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Valutazione emergetica della produzione di vetro artistico di Murano

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Academic year: 2021

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Università Ca' Foscari Venezia

Corso di Laurea magistrale in

Scienze Ambientali

Tesi di Laurea

ANALISI EMERGETICA DELLA

PRODUZIONE DI VETRO ARTISTICO DI

MURANO

Relatore

Prof. Francesco Gonella

Correlatore

Prof. Sergio Ulgiati

Laureanda

Sofia Spagnolo

Matricola 819881

A.A. 2015/2016

Anno Accademico

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Indice

Introduzione 2 Capitolo 1 - Il comparto della produzione di vetro artistico muranese 4 Capitolo 2 - Il processo produttivo del vetro artistico 9 2.1 - Il vetro 9 2.2 - Materie prime nella lavorazione del vetro 11 2.3 - I forni da vetro 14 2.3.1 - Caratteristiche e tipologie dei forni fusori 14 2.3.2 - Forni di riscaldamento 17 2.3.3 - Forni di ricottura 17 2.4 - Il processo di produzione 17 2.5 - Il trattamento fumi 21 Capitolo 3 - L'analisi emergetica 23 3.1 - L'emergia 23 3.1.1 - Il framework concettuale 23 3.1.2 - L'efficienza dei sistemi 25 3.2 - I diagrammi emergetici 26 3.3 - Determinazione dei flussi emergetici 29 3.4 - L'algebra dell'emergia 31 3.5 - Gli indicatori emergetici 32 3.6 - Analisi integrate 35 Capitolo 4 - Analisi emergetica della fornace 40 4.1 - Il diagramma emergetico 40 4.2 - La tabella emergetica 42 4.3 - Gli indicatori emergetici 49 Capitolo 5 - L'emergia delle materie prime 51 5.1 - Agenti formatori del reticolo vetroso 52 5.2 - Agenti fondenti 53 5.3 - Agenti stabilizzanti 54 5.4 - Agenti affinanti 57 5.5 - Agenti opacizzanti 57 Conclusioni 59

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Introduzione

Scopo di questo lavoro di tesi è l'applicazione al comparto della produzione artistica del vetro di Murano della metodologia di analisi integrata detta analisi emergetica (da EMERGY = EMbodied enERGY, energia incorporata). Essa contabilizza tutti i flussi legati al funzionamento di un sistema (energia, materia, servizi, lavoro, ecc.) nella stessa unità di misura, quella relativa alla grandezza denominata emergia, ed è stata specificamente sviluppata a partire dagli anni '80 per studiare la sostenibilità sistemica sotto tutti i suoi canonici aspetti, vale a dire ambientale, sociale ed economico. La possibilità di rendicontare in modo integrato tutte le quantità che entrano in gioco nelle definizioni standard degli indicatori di sostenibilità ambientale, sociale ed economica consente quindi di ottenere una descrizione "globale" del sistema oggetto di studio, individuando degli indicatori (quelli emergetici, appunto) in grado mettere in luce le dinamiche sistemiche e le criticità di funzionamento.

Un secondo aspetto, più tecnico, affrontato in questa tesi è la determinazione dei coefficienti di trasformazione che permettono il calcolo dell'emergia associata ad alcuni composti chimici che entrano nel processo produttivo del vetro artistico, composti per i quali questi coefficienti non esistevano fino ad oggi nei database utilizzati dagli analisti emergetici.

In generale, l'approccio emergetico viene utilizzato nei più svariati contesti, da quello ecosistemico a quello legato ad analisi di tipo socio-economico, a quello relativo a singoli impianti o a comparti produttivi. Nel caso in oggetto, diversi aspetti fanno del settore del vetro artistico muranese un sistema caratterizzato da un'alta specificità sia dal punto divista storico-culturale sia da quello economico. Esso si basa su una complessa rete di feedback tra gli aspetti logistico-geografici, ambientali, economici, tecnologici e di marketing, con in più una stretta connessione con le problematiche tipiche di Venezia e della sua laguna. Tutto ciò rende il settore un sistema difficile da studiare e da gestire, basato su equilibri delicati e la cui sostenibilità resta problematica a dispetto delle iniziative via via prese a livello istituzionale negli ultimi decenni.

Questa tesi vuole quindi portare un contributo analitico alla definizione della sostenibiliità del comparto del vetro artistico, tracciando una prima descrizione del sistema secondo l'approccio che fa capo al concetto di emergia. I primi due capitoli introducono storicamente ed economicamente il settore produttivo del vetro artistico, contestualizzandolo alla situazione attuale, descrivendo poi i dettagli tecnici della preparazione del vetro, del funzionamento di una fornace e in generale della filiera produttiva. Il terzo capitolo è dedicato a un'introduzione dettagliata dell'analisi emergetica, comprensiva della definizione degli indicatori emergetici. Il capitolo successivo presenta l'analisi emergetica vera e propria, ed è incentrato sulla costruzione del diagramma emergetico e della tabella inventariale corrispondente, con cosneguente determinazione degli indicatori emergetici frutto dell'analisi. L'ultimo capitolo è infine dediato al calcolo dei coefficienti di trasformazione per i composti chimici di interesse. Introduzione e Conclusioni generali completano quindi la struttura della tesi.

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Capitolo 1

Il comparto della produzione di vetro

artistico muranese

Abstract In questo capitolo viene fornita una breve contestualizzazione storica ed economica del settore. La produzione di vetri artistici è sempre stata un’importante realtà economica per la città di Venezia, di cui ha influenzato fortemente lo sviluppo artistico e culturale. Nel corso dei secoli sono stati raggiunti livelli tecnici e artistici talmente elevati da rendere il vetro di Murano conosciuto in tutto il mondo. L’isola di Murano si trova a nord di Venezia, a breve distanza dalla città antica ed è collegata al resto del territorio da soli collegamenti via acqua. Fino al 1292 le fornaci erano collocate nella Venezia antica ma a causa dell’elevato rischio di incendi il Gran Consiglio decretò allora il loro trasferimento nell’isola di Murano, consentendo così anche una migliore protezione del segreto legato alle lavorazioni del vetro. Le origini della lavorazione del vetro veneziano non sono ancora chiare, in quanto il più antico documento riguardante la produzione di vetro in questa città risale al 982, un atto di donazione firmato da un certo Domenico fìolario ovvero lavoratore di vetri cavi soffiati. Alcuni frammenti rinvenuti alla fine del 1900 nel sottosuolo di Venezia, a Murano e nei sedimenti lagunari, databili tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo, riportano ad una fase più arcaica del vetro e testimoniano un possibile legame con la vetreria romana antica. Risalgono alla fine del 1200 numerosi documenti che parlano della concentrazione di fornaci lungo il Rio dei Vetrai a Murano, periodo attorno al quale la produzione di oggetti in vetro, prima di scarsa qualità, migliorò evidentemente anche grazie all’utilizzo di materie prime di migliore qualità provenienti dall’Oriente. Nel 1224 erano già presenti le Corporazioni di mestiere e nel XIV secolo gli oggetti in vetro prodotti a Murano comprendevano soffiati, piastre musive, gemmette d’imitazione (verixèlli) e la decorazione di bicchieri e smalti. Lo sviluppo di un interesse di mercato su scala europea è testimoniato dal progressivo apparire di decreti atti a regolamentare il commercio, ma anche la qualità delle materie prime e l'esportazione delle conoscenze tecniche relative alle procedure di lavorazione e alle varie “ricette” dei vetri (Mazzoldi 2010). A partire dal 1400 Venezia guadagnò quindi il monopolio relativamente all'intero comparto, arrivando a produrre perle in vetro che venivano utilizzate come valuta di scambio in paesi del Medio Oriente e in Africa, dove le popolazioni indigene attribuivano loro poteri magici e taumaturgici.

Nel XV secolo iniziò la vera e propria età dell’oro del vetro muranese, che vide la produzione di oggetti di alta classe molto richiesti dalla ricca borghesia italiana ed europea. A questa contribuì anche l’invenzione e lo sviluppo del cosiddetto “vetro cristallino”, dovuta ad Angelo Barovier attorno al 1450, un vetro sodico particolarmente trasparente e adatto alla soffiatura, ottenuto grazie a specifiche preparative atte a purificare la base silicea durante la preparazione. A questo va inoltre aggiunto lo sviluppo del “vetro calcedonio”, nome dato al vetro variegato a colori ottenuto aggiungendo miscele di metalli di transizione sotto forma di ossidi o sali.

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Nelle figure seguenti sono riportati esempi della varietà di prodotti muranesi del tempo, in vetro trasparente (fig. 1.1. e 1.2) ed opaco (fig. 1.3 e 1.4).

