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Uomini d’affari e mobilità sociale in Italia tra metà Trecento e primo Cinquecento

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UOMINI D'AFFARI E MOBILITÀ SOCIALE IN ITALIA

TRA METÀ TRECENTO E PRIMO CINQUECENTO

ESTRATTO

da

ARCHIVIO STORICO ITALIANO

2017/1 ~ a. 175 n. 651

(2)

FONDATO DA G. P. VIEUSSEUX

E PUBBLICATO DALLA

DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA TOSCANA

ARCHIVIO

STORICO ITALIANO

651 Anno CLXXV 2 0 1 7 DISP. I L E O S . O L S C H K I E D I T O R E F I R E N Z E 2017 A R C H I V I O S T O R I C O I T A L I A N O - 2017 - Disp. I CLXXV Fasc. 651

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Via dei Ginori n. 7, 50123 Firenze, tel. 055 213251 www.deputazionetoscana.it

I N D I C E

Anno CLXXV (2017) N. 651 - Disp. I (gennaio-marzo)

segue nella 3a pagina di copertina Memorie

Silvia Carraro, «Non ha utilità adguna». Essere disabile nel

Medioevo . . . . Pag. 3 Alberto Cotza, Storia, memoria, politica alla fine del secolo XI.

Il carme pisano sull’impresa contro i saraceni del 1087 » 37 Fabrizio Ansani, Geografie della guerra nella Toscana del

Rina-scimento. Produzione di armi e circolazione dei «pratici» . . » 73

Discussioni

Sergio Tognetti, Uomini d’affari e mobilità sociale in Italia tra

metà Trecento e primo Cinquecento . . . . » 119

Recensioni

Simone Balossino, I podestà sulle sponde del Rodano. Arles e

Avignone nei secoli XII e XIII (Gian Paolo G. Scharf) . . » 151 Laurent Baggioni, La forteresse de la raison. Lectures de

l’hu-manisme politique florentin d’après l’oeuvre de Coluccio

Sa-lutati (Lorenzo Tanzini) . . . . » 154 Patrick Baker, Italian Renaissance Humanism in the Mirror

(Robert Black) . . . . » 156

Medici Women: the Making of a Dynasty in Grand Ducal Tu-scany, ed. by Giovanna Benadusi and Judith C. Brown

(Claudia Tripodi) . . . . » 163

Versailles, de la résidence au musée. Espaces, usages & institu-tions: XVIIe-XXe siècle. Études et documents réunis par

Fa-bien Opperman (Marco Frati) . . . . » 166

Gaetano Marini (1742-1815) protagonista della cultura europea. Scritti per il bicentenario della morte, a cura di Marco

Buo-nocore (Vincenzo Trombetta) . . . . » 170

Ernst Kantorowicz (1895-1963). Storia politica come scienza cul-turale / Ernst Kantorowicz (1895-1963). Political History as Cultural Inquiry, a cura di / edited by Thomas Frank,

Daniela Rando (Pierluigi Terenzi) . . . . » 173

Notizie . . . . » 177

Summaries . . . . » 199

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FONDATO DA G. P. VIEUSSEUX

E PUBBLICATO DALLA

DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA TOSCANA

ARCHIVIO

STORICO ITALIANO

2 0 1 7 DISP. I L E O S . O L S C H K I E D I T O R E F I R E N Z E 2017

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rivista. I contributi che rispondono a tale criterio vengono quindi inviati in forma anonima a due studiosi, parimenti anonimi, esperti della materia. In caso di valu-tazione positiva la pubblicazione del saggio è comunque vincolata alla correzione del testo sulla base delle raccomandazioni dei referee.

Oltre che nei principali cataloghi e bibliografie nazionali, la rivista è presente in ISI Web of Knowledge (Art and Humanities Citations Index); Current Contents, Scopus Bibliographie Database, ERIH. La rivista è stata collocata dall’Anvur in fascia A ai fini della V.Q.R. e dell’Abilitazione nazionale, Area 11.

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Sergio Tognetti

Uomini d’affari e mobilità sociale in Italia

tra metà Trecento e primo Cinquecento

*

La dinamica sociale nell’Italia del tardo Medioevo e del Rinascimen-to, in particolare in quella ampia area che aveva in precedenza conosciuto le grandi trasformazioni politiche innescate dalla nascita delle istituzioni comunali e quelle economiche connesse alla rivoluzione commerciale, ha spesso attirato l’attenzione di storici rivelatisi poi severi censori, pronti a individuare nell’epoca posteriore alla Peste Nera i segnali espliciti della chiusura oligarchica, del trionfo della ideologia nobiliare e della rifeuda-lizzazione dell’economia. Uno dei nodi fondamentali (raramente espres-so con chiarezza, più spesespres-so rimasto a livello implicito), oggetto di nume-rose riflessioni sulla società e l’economia italiana, è stato sommariamente il seguente: come fu possibile che il polo commerciale, finanziario e ma-nifatturiero più avanzato dell’Europa tardo medievale avesse mancato l’appuntamento con la rivoluzione industriale, retrocedendo fatalmente, tra XIV e XVIII secolo, da posizioni di primato a livelli di retroguardia? E di conseguenza, in un contesto giudicato già recessivo quale era quello del Quattrocento e del primo Cinquecento, come valutare il

Rinascimen-S. Tognetti è professore associato di storia medievale presso l’Università di Ca-gliari. Email: tognettisergio1969@gmail.com

* Si pubblica qui il contributo presentato al Convegno internazionale di Roma (26-28 settembre 2016) sul tema La mobilità sociale nell’Italia medievale (1100-1500).

Storiografie, sintesi, temi. L’incontro è stato promosso dal gruppo di ricerca coordina-to incoordina-torno al Prin 2012 (http://prin.mobilitasociale.uniroma2.it/), guidacoordina-to a livello generale da Sandro Carocci e per l’unità locale di Cagliari da Sergio Tognetti. Una versione più sintetica e in lingua inglese del presente saggio (come di tutti gli atti congressuali) è attualmente in corso di stampa presso l’editore Viella.

Tengo a ringraziare calorosamente tutto il gruppo del Prin e inoltre gli amici Franco Franceschi, Richard Goldthwaite, Isabella Lazzarini, Francesco Pirani, Loren-zo Tanzini e Francesco Paolo Tocco che hanno avuto la cortesia di leggere il testo, migliorandolo con i loro suggerimenti.

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to nei suoi aspetti economici e sociali se non in termini essenzialmente negativi?

Una corrente storiografica, italiana e internazionale di matrice mar-xista o comunque di sinistra, ha individuato a lungo i ‘mali’ dell’Italia nel carattere strutturalmente elitario della sua società, anche e soprattutto di quella urbana e persino in città all’avanguardia nello sviluppo delle atti-vità imprenditoriali. La suggestione dei modelli nobiliari e cavallereschi avrebbe arrestato la falsa partenza duecentesca, innescando processi di imitazione aristocratica da parte di uomini d’affari affermati, incapaci di dare forma a una cultura di ceto in grado di cambiare la società in senso capitalistico e quindi pronti a usare la ricchezza accumulata per farsi cooptare tra le classi dominanti secondo forme e metodi tipici della no-biltà. A generazioni di mercanti ne sarebbero seguite altre, più numerose, di rentiers.1

Philip Jones, vero e proprio capofila di questo orientamento storio-grafico, arrivò persino a equiparare i ceti dirigenti dell’Italia urbana tardo medievale a quelli del resto dell’Europa occidentale, per sistemi di valori e stili di vita, quando non anche per forme di investimenti e tipologia di ricchezza.2 Ne consegue che il Rinascimento, sino alla stagione di studi

avviata dalle ricerche di Richard Goldthwaite, sia stato anch’esso perce-pito come un fenomeno aristocratico: una sorta di falò delle vanità, «uno straordinario processo di sterilizzazione del denaro»,3 utile però a

rimar-care prestigio, egemonia culturale e presa del potere sulla società da parte di un ceto dirigente costituito da vecchi e nuovi nobili, destinato a tenere il paese ingessato per secoli.

Insomma il mancato cambiamento socio-economico italiano aveva come causa principale l’assenza di una reale borghesia capitalistica e i precoci sintomi tardo medievali del processo recessivo erano la chiusura oligarchica della società e la crisi economica già evidente nel Quattro-cento, con il secondo fenomeno fatto discendere quasi direttamente dal primo. Alcuni, come Ruggero Romano, non esitarono a parlare aperta-mente di una Italia stagnante compresa tra due crisi, quella del Trecento e quella del Seicento. Il filone di studi inaugurato da storici che si erano interessati direttamente alla figura del mercante italiano nell’Europa

bas-1 Il tema delle ‘occasioni mancate’ e del conservatorismo plurisecolare della so-cietà italiana è stato più volte ribadito da Ruggero Romano. Cfr. la sua introduzione alla Storia dell’economia italiana, a cura di R. Romano, 3 voll., Torino Einaudi, 1990-1991, I, pp. xvii-xxxv.

