al passato almeno una fase della procedura, non più esclusivamente dettata alla liquidazione dello status quo ante ma eventualmente produt-tiva di un terminus ad quem, protratto nel tempo procedimentale”.

50 Bozza, La vendita dell’azienda nelle procedure concorsuali, Milano, 1988, 11; sul punto cfr. anche Cavallo Borgia, Continuazione dell’esercizio dell’impresa nell’amministrazione straordinaria e nelle procedure

concor-suali: profili funzionali, in Giur. comm., 1982, I, 762; Andolina, op. cit., 181; Fimmanò, Fallimento e circolazio-ne dell’azienda socialmente rilevante, Milano 2000, 89 s.; Rivolta, L’esercizio cit., 421.

51 L’art. 104, l. fall., conferma in particolare il carattere assolutamente provvisorio dell’esercizio dell’impresa del fallito, così come disposto già dal vecchio art. 90, l. fall.,. Infatti, il quarto comma dell’art. 104 precisa che “se il comitato dei creditori non ravvisa l’opportunità di continuare l’esercizio provvisorio, il giudice delegato ne ordina la cessazione”. Inoltre, il comma settimo dispone che “il tribunale può ordinare la cessazione dell’esercizio prov-visorio in qualsiasi momento laddove ne ravvisi l’opportunità, con decreto in camera di consiglio non soggetto a reclamo, sentiti il curatore ed il comitato dei creditori”.

52 V’è chi sulla base della legge delega ha pronosticato che l’istituto avrebbe dovuto assumere i caratteri di ordi-naria misura, funzionale ad attuare le finalità conservative in prospettiva della vendita, nell’ambito di un rinnova-to concetrinnova-to di concorso dei credirinnova-tori (Meoli, op. cit., 1043).

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dere dalla continuazione dell’attività economica. E’ ovvio che prima si parte e meglio si rag-giungono le finalità volute dalla legge: è chiaro ad esempio che un esercizio provvisorio di-sposto solo in fase avanzata presenterà problemi attuativi quanto meno perché nelle more si sarà verificato lo scioglimento della maggior parte contratti “aziendali” in corso, se non da tut-ti. Si spiega in questa ottica perché l’istituto è concepito come strumento cui deve essere pos-sibile accedere a partire dalla fase embrionale fino a quella terminale della liquidazione dell’attivo. Più precisamente a partire persino dalla fase dell’istruttoria prefallimentare sino al momento prima che si dia corso alla vendita.

L’esercizio, difatti, potrebbe essere, a nostro avviso, anticipato dal Tribunale, nella fase della istruttoria prefallimentare; poi disposto o confermato nella sentenza di fallimento; suc-cessivamente autorizzato dal giudice delegato prima della approvazione del programma; in sede di programma di liquidazione come dispone l’art. 104 ter lett. a) l.fall.; o ancora dopo at-traverso una modifica del programma stesso ex art. 104 ter, 50 comma, l.fall. potendo la oppor-tunità in esame, manifestarsi come una sopravvenuta esigenza.

Andando per gradi l’occasione dell’esercizio provvisorio si presenta già in fase di istrutto-ria prefallimentare visto che, come disposto dall’art. 15 l.fall, “Il Tribunale, ad istanza di parte può emettere i provvedimenti cautelari … a tutela …dell’impresa .. che hanno efficacia limita-ta alla duralimita-ta del procedimento e vengono confermati o revocati dalla sentenza che dichiara il fallimento ovvero revocati con il decreto che rigetta l’istanza”.

Ebbene tra i provvedimenti cautelari nulla esclude che possa essere disposto anche l’esercizio dell’impresa sottratto all’imprenditore e attribuito, ad esempio, ad un soggetto che abbia svolto funzioni di amministrazione, direzione e controllo di società per azioni, dando prova di adeguate capacità imprenditoriali (cfr art. 28 lett.c)53 sotto l’impulso e nell’ambito

delle direttive del Tribunale stesso.

Già in questa fase il Tribunale54 potrebbe ritenere opportuno preservare, attraverso

l’esercizio controllato dell’attività economica, l’azienda (o suoi rami) onde permettere, per l’ipotesi di dichiarazione di fallimento, alla procedura di scongiurare il periculum in mora di veder vanificata o ridimensionata la possibilità della vendita dei valori aziendali funzionanti o strumentali ad altre imprese. La scelta consentirebbe peraltro il più invasivo dei monitoraggi possibili dell’impresa in crisi.