FIGURA 1.1. VASO DECORATO (XV SECOLO) FIGURA 1.2. COPPA DECORATA (1520)

Attorno al XVI secolo i maestri veneziani importarono a Murano la lavorazione di vetri murrini, che già in epoca romana (I secolo d.C.) veniva utilizzata per produrre oggetti a motivi colorati. Essa consiste sostanzialmente nel saldare assieme, mediante un attento controllo della temperatura di lavorazione, singoli frammenti colorati di forma opportuna già precedentemente ottenuti separatamente, componendo così motivi cromatici di grandissima varietà.

FIGURA 1.3. VASO TRASLUCIDO

(XVI SECOLO) FIGURA 1.4. OGGETTI IN VETRO OPACO COLORATO (XVI SECOLO)

Le murrine veneziane sono in seguito diventate (e sono tuttora) una tipologia di oggetti in vetro e un marchio riconosciuti in tutto il mondo, grazie allo sviluppo specifico della tecnica di produzione.

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In figura 1.5 è mostrato il tipico esemplare di murrina veneziana, ottenuta fondendo assieme sottili bacchette di vetro colorato, ottenendo così cilindri compatti che successivamente vengono tagliati in fette, che opportunamente ricotte e lucidate diventano la murrina vera e propria. FIGURA 1.5. MURRINA MILLEFIORI. FIGURA 1.6. PERLE A ROSETTA E VASO MILLEFIORI. Alla lavorazione in murrine è inoltre associata la produzione di altri vetri del tutto peculiari della tradizione veneziana, come le perle a rosetta e i vasi millefiori, di cui esempi sono riportati in figura 1.6. In particolare, le perle a rosetta sono ottenute dalla lavorazione di sezioni dei cilindri di base delle murrine, mentre i vasi millefiori sono ottenuti accostando su un vassoio di ceramica varie fettine diverse di murrina. Un riscaldamento alla temperatura di rammollimento consente ai "fiori" si saldarsi l'un l'altro formando così un disco composto, che a sua volta verrà poi piegato a caldo e sagomato in modo da ottener l'oggetto desiderato. In generale, si può senz'altro affermare che la produzione artistica di Murano poggia tuttora su un corpo di conoscenze costruito empiricamente attraverso mezzo millennio di sperimentazione, che di fatto è in grado di produrre materiali, tecniche e opere d'arte del tutto originali (un esempio delle quali è in figura 1.7), la cui unicità resta riconoscibile e riconosciuta in tutto il mondo.

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FIGURA 1.7 - LAMPADARIO IN VETRO IDEATO DA FABIO FORNASIER (HTTP://WWW.LU-MURANO.IT)

FIGURA 1.8. LOCALIZZAZIONE DELLE IMPRESE DELLA "FILIERA DEL VETRO"

(COSES 2011)

Dal punto di vista socio-economico, l'isola di Murano è indissolubilmente connotata dalla produzione di vetri artistici, anche se la dicitura rappresenta in realtà una semplificazione delle categorie di prodotto che trovano posto nella produzione dell'isola, e cioè Vetri di prima lavorazione, Articoli per illuminazione, Vetri incisi, Vetri decorati, Vetri decorati per accidatura, Vetri decorati per sabbiatura, Vetri molati, Murrine, Specchi, Conterie, Vetri a lume, Perle. PICCOLO DIZIONARIO MURANESE DEL VETRO CONTERÌE Oggi si chiamano “conterie” le perle di dimensioni molto piccole, ottenute sezionando a freddo sottili canne vitree forate e sottoponendo i cilindretti ottenuti ad un arrotondamento a caldo. COTIZZO (Cotizza o cotticcia, cioè non del tutto cotta). Coacervo di grossi pezzi di vetro, usualmente della misura di ciottoli di fiume. Il cotizzo si ottiene anche gettando nelle conche (v.) il vetro fuso estratto dai crogioli, lasciandolo indi raffreddare. Il vetro, nel processo di raffreddamento, si contrae e si spezza in grossi pezzi. Il cotizzo, come rottame di vetro, viene spesso riusato quale catalizzatore nella miscela da vetro. FIOLÈR (FIOLARIO) Termine arcaico (VIII sec.) che sta ad indicare il vetraio soffiatore di fiale, ovvero di oggetti cavi soffiati. VERIXÉLLI Termine medievale per indicare gemme in vetro ad imitazione di quelle vere. (http://www.barovier.com /it/azienda/vocabolario, s.d.)

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Dal punto di vista della presenza imprenditoriale, Murano conta circa qualche centiania di imprese (306 nel 2010), che occupano più di 1.000 addetti nel campo manifatturiero del vetro (centrostudisintesi 2015), metà circa delle quali specializzate nella lavorazione a mano e a soffio, specializzazione storica di Murano. Esse rappresentano il 25% circa di tutte le imprese italiane del settore, una concentrazione non riscontrabile in nessun altro comparto produttivo. La concentrazione di imprese è ben visibile in fig. 1.8, e dal punto di vista turistico caratterizza da sola un'isola popolata da poco più di 6.000 residenti. In figura 1.9, è mostrata la distribuzione degli addetti per impresa, evidenziando come da una parte gli addetti stessi hanno una professionalità artigiana di alta qualità specifica, e dall'altra il carattere familiare dell'impresa media.

FIGURA 1.9. DIPENDENTI DELLE IMPRESE VETRARIE (CENTROSTUDISINTESI 2015)

Il ruolo dell'industria turistica e dell'esportazione legata alla produzione vetraria risulta evidentemente prioritario. Dei 165 milioni di Euro complessivi fatturati nel 2013, il 40% circa risulta da vendite all'estero.

E' opportuno inoltre rilevare il crescente interesse delle Istituzioni alla sostenibilità e conservazione del comparto produttivo, che negli ultimi decenni ha portato alla creazione del Consorzio Promovetro Murano (1985), con l'obiettivo di conservare e difendere la tradizione manufatturiera del vetro di Murano, del Consorzio Ambiente Murano, legato al sostegno alle imprese di fronte ai problemi connessi all'ambiente, e soprattutto ha portato all'introduzione del Marchio Vetro Artistico® di Murano (1994), un marchio collettivo di origine che certifica che i prodotto in vendita sono realizzati all'interno del Distertto del vetro artistico muranese secondo le modalità e le tecniche tradizionali. Da ultimo, va citata infine la presenza a Murano della Stazione Sperimentale del Vetro, ente pubblico economico di ricerca istituito nel 1954 con lo scopo di promuovere il progresso dell'industria vetraria italiana attraverso indagini e ricerche sperimentali presso i propri laboratori.

Bibliografia

www.centrostudisintesi.com/new/wp-content/uploads/comunicato-stampa-Murano.pdf. COSES - Consorzio per la Ricerca e la Formazione, www.coses.it, Documento 1228.1, 2011. P. Mazzoldi, "Dalla leggenda dei materiali alla magia del vetro", Il Nuovo Saggiatore 26 (2010) 47.

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Capitolo 2

Il processo produttivo del vetro artistico

Abstract In questo capitolo, dopo una breve introduzione generale sul vetro e sulla sua composizione, viene descritta la sua lavorazione durante le fasi del processo produttivo di vetri artistici, a partire dalle materie prime e dalle attrezzature utilizzate per individuare quindi i flussi di materia ed energia necessari ale successive analisi.

2.1 Il vetro

Il vetro si può definire, dal punto di vista fisico, come un fluido ad alta viscosità solidificato. La sua curva T-V (figura 2.1) è infatti caratterizzata da una transizione continua dallo stato liquido a quello solido, senza che vi sia una temperatura di fusione rappresentativa della discontinuità tipica di un cambiamento di fase, associata perciò a un calore latente.

FIGURA 2.1 - VARIAZIONE DI VOLUME ALL'AUMENTARE DELLA TEMPERATURA PER MATERIALI AMORFI E CRISTALLINI.

Tg È LA TEMPERATURA DI TRANSIZIONE, TM LA TEMPERATURA DI FUSIONE

Chimicamente il vetro è un solido amorfo, ovvero privo di reticolo cristallino ordinato, costituito da atomi legati fra loro covalentemente e ionicamente (figura 2.2). Nonostante vi siano diverse sostanze che, a partire dallo stato fuso, possono solidificare sotto forma di vetro in presenza di opportuna velocità di raffreddamento (es. il diossido di germanio, l’anidride borica, il magma vulcanico, persino alcuni metalli…), comunemente si associa il termine “vetro” ai vetri a base di silice, ovvero di ossido di silicio (SiO2). Il vetro silicatico viene comunemente utilizzato in edilizia, nell’arte vetraria o come materiale per contenitori. Le caratteristiche fisiche del vetro possono essere modificate aggiungendo alla SiO2 altri elementi chimici che ne possono migliorare la fusibilità e lavorabilità, la resistenza chimica, aumentare l’indice di rifrazione, dare colore, etc. Il vetro siliceo si può quindi classificare essenzialmente in tre categorie composizionali: vetri silico-sodico-calcici, vetri boro-silicati e vetri al piombo.

