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Approcci negli spostamenti per la stabilizzazione di pendii con sistemi corticali

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Academic year: 2021

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Corso di Laurea Magistrale in

Ingegneria Civile

APPROCCI NEGLI SPOSTAMENTI PER LA

STABILIZZAZIONE DI PENDII CON SISTEMI

CORTICALI

Tesi di Laurea di:

Bego Anna 883310

Picchioni Silvia 863687

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(3)

SOMMARIO

In questo elaborato si studia la stabilità di un pendio ideale in materiale sciolto. Per studiare la stabilità del versante, si utilizza il metodo dell’equilibrio limite, in particolare col metodo dei conci di Bishop si ricerca il fattore di sicurezza minimo, associato al meccanismo di collasso del pendio. Al tal fine si fa uso del software Geoslope ed Excel. Il sistema viene perturbato idraulicamente e si studia l’evoluzione di FS al variare della posizione della falda.

Attraverso l’impiego dei sistemi corticali passivi si cerca la soluzione migliore per stabilizzare il versante e prevenirne il crollo. Si progetta un intervento prima allo stato limite ultimo e poi con il del metodo ibrido, che tiene conto degli spostamenti che attivano le forze stabilizzanti del sistema corticale.

L’equilibrio limite e il metodo ibrido non forniscono informazioni riguardo l’evoluzione degli spostamenti del sistema, né sul tempo necessario affinché l’intervento stabilizzante si possa attivare. Per questo motivo si valuta infine l’efficienza dell’opera progettata con un metodo negli spostamenti, integrando l’equazione del moto del sistema.

(4)
(5)

SOMMARIO ... 1

Indice figure ... 7

1.

Il problema della stabilità dei pendii: le frane... 11

1.1.

Il fenomeno e i tipi di frane ... 11

1.2.

Dimensioni e velocità di una frana ... 14

1.3.

Il rischio ... 16

1.3.1.

Le misure di mitigazione del rischio ... 17

1.3.2.

Le opere di stabilizzazione dei pendii ... 18

1.3.3.

Misure di stabilizzazione strutturale ... 19

1.3.4.

Le tipologie più diffuse di opere stabilizzanti ... 20

2.

L’analisi di stabilità dei pendii ... 23

2.1.

Il metodo dell’equilibrio limite per l’analisi di stabilità di un

pendio ... 24

2.1.1.

Il metodo di Fellenius (1927) ... 27

2.1.2.

Il metodo di Bishop (1955) ... 29

2.1.3.

Il metodo di Janbu (1967) ... 30

2.2.

Progettazione: l’approccio per sottostrutture ... 31

2.2.1.

L’equilibrio limite e lo stato limite ultimo ... 33

2.2.2.

I metodi ibridi ... 34

2.2.3.

Metodo negli spostamenti ... 36

3.

I Sistemi Corticali ... 39

4.

Esempio di calcolo ... 55

(6)

4.2.

Descrizione del problema ... 56

4.3.

Analisi di stabilità all’equilibrio limite ... 57

4.3.1.

Minimizzazione della superficie di rottura circolare ... 59

4.4 Metodo dell’equilibrio limite allo stato limite ultimo ... 61

4.4.1. Ricerca della pressione stabilizzante ... 66

4.4.2. Risultati del progetto allo SLU ... 80

4.5 Metodo ibrido ... 82

4.5.1. Campo di spostamenti del terreno ... 83

4.5.2. Curva di interazione e curva caratteristica del sistema ... 89

4.5.3. Aumento del fattore di sicurezza ... 92

4.5.4. Confronto tra le spaziature ... 93

4.5.5. Fattore di sicurezza per le quattro superfici ... 95

4.5.6. Andamento di FS della S176 al variare di Hw ... 96

4.6. Progetto dell’intervento per i meccanismi locali ... 99

5.

Metodo negli spostamenti... 103

5.1.

Modello rigido visco-plastico ... 104

5.1.1. Calibrazione coefficiente di viscosità η ... 105

5.2.

Integrazione alle differenze finite dell’equazione di moto ...

... 107

5.3.

Risultati con spaziatura S=1.75 m ... 110

5.3.1.

Profili di velocità e forze della rete ... 115

5.4.

Risultati con Spaziatura S=1 m. ... 117

5.5.

Risultati con variazione della falda ... 121

(7)

5.5.2.

Spaziatura 1 m ... 126

6.

Conclusioni ... 129

Bibliografia ... 133

(8)
(9)

Indice figure

Figura 1.1 Frana a Tizzano, novembre 2018. ... 11

Figura 1.2 Crolli (Cruden & Varnes 1996). ... 12

Figura 1.3 Ribaltamenti (Cruden & Varnes 1996). ... 12

Figura 1.4 Scivolamenti traslazionali e rotazionali (Cruden & Varnes 1996). .. 13

Figura 1.5 Espansioni laterali (Cruden & Varnes 1996). ... 13

Figura 1.6 Colate (Cruden & Varnes 1996). ... 14

Figura 1.7 Dimensioni dei movimenti di massa (da WP/WLI, 1993). ... 15

Figura 1.8 Scala di intensità delle frane basata sulla velocità e sul danno prodotto (da Cruden & Vernes, 1994, Australian Geomechanics Society,2002). ... 16

Figura 1.9 Esempio di pali come opere di sostegno. ... 21

Figura 2.1 (a) discretizzazione di un pendio in conci; (b) forze agenti sul concio i-esimo. ... 25

Figura 2.2: a.) identificazione del campo di velocità del pendio; b.) stima delle azioni di sostegno; c.) scelta della tipologia di intervento; d.) dimensionamento e verifiche dell’opera. (Politecnico di Milano, 2018). ... 32

Figura 2.3 Rappresentazione schematica dello spostamento che attiva la forza.34 Figura 2.4 a) Esempi di curve caratteristiche e b) relazioni tra FS e ampiezza dello spostamento. ... 35

Figura 2.5 Descrizione schematica dei tra approcci progettuali. ... 37

Figura 3.1 I sistemi corticali. ... 39

Figura 3.2 Sistemi Corticali. ... 40

Figura 3.3 Rappresentazione schematica dei Sistemi Corticali. ... 41

Figura 3.4 Il ruolo della spaziatura tra i chiodi: (a) la piastra e (b) il blocco tridimensionale potenzialmente instabile. ... 45

Figura 3.5 Il sistema di ancoraggio superficiale: (a) vista schematica, (b) forze agenti sulla piastra, (c) pressione di confinamento addizionale garantita dalla rete. ... 46

(10)

Figura 3.6 Geometria per il calcolo numerico. ... 47 Figura 3.7 Funzione di forma del cedimento elastico attorno alla piastra: valori e adattamento numerico di Foster and Azhlvin. ... 49 Figura 3.8 Rappresentazione schematica di (a) rete metallica nella configurazione indeformata, (b) rete metallica nella configurazione deformata, (c) molle elasto-plastiche di contatto normale e (d) molle elasto-elasto-plastiche di contatto tangenziale. ... 51 Figura 3.9 Risposta meccanica della piastra. ... 52 Figura 3.10 Risposta meccanica del sistema per una sabbia densa, al crescere della spaziatura. ... 54 Figura 3.11 Risposta meccanica del sistema per una sabbia sciolta, al crescere della spaziatura. ... 54 Figura 4.1 Profilo del pendio. ... 57 Figura 4.2 Superficie di rottura circolare suddivisa in conci. ... 58 Figura 4.3 (a) Griglia dei CIR e dei raggi; (b) 294 superfici circolari di rottura. ... 60 Figura 4.4 Validazione numerica tra Excel e Geoslope. ... 61 Figura 4.5 (a) Variazione della superficie di falda; (b) andamento di FS al crescere di Hw. ... 62 Figura 4.6. Superfici critiche da Geoslope. ... 63 Figura 4.7 (a) Andamento di FS al crescere di Hw per le 4 superfici; (b) inviluppo degli FS minimi. ... 65 Figura 4.8 Rappresentazione schematica delle forze agenti sul generico concio. ... 67 Figura 4.9 Profilo del pendio e linea neutra. ... 68 Figura 4.10 Applicazione uniforme della pressione stabilizzante lungo la lunghezza effettiva. ... 69 Figura 4.11. Pressioni stabilizzanti per le quattro superfici... 70