2 Ph. Jones, Economia e società nell’Italia medievale, Torino, Einaudi, 1980. 3 R. Romano, Tra due crisi: l’Italia del Rinascimento, Torino, Einaudi, 1971, p. 101.

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so medievale (penso a studiosi del calibro di Gino Luzzatto, Armando Sapori, Frederick Lane, Raymond de Roover e Federigo Melis) finì come per spegnersi a partire dai primi anni settanta, arenatosi com’era nelle secche di discussioni ideologiche che consideravano (in verità bollavano) la business history alla stregua di una, intellettualmente poco meritevole, storia delle tecniche economiche.4

Prima di affrontare le questioni sollevate alla luce della più recente storiografia e dei più accurati lavori di analisi su documentazione inedita, non è possibile esimersi da una constatazione. Per quasi tutto il Nove-cento, la corrente elitista liberal-conservatrice, come ha ben evidenziato alcuni anni or sono Massimo Vallerani, spesso volle rintracciare nella sto-ria delle città e dei comuni italiani la plurisecolare continuità del potere di nuclei familiari e cetuali ristretti.5 Così, a dispetto dei profondi

cambia-menti delle istituzioni, della cultura e dei costumi politici, questa posi-zione è finita per andare a braccetto (più o meno consapevolmente) con quella marxista nel tentativo strenuo di negare quel carattere moderno e progressista a una parte della storia d’Italia medievale, che invece era sta-to uno dei cavalli di battaglia della ssta-toriografia illuministica e risorgimen-tale, ma anche di quella liberal progressista da Jacob Burckhardt in poi.6

Poiché il capo di imputazione principale è parso a lungo consiste-re nella pconsiste-recoce decadenza dell’economia italiana, è opportuno particonsiste-re dall’osservazione dei fondamentali, così come si presentavano tra la se-conda metà del XIV secolo e tutto il successivo. Da questo punto di vista ormai è del tutto evidente che, nel suo complesso (Regno meridionale incluso) l’Italia mantenne un primato manifatturiero, commerciale e ban-cario ben oltre il tardo Medioevo: certamente sino al pieno Cinquecento, con più dubbi sino all’inizio del Seicento.7 In ogni caso si tratta di una

cro-4 Per una posizione in netta controtendenza si veda M. Del Treppo, Federigo

Melis storico, in Studi in memoria di Federigo Melis, 5 voll., Napoli, Giannini, 1978, vol. I, pp. 1-87.

5 M. Vallerani, La città e le sue istituzioni. Ceti dirigenti, oligarchia e politica

nel-la medievistica italiana del Novecento, «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», XX, 1994, pp. 165-230.

6 Un vero incontro delle due tendenze storiografiche si può cogliere in S. Ber-telli, Il potere oligarchico nello Stato-città medievale, Firenze, La Nuova Italia, 1978. Un approccio esplicitamente ribadito da Bertelli nella discussione al volume (di impo-stazione quasi opposta) di M. Ascheri, Le città-Stato, Bologna, il Mulino, 2006: cfr. L.  Baccelli – S. Bertelli – G. Milani, Le città-Stato e l’identità italiana, «Archivio Storico Italiano», CLXVI, 2008, pp. 321-332.

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Mi-nologia che va molto al di là di quanto si potesse immaginare sino a pochi decenni fa. Un caso emblematico in questo senso è stato delineato per l’industria della seta, un vero e proprio esempio di made in Italy nell’Eu-ropa dei secoli XV e XVI, con poli produttivi sparsi tra Genova, Milano, Venezia, Vicenza, Ferrara, Bologna, Firenze, Lucca, Napoli e Messina, solo per citare i centri più importanti, i cui prodotti invadevano i mercati internazionali di Lisbona, Barcellona, Bruges, Anversa, Lione, Francofor-te, Cracovia, Costantinopoli, ecc. Anche nell’ambito più tradizionale del lanificio, è assodato che la tenuta sia stata assai significativa, in particolare per l’emergere, a fianco dei poli produttivi presenti nei maggiori centri urbani, delle cosiddette industrie rurali attive nei popolosi borghi situati nella fascia pedemontana della Lombardia e del Veneto, ma anche delle manifatture operanti nelle cittadine dell’entroterra marchigiano e nell’A-bruzzo aquilano. Per non parlare del predominio nell’ambito dei merca-ti finanziari europei, dove la supremazia italiana rimase indiscussa sino all’avvento dei Fugger, come hanno evidenziato molte ricerche condotte fuori d’Italia, con particolare riferimento ai regni iberici, ai domini borgo-gnoni, all’Inghilterra e all’area tedesca. E quanto alla pretesa rifeudalizza-zione, in realtà massicci flussi di capitale verso l’acquisto di terre dalla fine del XV secolo in avanti, in molti casi si trattò di oculati investimenti in un settore, quello primario, che prometteva cospicui ritorni economici, vista la crescita demografica generalizzata a livello italiano ed europeo.

L’aspetto che merita maggior attenzione è tuttavia quello collegato alla differente geografia economica dell’Italia rinascimentale rispetto al quadro disponibile per l’età precedente la Peste Nera.8 In questa ottica,

dobbiamo dire che in passato hanno giocato negativamente due differen-ti approcci di studio. Il primo è stato quello legato alla regione oggetto delle più importanti ricerche per l’economia dell’Italia (ma forse sarebbe meglio dire dell’Europa) del basso Medioevo: la Toscana. Il forte

ridimen-lano, Bruno Mondadori, 1998; Id., L’economia italiana. Dalla crescita medievale alla

cre-scita contemporanea, Bologna, il Mulino, 2002; Il Rinascimento italiano e l’Europa, vol. III: Produzione e tecniche, a cura di Ph. Braunstein e L. Molà; vol. IV: Commercio e

cultura mercantile, a cura di F. Franceschi, R.A. Goldthwaite, R.C. Mueller, entrambi editi a Treviso - Costabissara (Vicenza), Fondazione Cassamarca - Angelo Colla, 2007; G. Alfani, Il Gran Tour dei Cavalieri dell’Apocalisse. L’Italia del «lungo Cinquecento»

(1494-1629), Venezia, Marsilio, 2010.

8 Per una sintesi recente con bibliografia aggiornata mi permetto di rinviare a S. Tognetti, Geografia e tipologia delle attività urbane (secoli XII-XV), in Storia del lavoro

in Italia, vol. II: Il Medioevo, a cura di F. Franceschi, Roma, Castelvecchi, 2017, in corso di stampa. Il lettore troverà lì gli approfondimenti bibliografici che in questa sede si ridurranno al minimo per non appesantire la lettura. Le citazioni saranno dunque in buona misura riservate ai lavori di storia sociale.

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sionamento demografico di Firenze e la effettiva crisi economica di alcu-ne città (Pisa, Pistoia, Arezzo, Siena, ma non Lucca) hanno fornito spes-so uno specimen (certamente troppo parziale) con cui guardare all’intera Penisola. Il secondo è stato quello di voler desumere dal pieno successo politico l’affermazione di ceti sociali nuovi e quindi, una volta apparente-mente constatata la mancanza di questo fenomeno guida, come nel caso della Terraferma veneta studiata da Angelo Ventura, dedurre da questo parziale indicatore l’atonia dei comparti produttivi e commerciali.9

In effetti, salvo il fatto che Firenze con Genova, Venezia e Milano, rimase uno dei cuori pulsanti dell’economia italiana tardo medievale, pur con trasformazioni notevoli della sua struttura manifatturiera e del suo rapporto con il territorio toscano circostante, è ormai impossibile negare che nel Quattrocento le aree più densamente abitate, con i maggiori tassi di urbanizzazione e le città più ‘industrializzate’, fossero quelle poste a nord del Po: la lunga teoria di città situate tra Milano e Venezia (a cui si sommava una serie impressionante di borghi assai popolati), nelle qua-li le manifatture e i commerci costituivano un elemento fondamentale della dinamica socio-economica. Stiamo parlando di centri come Brescia e Verona, Bergamo e Vicenza, Cremona e Padova, dall’economia forse più vivace alla fine del XV secolo che duecento anni prima, per altro cir-condate da campagne tra le più fertili e ricche del continente. Il paradig-ma venturiano, almeno relativamente alla stasi economica, negli ultimi due-tre decenni è stato superato da così numerose e puntuali ricerche, dedicate ora a singole città ora a specifici territori rurali ora a peculiari comparti industriali, che ormai il nostro quadro del dominio veneziano di Terraferma è quasi diametralmente opposto rispetto a quello delineato a suo tempo da Nobiltà e Popolo.10

Qualcosa di simile, pur se in una misura più contenuta, è di recente venuto alla luce nell’analisi di alcune città marchigiane come Ascoli,

Ca-9 A. Ventura, Nobiltà e popolo nella società veneta del ’400 e del ’500, Bari, Later-za, 1964. È, dunque, con una sorta di ragionamento circolare che Jones, Economia e

società, cit., p. 100, individuava la patria del Rinascimento veneto in contesti urbani come quelli di Verona, Vicenza e Padova, considerate «città non commerciali».