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FIGURA 2.2 - STRUTTURA DEL VETRO DI SILICE Il vetro silico-sodico-calcico (soda-lime silicate glass) è il tipico vetro comune utilizzato in edilizia, auto, arredamento, bottiglie, bicchieri, etc. ed è la tipologia più comune nella tradizione artistica muranese, dove viene utilizzato per la produzione di oggetti artistici e semilavorati in vetro come canne colorate e a millefiori (Figura 2.3) e lastre. Le componenti principali del network amorfo sono

in questo caso silice, ossido di sodio e ossido di calcio, che entrano nel processo produttivo rispettivamente sotto forma di sabbia di quarzo, carbonato di sodio (soda Solvay) e carbonato di calcio (marmo); a seconda delle caratteristiche chimico-fisiche desiderate, parte di questi costituenti principali può essere sostituita da altri ossidi. Ad esempio l'ossido di magnesio riduce la tendenza alla devetrificazione del vetro, l'ossido di bario ne influenza la resistenza elettrica, l'ossido di zinco viene utilizzato nella produzione di vetri opalini e alcuni vetri colorati, etc. (http://www.glassway.org, s.d.). Di questa categoria fa parte anche il cosiddetto “cristallo

muranese” (figura 2.4) che si suppone sia stato inventato nel XV secolo da Angelo Barovier, vetro di elevata purezza decolorato con biossido di manganese e così chiamato perché simile al cristallo di rocca (http://museovetro.visitmuve.it, s.d.). I vetri boro-silicati contengono elevate quantità di allumina ed anidride borica, che conferiscono loro una elevata resistenza chimica e allo shock termico. Trovano utilizzo principalmente come contenitori per medicinali e vetreria da laboratorio (Pyrex®), o altri usi particolari (figura 2.5).

FIGURA 0.3 - MURRINE (VETRO SODICO-CALCICO) FIGURA 0.4 - COLLANA IN CRISTALLO MURANESE (YOUR MURANO)

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FIGURA 2.5 - VETRERIA DA LABORATORIO IN VETRO BORO-SILICATO

I vetri al piombo, o cristalli di Boemia, sono vetri di altissima qualità, caratterizzati da alto indice di rifrazione ed elevata trasparenza. Questi cristalli contengono una percentuale di piombo superiore al 24% e vengono utilizzati per produrre oggetti artistici, vetreria da tavola e schermi protettivi contro le radiazioni ionizzanti. Il cristallo di Boemia viene prodotto principalmente in Repubblica Ceca (figura 2.6).

FIGURA 2.6 - COPPA IN CRISTALLO DI BOEMIA

2.2 Materie prime nella lavorazione del vetro

La miscela vetrificabile che viene sottoposta a fusione per la produzione di vetro artistico è costituita da diversi componenti aventi funzioni specifiche. Il principale agente formatore del reticolo vetroso è la silice (SiO2), che in natura si trova sotto forma di quarzo e di minerali silicatici, ed è il principale componente di sabbie e rocce. La silice di cava allo stato grezzo raramente è adatta alla produzione del vetro, poiché contiene complessi con altri ossidi, soprattutto impurità di ossido di ferro (Fe2O3), che possono conferire al vetro prodotto una colorazione non desiderata (l’ossido di ferro viene infatti utilizzato come colorante nella produzione di vetro “fumé” assieme all'ossido di manganese). Quindi, per la produzione di vetro artistico queste impurità devono essere ridotte il più possibile e non devono superare lo 0,01%. I giacimenti di quarzo da cui si possono ricavare sabbie aventi questa particolare purezza sono molto rari, per cui di norma vengono utilizzate sabbie meno pure preventivamente sottoposte a processi di purificazione (molto spinti soprattutto nel caso di vetri per ottica in cui le impurità devono essere inferiori allo 0,001%).

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La silice pura fonde a temperatura molto elevata (ben superiore ai 1700°C) e a seguito di rapido raffreddamento, dà vita ad un solido amorfo: il vetro di silice. Per ridurre la temperatura di fusione e rendere quindi più agevole la produzione del vetro, alla sabbia silicea vengono aggiunti degli agenti fondenti, o modificatori di reticolo, quali il carbonato di sodio (o soda, Na2CO3) e di potassio (o potassa, K2CO3). Il carbonato di sodio infatti, a circa 800°C si decompone in anidride carbonica (CO2) e ossido di sodio (NaO), il quale è in grado di reagire con la silice formando silicati di sodio, che fondono a temperature inferiori. La potassa possiede un'azione simile alla soda e inoltre ritarda il tempo di solidificazione del fuso vetroso, permettendo così di allungare l'intervallo di lavorazione. I composti stabilizzanti vengono introdotti per rinforzare il reticolo vetroso e migliorare le proprietà chimiche del vetro, che risulterà così stabile alle condizioni di utilizzo. Gli agenti stabilizzanti utilizzati sono gli ossidi bivalenti di calcio (CaO), magnesio (MgO), bario (BaO), piombo (PbO) e zinco (ZnO), oltre ad allumina (Al2O3) e anidride borica (B2O3). L'ossido di calcio deriva dalla decomposizione del carbonato di calcio (CaCO3) o della dolomite (CaMg(CO3)2), entrambi presenti nel marmo introdotto nella miscela vetrificabile, a 1000°C in CO2 e CaO mentre l'allumina deriva dalla fusione di feldspati alcalini ed è utilizzata per migliorare la resistenza del vetro e controllare la viscosità del fuso. Il piombo viene introdotto sotto forma di minio (2PbO·PbO2) e permette di abbassare il punto di fusione della miscela vetrificabile, di diminuire la durezza del vetro e di aumentarne la brillantezza. Essendo il vetro un materiale “permanente”, può essere riciclato indefinitamente senza che si alterino le proprietà intrinseche. Per questo, tra le materie di base della miscela, vi è sempre una certa quantità di scarti di vetro (detto “cotizzo”, vedi figura 2.7) derivato dalle lavorazioni successive che permette, oltre al risparmio di energia e materie prime, anche la velocizzazione del processo di fusione. FIGURA 2.7- COTIZZO DA LAVORAZIONE DI BACCHETTE COLORATE Una volta fusa, la miscela produce al suo interno bolle di gas derivate dalla decomposizione delle materie prime, che vengono eliminate aggiungendo i cosiddetti affinanti, quali arsenico triossido (vietato dal 2014 ed ora sostituito da altre sostanze), antimonio triossido e nitrati che, decomponendosi a 1200°C, liberano bolle di ossigeno che inglobano le bollicine presenti nel fuso e le portano in superficie, svolgendo anche un ruolo di omogeneizzazione del fuso stesso. Il vetro così ottenuto possiede una leggera colorazione causata dalle impurità presenti delle materie prime per cui è necessario aggiungere altre sostanze a funzione decolorante, quali ad esempio selenio e ossidi di terre rare, che consentono di ottenere un vetro trasparente ed incolore. La colorazione del vetro si ottiene grazie all'aggiunta di particolari minerali durante la fase di fusione ed il risultato finale sarà determinato dalle condizioni operative ossidanti o riducenti. La colorazione dipende ovviamente dal tipo di colorante (ionico o colloidale), dalla sua quantità e dalla storia termica di fusione e raffreddamento.

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AGENTI FORMATORI % sulla miscela vetrificabile. (S. Perissi, 1997) Sabbia silicea SiO2 50÷75 % Ossido di alluminio (allumina) Al2O3 0÷10 % Tetraborato di sodio decaidrato (borace) Na2B4O7⋅10H2O 0÷10 % Rottame di vetro 0÷30 % FONDENTI E STABILIZZANTI Carbonato di sodio (soda) Na2CO3 0÷20 % Carbonato di potassio (potassa) K2CO3 0÷20 % Carbonato di calcio (calcite) CaCO3 0÷10 % Carbonato di bario BaCO3 0 ÷ 5 %

Carbonato di calcio e magnesio (dolomite) MgCO3⋅ CaCO3 0 ÷ 3 % Tetraborato di sodio decaidrato (borace) Na2B4O7⋅ 10H2O 0÷10 % Ossido di zinco ZnO 0÷10 % Ossido di piombo (II, IV) (minio) Pb3O4 0÷30 % AFFINANTI E DECOLORANTI Nitrato di sodio NaNO3 0 ÷ 5 % Solfato di sodio Na2SO4 0 ÷ 5 % Nitrato di potassio KNO3 0 ÷ 5 % Carbone C 0 ÷ 1 % Triossido di arsenico As2O3 0 ÷ 1 % Triossido di antimonio Sb2O3 0 ÷ 1 % Selenio Se < 0,01‰ Ossido di cerio CeO2 “ Ossido di nichel NiO “ COLORANTI e OPACIZZANTI Ossido di ferro Fe2O3 < 0,1‰ Cromite FeO⋅ Cr2O3 “ Bicromato di potassio K2Cr2O7 “ Ossido di rame CuO “ Ossido di cobalto Co2O3 “ Ossido di manganese MnO2 “ Solfuro di cadmio CdS “ Fluoruro di calcio (spatofluoro) CaF2 0 ÷ 1 % Criolite naturale Na3AlF6 “ TABELLA 1 - AGENTI FORMATORI DEL VETRO CON LE RELATIVE PERCENTUALI COMPOSIZIONALI

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In Tabella 2 sono riportate le denominazioni di colorazione relative agli agenti coloranti, mentre in figura 2.8 è riportata la foto delle bacchette di vetro tipicamente usate nella produzione a lume.