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Figura 4.13 Curve caratteristiche delle pressioni ... 74 Figura 4.14 (a) Ricostruzione della curva per spaziatura 1,75 m; (b) pressioni per spaziatura 1,75 m. ... 76 Figura 4.15 Rappresentazione della distribuzione dei chiodi sul pendio. ... 77 Figura 4.16 Rappresentazione dell’intervento dimensionato. ... 78 Figura 4.17 (a) Rappresentazione schematica della distanza massima tra la superficie di scorrimento e il profilo del pendio; (b) rappresentazione di un tirante formato da trefoli. ... 79 Figura 4.18 Andamento degli FS allo SLU. ... 80 Figura 4.19 Differenza tra il metodo allo stato limite ultimo e il metodo ibrido. ... 83 Figura 4.20 (a) Rotazione rigida del pendio; (b) campo di spostamenti lungo la superficie del pendio ... 85 Figura 4.21 Spostamento che attiva la forza nel chiodo i-esimo. ... 86 Figura 4.22 (a) Andamento degli spostamenti Un per ogni chiodo; (b) andamento di Un lungo il pendio, fissata l’ampiezza dello spostamento a 35 cm. ... 88 Figura 4.23 (a) Curva di interazione chiodo-terreno; (b) confronto tra la curva caratteristica del sistema e la famiglia di curve di interazione. ... 90 Figura 4.24 Fattore di sicurezza di S176. ... 92 Figura 4.25 (a) Fattore di sicurezza per le diverse spaziature; (b) spostamenti necessari per ottenere FS=1,3. ... 94 Figura 4.26 Fattore di sicurezza delle quattro superfici, per Hw=14m. ... 96 Figura 4.27 Andamento di FS al variare della posizione della falda, per S176. 97 Figura 4.28 Andamento degli spostamenti necessari per ottenere FS=1,3. ... 98 Figura 4.29 Andamento degli spostamenti necessari per avere FS=1,3 per tutti i meccanismi critici. ... 99 Figura 4.30 Nuovo meccanismo critico oltre la lunghezza dell’intervento. .... 100 Figura 5.1 Confronto spostamenti con e senza intervento ... 103

(12)

Figura 5.2 Composizione del campo di velocità all’istante iniziale per i 4

meccanismi critici. ... 108

Figura 5.3 Curva caratteristica scalata per la spaziatura 1,75 m dalla quale ottenere le forze Q. ... 111

Figura 5.4 Spostamenti verticali del ciglio del pendio per una spaziatura di 1,75 m. ... 112

Figura 5.5 Differenza tra due differenti passi di integrazione temporale. ... 114

Figura 5.6 Andamento profili di velocità lungo il pendio negli anni. ... 115

Figura 5.7 Andamento profili di pressione lungo il pendio negli anni. ... 116

Figura5.8 Confronto curve Q per due differenti spaziature. ... 118

Figura 5.9 Confronto interventi con spaziature differenti. ... 119

Figura 5.10 Confronto profili velocità per le due diverse spaziature. ... 120

Figura 5.11 Confronto andamento profili di pressione lungo il pendio negli anni per le due differenti spaziature. ... 121

Figura 5.12 Andamento della falda nel corso dei quattro anni. ... 122

Figura 5.13 Confronto spostamenti limite del pendio con falda costante e non nel tempo. ... 123

Figura 5.14 Spostamenti del pendio con S=1,75 m e variazione della falda. ... 124

Figura 5.15 Confronto forze dopo 4 anni con forzanti idrauliche differenti. ... 125

Figura 5.16 Confronto interventi con spaziature differenti facendo variare il livello piezometrico. ... 126

Figura 5.17 Confronto medesimo intervento con falda variabile e costante. ... 127

Figura 5.18 Confronto forze dopo 4 anni con forzanti idrauliche differenti. ... 128

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1. Il problema della stabilità dei pendii: le

frane

Figura 1.1 Frana a Tizzano, novembre 2018.

1.1. Il fenomeno e i tipi di frane

In letteratura, una frana è definita come un “movimento di roccia, detrito e/o terra lungo un versante, sotto l’influenza della gravità” (Varnes, 1958; Cruden, 1991, Crozier, 1999).

Il termine frana comprende una vasta gamma di fenomeni e in natura esse si manifestano in maniera molto diversa; negli anni sono state prodotte numerose classificazioni, a partire da quella di Varnes (1978) successivamente rivista da Carrara, D’Elia e Semenza (1987) e da Cruden e Varnes (1996). I fenomeni franosi vengono distinti in base a due parametri fondamentali: 1) natura del materiale coinvolto; 2) tipologia del movimento di massa.

Solitamente si classificano le frane in sette classi principali: crolli, ribaltamenti, scorrimenti traslativi, scorrimenti rotazionali, espandimenti laterali, colate e

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frane complesse, queste ultime derivanti da più combinazioni di meccanismi di movimento diversi. Le classi di movimento vengono poi ulteriormente suddivise in base alla natura del materiale: roccia, terra, detrito.

Il crollo (fall) è un fenomeno che inizia con il distacco di materiale da un pendio molto acclive. La massa distaccatasi si muove prevalentemente in aria, fino all’impatto sul terreno con conseguenti rimbalzi e/o rotolamenti (Figura 1.2).

Figura 1.2 Crolli (Cruden & Varnes 1996).

Il ribaltamento (topple) è una rotazione in avanti, verso l'esterno del versante, di una massa di terra o roccia, intorno ad un punto o un asse situato al di sotto del centro di gravità della massa spostata; può evolvere in crollo (Figura 1.3).

Figura 1.3 Ribaltamenti (Cruden & Varnes 1996).

Gli scorrimenti o scivolamenti (slides) sono movimenti verso la base del versante di una massa di terra, roccia o detrito, che avvengono in gran parte lungo una superficie di rottura o entro una fascia, relativamente sottile, dove si accumulano deformazioni di taglio. Possono essere traslativi o rotazionali, a seconda della forma della superficie di rottura: gli scorrimenti traslativi si verificano lungo una superficie più o meno piana, corrispondente frequentemente a discontinuità strutturali, mentre gli scorrimenti rotazionali presentano una superficie di rottura semicircolare con concavità rivolta verso l’alto (Figura 1.4).

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Figura 1.4 Scivolamenti traslazionali e rotazionali (Cruden & Varnes 1996).

Movimenti di espansione laterale (lateral spreads), comuni in pendii poco scoscesi, sono spesso dovuti a fenomeni di liquefazione o deformazione plastica del materiale sottostante Con liquefazione si intende il passaggio da comportamento solido a liquido del materiale a causa solitamente di un aumento delle pressioni interstiziali dell’acqua nei pori (Figura 1.5).

Figura 1.5 Espansioni laterali (Cruden & Varnes 1996).

Le colate (flows) sono frane dalla forma stretta ed allungata di terreno che evolvono lungo un pendio a causa spesso della saturazione da parte di acqua meteorica di materiali prevalentemente argillosi, originando al piede del versante un accumulo dalla forma tipicamente lobata (Figura 1.6). Il movimento non è limitato alla superficie di separazione tra massa in frana e materiale sottostante, ma è distribuito anche nel corpo di frana stesso. Le colate sono movimenti del versante che esibiscono, durante il loro moto, un comportamento simile a quello dei fluidi viscosi a causa di deformazioni interne alla massa in movimento che risultano predominanti rispetto ad eventuali scorrimenti lungo superfici di taglio: il movimento varia da estremamente lento a estremamente rapido.

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Figura 1.6 Colate (Cruden & Varnes 1996).

1.2. Dimensioni e velocità di una frana

Le dimensioni e la velocità sono i principali parametri tramite i quali, comunemente, si cerca di stimare l'intensità di un fenomeno franoso. Per definire le dimensioni di un movimento franoso si adotta la terminologia raccomandata dal WP/WLI nel 1993, come indicato in Figura 1.7.

1. Larghezza della massa spostata Wd: larghezza massima della “massa spostata” misurata perpendicolarmente alla “lunghezza della massa spostata” Ld.

2. Larghezza della superficie di rottura Wr: larghezza massima fra i “fianchi” della frana, misurata perpendicolarmente alla “lunghezza della superficie di rottura” Lr.

3. Lunghezza totale L: distanza minima fra il “punto inferiore” della frana ed il “coronamento”.

4. Lunghezza della massa spostata Ld: minima distanza fra il “punto sommitale” ed il “punto inferiore”.

5. Lunghezza della superficie di rottura Lr: minima distanza fra l'“unghia della superficie di rottura” ed il “coronamento”.

6. Profondità della massa spostata Dd: profondità massima della “superficie di rottura” sotto la “superficie originaria del versante” misurata perpendicolarmente al piano contenente Ld e Wd.

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7. Profondità della superficie di rottura D: profondità massima della “superficie di rottura” sotto la “superficie del versante” misurata perpendicolarmente al piano contenente Lr e Wr.

Figura 1.7 Dimensioni dei movimenti di massa (da WP/WLI, 1993).