10 Si veda a questo proposito la recente rassegna di E. Demo – F. Vianello,

Ma-nifatture e commerci nella Terraferma veneta in età moderna, «Archivio Veneto», VI ser. n. 1, CXLII, 2011, pp. 27-50, che aggiorna sul versante più propriamente economico la precedente discussione di M. Knapton, “Nobiltà e popolo” e un trentennio di

storiogra-fia veneta, «Nuova Rivista Storica», LXXXII, 1998, pp. 167-192. Ma si tengano presenti anche i saggi di G.M. Varanini e M. Knapton all’interno di 1509-2009. L’ombra di

Agnadello: Venezia e la terraferma, a cura di G. Del Torre e A. Viggiano, «Ateneo Vene-to», CXCVII, terza serie, 2010.

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merino, Recanati, Ancona, tutt’altro che sonnolenti centri di provincia, quali saremmo tentati di descrivere con una deformazione prospettica indotta dagli sviluppi dell’età moderna e contemporanea. Al contrario le più aggiornate indagini, non di rado condotte su fondi archivistici posti fuori dalla regione, hanno rivelato tessuti produttivi, reti mercantili e af-fermazioni familiari di ampio raggio.

Viceversa è indubbio che nell’Italia centro-settentrionale ci furono anche delle vittime. Molti centri urbani di notevole rilievo, come appun-to Siena, o di media grandezza, quali Perugia, Arezzo, Pisappun-toia, Piacenza, Asti, che avevano vissuto una stagione assai brillante (in qualche caso an-che di veri e propri trionfi) tra XIII e XIV secolo, conobbero dal secondo Trecento innegabili fenomeni recessivi, sulle cui molteplici motivazioni non è qui possibile rendere conto nel dettaglio. In ogni caso, l’Umbria, buona parte della Toscana, l’area emiliana e il Piemonte orientale pare-vano nel corso del Quattrocento in condizioni economiche non migliori rispetto a quelle dei due secoli precedenti. Anche se non è facile genera-lizzare, un minimo comun denominatore in queste parabole discendenti è possibile individuarlo nella incapacità di andare oltre una specializzazio-ne specializzazio-nella fornitura di merci e servizi: casi emblematici parrebbero Siena, Piacenza e Asti, centri mercantili e bancari di primo ordine alla fine del Duecento, il cui dinamismo era decisamente sbiadito due secoli dopo. Al lato opposto, molte cittadine romagnole, talvolta sedi di corti signorili dalle grandi ambizioni culturali e artistiche, non riuscirono mai a far de-collare le proprie economie al di là del ruolo di mercato di riferimento per i prodotti rurali provenienti dai rispettivi contadi.

Anche nell’Italia regnicola (angioina e/o aragonese), pur tenuto con-to di un materiale documentario meno ricco di informazioni, sia da un punto di vista qualitativo sia quantitativo, sono emersi negli ultimi de-cenni significativi indizi di sensibili trasformazioni delle economie tardo medievali. Le città pugliesi parrebbero in età aragonese meno brillanti rispetto all’epoca sveva e primo angioina, mentre l’Aquila e tutto il ter-ritorio abruzzese avrebbero conosciuto uno sviluppo economico legato all’allevamento su larga scala, allo sviluppo di un lanificio locale, alle col-tivazioni di piante particolari come il gelso e lo zafferano, alla creazione di fiere mercantili e cambiarie: tutti cambiamenti in qualche modo con-nessi con i fenomeni di riconversione delle attività innescati dal pauroso calo demografico post pestem. Quanto a Napoli, nella seconda metà del XV secolo, essa era ormai una metropoli europea, ma il suo entroterra (in particolare la Lucania) costituiva in larga parte un’area fortemente rura-lizzata e depressa, mentre Messina aveva ormai superato Palermo come scalo marittimo mediterraneo, frequentato abitualmente dalle marine mercantili veneziani, genovesi, fiorentine, ragusee, catalane, ecc.

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Insomma, siamo di fronte a un quadro quattrocentesco assai artico-lato e divergente, profondamente mutato rispetto all’epoca precedente la Peste Nera, con gerarchie economiche in rapido riassestamento. Per-tanto, dal punto di vista del nostro incontro (e, più complessivamente, del nostro progetto di ricerca) tra le prime domande da porsi vi sono certamente le seguenti: un cambiamento economico positivo, come nel caso delle città lombarde e venete soggette a Venezia (ma anche in alcuni centri marchigiani, come pure a L’Aquila o a Messina) ha avuto o meno un effetto sulla mobilità sociale, e se sì in che forma e con quali ricadute sul piano delle istituzioni rappresentative della società? Una recessione/ stagnazione prolungata, come in alcune città umbre, toscane, romagnole e piemontesi, può aver contribuito ad accelerare le chiusure oligarchiche e ad alimentare una eventuale ideologia nobiliare di ritorno? Inoltre, nei centri urbani che sono evidentemente rimasti alla guida dell’economia italiana nel suo complesso, in che modo le trasformazioni del tessuto produttivo hanno interagito con la dinamica socio-politica? Infine e più in generale: che ruolo ha occupato il grande uomo d’affari nell’Italia del Rinascimento, in particolare nelle grandi città dove il tono economico complessivo continuò a essere scandito dal commercio internazionale?

Prima di cercare risposte convincenti a queste domande occorrereb-be, preliminarmente, cercare un parametro (possibilmente non italiano) rispetto al quale orientare i nostri giudizi. Si tratta di una operazione molto difficile, ma è opportuno quanto meno porsi il problema. Trop-po spesso, infatti, in molti studi di carattere prosoTrop-pografico si sciorinano meritori dati e percentuali su famiglie dei ceti dirigenti, sulla velocità del ricambio ai vertici di organismi politici e corporativi, così come si riflette sulla reale efficacia dei meccanismi di rappresentanza di consigli e assem-blee municipali, senza però fornire un metro di paragone convincente. In questo modo potrebbe farsi strada l’idea (magari sbagliata) che ancora una volta il riferimento sia o a una realtà passata a suo modo irripetibile, quale fu tra XII e XIII l’affermazione delle istituzioni comunali all’interno di una società che prima di istituzionalizzato aveva veramente ben poco, oppure a eventi e fenomeni molto più vicini ai nostri tempi che a quelli in cui vivevano e operavano i protagonisti delle nostre ricerche.

La creazione del comune, l’evoluzione dei numerosi organi di rap-presentanza della società, il difficile incanalamento di istanze provenienti da nuovi ceti in adeguati alvei istituzionali, rappresentano in qualche mi-sura eventi rivoluzionari che non potevano ripetersi a oltranza, una volta che la società si era data una sua articolata e sempre più raffinata strut-tura politica, economica e culstrut-turale. Le istituzioni, una volta plasmate, finiscono inevitabilmente per avere una vita propria e costituiscono di

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fatto una remora sostanziale ad eventuali successivi mutamenti del qua-dro socio-politico. La misura del cambiamento e della mobilità sociale nel periodo successivo al primo Trecento non può dunque essere basata essenzialmente sulle coordinate impiegate nell’analizzare il Duecento, durante il quale i ‘subiti guadagni’ producevano ‘gente nova’ con straor-dinaria facilità.11

Al tempo stesso, quando si valuta il peso politico degli uomini d’affari e dell’imprenditoria in generale nella società italiana del Rinascimento, così come la mobilità sociale indotta (in alto come in basso) dall’esito di parabole economiche (positive o negative), si dovrebbe essere consape-voli che altrove in Europa la mercatura godeva di ben minore considera-zione. Ne è prova la meraviglia avvertita da sovrani, comandanti militari, diplomatici e intellettuali stranieri quando, nel corso del Cinquecento, essi ebbero modo di confrontarsi (spesso da sprezzanti dominatori) con le società urbane italiane. Vediamone alcuni esempi.

Negli annali genovesi di monsignor Agostino Giustiniani, a proposito della rivolta guidata dai popolari contro i nobili durante l’occupazione francese della città (1506), e tenendo presente che tra i popolari in que-stione prevalevano di gran lunga mercanti, armatori di navi e imprendi-tori del mondo manifatturiero urbano, viene riportata, a proposito dei motivi della insurrezione, che

alcuni altri danno la causa ai nobili, e dicono che doppo che la città fu sotto il do-minio dei francesi, i nobili si alzorno assai contra i populari, perché i francesi di lor natura favoriscono la nobiltà, e perciò la gioventù nobile diventò molto inso-lente, e nominava i populari villani e montanari, come sovente fanno i francesi.12

Che nel regno dei Valois essere mercanti fosse considerata una con-dizione di gran lunga inferiore a quella della nobiltà, al punto che non si poteva virtualmente essere aristocratici e uomini d’affari al tempo stesso, lo prova la parabola di alcune famiglie fiorentine (come quelle dei Gondi e dei Guadagni) che, grazie al commercio e alla finanza, raggiunsero a

11 Condivido le opinioni espresse da G. Petralia, Problemi della mobilità

socia-le dei mercanti (secoli XII-XIV), Italia e Mediterraneo europeo), in La mobilità sociale nel

Medioevo, a cura di S. Carocci, Roma, École française de Rome, 2010, pp. 247-271; A. Poloni, La mobilità sociale nelle città comunali italiane nel Trecento, in I comuni di

Jean-Claude Maire Vigueur. Percorsi storiografici, a cura di M.T. Caciorgna, S. Carocci, A. Zorzi, Roma, Viella, 2014, pp. 281-304.