Colorati ionici Condizioni ossidanti Condizioni riducenti

Ossido di cobalto Blu Blu

Ossido di rame Acquamarina Verde

Manganese Viola

Cobalto-Manganese Ametista, nero Ametista, nero

Ferro Giallo Verde-blu

Zolfo-Ferro Giallo-Ambra

Coloranti colloidali Condizioni ossidanti Condizioni riducenti

Zolfo-Cadmio Giallo Zolfo-Cadmio-Selenio Rosso Rame Rosso rubino Oro Rosso rubino Argento Giallo TABELLA 2 - AGENTI COLORANTI E RELATIVE COLORAZIONI PRODOTTE NEL VETRO FIGURA 2.8 – BACCHETTE IN VETRO COLORATO

2.3 I forni da vetro

Per la produzione del vetro artistico gli artigiani muranesi si servono di diversi forni aventi funzioni specifiche: forni fusori per la fusione della miscela vetrificabile, forni di riscaldamento che permettono di lavorare gli oggetti a caldo e forni di ricottura che consentono il raffreddamento controllato degli oggetti in vetro.

2.3.1 Caratteristiche e tipologie dei forni fusori

I forni impiegati per la fusione della miscela vetrificabile sono costituiti da materiali refrattari, ovvero materiali ceramici in grado di resistere chimicamente e meccanicamente a temperature

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estremamente elevate. Dal punto di vista microstrutturale, i refrattari si possono suddividere in due grandi categorie:

refrattari sinterizzati: prodotti a partire da materiale ceramico macinato fino a raggiungere la

dimensione di pochi micron, e successivamente compattato e poi cotto a temperatura superiore a quella di esercizio. Un tale processo dà vita a prodotti polifasici di una certa porosità, caratterizzati da granelli cristallini di varia dimensione circondati da una fase vetrosa legante;

refrattari elettrofusi: i più utilizzati nei forni per vetro, dove vengono impiegati per le zone

direttamente a contatto con il fuso; sono prodotti per fusione di materie prime refrattarie (Al2O3, ZrO2, SiO2) a temperature di 2000 - 2200°C in forni ad arco e successivo colaggio in appositi stampi/lingottiere.

Forni a crogiolo (meltingpot)

I forni a crogiolo (2.9 e 2.10) sono costruiti su una base con griglia in acciaio, con putrelle e tiranti, uno strato più esterno di mattone isolante silico-alluminoso (∼100 mm) seguito da uno strato di fibra ceramica per l’isolamento termico (∼20 mm). La parte interna della volta è costituita da mattoni refrattari in silice al 98%, capaci di resistere alle elevate temperature raggiunte all’interno del forno in fase di fondita serale, ed al contempo in grado di disperdere il calore durante la notte, con i bruciatori regolati al minimo, in modo da raggiungere le temperature richieste dalle lavorazioni che avvengono la mattina successiva. La silice crea anche un effetto di riflessione della radiazione termica, che contribuisce all’aumento della temperatura interna al forno senza consumi ulteriori di combustibile. La parte più interna delle pareti verticali (a contatto con l’atmosfera di combustione) è formata da due strati di mattoni silico-alluminosi densi (60% di Al2O3, ρ=2.40 g/cm3 (www.aldero.com, s.d.)), mentre quella più esterna da uno strato di mattoni silico-alluminosi porosi (50% di Al2O3, ρ=0.8 g/cm3 ). Il crogiolo all’interno del quale vengono caricate e fuse le materie prime poggia su un letto di materiale elettrofuso di 100 mm, ed è costituito da materiale refrattario silico-alluminoso

denso con contenuto di Al2O3 tra 60÷80% (ρ=2.50 g/cm3). Considerando un tempo di vita del crogiolo compreso tra i 3 e i 5 mesi, si ipotizza un consumo annuale di circa 3 crogioli per forno.

Nei forni a crogiolo tipici muranesi, a suola freddaa, il riscaldamento avviene per mezzo di un bruciatore a metano, che riscalda la camera interna in modo uniforme; l’efficienza energetica del processo viene spesso ottimizzata attraverso l’uso di recuperatori di calore, che possono incrementare fino a 350°C la temperatura interna, sfruttando il calore contenuto nei fumi di combustione per preriscaldare l’aria comburente. a I forni a crogiolo a suola calda riscaldano anche il piano su cui poggia il crogiolo portando ad una temperatura più uniforme del fuso. Sono utilizzati per la lavorazione del vetro a piombo o boro-silicato. bocca del forno FIGURA 0.2 – TIPICO FORNO A CROGIOLO MURANESE

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Nei forni a crogiolo la fusione della miscela vetrificabile avviene in un crogiolo di materiale refrattario inserito al centro del forno, ed è ciclicamente seguita dalla lavorazione del fuso e dal nuovo caricamento della miscela (il processo è pertanto ciclico e discontinuo). Prima dell’inserimento in forno per il primo ciclo di fusione, il crogiolo deve essere pre-riscaldato lentamente per alcuni giorni fino a 1400°C, per evitare rotture dovute alla dilatazione termica; in esercizio il crogiolo opera a temperature comprese tra circa 1400°C durante le fasi di fondita e circa 1000°C durante le fasi di lavorazione artistica.

Questa tipologia di forno è impiegata non solo per il vetro artistico, ma anche per piccole produzioni che richiedono frequenti variazioni di composizione (es. vetro ottico o speciale per usi scientifici). La dimensione produttiva è dipendente dalla dimensione e dal numero di crogioli, che varia da uno a due per forno. Essi conferiscono una maggior elasticità all'impianto e prevedono un investimento iniziale basso. La capacità del crogiolo varia dai 10 kg (“ninfe)” ai 1000-1500 kg. Per capacità maggiori esistono vaschette da 1000-3000 kg al giorno (R. Dall’Igna, 2012).

Forni a vasca giornaliera (day tank)

I forni a vasca giornaliera vengono utilizzati nelle produzioni artigianali di vetrerie di grandi dimensioni e sono dotati di vasche formate da parallelepipedi di materiale refrattario elettrofuso a base di silice-allumina-zirconia (AZS), molto resistente alla corrosione del vetro fuso (Errore.

L'origine riferimento non è stata trovata.) ; nella vasca la miscela vetrificabile viene riscaldata per

irraggiamento da una fiamma posta al di sopra del bagno di fusione. Al giorno d’oggi questi forni sono sempre dotati di un recuperatore di calore, che permette di riscaldare la vasca a temperatura più alta a parità di consumo di gas (Errore.

L'origine riferimento non è stata trovata.). FIGURA 0.3 – INTERNO DI UN FORNO A CROGIOLO

FIGURA 0.5 FORNO A VASCA CON RECUPERATORE DI CALORE. FIGURA 0.4 – DETTAGLI COSTRUTTIVI DI UN FORNO A VASCA vòlta suola recuperatore di calore

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Forni a bacino

Il forno a bacino viene utilizzato a livello industriale nella produzione continua del vetro per contenitori e per finestre, ed è formato da una grande vasca rettangolare principalmente costruita usando materiale elettrofuso AZS (di diversa natura a seconda del punto specifico), eccezion fatta per la volta, usualmente in silice. Il processo di produzione è totalmente automatizzato e permette una produzione da meno di 100 a 1000 t di vetro al giorno. La miscela viene caricata in continuo ad un estremo della vasca, e progressivamente fonde, si omogeneizza e si affina man mano che fluisce verso l’estremo opposto, dove il vetro fuso esce da una gola sommersa per poi arrivare alla zona di lavorazione. E’ una tipologia assente nell’ambito della produzione artistica muranese.