In Figura 1.8 sono riportate le diverse velocità di spostamento delle frane, correlate ai danni prodotti su persone e cose. Pur esistendo uno stretto legame tra velocità e tipo di frana, dobbiamo essere consapevoli che un certo tipo di frana può muoversi secondo un ampio intervallo di velocità, in virtù delle differenze di inclinazione del versante, del contenuto in acqua del materiale trasportato e della presenza di ostacoli quali la copertura boschiva.

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Figura 1.8 Scala di intensità delle frane basata sulla velocità e sul danno prodotto (da Cruden & Vernes, 1994, Australian Geomechanics Society,2002).

1.3. Il rischio

Nell’ambito delle frane si parla di Rischio, definibile come una misura della probabilità di conseguenze sfavorevoli sulla salute, sulle proprietà e sulla società, derivanti dall'esposizione ad un fenomeno pericoloso (Hazard) di un certo tipo e di una certa intensità, in un certo lasso di tempo ed in una certa area (Smith, 2004). Il rischio può essere espresso dalla formula qualitativa R = H V E.

- H (in inglese Hazard) è la pericolosità ovvero la “probabilità che un fenomeno potenzialmente distruttivo si verifichi in un dato periodo di tempo ed in una data area”; H è legato alla topografia dell’area, alla geologia e non ha a che fare con le attività umane.

- V, la vulnerabilità, è una misura del danno provocato da un certo evento e dunque tiene conto della presenza di strutture e attività umane; la valutazione della vulnerabilità comporta la comprensione delle interazioni tra il movimento franoso e l'elemento a rischio e deve essere valutata in

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modo differente al variare dei fenomeni pericolosi e per i diversi elementi a rischio.

- L’esposizione E indica quanto un sistema è esposto e interessato dall’accadimento di un fenomeno franoso; è legato ad esempio alla posizione di un’area abitata rispetto a un pendio.

1.3.1. Le misure di mitigazione del rischio

Si può identificare una prima distinzione tra le misure adottabili riguardo le frane, sulla base della definizione di Rischio.

Le opzioni disponibili per la riduzione del rischio da frana si possono raggruppare in quattro gruppi fondamentali:

1) Misure indirizzate alla diminuzione della pericolosità (Paragrafo 1.3.2): generalmente si tratta di soluzioni ingegneristiche, il cui obiettivo è diminuire la frequenza e/o la grandezza dei fenomeni franosi.

2) Riduzione della vulnerabilità, ovvero consolidamento dei beni a rischio e realizzazione di opere di protezione per ridurre il coinvolgimento dell’elemento a rischio.

3) Riduzione del numero di elementi a rischio, ovvero delocalizzazione dei beni esposti in aree non interessate dal fenomeno pericoloso.

4) Aumento delle soglie di rischio accettabile, tramite la predisposizione di sistemi di allerta, educazione ed informazione; le soglie di rischio consapevole possono essere molto più elevate rispetto a quelle di rischio involontario.

Nel seguito ci concentreremo sulle misure di prevenzione atte a diminuire la probabilità di accadimento del fenomeno. Tali interventi hanno il fine di aumentare la stabilità di un versante e diminuire la velocità di spostamento.

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1.3.2. Le opere di stabilizzazione dei pendii

Come già accennato, questo tipo di interventi sono diretti a diminuire la probabilità (Hazard) che un evento franoso si verifichi in una data area e in un certo intervallo di tempo.

Gli interventi di prevenzione sono delle opere finalizzate a stabilizzare il sistema aumentando il regime delle forze stabilizzanti o diminuendo quelle instabilizzanti: nel primo caso si fa uso di idonee strutture in grado di generare forze stabilizzanti per il volume del pendio potenzialmente instabile. Esistono varie tipologie di opere atte a ridurre il rischio di collasso di un pendio. Esse sono utilizzate non solo per prevenire la frana, aumentando la stabilità del sistema, ma anche per ridurre gli spostamenti del pendio in meccanismi viscosi o anche in presenza di azioni sismiche. In base al principio di funzionamento, le misure di prevenzione si distinguono principalmente in due macro categorie:

- Opere di stabilizzazione idraulica: il loro funzionamento si basa principalmente sulla modifica del regime delle pressioni dell’acqua nel dominio instabile;

- Opere di stabilizzazione strutturale: esse conferiscono forze stabilizzanti al dominio instabile (vedi il paragrafo 1.3.3).

Esistono altri approcci per aumentare la stabilità di un versante e prevenire una frana: ad esempio è possibile modificare il regime di forze instabilizzanti, prima tra tutte il peso, modificando la geometria e il profilo del pendio, tramite rimodellatura e riprofilatura (Geometrical stabilizing measures). In alternativa è utile cambiare le proprietà meccaniche del terreno, aumentandone le caratteristiche prestazionali tramite interventi di consolidamento (Consolidation

measures o Retrofitting). Si può parlare anche di misure ibride, come ad esempio

l’impiego della vegetazione, che ha allo stesso tempo ruolo di stabilizzazione strutturale e idraulica.

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1.3.3. Misure di stabilizzazione strutturale

Lo scopo di questo tipo di interventi è applicare un sistema di forze aggiuntive al dominio instabile e a tal fine le strutture stabilizzanti vengono inserite nel terreno come inclusioni oppure vengono realizzati dei rilevati. In altre parole, l’opera strutturale viene sostituita da una forza che essa trasmette al volume instabile. Tipicamente si possono distinguere 3 zone di azione: una finalizzata a trasmettere sforzi al terreno instabile, una che trasmetta gli sforzi al di fuori della zona potenzialmente instabile e che ancori la struttura al terreno stabile e infine una che leghi le due zone precedenti.

La procedura generale per l’analisi di stabilità in presenza di strutture di sostegno può essere brevemente riassunta in questi passaggi:

- Definizione del campo di spostamenti all’interno del pendio. - Posizionamento delle strutture stabilizzanti all’interno del pendio.

- Stima delle forze agenti (solitamente corrispondono al peso W della massa di terreno), della resistenza a taglio  lungo la superficie di rottura individuata, e le forze stabilizzanti trasmesse al pendio.

- Progetto strutturale e verifiche di sicurezza.

Gli interventi stabilizzanti possono essere progettati per lavorare come sistemi attivi o passivi e la distinzione si basa su come la forza stabilizzante A viene attivata.

Se l’azione A non dipende dal campo di spostamenti del terreno e, ad esempio, l’opera è sottoposta a pre-tiro, il sistema lavora in modo ‘attivo’; se al contrario l’azione A dipende dall’evoluzione degli spostamenti e con essi è attivata, l’intervento si considera ‘passivo’. Ovviamente è possibile combinare i due modi di lavoro dell’opera.

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1.3.4. Le tipologie più diffuse di opere stabilizzanti

Vengono qui di seguito brevemente descritte le strutture più utilizzate in questo ambito.

Muri ancorati

Hanno lo scopo di prevenire lo smottamento di pendii naturali ripidi o di assicurare la stabilità di pendii artificiali sagomati. La struttura può essere considerata rigida rispetto al terreno circostante e si ha così un problema di interazione superficiale tra struttura e terreno. I muri sono generalmente ancorati e l’ancoraggio è pre-tirato così che il sistema lavori in condizioni attive.

Pali e tiranti

I pali sono opere strutturali deformabili utilizzati per la stabilizzazione di pendii. La loro deformabilità dipende dall’elevato rapporto L/D, in cui L è la lunghezza del palo e D il suo diametro.

A seconda dell’intervento da attuare e delle condizioni al contorno, i pali possono essere infissi, trivellati, prefabbricati o gettati in opera.

Possono essere utilizzati sia per la stabilizzazione di meccanismi di collasso rotazionali, sia traslazionali e la loro giacitura risulta tendenzialmente verticale. L’utilizzo di un singolo palo non è sensato e per questo in letteratura si parla più frequentemente di gruppi di pali secondo file (palificata) ed eventualmente su più ordini.

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Figura 1.9 Esempio di pali come opere di sostegno.

Pozzi drenanti

Gli interventi di drenaggio sono opere atte a raccogliere e allontanare sia le acque superficiali che quelle profonde, in modo da impedire il formarsi di elevate pressioni interstiziali, tra le principali cause di collasso di pendii e scarpate. Lo scopo dei dreni è quindi quello di modificare il regime delle pressioni dell'acqua, diminuendo le sottospinte e le forze di filtrazione. Se però l’opera drenante ha dimensioni considerevoli ed è costruita con materiali strutturali come il calcestruzzo, il suo funzionamento è anche strutturale oltre che idraulico, come nel caso dei pozzi drenanti. L’intervento consiste nella realizzazione di file di pozzi di diametro generalmente compreso fra 1 e 2m. Le acque di drenaggio vengono smaltite per gravità, realizzando i collettori di fondo.