12 Citato in A. Pacini, Tra economia e politica: la giustizia civile e mercantile a

Geno-va nei primi decenni del Cinquecento, in Strutture del potere ed élites economiche nelle città

europee dei secoli XII-XVI, a cura di G. Petti Balbi, Napoli, Liguori, 1998, pp. 41-71: 47, nota 23.

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Lione un successo spettacolare, ma, una volta che ebbero scelto di ra-dicarsi nella società francese, accettarono di abbandonare la mercatura, indirizzando con successo i propri rampolli alle più consone carriere militari, diplomatiche ed ecclesiastiche.13 Con sconcerto, dunque, in un

trattato sulla nobiltà, il magistrato, giurista e umanista francese André Tiraqueau (1488-1558), osservava come «apud Venetos et Genuenses no-biles quoque mercaturam exercent citra vituperium et nobilitatis detri-mentum».14 Viceversa, nella stessa epoca, un altro illustre giurisperito,

l’anconetano Benvenuto Stracca, considerato il fondatore del diritto com-merciale moderno (in pratica il primo ad aver enucleato la mercatura e il diritto commerciale come sfere giuridiche degne di essere trattate dal giureconsulto), a sua volta appartenente a una famiglia tradizionalmente impegnata nel commercio e nell’attività armatoriale, non si faceva scru-polo di esaltare l’élite mercantile di Ancona, non a caso paragonandola ai patriziati di Venezia e di Firenze.15 Allo stesso modo il milanese Sabba da

Castiglione (1480-1554), illustre letterato e membro degli Ospitalieri, pur lamentando la scarsa propensione per l’arte della guerra nei nobili italia-ni, si rallegrava tuttavia per il buono stato della mercatura

la quale alli nostri tempi è sì degno e honorato essercitio, che nessun gentil’huo-mo privato, per grande che sia, si può vergognare e sdegnare mettervi li figliuoli, poi che li Venetiani, li quali fanno tanta professione di nobiltà che quasi beffe si fanno delli gentil’huomini di Terraferma, tutti essercitano la mercantia, et li più nobili tra loro sono li maggiori mercanti.16

In pieno Cinquecento, sempre riguardo al caso di Genova, nel dialo-go immaginario compilato da Bernardo Rebuffo, il duca d’Alba avrebbe rivolto al re Filippo di Spagna le seguenti osservazioni:

Et però dico che tutti quelli i quali sono scritti in quel libro della civiltà sono tutti gentilhuomini a Genova per disposizione della legge loro la quale ha potuto fare che a Genova siano gentilhuomini ma non ha potuto però fare che fuori di Genova siano illustri né gentilhuomini se non quelli che imitano i già illustrati.17

13 Cfr. S. Tognetti, I Gondi di Lione. Una banca d’affari fiorentina nella Francia del

primo Cinquecento, Firenze, Olschki, 2013; J. Milstein, The Gondi. Family Strategy and

Survival in Early Modern France, Farnham (UK) - Burlington (USA), Ashgate, 2014. 14 Citato in C. Donati, L’idea di nobiltà in Italia (secoli XIV-XVIII), Roma-Bari, Laterza, 1988.

15 Ivi, p. 134. 16 Citato in ivi, p. 65.

17 Citato in E. Grendi, La repubblica aristocratica dei genovesi, Bologna, il Mulino, 1987, p. 40.

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Insomma i genovesi, noti banchieri di fiducia del re Cattolico, si re-putavano nobili a casa loro, ma nell’impero spagnolo nessuno poteva ve-ramente credere a questa finzione istituzionale.18 Del resto nel mondo

iberico gli affari, pure quelli condotti ai massimi livelli, potevano essere un buon trampolino di lancio per una scalata sociale, non certo il punto d’arrivo. Lo dimostra, tra le altre, la vicenda della famiglia fiorentina dei Tecchini che creò un vero e proprio impero commerciale in Catalogna tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo. Quando, per i numerosi servi-gi alla Corona, essi cominciarono a ricevere ricompense sotto forma di investiture cavalleresche e titoli nobilitanti, maturando così l’idea di una radicamento nella società barcellonese (e catalana in genere), i Tecchini/ Taquí si avviarono verso un lento processo di uscita dal mondo degli affa-ri: alla fine del Quattrocento erano ormai parte del braccio militare delle Corts.19 Più o meno nello stesso torno di tempo si svolse la vicenda dei

lucchesi Accettanti/Setantì, che nell’arco di tre generazioni passarono dai ranghi dell’élite commerciale e finanziaria, nell’età di Martino l’Umano e Alfonso V, a quelli della cavalleria e della chiesa catalana nell’epoca di Fer-dinando il Cattolico.20 Nemmeno a Barcellona, cioè nella città

mediterra-nea che più somigliava ai grandi centri italiani per struttura commerciale, finanziaria e produttiva, era possibile coniugare la piena affermazione so-cio-politica con la mercatura.21

18 M. Berengo, L’Europa delle città. Il volto della società urbana europea tra

Medio-evo ed Età moderna, Torino, Einaudi, 1999, p. 255, osserva a proposito della Castiglia cinquecentesca: «L’idea stessa del patriziato rimaneva estranea, non comprensibile in quella società: l’hidalgo spagnolo che andava a combattere in Italia e in Fiandra nutriva certo molti dubbi sulla natura genuina di nobili che vedeva insediati in quei regimenti municipali.»

19 M.E. Soldani, A Firenze mercanti, cavalieri nella signoria dei re d’Aragona. I

Tecchini-Taquí tra XIV e XV secolo, «Anuario de Estudios Medievales», XXXIX, 2009, pp. 575-604.

20 M.E. Soldani, Da Accettanti a Setantí: il processo di integrazione di una famiglia

lucchese nella società barcellonese del Quattrocento, in Per Marco Tangheroni. Studi su Pisa e

sul Mediterraneo medievale offerti dai suoi ultimi allievi, a cura di C. Iannella, Pisa, ETS, 2005, pp. 209-233.

21 Questa realtà è molto chiaramente delineata da D. Coulon, Barcelone et le

grand commerce d’Orient au Moyen Âge. Un siècle de relations avec l’Égypte et la Syrie- Palestine (ca. 1330-ca. 1430), Madrid-Barcelone, Casa de Velázquez - Institut Europeu de la Mediterrània, 2004, pp. 618-620. Considerazioni simili sono state espresse anche per Valencia da E. Cruselles, Los mercaderes de Valencia en la edad media, Lleida, Mile-nio, 2001, cap. VII. Sul caso di Saragozza porta un nuovo contributo S. de la Torre Gonzalo, La elite mercantil y financiera de Zaragoza en el primer tercio del siglo XV

(1380-1430), tesi di dottorato discussa presso l’Università di Saragozza, tutor Carlos Laliena Corbera, 2015, in particolare pp. 669-688. Ringrazio calorosamente la dott.ssa de la Torre per avermi inviato il suo monumentale elaborato.

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E veniamo dunque al tentativo di risposta ai quesiti sopra formulati. Le chiusure e le serrate dei consigli municipali nelle città del dominio veneziano e milanese possono ormai essere in parte derubricate a «proie-zioni sul passato degli occhiuti eruditi settecenteschi».22 La realtà pare

es-sere stata molto più vivace e dinamica e il ricambio tutt’altro che assente. Soprattutto sono emersi significativi elementi che complicano e arricchi-scono il quadro tradizionale. In primo luogo, la ormai innegabile crescita economica e demografica dell’area lombardo-veneta fu realizzata con il concorso di tante forze differenti, tra cui le famiglie emergenti originarie di borghi e città limitrofe (ma in qualche caso provenienti anche da regioni relativamente lontane come la Liguria, Toscana e le Marche); ma è stato più volte sottolineato come i lignaggi dei ceti dirigenti urbani affermatisi nel corso del Trecento (a Verona e Vicenza con gli Scaligeri, a Padova con i Carraresi, a Brescia e Bergamo con i Visconti) non ‘tradirono’ affatto la loro natura di imprenditori manifatturieri e di commercianti. L’essere rispettati patrizi, fregiarsi del titolo di gentiluomo o cavaliere ed eserci-tare la mercatura andavano molto spesso di pari passo. A Verona essere mercanti di panni e nobili era ancora possibile, come dimostra, tra i molti altri, il caso della famiglia Spolverini, presente ininterrottamente nel con-siglio municipale dal 1408 al 1610, con numerosi esponenti impegnati a produrre stoffe in città, così come a vendere manufatti e a importare lane grezze per tutta la Penisola. D’altra parte gli Stoppa, arrivati sulle sponde dell’Adige dalle rive del lago di Como nella prima metà del XV secolo, proprio grazie ai successi nell’industria tessile ottennero rapidamente di essere cooptati nel patriziato veronese.23 Nella vicina Vicenza,

completa-mente immersa nella sericoltura e nella preparazione dei semilavorati di seta esportati in Italia e Oltralpe, a inizio Cinquecento sedevano nel Mag-gior Consiglio circa 500 individui.24 Si può certamente discutere sul reale

significato politico di questo dato. Resta il fatto che la cifra fa abbastanza impressione se paragonata ai 20-25mila abitanti della città.