2.3.2 Forni di riscaldamento

I forni di riscaldamento (figura 2.13), chiamati anche “Glory Hole”, vengono utilizzati per mantenere il vetro allo stato fuso durante lavorazioni particolari, raggiungono temperature fino a 1400°C e sono dotati di un bruciatore e una / due bocche di lavoro. FIGURA 2.13 - FORNO DI RISCALDAMENTO

2.3.3 Forni di ricottura

Una volta lavorato, il vetro si trova ancora ad una temperatura molto elevata (500-600°C) e deve essere raffreddato lentamente per evitare rotture dovute al rapido raffreddamento della superficie rispetto all’interno. Questo avviene, nell’ambito della produzione artistica, in muffole statiche (figura 2.14), ovvero in camere rettangolari costituite da materiale refrattario e fibre ceramiche isolanti, dotate di uno o due bruciatori, circolazione forzata d’aria e regolazione automatica della temperatura.

FIGURA 2.14 – MUFFOLA STATICA (MT FORNI)

2.4 Il processo di produzione

Le fasi principali del ciclo di lavorazione del vetro artistico sono illustrate nel diagramma in Figura 2.15 e comprendono: • preparazione della miscela vetrificabile (composizione), • fusione, • formatura e ricottura dei manufatti (attività di fornace), • taglio e finitura dei manufatti (moleria).

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FIGURA 2.15 – DIAGRAMMA DI PROCESSO DELLA PRODUZIONE DI VETRO ARTISTICO E DEL TRATTAMENTO FUMI. In particolare, la fusione della miscela inizia tipicamente nel tardo pomeriggio (al termine del turno di lavorazione diurno) e comprende diverse sotto-fasi, che hanno luogo sempre nello stesso forno discontinuo e che permettono di ottenere una certa quantità di vetro fuso da lavorare durante la giornata successiva: • fusione e omogeneizzazione della miscela vetrificabile, • affinaggio per l'eliminazione delle bolle di gas, • riposo per il riassorbimento delle piccole bolle di gas e per raggiungere la temperatura di lavorazione. La lavorazione del vetro è un processo ad alto consumo energetico specifico ed il calore generato dagli impianti viene per la maggior parte dissipato attraverso le pareti delle apparecchiature ed i fumi di combustione. Attualmente però, quasi tutti i forni presenti nelle fornaci muranesi sono dotati di recuperatori di calore che consentono di riutilizzare il calore presente nelle emissioni per il preriscaldamento dei forni fusori.

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Composizione

Le materie prime, contenute in vasche di deposito in legno o di metallo, in sacchi o raccolte in cumuli (sabbia silicea) vengono prelevate, pesate e introdotte in un miscelatore rotante a botte per essere omogeneizzate (circa 20 minuti). Ai componenti di base, sabbia silicea, marmo e soda, vengono aggiunti i componenti minori: affinanti, coloranti, decoloranti, etc. e una piccola quantità di acqua che ostacola la segregazione (2-4% (R. Dall’Igna, 2012)). Oltre alle materie prime viene aggiunta una percentuale tra il 10 e il 15% di rottame di vetro residuo delle lavorazioni precedenti, chiamato

cotizzo, che permette di ridurre la temperatura di fusione della miscela oltre che a risparmiare

materie prime. Per prevenire i rischi dovuti all’inalazione di composti dannosi per la salute è previsto l’uso di cappe aspiranti poste sopra i miscelatori.

Fusione (h 17.00)

La miscela vetrificabile umidificata viene infornata, assieme al rottame di vetro, nel forno fusorio a crogioli o a vasca alimentato a metano o elettrico, che viene mantenuto ad una temperatura compresa tra i 1300 e i 1500°C per alcune ore. La bocca di carico della composizione coincide anche con la bocca di levata del fuso. L'operazione di infornaggio viene solitamente eseguita da due operatori detti sottofonditori, mentre il processo di fusione viene seguito dal fonditore, che controlla l'andamento delle temperature prelevando campioni di vetro e regolando la temperatura in base alle necessità. La fusione comporta le seguenti fasi (durata complessiva 6-8 h): • fusione dei componenti a punto di fusione più basso, • reazioni chimiche tra i componenti e la miscela, • dissoluzione delle particelle solide. La miscela vetrificabile possiede bassa conducibilità termica, per cui la fusione inizia in superficie e a contatto col vetro sottostante o delle pareti del crogiolo. Successivamente il calore si propaga agli strati interni fino a completare la fusione di tutta la miscela. L’infornaggio avviene a più riprese, sino al riempimento completo del crogiolo.

Affinaggio (h 22:00 - 02:00)

Durante la fusione della miscela si forma una grande quantità di bolle a causa dei gas generati dalla decomposizione dei carbonati e di altri componenti. Queste bolle vengono eliminate durante l’affinaggio, che permette anche l'omogeneizzazione della massa fusa ad opera delle bolle di gas provenienti dalla decomposizione termica delle sostanze affinanti (durata 3-6 h). La temperatura viene aumentata fino a 1450-1600°C in modo da diminuire la viscosità della massa fluida, ridurre la solubilità dei gas disciolti e permettere agli affinanti di compiere la loro azione.

Riposo

Il vetro a questo punto contiene piccolissime bolle difficilmente eliminabili e possiede una viscosità troppo bassa per essere lavorabile manualmente. In questa fase la massa fluida viene raffreddata lentamente in modo da consentire il riassorbimento delle piccole bolle e rendere il vetro lavorabile (durata 4-6 h).

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Lavorazione (h 7:00 - 16:00)

Alla fine del periodo di riposo il vetro viene mantenuto ad una temperatura di circa di 1100°C, in corrispondenza della quale possiede una viscosità tale da poter mantenere la forma che gli viene conferita con gli utensili di modellazione. Il vetro viene prelevato con canne d'acciaio o puntelli e sottoposto a lavorazioni di formatura e trattamento con tecniche specifiche in base all'effetto desiderato (soffiatura, taglio manuale, pressatura) utilizzando anche stampi in legno di pero o in ghisa. Per alcune lavorazioni particolari è necessario un ulteriore riscaldamento dei pezzi in forni da riscaldo.

Ricottura

Ultimata la lavorazione, l'oggetto va lasciato raffreddare lentamente fino a temperatura ambiente per prevenire stress interni, utilizzando un forno di ricottura, che può essere: a nastro: tunnel in cui è impostato nello spazio un gradiente di temperatura, percorso dagli oggetti da raffreddare (grandi produzioni di oggetti di piccolo spessore).

statico: a forma di armadio con ripiani removibili in cui vengono inseriti gli oggetti e che viene

raffreddato lentamente nel tempo fino alla temperatura ambiente (tipo comunemente utilizzato a Murano).

Rifinitura

Una volta raffreddati, i manufatti possono essere sottoposti a lavorazioni di rifinitura a freddo quali taglio, foratura, incisione con mole abrasive, lucidatura, levigatura e scalottatura a freddo.

Molatura

La rifinitura in moleria (Formenton 2002) si può suddividere in diverse fasi che comprendono taglio, incisione, levigatura e lucidatura. Le attrezzature utilizzate sono:

• levigatrici a nastro, in cui nastri abrasivi ruotano velocemente su cilindri di materiale flessibile. Possono lavorare a secco o a umido;

• mole diamantate ad umido (per lavorazione del vetro artistico), composte da un disco diamantato (o mola in pietra arenaria a grana molto fine), azionato da un motore elettrico, che ruota ad alta velocità; sule mole viene spruzzata acqua per ridurre l'attrito, il surriscaldamento del pezzo e la polverosità;

• lucidatrici con dischi di sughero, feltro o stoffa cosparsi di una poltiglia di acqua e pomice o ossido di cerio (250g/l).

Alternativamente alla lucidatura meccanica vi è la lucidatura chimica, che utilizza soluzioni acquose di acido fluoridrico O acido solforico in cui i pezzi vengono immersi per breve tempo. Altre lavorazioni

(decorazioni, incisioni, etc.) non vengono considerate in questa analisi.

Il processo di produzione in forno a crogioli ed a vasca quindi è discontinuo poiché le temperature vengono modificate nel tempo in base alla fase della lavorazione in atto. Una volta svuotato il

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crogiolo o la vasca, il ciclo riprende dall'inizio. Il ciclo termico dipende dal tipo di forno e dalla quantità e tipologia di vetro lavorato.

2.5 Il trattamento fumi

E' infine opportuno menzionare la presenza in molte fornaci di sietemi per il trattamento fumi. I camini dei forni fusori immettono infatti nell'ambiente notevoli quantità di inquinanti derivati dalla fusione del vetro, tra cui polveri sottili e metalli. Questo problema ha provocato in un passato anche recente grande attenzione e preoccupazione, soprattutto per i livelli altissimi di presenza nell'aria di arsenico e cadmio. Di fatto, il problema è stato affrontato alla radice, limitando o addirittura proibendo l'utilizzo di sali di metalli ad alta ecotossicità. Se da una parte questo a consentito una normalizzazione della situazione dal punti di vista sia normativo sia del potenziale pericolo sanitario, dall'altra ha costretto a rivedere diverse "ricette" di produzione di vetri colorati, con una conseguente necessità da parte delle fornaci di riadattare i protocolli di preparazione alla nuova situazione (Beggio 2012, Falcone 2012). I fumi devono comunque essere trattati con adeguati sistemi di abbattimento dotati di filtri a maniche, che consistono essenzialmente in sacchi cilindrici di tessuto in cui entrano i gas ricchi di polveri.