Sistemi corticali di chiodature

Sono sistemi superficiali e flessibili, composti da una rete che ricopre il pendio e da chiodature inserite nel terreno, fino ad ancorarsi alla parte stabile del terreno. I chiodi sono fissati in superficie e alla rete tramite una piastra di piccole dimensioni. Essi funzionano come veri e propri tiranti e hanno anche un ruolo di ‘cucire’ la massa instabile al terreno stabile.

I sistemi corticali sono l’oggetto di studio di questo elaborato e verranno esaustivamente descritti nel capitolo 4.

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2. L’analisi di stabilità dei pendii

La stabilità dei pendii è un problema di notevole complessità poiché dipende da numerose variabili: la geometria, la morfologia e la stratigrafia dell’area, i materiali coinvolti, la posizione della falda acquifera e altro.

La risoluzione di un problema di stabilità richiede la presa in conto delle equazioni di campo cioè di equilibrio di legame costitutivo del materiale che descrivono il comportamento del terreno. Tali equazioni risultano particolarmente complesse in quanto i terreni sono dei sistemi multifase, che possono essere ricondotti a sistemi monofase solo in condizioni di terreno secco o di analisi in condizioni non drenate.

Inoltre è praticamente impossibile definire una legge costitutiva di validità generale, in quanto i terreni presentano un comportamento non-lineare già a piccole deformazioni e per questo le equazioni devono essere scritte in forma incrementale. Inoltre i terreni hanno comportamento anisotropo, il che complica ulteriormente la risoluzione del problema.

Gli approcci numerici, come l’analisi agli elementi finiti, permetterebbero di studiare il problema nella sua complessità. Essi però richiedono una conoscenza profonda della modellazione e risultano onerosi dal punto di vista computazionale; per questo un programma 3D come ad esempio un codice FEM può essere più consono in una fase di verifica del problema, ma non allo scopo di progettare.

A causa di tali difficoltà vengono introdotte alcune ipotesi semplificative al fine di risolvere il problema della stabilità dei pendii.

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2.1. Il metodo dell’equilibrio limite per l’analisi di

stabilità di un pendio

I metodi di analisi della stabilità dei pendii più diffusi ed utilizzati nella pratica professionale sono metodi all’equilibrio limite, che ipotizzano per il terreno un comportamento rigido – perfettamente plastico. Si immagina cioè che il terreno non si deformi fino al raggiungimento della condizione ultima, e che, in condizioni di rottura, la resistenza al taglio si mantenga costante lungo la superficie di rottura e indipendente dalle deformazioni accumulate. Da tale ipotesi, fortemente semplificativa, consegue che:

- La rottura si manifesta lungo una superficie netta di separazione tra la massa ad incipiente collasso e il terreno stabile;

- La massa in frana è un blocco rigido e il campo di spostamenti all’interno del dominio di rottura può quindi essere descritto da un atto di moto rigido; - La resistenza mobilitata lungo la superficie di scorrimento in condizioni di equilibrio limite è costante nel tempo, indipendente dalle deformazioni, e ovunque pari alla resistenza al taglio F;

Non è possibile determinare né le deformazioni precedenti la rottura, né l’entità dei movimenti del blocco, né la velocità del fenomeno. Infatti il limite fisico della formulazione dell’equilibrio limite è il fatto che non considera la relazione costitutiva sforzi-deformazioni per assicurare la congruenza degli spostamenti. Il problema della stabilità di un pendio è per sua natura intrinsecamente iperstatico. Ulteriori ipotesi semplificative, diverse da un metodo all’altro, sono necessarie allora per rendere il problema staticamente determinato. L’analisi fornisce come risultati la superficie di scorrimento critica, superficie per la quale il rapporto fra resistenza disponibile e resistenza mobilitata assume il valore minimo, e il

coefficiente di sicurezza FS, che può assumere il significato di rapporto fra

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geometria e di caratteristiche fisico-meccaniche del terreno, il risultato dell’analisi non è unico ma dipende dal metodo adottato, in conseguenza alle ipotesi che tale metodo assume.

Nel caso in cui la geometria del pendio sia complessa, il terreno sia stratificato, sia presente una falda, si considerino le condizioni drenate, un metodo all’equilibrio limite di largo impiego è il metodo dei conci, che prevede di dividere il dominio in conci a facce verticali, mettendo in evidenza le azioni iperstatiche (Figura 2.1).

Figura 2.1 (a) discretizzazione di un pendio in conci; (b) forze agenti sul concio i-esimo.

Il numero di queste ultime è funzione del numero n dei conci in cui si decide arbitrariamente di scomporre la geometria ed è inversamente proporzionale allo spessore ∆x del concio i-esimo. Normalmente si tende a suddividere la geometria in conci di uguale larghezza.

Anche le linee che definiscono le frontiere superiore e inferiore del dominio a rottura sono discretizzate mediante delle spezzate, cosicché alla base di ciascun concio agiscono le forze (tutte per unità di profondità) risultanti Ti, N’i e Ui ed è possibile calcolare facilmente il peso del singolo concio Wi.

Le incognite sono:

• il coefficiente di sicurezza FS che è assunto costante lungo tutta la frontiera del dominio [1]

(28)

• Ti [n], N’i [n], ai [n] (essendo ai la variabile che definisce il punto di applicazione della forza N’i normale alla base),

• Hi [n-1], Vi [n-1] e hi [n-1] (che definiscono i punti di applicazione delle forze Hi)

Il numero di incognite totali è 6n-2.

Per quanto riguarda invece il numero di equazioni a disposizione, abbiamo 3n equazioni di equilibrio (equilibrio in direzione verticale, in orizzontale ed equilibrio alla rotazione) ed n equazioni che descrivono il legame costitutivo a rottura lungo la frontiera del meccanismo, per un totale di 4n equazioni.

Ne risulta un problema con un numero di iperstatiche pari a 2n-2.

Non avendo a disposizione le equazioni di congruenza né tanto meno il legame costitutivo all’interno del dominio è necessario quindi introdurre delle ipotesi semplificative che ci permettano o di ridurre il numero di incognite o di disaccoppiare il sistema. Seguendo questa logica, negli ultimi 50 anni, sono stati introdotti vari metodi approssimati, tra questi, qui di seguito sono citati alcuni tra i più noti e più utilizzati.

Un’ipotesi comune a molti metodi (ma non a tutti), fra cui quello degli autori Fellenius (1927) e Bishop (1955) descritti nei paragrafi successivi ( 2.1.1 e 2.1.2), è l’ipotesi di superficie di scorrimento circolare, sufficientemente ben verificata quando non vi siano condizioni stratigrafiche e geotecniche particolari.

Se si accetta tale ipotesi, il coefficiente di sicurezza risulta pari al rapporto fra momento stabilizzante Ms e momento ribaltante Mr, rispetto al centro di rotazione: 𝐹𝑆 = ∑ 𝑇𝑓𝑖 𝑛 𝑖=1 ∑𝑛 𝑇𝑖 𝑖=1 = 𝑀𝑆 𝑀𝑅

(29)

𝐹𝑆 =

𝑀

𝑆

𝑀

𝑅

=

𝑛𝑖=1

[𝑐

· 𝛥𝑙

𝑖

+ 𝑁′

𝑖

· tan 𝜑′

𝑖

]

𝑛𝑖=1

𝑊

𝑖

· sin 𝛼

𝑖

c’ e ’ sono i parametri di resistenza meccanica del materiale, rispettivamente la coesione e l’angolo di attrito;  è l’angolo di inclinazione della base del concio considerato.

La superficie cui è associato il minimo valore del coefficiente di sicurezza deve essere determinata per tentativi, perché la circonferenza critica è determinata quando se ne conoscano la posizione del centro ed il raggio.

Le variabili che definiscono il problema sono quindi 3: le coordinate del centro della circonferenza x0 e y0 e il raggio R. Le coordinate vengono fatte variare, fissato il raggio e viceversa. Al variare del raggio R, l’ampiezza del meccanismo varia e così il coefficiente di sicurezza. Chiamiamo con FS0 il coefficiente di sicurezza minimo al variare di R, una volta fissato il centro di istantanea rotazione O. Analogamente facciamo ora variare la posizione del centro di istantanea rotazione O nel piano. Si può quindi costruire sul piano una griglia di punti ai quali associare un FS0. In questo modo è possibile costruire delle curve di livello ad FS0 costante (curve isoFS) e trovare il valore di FS minimo.

Utilizzando griglie più fitte è possibile approssimare meglio il valore del coefficiente di sicurezza minimo.