Vi è poi il caso clamoroso degli Affaitati a Cremona, famiglia mercan-tile di cui non si sa praticamente nulla prima del XV secolo e il cui cogno-me rimanda a un cogno-mestiere artigiano (quello del conciatore) decisacogno-mente

22 G.M. Varanini, Aristocrazia e poteri nell’Italia centro-settentrionale dalla crisi

comunale alle guerre d’Italia, in R. Bordone – G. Castelnuovo – G.M. Varanini, Le

aristocrazie dai signori rurali al patriziato, Roma-Bari, Laterza, 2004, pp. 121-193: 167. 23 E. Demo, L’«anima della città». L’industria tessile a Verona e Vicenza (1400-1550), Milano, Unicopli, 2001, partendo dall’indice dei nomi.

24 Ch. Shaw, Popular Government and Oligarchy in Renaissance Italy, Leiden-Boston, Brill, 2006, p. 174.

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poco nobile. Presenti a Lisbona, a Valladolid, ad Anversa, a Venezia e in tante altre piazze commerciali e finanziarie europee del primo Cinque-cento, erano pure impegnati nella locale industria del fustagno, dando così lavoro a molti poveri, come riporta un cronista cremonese del tempo (ripetendo un classico refrain tardo medievale), il quale ebbe a definire Pietro Martire Affaitati, scomparso del 1523, «primo mercante d’Italia e gentiluomo cremonese».25

In sostanza una identità ormai aristocratica delle élite non impediva affatto la cooptazione di parvenus arricchiti e nemmeno precludeva for-me di investifor-mento diretto negli affari for-mercantili, che infatti perdurarono sino all’avanzato XVI secolo. Una certa frizione senza dubbiò si mani-festò intorno ai seggi consiliari, ma solo col tardo Quattrocento, per il prestigio in sé della istituzione, ritenuta a torto o ragione un baluardo del ceto dirigente tradizionale. Ciò non toglie che le famiglie di più recente affermazione potessero trovare modo di tutelare o addirittura migliorare la propria posizione sociale ed economica, a dispetto della difficoltà di accedere ad alcuni uffici: un fenomeno recentemente evidenziato per il caso di Brescia tra XV e XVI secolo e stiamo parlando di una città capace di passare da 10mila a 50mila abitanti tra 1400 e 1500, grazie all’attrazio-ne esercitata dalle sue industrie metallurgiche e tessili, molto idoall’attrazio-nee a generare un significativo indotto nelle aree rurali più e meno circostanti (anch’esse per altro popolatissime).26

Su scala più ridotta possiamo trovare un quadro per certi aspetti si-mile nelle Marche centrali e meridionali. L’età d’oro del porto di Ancona e delle vicine fiere di Recanati si colloca grosso modo tra la fine del XIV secolo e la metà del XVI. Più o meno nello stesso periodo si verifica l’a-pogeo manifatturiero di Camerino, come centro tessile e cartario, men-tre Ascoli nel Quattrocento mantiene una spiccata vocazione industriale, in particolare nella lavorazione della lana e del cotone. In un accordo di

25 L. Arcangeli, La città nelle guerre d’Italia (1494-1535), in Storia di Cremona. Il

Quattrocento. Cremona nel Ducato di Milano (1395-1535), a cura di G. Chittolini, Azzano San Paolo (BG), Bolis, 2008, pp. 40-63 (citazione a p. 52). Sui traffici internazionali dagli Affaitati si veda recentemente anche Tognetti, I Gondi di Lione, cit., ad indicem; F. Guidi Bruscoli, Bartolomeo Marchionni «homem de grossa fazenda» (ca. 1450-1530). Un

mercante fiorentino a Lisbona e l’impero portoghese, Firenze, Olschki, 2014, ad indicem; N. Matringe, La Banque en Renaissance. Les Salviati et la place de Lyon au milieu du XVIe

siècle, Rennes, Press Universitaire de Rennes, 2016, ad indicem.

26 Nell’età di Pandolfo Malatesta. Signore a Bergamo, Brescia e Fano agli inizi del

Quattrocento, a cura di G. Chittolini, E. Conti, M.N. Covini, Brescia, Morcelliana, 2012; Moneta, credito e finanza a Brescia. Dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di M. Pegrari, Brescia, Morcelliana, 2014.

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natura per lo più commerciale stipulato nel 1474 tra Ancona, Ascoli e Camerino, si affermava che nei tre centri «ab antiquissimis temporibus mercatores et artifices abundaverunt et in presentibus abundent».27 Non

stupisce dunque che il ceto dirigente di queste città fosse composto in lar-ga parte da esponenti del mondo dell’imprenditoria, con una mobilità so-ciale tutt’altro che modesta. Per quanto nella seconda metà del XV secolo si avvertissero i primi segnali di una chiusura oligarchica, sarà solo nel Cinquecento, nel quadro politico di un più efficiente stato pontificio, che il fenomeno potrà dirsi conclamato.28 Ancora tra lo scorcio del

Trecen-to e la prima metà del QuattrocenTrecen-to, invece, erano possibili ammirevoli ascese socio-economiche, come dimostra il caso dell’imprenditore carta-rio di Camerino Paoluccio di maestro Paolo, capace di mettere in piedi un impero commerciale attivo tra la sua città natale e poi Venezia (dove acquisì la sua seconda cittadinanza), L’Aquila, Firenze e molti centri del Mediterraneo cattolico. Lui e i suoi nipoti sarebbero stati fatti conti pala-tini dall’imperatore Sigismondo.29 Qualche anno più tardi si sarebbe

svol-ta la parabola dei Pierozzi, anch’essi mercanti camerti ma pure citsvol-tadini fiorentini per ‘meriti commerciali’, beneficiati dal re di Napoli Ladislao di Durazzo con terre e feudi nell’Abruzzo settentrionale e a loro volta investiti del titolo comitale dall’imperatore.30 Nel corso del XV secolo,

dunque, anche nelle Marche l’endiadi «nobilis vir et mercator» divenne sinonimo di patrizio.31

Com’è evidente da questi pochi esempi, una forma di promozione sociale derivava agli uomini d’affari marchigiani dall’essere in contatto con le grandi piazze d’affari di Venezia e Firenze, i cui ceti dirigenti era-no percepiti (abbiamo già avuto modo di osservarlo per Ancona) come

27 Citato in G. Pinto, Ascoli Piceno, Spoleto, CISAM, 2013, p. 96.

28 B.G. Zenobi, Le «ben regolate città». Modelli politici nel governo delle periferie

pon-tificie in età moderna, Roma, Bulzoni, 1994, pp. 173-204. La prova e contrario di quanto stiamo dicendo è fornita dalle vicende fermane illustrate da F. Pirani, Fermo, Spo-leto, CISAM, 2010, pp. 73-86. Qui, una economia urbana essenzialmente dominata dal mercato della terra e dei prodotti agricoli, espresse precocemente una chiusu-ra oligarchica, evidente già nella prima metà del Quattrocento, anche se le fami-glie del patriziato locale erano in buona parte di matrice popolare e di trecentesca affermazione.

29 E. Di Stefano, Una città mercantile. Camerino nel tardo Medioevo, Camerino, Università degli Studi, 1998, pp. 101-122.

30 S. Tognetti, L’attività assicurativa di un fiorentino del Quattrocento: dal libro di

conti personale di Gherardo di Bartolomeo Gherardi, «Storia economica», XX, 2017, in corso di stampa.