53 Si ritiene comunemente che le misure cautelari possano essere anche innominate ovvero sostanziarsi nel se-questro di azienda con nomina di un amministratore provvisorio (Cfr Panzani, La riforma delle procedure

con-corsuali – il secondo atto in www.ipsoa.it/fallimento, par 1.5; Santangeli, sub art. 15 l.fall., Il nuovo fallimento a

cura di Santangeli, Milano 2006, 78).

54 Evidentemente il provvedimento va adottato dal Tribunale e non può essere delegabile (in tal senso anche San-tangeli, op. cit., 80).

(19)

I margini di ammissibilità e operatività dello strumento esigono in ogni caso un’analisi complessiva della fattispecie partendo dalla lettera della norma citata, ove il legislatore parla appunto di “provvedimenti cautelari …a tutela …dell’impresa oggetto del provvedimento”.

Il dato letterale è univoco nell’individuare innanzitutto come l’oggetto del provvedimento sia l’impresa. La conclusione può essere avvalorata anche dalla funzione obiettiva della dispo-sizione tesa a rendere attuabili, sin dalla istruttoria prefallimentare, le regole volte alla massi-mizzazione dell’attivo. Nell’ottica della omnicomprensività dell’attivo fallimentare, l’impresa è un valore da preservare in quanto, grazie ad essa, è possibile valorizzare l’azienda quale componente centrale dell’universo della liquidazione dell’attivo come testimoniato dalla nor-ma cardine di cui all’art.105 l.fall. Impresa, allora, che deve poter essere trattata alla stregua – anzi con maggiore attenzione conservativa visto che è funzionale alla azienda – di qualsiasi al-tro valore dell’attivo, potendo essere l’elemento decisivo della soddisfazione dei creditori.

Vi è di più, a livello fallimentare sfumano le categorie concettuali, quali i beni, diritti, a-spettative, per essere sostituite dal nuovo e diverso concetto di “valore”. Qui per valore deve intendersi qualsivoglia entità convertibile direttamente o indirettamente in danaro, sicché l’impresa è un valore in quanto permette di salvaguardare – ai fini della successiva liquidazio-ne - l’azienda. L’impresa è allora un valore in quanto, grazie ad essa, è possibile lasciare in vita l’azienda ed evitarne la disgregazione.

Si pensi a quelle attività di impresa che abbiano per oggetto l’erogazione di un servizio che – se non esercitato – genera la risoluzione dei rapporti negoziali coi clienti. Si pensi alle società che svolgono attività in regime convenzionato con la pubblica amministrazione ove il mancato esercizio della attività di impresa genera la dispersione dei valori, talora intangibiles55

. Del pari è possibile che il complesso aziendale sia suscettibile di sopravvivere anche se, per un periodo di tempo, l’impresa non venga esercitata. Ecco, in questo caso l’impresa è pur sempre un valore visto che l’azienda non ne può rimanere priva all’infinito, ma essa nell’immediato non abbisogna di essere esercitata. Nei primi due casi, allora, l’impresa è un valore delicato da preservare sin dalla fase in cui ci si avvede della crisi, nel secondo il valore è meno rilevante avendo l’azienda una capacità di sopravvivere più a lungo.

55 Per intangibile si intende un “bene” che – da solo non è commerciabile – ma che può essere ceduto con l’azienda e consente a questa di assumere un valore esponenziale. Si pensi, solo per fare un esempio, tra i tanti, al fallimento delle società di calcio ove la considerazione del dato azienda permette di monetizzare “valori”, quali il “titolo sportivo”, che altrimenti sarebbero incedibili, se considerati singolarmente. Sul tema Cfr. Fimmanò, La

crisi delle società di calcio e l’affitto della azienda sportiva, in Dir. fall., 2006, 3; Esposito, Brevi riflessioni in tema di “valori” da acquisire all’attivo ai fini della compiuta soddisfazione degli interessi della procedura falli-mentare. Il rapporto armonioso tra le regole dell’ordinamento generale ed il sub-ordinamento sportivo, in Dir. fall., 2006, 180. Si pensi ancora alle imprese convenzionate con il sistema sanitario nazionale (al riguardo mi

permetto di rinviare a Fimmanò, Gli effetti del trasferimento d’azienda sull’autorizzazione sanitaria regionale e

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