2.1.1. Il metodo di Fellenius (1927)

Si consideri come frontiera del meccanismo di rottura un arco di circonferenza. Un’ipotesi comune a quasi tutti i metodi è che il punto di applicazione della N’i di base coincida con la mezzeria del concio stesso:

𝑎𝑖 = 𝛥𝑥 2 cos 𝛼𝑖

(30)

L’ipotesi distintiva di questo metodo è considerare nulle le forze che si scambiano i conci fra loro sulle facce verticali, ovvero si impone in questo modo che l’i-esimo concio sia staticamente isostatico, come accade nel caso di un pendio infinitamente esteso. Si intuisce quindi che la soluzione di Fellenius si avvicina a quella esatta per meccanismi di rottura con basso rapporto tra altezza media e lunghezza del pendio, ovvero per frane superficiali.

Grazie alle precedenti semplificazioni vengono eliminate 4n-3 incognite e ne rimangono 2n+1, numero inferiore alle 4n equazioni di equilibrio a disposizione. Il metodo prevede dunque di scrivere l’equilibrio alla traslazione in direzione normale alla base del singolo concio, per cui si ottiene:

𝑊𝑖cos 𝛼𝑖 = 𝑁′𝑖 + 𝑈𝑖+ (𝑈𝑖,𝑑− 𝑈𝑖,𝑠) sin 𝛼𝑖

Si scrive la legge di rottura alla Mohr-Coulomb alla base del singolo concio e sostituendo l’espressione di N’ calcolata tramite l’equilibrio normale, si ottiene:

𝑇𝑖 =

𝑐′𝛥𝑥 𝐹𝑆 cos 𝛼𝑖

+ 𝑊𝑖cos 𝛼𝑖 − 𝑈𝑖− (𝑈𝑖,𝑑− 𝑈𝑖,𝑠) sin 𝛼𝑖

𝐹𝑆 tan 𝜑′𝑖

Il coefficiente di sicurezza ha il compito di ridurre il valore delle componenti resistenti più incerte, dunque la tangente dell’angolo di attrito e la coesione. Successivamente si scrive l’equilibrio globale alla rotazione attorno al CIR:

𝑅 ∑ 𝑊𝑖 𝑛 𝑖=1 sin 𝛼𝑖 = 𝑅 ∑ 𝑇𝑖 𝑛 𝑖=1 = = 𝑅 ∑ 𝑐′𝛥𝑥 𝐹𝑆 cos 𝛼𝑖 𝑛 𝑖=1 + 𝑊𝑖cos 𝛼𝑖 − 𝑈𝑖− (𝑈𝑖,𝑑− 𝑈𝑖,𝑠) sin 𝛼𝑖 𝐹𝑆 tan 𝜑′𝑖

(31)

Da cui:

𝐹𝑆 =

∑ 𝑐′𝛥𝑥

cos 𝛼𝑖 + (𝑊𝑖cos 𝛼𝑖 − 𝑈𝑖− (𝑈𝑖,𝑑− 𝑈𝑖,𝑠) sin 𝛼𝑖) tan 𝜑′𝑖 𝑛

𝑖=1

∑𝑛𝑖=1𝑊𝑖sin 𝛼𝑖

Si ottiene un’espressione esplicita di FS. Infine si procede con la ricerca del minimo FS, come spiegato sopra.

L’espressione ricavata da Fellenius è semplice, ma fornisce risultati troppo conservativi, soprattutto per superfici profonde.

2.1.2. Il metodo di Bishop (1955)

L’autore ipotizza nulle le forze di taglio Vi, facendo scendere il numero di incognite a 4n-3. Inoltre, considerando che le forze laterali Hi siano orizzontali, per disaccoppiare il problema Bishop sceglie di calcolare unicamente l’equilibrio alla traslazione verticale del singolo concio:

𝑊𝑖 = 𝑁′𝑖cos 𝛼𝑖+ 𝑈𝑖cos 𝛼𝑖− 𝑇𝑖sin 𝛼𝑖

Sostituendo la legge di rottura alla Mohr-Coulomb:

𝑊𝑖 = 𝑁′𝑖cos 𝛼𝑖 + 𝑈𝑖cos 𝛼𝑖 − sin 𝛼𝑖( 𝑐 ′𝛥𝑥 𝐹𝑆 cos 𝛼𝑖+ 𝑊𝑖cos 𝛼𝑖 − 𝑈𝑖 𝐹𝑆 tan 𝜑 ′ 𝑖)

Da cui si ricava l’espressione di N’, che dipende anche da FS, ragione per cui FS andrà ricercato iterativamente:

(32)

𝑁′𝑖 =

𝑊𝑖 − 𝑈𝑖cos 𝛼𝑖𝐹𝑆 cos 𝛼𝑐′𝛥𝑥 𝑖 cos 𝛼𝑖 − sin 𝛼𝑖tan 𝜑

′ 𝑖 𝐹𝑆 Imponendo l’equilibrio alla rotazione globale si ottiene:

𝐹𝑆 =

∑ (

𝑊𝑖− 𝑈𝑖cos 𝛼𝑖𝐹𝑆 cos 𝛼𝑐′𝛥𝑥 𝑖 cos 𝛼𝑖− sin 𝛼𝑖tan 𝜑

′ 𝑖 𝐹𝑆 tan 𝜑′𝑖 +cos 𝛼𝑐′𝛥𝑥 𝑖) 𝑛 𝑖=1 ∑𝑛𝑖=1𝑊𝑖sin 𝛼𝑖

La ricerca di FS minimo richiederà un’ulteriore iterazione, oltre a quella necessaria per ricavare il valore di FS, causata dalla non linearità della legge costitutiva. Nonostante la doppia iterazione richiesta, il metodo di Bishop è quello più adottato ed implementato.

2.1.3. Il metodo di Janbu (1967)

Janbu estese il metodo di Bishop a superfici di rottura di forma qualsiasi, ma rimuovendo l’ipotesi di superficie di rottura circolare la minimizzazione del coefficiente di sicurezza diventa molto complessa, infatti il braccio delle forze non è più pari al raggio. Allora risulta più conveniente ricavare l’equazione del momento rispetto allo spigolo di ogni concio.

Un’ulteriore incognita è la forza di taglio V sulla superficie laterale a monte del blocco. Il numero totale di incognite sale quindi a 6n-1. Si aggiunge l’ipotesi riguardante il punto di applicazione delle N’i ed n-1 ipotesi che definiscono la posizione delle forze Hi. Risultano infine 4n incognite, pari al numero di equazioni linearmente indipendenti a disposizione.

Se si ipotizza che le forze V siano nulle, si ottiene una versione simile al metodo di Bishop. Si ricava l’espressione di FS:

(33)

𝐹𝑆 = ∑ [(𝛥𝑊 − 𝑢𝛥𝑏) tan 𝜑′ 𝑖+ 𝑐′𝛥𝑏] 𝑠𝑒𝑐2𝛼 1 +𝐹𝑆 tan 𝛼 tan 𝜑′1 𝑛 𝑖=1 ∑𝑛𝑖=1𝛥𝑊 tan 𝛼

2.2.

Progettazione: l’approccio per sottostrutture

Il progetto di strutture stabilizzanti rimane uno dei problemi ostici per gli ingegneri, poiché dipende da numerosi fattori quali: la geometria del sistema, il tipo e l’entità delle forze agenti, le proprietà meccaniche dei materiali coinvolti, i vincoli strutturali, l’entità e la forma del campo di spostamenti nel dominio. In presenza di strutture stabilizzanti come pali o dreni, si aggiunge anche il problema di interazione tra terreno e struttura e l’analisi di stabilità si complica.

È possibile trattare una così ampia gamma di variabili per mezzo di codici numerici 3D quali codici FE o FD. Tuttavia queste analisi possono rivelarsi dispendiose in termini di tempo ed occorre un’esperta conoscenza della modellazione in questo campo.

Dunque, nella pratica ci si avvale di procedure di ottimizzazione per il progetto di sistemi di stabilizzazione dei pendii, basandosi sul confronto tra varie soluzioni progettuali.

Un approccio molto amato dagli ingegneri geotecnici, che si trovano a dover affrontare problemi dove l’eterogeneità domina la risposta del sistema, è quello di lavorare per sottostrutture.

Questo significa considerare da un lato la sottostruttura composta dall’opera strutturale di stabilizzazione e dall’altro il terreno circostante. Ragionando in questo modo, è anche possibile operare una distinzione all’interno della sottostruttura terreno e definire un sottodominio (in generale di estensione finita)

(34)

all’interno del quale è possibile individuare un campo di spostamenti variabile nel tempo a causa di processi gravitativi in atto.