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il principale modello di riferimento. Del resto, alcune delle famiglie più importanti della Recanati tardo medievale potevano vantare una lonta-na origine veneta, per via dell’appoggio che la Serenissima aveva avuto modo di fornire allo sviluppo delle fiere, vero e proprio centro nodale del commercio medio-adriatico.32 La stessa Ancona, porto internazionale e

cosmopolita, ma spesso osteggiato dai disegni monopolistici di Venezia, finì per assumere un rilievo notevole nel commercio fiorentino tra l’Ita-lia e il Mediterraneo orientale, in particolare tra l’inizio del XV secolo e i primi decenni del Cinquecento e dunque non stupisce che tra il ceto mercantile anconetano tardo quattrocentesco potessero figurare famiglie originarie di Firenze, come quella degli Agli, che per tre-quattro genera-zioni ebbe modo di gestire compagnie d’affari nel centro dorico.33

Anche nel caso marchigiano, dunque, pare che il successo economico sia andato di pari passo con fenomeni di mobilità sociale, pur tenendo conto che i contesti politico-istituzionali (signorie, vicariati apostolici, go-verno di rettori pontifici, ecc.) non potevano ormai permettere scalate spettacolari. La riprova viene proprio dalle due famiglie di Camerino che abbiamo citato, i Paolucci e i Pierozzi, letteralmente falcidiate da Cesare Borgia all’inizio del Cinquecento.34

Concludiamo la risposta alla prima domanda soffermandoci anche sui casi di L’Aquila e Messina. Parlare di egemonia del ceto mercantile in questi due contesti è certamente fuori luogo, perché tra le componenti fondamentali dei ceti dirigenti locali alla fine del Medioevo prevalevano senz’altro la militia, le professioni legate all’esercizio della giustizia e gli incarichi pubblici dovuti al favore regio. Tuttavia, la relativa lontananza dalla capitale lasciò notevoli margini di autonomia alle élite locali e la presenza in loco di uomini d’affari di origine disparata, operanti in rap-presentanza di ditte abituate ad agire su uno scenario internazionale, produsse un forte stimolo alla imprenditoria urbana. L’Aquila si giovò della massiccia richiesta di buona lana da parte delle botteghe delle città toscane, marchigiane e venete, un prodotto ampiamente disponibile visti gli sterminati pascoli su cui allevare le greggi. A questa attività tradizio-nale, ma in forte espansione dopo la Peste Nera, si affiancò la produzione di zafferano e seta grezza: articoli destinati inevitabilmente ai traffici su

32 L. Zdekauer, Le fiere di Recanati. Contributo alla storia del commercio nella Marca

d’Ancona, in M. Moroni, Lodovico Zdekauer e la storia del commercio nel medio Adriatico, Ancona, Quaderni di “Proposte e ricerche”, 1997, pp. 121-173; Id., Sviluppo e declino

di una città marchigiana. Recanati tra XV e XVI secolo, Ancona, Quaderni di “Proposte e ricerche”, 1990, capp. II-III.

33 Tognetti, Il mercato assicurativo, cit.

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vasta scala. Come hanno mostrato recenti ricerche, il ceto dirigente di L’Aquila nel XV secolo era tutt’altro che chiuso e la vocazione mercantile era considerata un’opzione da tenere in attenta considerazione.35

Analogamente Messina, porto di transito per eccellenza nel commer-cio marittimo mediterraneo e, tra tardo Medioevo e prima età moderna, punto di stoccaggio fondamentale della seta grezza siciliana e calabrese, si giovò a lungo del fatto di essere uno dei riferimenti primari nel com-mercio di genovesi e veneziani, catalani e fiorentini. Per quanto non ap-parisse particolarmente aperto verso i nuovi ingressi (almeno nel Quat-trocento, prima probabilmente sì), quello messinese era sicuramente un ceto dirigente nel quale la mercatura occupava uno spazio di assoluto rilievo, essendo oltretutto in grado di orientare i propri investimenti a seconda delle congiunture commerciali mediterranee.36

Tirando le fila del discorso, la conclusione che si può trarre dalle pre-cedenti osservazioni, fatte salve le differenze anche sensibili tra un’area e l’altra dell’Italia quanto a contesti politici, economici e culturali, è che la mobilità sociale non sembrava affatto atrofizzata, caso mai faceva più fatica, almeno rispetto al passato duecentesco, nel tenere il passo di vi-vaci (se non addirittura brillanti) dinamiche economiche. E questo non tanto perché la mercatura fosse considerata una attività poco apprezzata, quanto perché società strutturate e ormai inserite in meccanismi istitu-zionali consolidati offrivano resistenze maggiori al cambiamento sociale e politico.

La risposta al secondo dei quesiti inizialmente proposti è più proble-matica, per il semplice fatto che gli esempi disponibili paiono andare in direzione non sempre lineare.

Certamente nelle città del Piemonte orientale e dell’area emiliano-ro-magnola, la caduta di tono del mondo mercantile è indubbia. Asti e Pia-cenza, patria di grandi banchieri ‘lombardi’ tra Due e Trecento, paiono trasformarsi dalla metà del XIV secolo in centri periferici di stati regionali dove la funzione pubblica e il possesso fondiario assumono un nuovo e potente rilievo. Alcune delle famiglie che nell’età di Dante esercitavano con successo il commercio e l’attività di prestito su vasta scala (tra cui

35 P. Terenzi, Forme di mobilità sociale a L’Aquila alla fine del Medioevo, in La

mobi-lità sociale nel Medioevo italiano. Competenze, conoscenze e saperi tra professioni e ruoli so-ciali (secc. XII-XV), a cura di L. Tanzini e S. Tognetti, Roma, Viella, 2016, pp. 181-209. 36 E. Pisipisa, Messina medievale, Galatina (LE), Congedo, 1996, pp. 59-63 e 108-115; F.P. Tocco, Ceti cittadini e poteri regi nella Sicilia aragonese, in La mobilità sociale nel

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Roero, Solaro, Faletti, Guttuari, Alfieri, Scarampi, Malabaila, da una par-te; Arcelli, Anguissola, Scotti, Landi, Fontana, dall’altra) un secolo dopo risultano interessarsi fondamentalmente di beni immobili, terre e feudi di recente acquisizione.37 Resta da chiedersi se questa mutazione dipenda

da una sudditanza culturale nei confronti dei mai superati modelli cortesi cavallereschi (come di solito viene ripetuto), oppure da uno scacco eco-nomico patito da questi centri dell’Italia nord-occidentale nel corso del XIV secolo. Difficile dare una risposta univoca, ma non si può sorvolare sul fatto che a lungo i legami di natura commerciale e bancaria tra Milano (e più in generale tutta l’area lombarda) da una parte e il grande porto di Genova dall’altra, furono tenuti da piacentini, astigiani, alessandrini, al-besi, tortonesi, ecc. Quando, nel pieno e tardo Trecento, la geografia della politica e del commercio si venne semplificando grazie all’affermazione di più articolate e robuste gerarchie, in poche parole con la nascita di un nuovo e più agguerrito ceto mercantile milanese, gli intermediari furono progressivamente messi fuori gioco.38 Non si può dunque escludere che

il mito aristocratico di tanti lignaggi della Padania occidentale sia qualco-sa che ricorda la volpe e l’uva di esopiana memoria. In ogni caso, rispetto ad altre aree dell’Italia settentrionale sono evidenti una minore mobilità sociale e un più deciso restringimento dei ceti dirigenti urbani.

In area romagnola, invece, il ceto mercantile era sempre stato debole e l’economia gravitante in larga parte sulle risorse della terra. Qui i mo-delli aristocratici non erano mai tramontati e i signori di Romagna, prima e dopo le imprese militari del cardinal legato Egidio Albornoz, divennero sinonimo di tirannide urbana, non di rado capricciosa e poco affidabile per i mercanti forestieri (per lo più veneziani e fiorentini).39 Non sarà

inoltre un caso che buona parte dei condottieri di ventura tre-quattro-centeschi provenisse dall’area compresa tra il Reno a nord e il Metauro a

37 Per Piacenza si vedano almeno i contributi di Pierre Racine all’interno della

Storia di Piacenza, vol. III: Dalla signoria viscontea al principato farnesiano (1313-1545), a cura di P. Castignoli, Piacenza, TIP.LE.CO, 1997. Su Asti e le altre città del Piemonte orientale cfr. Lombardi in Europa nel Medioevo, a cura di R. Bordone e F. Spinelli, Mi-lano, FrancoAngeli, 2005.

38 Su questi aspetti mi permetto di rinviare (anche e soprattutto per i riferimenti bibliografici) a S. Tognetti, Commercio e banca in Lombardia dal secondo Duecento alla

fine del Trecento: una proposta interpretativa, in La congiuntura del primo Trecento in

Lom-bardia (1290-1360), Rome, École française de Rome, 2017, in corso di stampa. 39 J. Larner, Signorie di Romagna. La società romagnola e l’origine delle Signorie, trad. it., Bologna, il Mulino, 1972; A. Vasina, L’area emiliana e romagnola, in Storia

d’I-talia, vol. VII, tomo I, G. Cracco – A. Castagnetti – A. Vasina – M. Luzzati, Comuni

e signorie nell’Italia nordorientale e centrale: Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Torino, Utet, 1987, pp. 359-559.

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sud. Le città governate dai Malatesta ebbero certamente modo di attirare architetti, letterati e pittori famosi, ma difficilmente dettero i natali a ri-nomati uomini d’affari.