Queste ultime si depositano sulla superficie delle maniche, che vengono periodicamente scosse con getti di aria compressa per mantenere l’efficacia della filtrazione, mentre i gas puliti vengono emessi nell’ambiente. Le polveri vengono raccolte alla base del sistema ed inviate ad

impianti di smaltimento specifici. Nelle figure 2.16 e 2.17 sono mostrati rispettivamente l'impianto tipico e lo schema di funzionanto di un filtro a maniche. Nell'ambito di questo lavoro di tesi, l'impatto degli inquinanti emessi non fa parte dell'analisi emergetica sviluppata nei successivi capitoli, in

quanto il recente

cambiamento del quadro normativo impedisce di aggiornare correttamente ad oggi i valori di carico ambientale, e quindi di calcolare -tra gli indicatori emergetici- quelli relativi ai carichi downstream. Ciò ovviamente non inficia i risultati dell'analisi integrata, che ha come principale obiettivo quello di definire dal punto di vista sistemico le modalità di funzionamento del sistema stesso, al fine di poterne studiare le consizioni di sostenibilità e le eventuali criticità intrinseche. FIGURA 0.16 – SISTEMA DI ABBATTIMENTO FUMI DI UNA FORNACE DI MEDIE DIMENSIONI FIGURA 0.17 – SCHEMA DI FUNZIONAMENTO DI UN FILTRO A MANICHE

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Bibliografia

M. Beggio, S. Hreglich, P. Scanferla, S. Zuin, Analisi comparativa del Ciclo di Vita dei manufatti artistici in vetro prodotti nelle fornaci di Murano utilizzando miscele vetrificabili contenenti arsenico o sostanze ad esso alternative, Riv. Staz. Sper. Vetro 42 (2012) 13-19.

R. Dall’Igna, A. D'Este, S. Maurina, I Forni da Vetro, Stazione Sperimentale del Vetro, dispense del Corso per tecnici vetrari, novembre 2012.

R. Falcone, S. Hreglich, B. Profilo, Sostituzione dell'arsenico nelle miscele vetrificabili per la produzione di vetri colorati, Riv. Staz. Sper. Vetro 42 (2012) 3-12. G.M. Formenton, L'uso dell'acqua nell'industria del vetro artistico, Riv. Staz. Sper. Vetro I-32 (2002) 19-27. S. Perissi, A. Zingoni, M. Bartalini, Rischi e soluzioni nell'industria del vetro e del cristallo lavorati a mano, Profili di rischio e soluzioni, Quaderno CEDIF-ARPAT n. 3, 1997.

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Capitolo 3

L'analisi emergetica

Abstract

In questo capitolo, vengono descritti i fondamenti dell'analisi emergetica, a partire dalla costruzione dei diagrammi emergetici e dell'algebra dell'emergia per arrivare quindi alla definizione dei più utilizzati indicatori emergetici.

3.1 L'Emergia

Il termine “EMERGIA” è il corrispondente italiano dell’anglosassone “EMERGY”, a sua volta derivato dalla locuzione “EMbodied enERGY” (energia incorporata). I fondamenti dell’analisi emergetica (in letteratura si ritrovano le nomenclature emergy analysis, emergy accounting, emergy evaluation, emergy synthesis) costituiscono il principale frutto del lavoro di Howard T. Odum (Odum 1971, 1980, 1984, 1987, 1988, 1994, 1996, 2000, 2006, 2007), una delle personalità scientifiche più creative e produttive nel campo dell’analisi sistemica degli ecosistemi, dei sistemi energetici e di quelli socio-economici in generale, fondatore del Centre for Environmental Policy (CEP) presso la University of Florida a Gainesville, negli Stati Uniti. A partire dagli anni ’70 fino alla sua scomparsa, H.T. Odum ha strutturato e applicato l’analisi emergetica a un range sorprendentemente esteso di sistemi (vedi Brown 2004a) riguardanti una moltitudine di discipline, tra cui ecologia, economia, genetica, informatica, fisica, chimica, sociologia e architettura (oltre naturalmente scienze dei sistemi complessi), ma soprattutto ha creato la scuola di pensiero che attualmente sviluppa l’analisi sistemica basata sull’emergia (vedi Brown 2003, Patten 2003, King 2004). L’evoluzione della struttura concettuale facente capo al concetto di emergia durante gli ultimi decenni è disponibile, assieme a una bibliografia completa della produzione di H.T. Odum, nel sito del CEP (CEPa), dove sono rintracciabili anche i Proceedings delle passate edizioni della Conferenza Biennale sull’Emergia, tenuta presso il CEP a partire dal 1999 (CEPb).

3.1.1 Il framework concettuale

Da un punto di vista concettuale, l’analisi emergetica sposta l’attenzione dal “valore” (qualitativo e/o quantitativo) attribuito a un prodotto o un servizio dall’utente (receiver-side quality) a quello attribuito rendicontando tutto ciò che a monte è stato necessario “investire” per creare il prodotto o servizio in questione (donor-side quality). L’emergia, definita come l’energia disponibile di un tipo

usata direttamente o indirettamente nelle trasformazioni che hanno generato un prodotto o un servizio (Odum 1996), è quindi innanzitutto la grandezza che quantifica la memoria di quanto è stato investito, in termini di energia coinvolta direttamente o indirettamente, per realizzare qualcosa. Non

si parlarà perciò di emergia allo stesso modo con cui si parla di energia, di exergia o di altri potenziali termodinamici, dato che l’emergia si riferisce alle risorse impiegate, da cui il senso stesso dell’utilizzo della nomenclatura “energia incorporata”. Diverse connotazioni concettuali caratterizzano l’analisi emergetica: in primis, lo spostamento di attenzione verso le risorse necessarie alla creazione dell’oggetto di studio (bene, servizio, comparto, comunità, ecosistema, ecc.) lega fortemente l’analisi al concetto stesso di sostenibilità, nella misura in cui la quantificazione

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dell’investimento è anche una quantificazione del costo di sostituzione, rientrando quindi nella prospettiva della rinnovabilità di una risorsa in termini sia di costi sia di tempo necessario alla sua rigenerazione. In seconda istanza, l’idea di rendicontare emergeticamente tutte le forme di investimento (da parte della società oppure dell’ecosistema terrestre) che hanno dato luogo all’oggetto di studio colloca in modo molto forte l’analisi emergetica all’interno del systems thinking, individuando perciò nella comprensione del funzionamento sistemico e nell’individuazione di appropriati punti di leveraggio uno degli scopi primari dell’emergy synthesis stessa.

Allo scopo di rendere quantitativa l’analisi integrata, è necessario quindi individuare un’unità comune e un’algebra contestuale che consentano di rendicontare assieme quantità, flussi e processi seguendone adeguatamente le dinamiche sistemiche. Di fatto, i flussi che concorrono alla creazione e mantenimento di un ordine sistemico sono flussi di materia, energia e informazione, a cui vanno aggiunte, nel caso di sistemi socio-economici, le transazioni di denaro, che costituisce perciò un’ulteriore grandezza da includere nell’analisi. Considerando poi l’energia nella sua più ampia definizione concettuale, cioè come qualsiasi proprietà posseduta da qualcosa che possa essere convertita in calore producendo lavoro, appare chiaro come debba essere possibile legare a un contenuto energetico anche flussi di materia e informazione, nella misura in cui questi concorrono a realizzare il lavoro a cui (intenzionalmente o no) il sistema in oggetto è preposto. L’unità di emergia è detta emjoule. Riferendosi in particolare all’emergia solare, e cioè ai Joules di energia solare connessi a tutti i contributi energetici da cui è derivata la produzione di una certa risorsa, l’unità è detta solar equivalent energy, espressa in solar emjoules (abbreviato seJ). Per stimare quantitativamente l’emergia, è necessario quindi ricostruire i vari contributi in termini di energia solare responsabile a sua volta della loro produzione. L’emergia è una quantità estensiva ma non è una funzione di stato, in quanto l’emergia di qualcosa dipende dal processo che ha creato quel qualcosa. Maggiore è il lavoro fatto per produrlo, maggiore sarà l’energia disponibile che è stata via via trasformata nel processo di produzione. All’interno del valore emergetico di una risorsa andranno valutati e inclusi i contributi forniti dall’ambiente insieme ai servizi umani risultanti dalle attività antropiche connesse al lavoro necessario alla creazione della risorsa. Un alto flusso emergetico potrà quindi venire da una scarsa efficienza di utilizzo delle risorse, nonché indicare un alto livello di organizzazione sistemica. I due principi alla base del concetto stesso di sostenibilità riguardano da una parte l’utilizzo delle risorse, che non vanno consumate ad una velocità maggiore di quella necessaria alla geobiosfera per sostituirle, e dall’altra la creazione di scarti o inquinanti, che non vanno prodotti a una velocità maggiore di quella necessaria all’ambiente per il loro assorbimento. Il secondo aspetto è più o meno facilmente suscettibile di un’analisi quantitativa, per quanto di difficile applicazione su scale spaziali globali e sul lungo termine, come dimostrato dall’inefficacia delle azioni finora intraprese nel campo dei cambiamenti climatici. La difficoltà a quantificare il primo aspetto ha invece direttamente a che fare con la definizione stessa e la misurabilità del “consumo di risorsa”. Ad esempio, gli stessi Joule di energia elettrica possono richiedere un “investimento” in risorse significativamente diverso a seconda della loro origine, dato che la produzione di elettricità può passare attraverso processi che consumano carbone o petrolio tanto quanto processi che utilizzano vento, acqua, uranio, ecc.. La qualità dell’energia diventa quindi essenziale -affiancata alla sua quantità- in qualsiasi analisi sistemica di processo. Input energetici di bassa qualità sono tipicamente richiesti per dar luogo a energia di più alta qualità, che quantitativamente risulterà significativamente minore della somma delle energie necessarie a produrla. Ciò che è importante è che l’energia di livello qualitativo più alto, risultante dall’interazione degli input energetici di minor qualità, sarà accompagnata da una maggiore potenzialità di esercitare una funzione di controllo sul sistema in oggetto (Odum 1996).