Una volta identificato il campo di velocità nel pendio si procede con la stima delle azioni di sostegno necessarie. Segue la scelta della tipologia strutturale dell’intervento. Il passo successivo consiste nel dimensionamento dell’intervento ed infine la verifica dell’opera.

La procedura brevemente riassunta è descritta nella figura 2.2.

Figura 2.2: a.) identificazione del campo di velocità del pendio; b.) stima delle azioni di sostegno; c.) scelta della tipologia di intervento; d.) dimensionamento e verifiche dell’opera. (Politecnico di Milano, 2018).

Nell’ambito della progettazione si possono adottare diversi approcci, senza ricorrere alla più completa ma complessa analisi agli elementi finiti. Vengono di seguito elencati tre approcci progettuali.

(35)

2.2.1. L’equilibrio limite e lo stato limite ultimo

I metodi dell’equilibrio limite si riferiscono allo stato limite ultimo del sistema, ovvero ne studiano la stabilità in condizioni di collasso.

Le azioni di sostegno, A, influenzano la stabilità, facendo aumentare FS, ma quest’ultimo non dipende dal campo di spostamenti del pendio.

Nel caso dell’equilibrio limite si considera una superficie di rottura nota, che chiameremo in questo elaborato F, e si esprime l’equilibrio della massa di terreno instabile rispetto a questo particolare cinematismo.

L’equazione che governa il problema è:

𝐸𝑘𝐹 =𝑅𝑘 𝐹 𝐹𝑆+ 𝐴𝑘

𝐹

In cui E sono le azioni instabilizzanti, R le resistenze del terreno e A le azioni stabilizzanti fornite dall’intervento. FS è il fattore di sicurezza globale del pendio. Il pedice k indica che le quantità sono calcolate rispetto ai valori caratteristici dei parametri, mentre l’apice F specifica che i termini si riferiscono alla particolare superficie di scorrimento scelta.

Se si fa riferimento alle Norme Tecniche NTC, si passa dalle quantità caratteristiche a quelle di progetto (indicate col pedice d che sta per ‘design’), per mezzo di coefficienti parziali ottenuti da un’analisi semiprobabilistica. In tal caso si perde il concetto di FS e l’equazione diventa:

𝐸𝑑𝐹 ≤ 𝑅𝑑𝐹+ 𝐴𝑑𝐹

Impiegando l’equilibrio limite non è possibile valutare né l’entità dei movimenti del blocco, né la velocità del fenomeno.

(36)

2.2.2. I metodi ibridi

Il metodo ibrido rappresenta un’estensione del metodo dell’equilibrio limite; quest’ultimo è un approccio troppo semplificato e non fornisce informazioni riguardo gli spostamenti del pendio.

Nel caso dei metodi ibridi si introduce una generalizzazione della equazione:

𝐸𝑘𝐹 = 𝑅𝑘 𝐹 𝐹𝑆+ 𝐴𝑘

𝐹

in cui forze di sostegno A sono scritte come funzione del campo scalare di spostamenti del terreno: A(U).

Figura 2.3 Rappresentazione schematica dello spostamento che attiva la forza.

Un sistema stabilizzante attivo garantisce la stabilità per mezzo di una azione di pre-tiro e non richiede spostamenti per essere attivato.

In un intervento passivo, al contrario, le azioni stabilizzanti A si attivano al crescere degli spostamenti del terreno. La relazione esistente tra le forze offerte

(37)

dal sistema stabilizzante e gli spostamenti del terreno è nota come “curva

caratteristica”, tipica di ogni sistema.

𝐴𝑘𝐹 = 𝐴𝑘𝐹(𝑈) 𝐸𝑘𝐹 = 𝑅𝑘

𝐹 𝐹𝑆+ 𝐴𝑘

𝐹(𝑈)

Il termine U è una quantità scalare che rappresenta l’ampiezza degli spostamenti in un punto specifico di interesse appartenente alla massa di terreno instabile. Questa è certamente una semplificazione, poiché nella realtà U è una quantità vettoriale che dipende dal punto in esame.

La curva caratteristica è calcolata sotto l’ipotesi che la presenza della struttura non modifichi il profilo degli spostamenti del terreno.

L’equazione 𝐸𝑘𝐹 = 𝑅𝑘𝐹

𝐹𝑆+ 𝐴𝑘

𝐹(𝑈) rappresenta una correlazione diretta tra gli spostamenti del terreno e l’FS globale del pendio.

Dunque, fissato il meccanismo di rottura F, si ottiene il grafico di FS al crescere di U. Ogni meccanismo dà origine a una curva diversa e si può così definire un inviluppo di tali curve nel piano FS-U.

Figura 2.4 a) Esempi di curve caratteristiche e b) relazioni tra FS e ampiezza dello spostamento.

L’attivazione delle azioni A può però portare a una modifica del meccanismo di collasso iniziale, cioè potrebbero insorgere nuovi meccanismi di rottura e dunque è necessario verificare tutti i possibili cinematismi di collasso.

(38)

Si noti che la curva caratteristica può presentare un comportamento “duttile”, con crescita monotòna dell’azione stabilizzante fino al suo valore limite, oppure “fragile”, con un marcato decremento dell’azione dopo un valore di picco. Il comportamento “duttile” è tipico delle sabie sciolte o argille tenere, mentre quello “fragile” è legato a argille dure o rocce deboli.

I metodi ibridi rappresentano un passo intermedio verso il più completo metodo negli spostamenti.

2.2.3. Metodo negli spostamenti

Prima che si sviluppi la zona di localizzazione che dà origine alla frana, la massa di terreno non può considerarsi un corpo rigido e quindi il profilo del campo di spostamenti non può essere considerato uniforme. Diventa necessario studiare l’interazione tra la struttura inserita nel terreno e il terreno stesso, i quali si influenzano a vicenda. In questo caso occorre considerare l’equazione completa del moto della massa instabile, e lo strumento a disposizione è ancora la curva caratteristica, che lega le azioni stabilizzanti agli spostamenti del terreno. Integrando l’equazione del moto si ottiene la completa evoluzione degli spostamenti, così da poter anche verificare l’efficacia dell’intervento in termini di riduzione degli spostamenti, oltre che dell’aumento del coefficiente di sicurezza (Figura 2.5).

In particolare, in questo elaborato si studia la stabilità di un pendio partendo dal metodo dell’equilibrio limite, si progetta un intervento prima allo SLU e poi avvalendosi del metodo ibrido e infine si valuta l’efficienza del sistema progettato con il metodo negli spostamenti.

(39)
(40)
(41)

3. I Sistemi Corticali

Figura 3.1 I sistemi corticali.

In questa tesi si vuole analizzare la stabilità di un pendio in materiale sciolto reso stabile tramite il metodo delle chiodature passive con rete corticale; di seguito si spiega nel dettaglio il funzionamento di tale sistema.

Le chiodature sono delle inclusioni rettilinee a sezione prevalentemente circolare, caratterizzate da un elevato valore di rigidezza e resistenza a trazione che prevalentemente lavorano in condizioni passive.

Sono dei sistemi che si ancorano sia in superficie, per mezzo della rete e delle piastre, sia in profondità attraverso i chiodi, legando così la zona superficiale e quella profonda. I chiodi sono delle inclusioni snelle, il cui rapporto tra lunghezza e diametro è molto elevato; tuttavia il loro comportamento viene assunto rigido e non si considera lo scivolamento del terreno attorno.

Una chiodatura è formata da un’armatura metallica a sezione piena e da un copriferro in calcestruzzo avente la doppia funzione di rivestimento per

(42)

l’armatura e di cementazione della stessa al materiale circostante. Il rivestimento è in genere considerato necessario per aumentare la durabilità e limitare i danni dovuti alla corrosione. L’effetto cementante è invece essenziale per migliorare i meccanismi di interazione fra inclusione e terreno circostante.

In testa ad ogni chiodo sono presenti: le piastre metalliche, una rete che ricopre l’intero sistema e un geo-rinforzo (Figura 3.2).

Figura 3.2 Sistemi Corticali.

I sistemi corticali sono superficiali e deformabili e presentano un comportamento simile a una membrana. Le barre metalliche dei chiodi sono inserite nel terreno e hanno la funzione meccanica di ancorare la rete allo strato profondo di terreno stabile, sia esso di materiale sciolto o di roccia e agiscono quindi come una sorta di cucitura tra due corpi rigidi che traslano uno rispetto all’altro.

Solitamente questi sistemi sono pensati per un funzionamento attivo, quindi alla testa del chiodo viene applicata una forza di pre-tiro; essa conferisce un aumento di sforzi normali sul piano di potenziale scivolamento, il che, per la legge di rottura alla Mohr-Coulomb, causa un aumento dello sforzo di taglio resistente.