Il quadro si complica quando affrontiamo i casi toscani e umbri con-trassegnati da un declino economico indubitabile dalla metà del Trecento in avanti. L’esempio forse più eclatante di potenza commerciale e finan-ziaria europea progressivamente ridotta a centro economico di ambito italiano e poi regionale è certamente Siena. La città aveva raggiunto forse i 50mila abitanti all’inizio del XIV secolo, ma ne aveva solo 15mila a metà Quattrocento, quando ormai stava diventando esportatrice di banchieri destinati a fare fortuna e a trovare una seconda patria altrove, come negli esempi dei Chigi e degli Spannocchi a Roma.40 La dinamica politica però

rimase assai effervescente almeno per tutta la seconda metà del XIV seco-lo, con cambi di regime e affermazione di nuove famiglie che finirono per identificarsi nelle istituzioni più rappresentative da loro stesse create (i Nove, i Dodici, il Popolo).41 E nonostante che nel corso del Quattrocento

i raggruppamenti politici si cristallizzassero nei cosiddetti Monti, a fatica si potrebbe parlare di vera e propria oligarchia. Ancora una volta potrem-mo chiamare alla sbarra un testipotrem-mone ‘terzo’, e cioè maestro Valesio, professore portoghese dello Studio senese. Nel 1451 venne denunciato perché avrebbe definito «uno reggimento di merda» il governo comunale al quale prendevano parte anche speziali, conciatori e calzolai.42

In sostanza, pur nel declino delle attività commerciali, alcune città toscane conservarono una sorta di vaga ideologia popolare, il che non toglie che questa maschera potesse celare disegni oligarchici (quando non esplicitamente signorili) da parte di famiglie e di ceti più ristretti. Tuttavia, anche quando si ha a che fare con comuni nei quali gli storici sembrano concordi nel rintracciare un carattere elitario del suo governo, resta sem-pre il dubbio che si voglia far retrocedere nel tempo dinamiche evidenti solo con la prima età moderna. A questo riguardo pare emblematico il caso lucchese, molto ben studiato dalla storiografia anglosassone.

È bene premettere che l’economia di Lucca, pur soffrendo le conse-guenze dell’emigrazione di imprenditori serici e maestranze qualificate

40 Cfr. S. Tognetti, «Fra li compagni palesi et li ladri occulti». Banchieri senesi del

Quattrocento, «Nuova Rivista Storica», LXXXVIII, 2004, pp. 27-101. Ma si vedano an-che molti dei saggi contenuti in L’ultimo secolo della Repubblica di Siena. Politica e

isti-tuzioni, economia e società, a cura di M. Ascheri e F. Nevola, Siena, Accademia senese degli Intronati, 2007.

41 G. Cherubini, I mercanti e il potere a Siena, in Id., Città comunali di Toscana, Bologna, Clueb, 2003, pp. 297-348: 329 e sgg.

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già nel primo Trecento per via degli scontri di fazione tra guelfi e ghibel-lini, e poi quelle dell’occupazione pisana (1342-1369) e della Peste Nera, riuscì tenacemente a mantenere in piedi la sua struttura portante: il bino-mio arte della seta e mercatura internazionale. Inutile ricordare i numero-si esempi: gli uomini d’affari lucchenumero-si sono dappertutto in Europa numero-sino al Cinquecento inoltrato. E il ceto dirigente della città fu sempre espressione del mondo mercantile. Il punto in questione è, se mai, quanto numeroso fosse questo ceto. Nei decenni finali del XIV secolo, quando la città conta-va poco più di 10mila abitanti per via delle ricorrenti pestilenze, le famiglie che esprimevano personale politico oscillavano tra le 170 e le 180 unità.43

Gli studiosi ovviamente tengono a sottolineare che le decisioni venivano prese in circoli più ristretti, però i numeri non si possono cancellare. Se si tiene conto che nelle famiglie dei ceti medio-alti i figli erano più numerosi rispetto alla media standard dei ménage, e pertanto si adotta un coefficien-te moltiplicatore ben superiore a quello previsto i nuclei familiari nel loro complesso (cioè tra 5,5 e 6 e non tra 3,5 e 4), avremmo circa mille indivi-dui, cioè il 10% della popolazione lucchese. Durante il Quattrocento, in un panorama di lieve ripresa demografica, vi fu un relativo restringimento della base, però con cambiamenti interessanti sia in entrata che in uscita. La famiglia maggiormente presente nell’anzianato e nel gonfalonierato di giustizia dal 1430 al 1494, quella dei Trenta, e anche la terza di questa idea-le classifica, i Totti, erano virtualmente assenti dalla vita politica lucchese prima della Peste Nera. Per non parlare degli Arnolfini, immortalati dal geniale pennello del pittore fiammingo Jan van Eyck nei primi anni ’30 del Quattrocento: un secolo prima erano quasi sconosciuti.44 Viceversa

man-cano totalmente nel XV secolo alcune famiglie particolarmente influenti cento anni prima, come gli Spiafami, i Carincioni, i Becchi, i Bernarducci, ecc.45 Del resto, un ceto di governo quasi essenzialmente mercantile per

riprodurre se stesso aveva bisogno di un successo economico sostenuto e duraturo, che ovviamente andava cercato al di fuori di una piccola repub-blica come era quella lucchese, con tutti i rischi del caso.

Un destino per alcuni aspetti simile a quello senese pare aver con-diviso il mondo urbano umbro e Perugia in particolare. La dinamica

43 Ch. Meek, Lucca 1369-1400. Politics and Society in an Early Renaissance

City-State, Oxford, Oxford University Press, 1978, pp. 189-193.

44 Sulla parabola degli Arnolfini a Bruges si veda L. Galoppini, Mercanti toscani

e Bruges nel tardo Medioevo, Pisa, Plus, 2009, pp. 181-207.

45 S. Polica, Le famiglie del ceto dirigente lucchese dalla caduta di Paolo Guinigi alla

fine del Quattrocento, in I ceti dirigenti nella Toscana del Quattrocento, Firenze, Le Mon-nier, 1987, pp. 353-384; M.E. Bratchel, Lucca 1430-1494. The Reconstruction of an

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economica non positiva, avviatasi dopo la metà del Trecento, innescò un progressivo trasferimento dei capitali dall’area del profitto a quello della rendita, con il risultato che, a livello di patrimoni, è difficile nel Quattro-cento distinguere il profilo di una famiglia di origine mercantile da quello di un lignaggio di estrazione magnatizia. La fusione di queste due com-ponenti avvenne nel segno di un indubbio restringimento della mobilità sociale, soprattutto durante e dopo l’esperienza della signoria di Braccio da Montone (1416-1424). Singolarmente, però, l’impalcatura istituzio-nale imperniata sul governo delle Arti non venne meno, nonostante lo svuotamento di significato presso che totale di tale precedente esperienza politica, rimarcata dal fatto che il governo delle corporazioni spettava a quei cittadini che non svolgessero alcun tipo di lavoro artigianale. Se oli-garchia patrizia vi fu, essa ebbe dunque l’accortezza di presentarsi con le vecchie insegne della tradizione comunale dei governi di Popolo, come se avesse pudore a mostrarsi col suo vero volto.46 Esemplari a questo

pro-posito furono le arti della Mercanzia e del Cambio, definite entrambe ‘nobili collegi’, le cui cariche erano totalmente monopolizzate da fami-glie patrizie non particolarmente addentro al mondo imprenditoriale, ma evidentemente sensibili all’idea di trovare nella sfera della mercatura un punto di riferimento ideologico alto.47

In sostanza, là dove si presentò il fenomeno della crisi economica, la reazione della società non fu la medesima, probabilmente perché in passato la contrapposizione socio-politica tra i ceti mercantili e impren-ditoriali (allora in unità di intenti con quelli artigiani) e quelli imperniati nelle famiglie magnatizie si era svolta secondo dinamiche assai differenti: debole o inconsistente nelle città dell’Italia nord-occidentale (troppo vici-ne ai modelli francesi e angioini), ben più marcata (e talora con caratteri di radicalità ideologica) nei centri toscani e umbri dove «la legislazione antimagnatizia concorre direttamente a forgiare la memoria sociopolitica delle élite dirigenti urbane».48

46 A. Grohmann, Città e territorio tra Medioevo ed età moderna (Perugia, secc.

XIII-XVI), 2 voll., Perugia, Volumnia, 1981, vol. I, pp. 131-279; Statuti e matricole del

Collegio della Mercanzia di Perugia, a cura di C. Cardinali, A. Maiarelli e S. Merli con A. Bartoli Langeli. Saggi introduttivi di E. Irace e G. Severini con un contributo di M. Santanicchia, Perugia, Deputazione di storia patria per l’Umbria, 2000.

47 G. Severini, «Nobile Collegio della Mercanzia»: storia perugina di un ossimoro

giu-ridico, in Statuti e matricole, cit., pp. xv-lxv.

48 G. Castelnuovo, Être noble dans la cité. Les noblesses italiennes en quête d’identité

(XIIIe-XVe siècle), Paris, Classiques Garnier, 2014, p. 376. È assai probabile che la

dina-mica tosco-umbra si addica anche al caso di Bologna: cfr. ivi, parte IV. Il capoluogo emiliano è tuttavia troppo poco studiato dal punto di vista economico-sociale per andare al di là di semplici ipotesi.

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E veniamo dunque al cuore della nostra discussione, affrontando il tema della mobilità sociale nelle quattro città italiane che, nel tardo Me-dioevo, rappresentavano il fulcro commerciale, manifatturiero e finanzia-rio non solo della Penisola ma dell’intera Europa mediterranea.