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La creazione e il mantenimento di strutture sistemiche altamente complesse può perciò richiedere alti flussi emergetici, che corrisponderanno a flussi di energia di qualità elevata, necessaria a esercitare controlli di tipo reatroattivo nonché ad amplificare altri tipi di flusso, il cui contenuto emergetico verrà misurato e tenuto in conto anche quando si tratta di quantità tipicamente trascurate nelle analisi economiche o energetiche tradizionali in quanto non computabili su base monetaria o energetica. L’input emergetico è quindi direttamente legato allo sviluppo dei sistemi in termini di crescita di complessità (e.g., di biodiversità), siano essi sistemi di natura biologica o socio-economica, questi ultimi legati tradizionalmente ad analisi quantitative limitate ai flussi monetizzabili, per i quali la mancata attribuzione di “valore” agli input naturali provenienti dall’ambiente rende inefficace qualsiasi determinazione dell’effettivo carico sistemico di utilizzo delle risorse. L’emergia, in quanto misura del costo bio-chimico-fisico di creazione di un prodotto, rappresenta perciò la reale dimensione del processo sulla scala della biosfera, indicando inoltre l’impatto del processo sulla biosfera stessa. Il flusso emergetico legato a un processo o sistema diventa quindi una misura del costo dei servizi ambientali che supportano e hanno supportato il processo, ponendosi quindi come quantità elettiva per le analisi integrate di sostenibilità sistemica.

3.1.2 L’efficienza dei sistemi

A.J. Lotka, negli anni ’20 del secolo scorso (Lotka 1925), teorizzò che l’apparizione di meccanismi auto-catalitici (feedbacks) in sistemi complessi fosse legata a meccanismi di massimizzazione della potenza di un sistema, intesa fisicamente come lavoro per unità di tempo. Il Maximum Power

Principle di Lotka prevede infatti che strutturazioni sistemiche per le quali venga processata più energia utilizzabile prevarranno nella competizione con strutture alternative, poiché la disponibilità di un maggior quantitativo di energia fornirà risorse e soprattutto garantirà un miglior adattamento alle condizioni ambientali. H.T. Odum ha rivisto questo principio in chiave emergetica proponendo il Maximum Empower Principle, che individua nell’empower (emergia per unità di tempo) la quantità che i sistemi tendono a massimizzare in sede di auto-organizzazione, coinvolgendo cioè la totalità delle risorse ciascuna pesata col proprio fattore di qualità. L’emergia viene passata interamente da un livello gerarchico inferiore ad un livello superiore, e l’empower viene massimizzato per ciascuno dei livelli attraverso la formazione di adeguati feedback loops. Alla massimizzazione dell’empower è quindi assegnato il meccanismo con cui viene garantita a tutti i livelli la crescita equilibrata e dinamica di ciascun sottoinsieme, e perciò la stabilità del sistema stesso. Per usare le parole di Odum, “Prevailing systems are those whose designs maximize empower by reinforcing resource intake at the optimum efficiency” (Odum 1996). In termini sistemici, la “strategia” migliore sarà quella di utilizzare un feedback come moltiplicatore, cosicché sia le entrate (intake) sia il loro uso vengano massimizzati. E’ interessante osservare come il Maximum Empower Principle assieme ai meccanismi propri della selezione naturale tolgano al concetto di massima efficienza il ruolo di parametro chiave evolutivo. I sistemi complessi si adattano cioè alle condizioni ambientali ottimizzando e non necessariamente massimizzando la loro efficienza, in modo da raggiungere e mantenere massimo il prodotto globale per unità di tempo (vedi ad esempio il processo fotosintetico).

La figura 3.1 (Ulgiati 2009) mostra schematicamente l’organizzazione di un sistema per cui energia e materia convergono in livelli via via più elevati attraverso processi paralleli e gerarchici. Il sistema si dota di retroazioni atte a migliorare le proprie performances, feedbacks che provvedono a far sì che ciascuna unità riceva un rinforzo dall’unità successiva della catena mediante una quantità relativamente piccola di energia di alta qualità, in grado di fare un lavoro relativamente grande in

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quanto più concentrata. FIG. 3.1. ORGANIZZAZIONE GERARCHICA DI UN SISTEMA CON I RELATIVI FLUSSI ENERGETICI (ULGIATI 2009).

3.2 I diagrammi emergetici

La metodologia generale per l’analisi emergetica di un sistema, nell’assunzione di stato stazionario, è stata introdotta da Odum ed è tipicamente organizzata secondo tre steps fondamentali: 1. preparazione di un diagramma dell’oggetto di studio; 2. preparazione di una tabella con l’inventario dei flussi e determinazione dei corrispondenti valori emergetici; 3. calcolo degli indicatori sistemici di cui allo scopo dell’analisi. Il linguaggio e la sintassi di questa metodologia sono stati sviluppati attraverso il continuo feedback tra le basi concettuali della teoria sistemica, l’osservazione, le simulazioni e i diagrammi stessi, forzando così una percezione sinottica della relazione fra le componenti e i processi attraverso quello che lo stesso Odum chiamava un “macroscopio” (macroscope). Il diagramma del sistema dovrà contenere tutti i flussi che concorrono a definirne il “funzionamento” assieme ai processi e agli stocks, evidenziando nel contempo, com’è tipico dell’analisi sistemica, i meccanismi di feedback interni al sistema stesso. E’ opportuno sottolineare l’importanza della scelta del confine (boundary) del sistema: dal punto di vista spaziale, il confine definisce la distinzione tra flussi esterni e interni al sistema, e tra input e output; dal punto di vista temporale, il confine determinerà la dimensione temporale della valutazione emergetica, affinché i dati raccolti risultino tutti all’interno dello stesso dominio (ad esempio, flusso per anno). I principali elementi dei diagrammi emergetici sono mutuati dal linguaggio grafico di solito utilizzato per le reti energetiche, e sono mostrati in figura 3.2.

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FIG. 3.2. ELEMENTI GRAFICI DEI DIAGRAMMI EMERGETICI.