(43)

In presenza di ampi spostamenti del terreno, però, il sistema può funzionare come un ancoraggio passivo, senza necessità di un pre-tiro. Per un meccanismo prevalentemente traslazionale, per cui il campo di spostamenti è pressoché uniforme, un sistema passivo di questo genere non è efficace perché i tiranti sono inseriti perpendicolarmente al pendio e quindi servono spostamenti anch’essi normali.

Il funzionamento dei sistemi corticali

Il sistema corticale si compone di varie parti: - Le barre di ancoraggio in acciaio.

- La rete metallica che copre la superficie del pendio.

- Lo strato di geo-rinforzo che ha il ruolo di evitare lo sprofondamento della rete nel terreno.

- La piastra metallica che tipicamente ha forma romboidale con un buco circolare dove è agganciato il tirante del chiodo.

- Il bulbo di ancoraggio profondo, ottenuto da grouting. - Le bio-griglie che permettono la crescita della vegetazione.

(44)

Di seguito si spiega il funzionamento dei sistemi corticali, facendo riferimento all’articolo di Claudio Giulio di Prisco, Fulvio Besseghini e Federico Pisanò (Modelling of the mechanical interaction between anchored wire meshes and granular soils, Geomechanics and Geoengineering, September 2010). Tutte le analisi in questo articolo sono svolte considerando un pendio infinitamente esteso, quindi con geometria monodimensionale. Il caso di studio di questa tesi tratterà invece un pendio bidimensionale, con meccanismo rotazionale, e il contenuto dell’articolo verrà adattato al caso analizzato.

L’effetto stabilizzante delle chiodature può essere analizzato per mezzo del già descritto equilibrio limite, adottando le seguenti ipotesi semplificative:

- L’azione data dal pre-tiro non diminuisce nel tempo, cioè si trascurano gli effetti viscosi.

- La piastra metallica è rigida.

- Le forze trasmesse dalle barre attraverso il terreno agiscono inalterate sul piano di scorrimento.

- Per uno strato omogeneo inclinato, il fattore di sicurezza può essere ricavato imponendo il classico bilancio dei momenti per un volume elementare di pendio. 𝐹𝑆 =(𝑊 cos 𝛼 + 𝑁̅) tan 𝜑 ′+ 𝑐′𝑆 𝑥𝑆𝑦 𝑊 sin 𝛼 =tan 𝜑 ′ tan 𝛼 + 𝑁̅ 𝛾𝑆𝑥𝑆𝑦𝐻 tan 𝜑′ sin 𝛼 + 𝑐′ 𝛾𝐻 sin 𝛼

H è lo spessore dello strato potenzialmente instabile;  è il peso specifico del terreno; 𝑁̅ è la forza assiale agente nelle barre, che si assume perpendicolare alla superficie;  è l’inclinazione del pendio; ’ è l’angolo di attrito all’interfaccia. Equazione 1

(45)

Come è immediato notare, FS può essere aumentato diminuendo la spaziatura tra le barre o anche aumentando la forza del pre-tiro.

Infine Sx e Sy sono le spaziature tra le barre e giocano un ruolo fondamentale nel progetto dell’intervento. Sono definite come mostrato in Figura 3.4.

Per valutare 𝑁̅ è necessario modellare i meccanismi di interazione tra le barre, la piastra, la rete e il geotessile. L’obbiettivo di questa analisi è valutare 𝑁̅ in funzione del cedimento della piastra v0. Come rappresentato in Figura 3.5, sulla piastra agiscono tre forze: (i) 𝑁̅ agente nella barra, (ii) la risultante degli sforzi normali che il terreno esercita sulla piastra, (iii) TN, la forza che la rete trasmette alla piastra. Dunque scrivendo l’equazione di equilibrio alla rotazione per la piastra si ottiene:

𝑁̅(𝑣0) = 𝑇𝑁(𝑣0) + 𝑁(𝑣0)

L’equilibrio in direzione verticale, in riferimento alla rete, consente invece di ottenere 𝑇𝑁: 𝑇𝑁(𝑣0) = ∫ 𝑡(𝑙, . 𝑠𝜎 𝑣0) sin 𝛽 (𝑙, 𝑣0)𝑑𝑙 = ∫ ∫ 𝑝(𝑥, 𝑦, 𝑣0)𝑑𝑥𝑑𝑦 𝑆𝑦 0 𝑆𝑥 0

Dove t(l) è la forza di trazione per unità di lunghezza agente lungo il perimetro della piastra, l è la coordinata curvilinea che descrive appunto il perimetro, (l) è l’angolo di inclinazione della rete in prossimità della piastra e infine p(x,y) è la pressione di confinamento che la rete trasmette direttamente al terreno lungo la direzione verticale.

Il secondo termine della equazione 2, 𝑁(𝑣0), per chiarezza può essere distinto in due contributi: uno legato alla capacità portante della piastra se non esistesse la rete (N*), l’altro è un termine di accoppiamento tra la piastra e la rete, la quale Equazione 2

(46)

aumenta la capacità portante della piccola piastra e non permette lo sviluppo del meccanismo di rottura di Prandtl (𝑁𝐶𝑂).

𝑁(𝑣0) = 𝑁∗(𝑣

0) + 𝑁𝐶𝑂(𝑣0)

Vengono assunte delle ipotesi semplificative: - La piastra è rigida e con resistenza infinita.

- La rete si comporta essenzialmente come una membrana.

- La geometria è assialsimmetrica pertanto sia la piastra che la rete si assumono a geometria circolare e anche i vincoli sono simmetrici.

Il contributo della piastra

La curva di N*(v0) si ricava dalla relazione di Butterfield (1980) per una fondazione superficiale su terreno sabbioso:

𝑁∗

𝑁𝑀∗ = 1 − 𝑒 (−𝑅𝑁0𝑣0

𝑀∗ )

Dove NM* è la capacità portante della fondazione e R0 è la rigidezza iniziale. Questi sono notevolmente influenzati da alcuni fattori, tra cui le piccole dimensioni della piastra e la distribuzione granulometrica del terreno sottostante, dalle barre vincolate alla piastra e dai grandi spostamenti imposti alla piastra, che possono far insorgere effetti del second’ordine.

Se R0 non è influenzato dalla presenza della rete, la capacità portante NM è severamente influenzata dalla pressione che la rete esercita sul terreno, tanto da

poter scrivere NM come la somma di un contributo dato dalla capacità portante

della piastra in assenza di rete (𝑁𝑀) più un incremento dato dal confinamento

associato alla rete (∆𝑁𝑀), pari al valore massimo di NCO, termine di

Equazione 4

(47)

𝑁𝑀 = 𝑁𝑀∗ + ∆𝑁𝑀

Figura 3.4 Il ruolo della spaziatura tra i chiodi: (a) la piastra e (b) il blocco tridimensionale potenzialmente instabile.

(48)
(49)

Il contributo della rete TN

La rete si comporta come una membrana bidimensionale, caratterizzata da alta resistenza e rigidezza a trazione e da rigidezza flessionale trascurabile.

La rete ha un duplice effetto benefico: uno legato alla sua risposta membranale che fa insorgere TN, l’altro associato agli sforzi normali che la rete trasmette al terreno circostante, che generano il carico distribuito p(x, y, v0).

Sfruttando la geometria, si introducono due coordinate polari, una circonferenziale, 𝜗, e l’altra radiale, r, come illustrato in Figura 3.6.

Figura 3.6 Geometria per il calcolo numerico.

Per ricavare p(r,, v0) e TN(v0) si assumono le seguenti ipotesi:

- La rete metallica e il geotessile sottostante vengono considerati come un’unica membrana.

(50)

- L’interazione tra tale membrana fittizia e il terreno su cui poggia è interpretata tramite delle molle, che per semplicità vengono considerate solo verticali (figura 3.8c-d).

- Si assumono noti gli spostamenti del terreno in direzione r, per ogni spostamento della piastra v0.

- La membrana che rappresenta la rete ha un coefficiente di Poisson nullo, in modo che gli sforzi tangenziali in direzione  siano trascurabili rispetto a quelli lungo il raggio r. Ne consegue che ciascun settore radiale lavora indipendente l’uno dall’altro e in parallelo. È possibile quindi descrivere questi settori circolari per mezzo di un numero finito di elementi di trave monodimensionali.

Dunque, si assume che la membrana sia composta da settori circolari che lavorano in parallelo, rappresentati da elementi monodimensionali; le incognite del problema sono lo spostamento verticale v(r) e quello orizzontale u(r). Vengono invece imposte le componenti verticale e radiale dello spostamento del terreno, rispettivamente v*(r) e u*(r). Per semplicità u*(r) si impone nulla, mentre per v*(r) viene impiegata la soluzione elastica standard per un mezzo isotropo ed omogeneo.