Partiamo da Genova. La città ligure, forse anche per l’impossibilità di creare un consistente dominio territoriale, pari o almeno simile a quelli di Firenze, Milano e Venezia, che facesse da supporto istituzionale all’attivi-tà dei suoi uomini d’affari, sopperì alla carenza della dimensione pubblica e statuale con una notevole creatività sul piano imprenditoriale. Pochi uomini d’affari nella storia basso medievale e rinascimentale dell’Europa sono stati in grado di rivaleggiare con i genovesi quanto a capacità di operare scelte innovative, riconvertire prontamente i propri investimenti in funzione delle congiunture economiche e politiche, trovare soluzioni nuove a vecchi problemi. Nel periodo precedente la Peste Nera, gran par-te del loro commercio gravitava, oltre che sulla Penisola italiana, verso il mediterraneo islamico e bizantino, il mar Nero slavo, mongolo e turco-manno. Dopo di che i loro velieri, sempre più grandi e capienti, divenne-ro i vettori navali per eccellenza per collegamenti a lunga distanza: fioren-tini e milanesi si servivano abitualmente di navi tonde liguri per carichi ingombranti e voluminosi lungo le rotte che collegavano il Mediterraneo e l’Atlantico, giovandosi della rivoluzione dei noli ad valorem descritta da Federigo Melis e Jacques Heers. Nel frattempo gli uomini d’affari della città della Lanterna sperimentarono forme particolari di associazioni in compartecipazione tra più mercanti, le cosiddette ‘maone’, non di rado giudicate veri e propri cartelli ante litteram e provarono anche a inventarsi un istituto di credito centrale garantito dall’ente preposto al governo del debito pubblico (la Casa di San Giorgio). Viceversa, alla fine del Quattro-cento il baricentro degli affari genovesi, anche per via della irresistibile avanzata ottomana, si spostò quasi totalmente verso la Penisola iberica, in particolare lungo gli itinerari che univano Valencia ai porti andalusi e da questi a Lisbona, agganciandosi così al prossimo destino oceanico del-la monarchia castigliana e di queldel-la portoghese. Inoltre non si dovrebbe dimenticare che durante tutto il Quattrocento gli imprenditori di Geno-va aveGeno-vano messo in piedi quella che, all’inizio del XVI secolo, sarebbe divenuta la più prospera industria della seta d’Italia, e quindi d’Europa. E infine, difficilmente si potrebbe sottostimare la potenza finanziaria eserci-tata dai banchieri della Lanterna in un’Europa cinquecentesca dominata politicamente dagli Asburgo.

Con una vocazione quasi obbligata al commercio marittimo, Genova ebbe sin dal XII secolo un ceto dirigente composto da uomini d’affari, solo che il governo comunale rimase a lungo appannaggio di un numero ristretto di lignaggi identificabili con le così dette quatuor gentes (Spinola,

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Doria, Grimaldi e Fieschi) e con alcune famiglie nobiliari a esse associate. Impegnati nell’attività mercantile, armatoriale e bancaria, ma altresì do-tati di consistenti beni patrimoniali oltre che in città anche nel contado, dove per altro controllavano pure feudi e castelli, questi consorzi paren-tali tennero di fatto bloccata la dinamica socio-politica sino a che una sommossa popolare, guidata da ricche famiglie di parvenus, non spezzò l’equilibrio. La nascita del dogado nel 1339, con la figura carismatica di Si-mone Boccanegra, segnò, infatti, un cambiamento sociale importante nel governo della città, determinando l’avvento al potere di nuove famiglie mercantili e la relativa emarginazione politica delle quatuor gentes.49 La

si-gnificativa apertura a forze nuove, generalmente provenienti dal mondo degli affari e della imprenditoria urbana (Adorno, Campofregoso, Giusti-niani, Franchi, ecc.) comportò il declino di alcune casate storiche (come ad esempio gli Zaccaria), ma spinse anche altre famiglie di tradizione no-biliare a modificare la gestione dei propri patrimoni, supplendo alla deca-denza politica che li aveva coinvolti con un maggior impegno nelle atti-vità economiche (come nel caso veramente emblematico dei Lomellini). D’altra parte, come ebbe modo di osservare il giurista Bartolomeo Bosco all’inizio del XV secolo, «tota civitas vivit ex mercantia, unde videmus quod lex favet mercatoribus et plus eis condecit quam aliis».50 Ed è sulla

scorta di queste considerazioni che recentemente Giovanna Petti Balbi ha affermato: «esiste una massiccia mobilità sociale ed economica, perché Genova è stata veramente Ianua nel significato figurale e reale durante il periodo medievale».51

Nel XV secolo la grande diffusione degli ‘alberghi’ genovesi, raggrup-pamenti di casate nobiliari come popolari, incanalò la mobilità sociale secondo meccanismi di cooptazione progressivamente più rigidi.52 Ma

anche in questo caso resta il sospetto che si sia voluto proiettare nell’età

49 G. Petti Balbi, Simon Boccanegra e la Genova del ’300, Napoli, ESI, 1995; Ead.,

Tra dogato e principato: Il Tre e il Quattrocento, in Storia di Genova. Mediterraneo,

Eu-ropa, Atlantico, a cura di D. Puncuh, Genova, Società Ligure di Storia Patria, 2003, pp. 233-324.

50 Citato in G. Petti Balbi, Élites economiche ed esercizio del potere a Genova nei

secoli XIII-XV, in Strutture del potere, cit., p. 29.

51 G. Petti Balbi, Cittadinanza e altre forme di integrazione nella società genovese

(sec. XIV-XV), in Cittadinanza e mestieri. Radicamento urbano e integrazione nelle città bassomedievali (secc. XIII-XVI), a cura di B. Del Bo, Roma, Viella, 2014, pp. 95-140: 96. Monolitica è invece la posizione dello storico-sociologo Quentin Van Doosselaere, il quale vede nella storia basso medievale di Genova una inscalfibile dimensione feu-dal-aristocratica: cfr. Commercial Agreements and Social Dynamics in Medieval Genoa, Cambridge, Cambridge University Press, 2009.

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dell’origine del fenomeno una realtà consolidatasi solo nel XVI secolo. Diversamente si farebbe fatica a spiegare l’ascesa sociale e politica di fa-miglie come quella dei Balbi, cuoiai e mercanti di pellami nella seconda metà del Quattrocento, nobili iscritti nel Liber Civilitatis dall’anno 1528.53

D’altra parte, proprio la riforma dell’ordinamento politico genovese del 1528, per quanto giustamente sia stata definita una ‘serrata’, inquadrava nella nuova aristocrazia cittadina vecchi nobili e stimati popolari che ave-vano preso parte alla gestione della cosa pubblica nei decenni precedenti, sì che si arrivò a ‘delimitare’ la piena cittadinanza politica a non meno di 1.500 individui, su una popolazione complessiva di circa 50-60 mila abi-tanti. Il problema, se mai, fu che i meccanismi, pur previsti, di ulteriori cooptazioni furono progressivamente disattesi e solo allora, cioè nel pie-no e tardo XVI secolo il ceto dirigente gepie-novese si configurò come una vera e propria oligarchia.54

Per quanto riguarda Milano, la situazione è tutt’altro che lineare. Qui il precoce governo di una dinastia cittadina signorile, poi ducale dalla fine del Trecento e quindi a tutti gli effetti principesca, svolse un ruolo assai rilevante nella scelta e nella scrematura del ceto dirigente ambrosiano. Dal nostro punto di vista, che è quello degli uomini d’affari, ebbe modo di agire in notevole misura anche un altro fenomeno: la lentezza con cui si venne formando a Milano un ceto mercantile paragonabile a quello di Genova, Venezia e Firenze. E, a onore del vero, il confronto storiografi-co principale è sempre stato storiografi-condotto storiografi-con il prototipo toscano, essendo Milano una città dell’entroterra alla ricerca costante di sbocchi portuali al pari di Firenze.

Bisogna quindi partire da una constatazione basilare. Nonostante che Milano, come la gran parte delle città lombarde, sia stata per secoli un centro manifatturiero di rilevanza europea (nel tessile, nella lavorazio-ne dei metalli, lavorazio-nella concia e lavorazio-nella trasformaziolavorazio-ne di pelli e cuoia), essa ha fatto tuttavia molta fatica a emergere come potenza commerciale e finanziaria, almeno fino a buona parte del XIV secolo. La virtuale incon-sistenza delle fonti documentarie relative a mercanti e banchieri milanesi prima di tale periodo non può dipendere esclusivamente dalle dispersioni archivistiche, ma ha le sue ragioni nel tessuto economico ambrosiano costituito evidentemente da molti addetti ai lavori, tantissime botteghe e

53 L. Gatti, Conciatori genovesi negli attivi notarili del secondo Quattrocento, in Il

cuoio e le pelli in Toscana, a cura di S. Gensini, Pisa, Pacini, 2000, pp. 337-351.

54 Grendi, La repubblica aristocratica, cit., pp. 13-48; C. Bitossi, Oligarchi. Otto

studi sul ceto dirigente della Repubblica di Genova (XVI-XVII secolo), Genova, Università degli Studi, 1995, pp. 5-24; A. Pacini, La repubblica di Genova nel secolo XVI, in Storia di

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