Il diagramma emergetico sarà costruito secondo prassi grafiche che rendono conto anche gerarchicamente e temporalmente di ciò che avviene all’interno del sistema (Odum 1996), la cui caratterizzazione grafica conterrà livelli di strutturazione e specificazione dei sottosistemi e dei processi commisurata all’importanza (concettuale e quantitativa) che gli stessi assumono nello studio. Verrà privilegiato quindi un livello descrittivo che contenga le dinamiche di sistema rilevanti ai fini del calcolo degli indicatori, vale dire allo scopo stesso della valutazione emergetica, senza quindi esplicitare un livello di struttura fine non necessario allo specifico studio. In figura 3.3 è rappresentato a titolo di esempio il diagramma generale per un processo produttivo. In letteratura

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sono rintracciabili numerosissimi esempi di studi emergetici per i più disparati sistemi e/o processi, a partire dall’intera geobiosfera (Odum 2000b). FIG. 3.3. DIAGRAMMA EMERGETICO PER UN GENERICO PROCESSO PRODUTTIVO. L’analisi emergetica è stata applicata ad esempio a una singola città o villaggio (Lei 2008, Pulselli 2008, Listyawati 2014), a una Nazione (Ulgiati 1994, Geng 2013), a un comparto produttivo (Viglia 2011, Wilfart 2013), a un ecosistema (Ulgiati 2011a, Campbell 2012, Franzese 2014), a settori sociali come l’istruzione superiore in una nazione (Campbell 2010), a parchi industriali (Geng 2010), a processi economici (Brown 2009a, 2011, Campbell 2014), a strutture universitarie (Campbell 2010, Gonella 2014) fino ad arrivare ad analisi più specifiche, come nel caso di impianti di produzione energetica (Ulgiati 2002, Brown 2004b, Tonon 2006, Franzese 2009, Lu 2012), produzione elettrica da fotovoltaico (Brown 2002, 2012), riciclo (Yang 2003) o addirittura singolo edificio (Meillaud 2005). In figura 3.4 è mostrato a titolo esemplificativo il diagramma emergetico di un impianto termico (Brown 2004b). Va sottolineato come la definizione e la costruzione di un diagramma emergetico non costituisca soltanto lo step necessario all’individuazione dei flussi, con la conseguente successiva determinazione quantitativa degli stessi, ma consenta di evidenziare la rete di feedbacks interni e di sottosistemi che intervengono nella strutturazione e quindi nell’operatività del sistema oggetto di studio. Questo permette da una parte di computare correttamente i flussi delle grandezze in gioco e dall’altra di stabilire anche le connessioni logiche e i rapporti di causa-effetto alla base dello scambio tra elementi del sistema di flussi diversi, ad esempio lavoro, denaro, informazione, materiali. Ciò è allo stesso tempo peculiare ed essenziale dell’analisi emergetica, volta appunto a definire un sistema di quantificazione integrata di tutte le interazioni che governano il funzionamento di un sistema e una descrizione sistemica che aiuti la comprensione dei meccanismi di funzionamento intrinseci del sistema.

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FIG. 3.4. DIAGRAMMA EMERGETICO DI UN IMPIANTO TERMICO DI PRODUZIONE DI ENERGIA (BROWN 2004B).

E’ interessante rilevare in questo senso il possibile ruolo giocato dai “serbatoi di immagine”, e i conseguenti flussi di informazione connessi, ruolo che può risultare decisivo nel garantire la sostenibilità in diverse tipologie di sistema.

3.3 Determinazione dei flussi emergetici

A partire dal diagramma emergetico, i dati relativi ai flussi vengono convertiti in unità emergetiche, e quindi contabilizzati in modo da ottenere il flusso emergetico e i rispettivi indicatori sistemici desiderati. L’emergia associata a un flusso viene calcolata a partire da un valore emergetico unitario (UEV, Unit Emergy Value), legato all’emergia richiesta per generare un’unità di output di un certo prodotto, sia esso costituito da massa, energia, lavoro, denaro, ecc.. Gli UEV sono quindi una misura di quanto si deve impiegare per generare un’unità di output, indipendentemente dal fatto che gli input al processo siano rinnovabili o meno. In questo senso, gli UEV sono degli indicatori di efficienza globale, nonché indicatori della gerarchia delle quantità e dei processi coinvolti. Operativamente, ciascun flusso espresso nelle sue unità usuali verrà perciò moltiplicato per il rispettivo UEV. Di seguito sono definiti gli UEV più usati nell’analisi emergetica.

Trasformità (transformity)

Definita come l’input emergetico per unità di energia disponibile in output. Ad esempio, se per generare un Joule di energia da un certo materiale sono richiesti tot emjoules solari, allora la trasformità di quel materiale sarà di tot seJ/J, laddove la trasformità solare della luce del Sole assorbita dalla Terra sarà 1 per definizione. La trasformità di un prodotto sarà quindi calcolata sommando tutti i flussi emergetici in ingresso al processo e dividendo poi per l’energia del prodotto, convertendo così le diverse forme di energia in emergia della stessa forma. Dato un

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certo prodotto ottenuto a partire da processi diversi, un valore di transformity più basso sarà indice di una maggiore efficienza in termini di input necessari per unità di prodotto, efficienza d’altra parte scorrelata da quella di tipo economico, basata sul mercato e che non riflette la realtà fisica delle opzioni d’uso di una risorsa.

Emergia specifica (specific emergy)

Definita come l’emergia per unità di massa di output, espressa in emergia solare per grammo (seJ/g). Dato che è comunque richiesta energia per concentrare un certo materiale, l’emergia specifica di una certa sostanza crescerà con la sua concentrazione, spaziale e/o chimica.

Emergia per unità di denaro (emergy per unit money)

Definita come l’emergia impiegata nella generazione di un’unità di prodotto economico, espressa nella valuta monetaria appropriata. Questo UEV, espresso quindi in seJ/€, seJ/$, seJ/¥, ecc., viene utilizzato per convertire in emergia i pagamenti in denaro, rappresentando quindi la quantità di emergia associata al potere d’acquisto di una data moneta. Di fatto, la quantità di risorse associata al potere d’acquisto di una certa valuta dipende dalla quantità di denaro a supporto dell’economia locale nonché dalla quantità di denaro circolante. Una stima media dell’emergia per unità di denaro può essere ottenuta perciò dividendo l’utilizzo emergetico totale di una Nazione per il suo prodotto interno lordo, costituendo così un parametro, dipendente dalla specifica Nazione, in grado di evidenziare squilibri o iniquità nella bilancia delle attività di import-export.

Costo emergetico del lavoro (emergy cost of labor)

Definito come l’emergia che supporta un’unità di lavoro direttamente fornita a un processo. Si tratta dell’emergia che si è resa necessaria per consentire al lavoratore di prestare la sua opera, incluso cibo, trasporti, apprendistato, ecc.. Questo indicatore viene espresso sia in termini di emergia per unità di denaro guadagnato dal lavoratore, seJ/€, sia in termini di emergia su tempo (seJ/anno, seJ/h). Il lavoro indiretto richiesto al di fuori della finestra di analisi per fornire gli input a un processo viene di solito misurato in termini di costi del servizio, perciò in seJ/€. La tabella per la valutazione emergetica è costruita riportando flussi per unità di tempo (tipicamente l’anno) nel caso di analisi di processo, mentre nel caso di analisi comprendente la valutazione di riserve verranno incluse quelle con tempi di turnover superiore a un anno. Tipicamente, la tabella è standardizzata in 6 colonne, riportanti rispettivamente: 1. Numero progressivo della voce (con riferimento bibliografico). 2. Nome della voce (combustibili, materiali, energia, lavoro, ecc.). 3. Quantità (dati numerici). 4. Unità di misura (Kg, J, €, ecc.). 5. UEV usata per il calcolo, in seJ/unità. 6. Emergia solare (in seJ) del flusso, calcolata moltiplicando i valori delle colonne 3 e 5. È opportuno notare che lo stesso tipo di approccio viene utilizzato nel caso si conoscano i valori emergetici e si voglia risalire a determinati UEV, che verranno calcolati tenendo conto oppure non tenendo conto di lavoro e servizi. Ciò viene eseguito sommando i flussi emergetici che supportano il processo di creazione del prodotto o servizio, e dividendo poi per l’output del processo, espresso nell’appropriata unità.

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3.4 L’algebra dell’emergia

L’algebra emergetica descrive le regole di base per poter assegnare l’emergia ai flussi L’insieme di queste regole, definite al fine di sviluppare correttamente il calcolo emergetico quantitativo, permette inoltre di comprendere ulteriormente la portata concettuale dell’analisi di Odum, evidenziando come l’emergia non sia riconducibile a un potenziale termodinamico “qualsiasi” (exergia, energia libera, ecc.) come quelli utilizzati nei diversi ambiti dell’analisi bio-fisica dei sistemi. Formalmente, l’emergia solare totale che determina un processo è data da:

Em = Σi (Ei · Tri) i=1, . . . , n

dove Ei è l’i-mo flusso di energia o materia in input, e Tri la corrispondente trasformità o emergia specifica, a sua volta data da Tri=Emi/Ei, con Emi=emergia del prodotto i-esimo. Questa definizione formale appare circolare, ma il vincolo che la rende operativa è che per definizione la trasformità per l’energia solare diretta ha valore unitario. FIG. 3.5. SCHEMA GENERALE PER LO SVILUPPO DELL’ALGEBRA EMERGETICA. Le regole dell’algebra emergetica (per una trattazione completa si veda Odum 1996) consentono quindi di sviluppare quantitativamente l’analisi. In particolare, tutta l’emergia fornita ad un processo da contributi indipendenti è assegnata al prodotto del processo stesso, mentre quando un flusso si divide mantenendo costanti le proprie caratteristiche chimico-fisiche (split), a ciascun flusso risultante viene assegnata una quantità di emergia proporzionale all’energia (o massa, exergia, ecc.) su ciascun ramo del percorso:

Emi = (Ei / ET) · EmT

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