L’andamento dello spostamento verticale è stato anche ricavato per mezzo di

funzioni di forma, F[r/(P/2)] (Figura 3.7).

Nel segmento OS (Figura 3.8) v* vale v0; per r > F=2 l’andamento di v* è calcolato tramite l’espressione di Foster and Azhlvin (1954, Poulos and Davis 1974), i quali però si riferiscono a una fondazione deformabile superficiale a base circolare, su cui agisce una pressione verticale costante. I due autori forniscono il fattore di inflessione normalizzato, ricavato lungo la profondità, per valori discreti della coordinata r.

(51)

Figura 3.7 Funzione di forma del cedimento elastico attorno alla piastra: valori e adattamento numerico di Foster and Azhlvin.

Il processo di carico è simulato numericamente imponendo nella zona OS una traslazione rigida in direzione verticale, che equivale a scrivere il vincolo cinematico 𝑣̇ = 𝑣̇∗= 𝑣̇0, uguaglianza ottenuta imponendo che le molle nella zona OS abbiano rigidezza assiale infinita.

Ogni molla è descritta dalla seguente relazione costitutiva:

[𝐹𝑉 𝐹𝐻] = [ 𝑘𝑣 0 0 𝑘𝑢] ( 𝑣 − 𝑣∗ −𝑢∗− (𝑢−𝑢) 𝑃𝐿 )

FV e FH sono le forze verticale e radiale che le molle trasmettono alla rete nei nodi (Figura 3.8 c), kv and ku sono rispettivamente le rigidezze elastiche verticale e orizzontale e (u-u*)PL è lo spostamento relativo plastico in direzione orizzontale dovuto alla presenza degli scivolatori orizzontali (Figura 3.8 d).

(52)

Il valore da attribuire a kv dipende dalla geometria della rete, ovvero dal diametro dei fili di metallo e dall’angolo delle aperture romboidali della rete e anche dalla presenza del geosintetico sottostante. Nell’articolo di Di Prisco, Besseghini e Viganò viene presentato un esempio di calibrazione di kv. In direzione radiale invece, le molle sono elasto-plastiche; gli scivolatori plastici sono in serie con le molle tangenziali, come mostrato in Figura 3.8, e dunque si genera attrito per scivolamento tra il terreno e il geotessile, fenomeno descritto dalla legge di rottura alla Mohr-Coulomb.

Risolvendo numericamente il problema negli spostamenti appena descritto è possibile ricavare p(r,v0) e TN(v0)

(53)

Figura 3.8 Rappresentazione schematica di (a) rete metallica nella configurazione indeformata, (b) rete metallica nella configurazione deformata, (c) molle plastiche di contatto normale e (d) molle elasto-plastiche di contatto tangenziale.

(54)

Validazione del modello

Una volta implementato il modello descritto, è possibile simulare la risposta della rete a un test di punzonamento. Alla fine del test, la rete è snervata e penetra nel terreno.

Per ogni settore circolare si può calcolare la tensione Tj, ad ogni step temporale, durante la progressiva deformazione della rete. Tj viene proiettato in direzione verticale e sommando tutti i contributi si ottiene il contributo globale dato dalla rete, TN.

Ottenuto TN(v0)è possibile calcolare ∆𝑁𝑀, poi N(v0). Una volta note le funzioni N(v0) e N*(v0), si calcola a posteriori il termine di accoppiamento NCO(v0). In Figura 3.9 si riportano gli andamenti di queste tre funzioni.

Infine, sommando i due contributi N(v0) e TN(v0), è possibile ottenere la funzione 𝑁̅(𝑣0) = 𝑇𝑁(𝑣0) + 𝑁(𝑣0). Essa è la curva caratteristica del sistema e lega l’azione che il sistema trasmette al terreno, al crescere dello spostamento v0 normale alla piastra.

(55)

Nelle tabelle che seguono vengono riportati i dati relativi alla rete, alle piastre e ai terreni considerati nell’articolo.

Tabella 3.1 Parametri costitutivi calibrati per la rete metallica.

Tabella 3.2 Parametri costitutivi calibrati per la piastra e per lo strato di terreno in condizioni sciolte.

Tabella 3.2 Parametri costitutivi calibrati per la piastra e per lo strato di terreno in condizioni dense.

(56)

Analisi parametrica

Nell’articolo è stata inoltre studiata la dipendenza della riposta meccanica del sistema sulla spaziatura tra le piastre, in particolare per una sabbia sciolta e una sabbia densa. Per eseguire questa analisi vengono mantenuti inalterate le caratteristiche della rete metallica, mentre i parametri della piastra del terreno vengono variati.

I risultati vengono riportati in figura 3.11 nel caso della sabbia sciolta e in figura 3.10 nel caso della sabbia densa. Per entrambe le tipologie di sabbia, si nota che diminuendo la spaziatura tra le piastre il comportamento meccanico diventa più rigido.

Figura 3.11 Risposta meccanica del sistema per una sabbia sciolta, al crescere della spaziatura.

Figura 3.10 Risposta meccanica del sistema per una sabbia densa, al crescere della spaziatura.

(57)

4. Esempio di calcolo

4.1. Introduzione

In questo elaborato si propone l’analisi di stabilità di un pendio in materiale sciolto.

A causa dell’instabilità del sistema si utilizzano i sistemi corticali come opera di stabilizzazione. In particolare, si considera l’intervento in condizioni passive, con lo scopo di sfruttare i soli spostamenti del terreno per attivare le forze necessarie a rendere stabile il versante.

Si propone una progettazione dell’opera seguendo più approcci: inizialmente si considera lo stato limite ultimo, cioè le condizioni di incipiente collasso del pendio; a seguire si studia la stabilità con il metodo ibrido, considerando il cinematismo e il campo di spostamenti del terreno. L’equilibrio limite e l’approccio ibrido, però, non consentono di ottenere informazioni riguardo l’evoluzione e l’entità degli spostamenti del pendio. Per questo motivo, volendo valutare l’efficienza del sistema progettato si adotta il metodo negli spostamenti: si esegue un’analisi evolutiva degli spostamenti del pendio, integrando alle differenze finite l’equazione del moto. In questo modo si può comprendere se il sistema corticale progettato sia in grado di rallentare le velocità del terreno e si ha una stima del tempo necessario affinché le azioni stabilizzanti si attivino.

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4.2. Descrizione del problema

Consideriamo una scarpata di altezza H=14m, lunghezza L=14m, con una pendenza di 45° sull’orizzontale (Tabella 4.1).

Il pendio è composto da sabbia densa, le cui caratteristiche fisiche e meccaniche sono riassunte in Tabella 4.2.

Si considera uno strato superficiale di spessore verticale di 1 m che presenta una coesione c’=7 kPa, che permette di riproporre la situazione realistica di una porzione di terreno superficiale in condizioni di parziale saturazione e in presenza delle radici della vegetazione superficiale. Da un punto di vista meccanico la presenza di una coesione, seppur di piccola entità, evita la formazione di irrealistici meccanismi di rottura molto superficiali.

Nello studio della stabilità del sistema si considerano le condizioni drenate, trattandosi di un materiale sabbioso, oltretutto analizzato in condizioni di lungo termine.

Geometria del Pendio

H [m] L [m] α [°]

14 14 45

Tabella 4.1 Dati della geometria del pendio

Proprietà del terreno

ϒsat [kN/m3] c' [kPa] φ[°] ϒw [kN/m3]

Strato 1 19 0 40 9,807

Strato 2 19 7 40 9,807

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Figura 4.1 Profilo del pendio.

4.3. Analisi di stabilità all’equilibrio limite

Per studiare la stabilità del pendio si considera il metodo dell’equilibrio limite, in particolare si assume una superficie di rottura circolare e si adotta la soluzione proposta da Bishop, come trattato nel capitolo 2. Il calcolo viene effettuato utilizzando il software SLOPE/W e il foglio di calcolo Excel.

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Figura 4.2 Superficie di rottura circolare suddivisa in conci.

Il volume del pendio viene suddiviso in conci di uguale larghezza. Secondo il metodo, si scrivono le equazioni di equilibrio del singolo concio in direzione verticale; lungo la superficie di scorrimento si assume il criterio di rottura di Mohr-Coulomb; si scrivono le equazioni di equilibrio alla rotazione globale del sistema attorno al centro della circonferenza di rottura. Si ottiene un’espressione implicita del fattore di sicurezza, che va ricercato quindi con un processo iterativo.

𝐹𝑆 =

∑ (

𝑊𝑖− 𝑈𝑖cos 𝛼𝑖− 𝑐 ′𝛥𝑥 𝐹𝑆 cos 𝛼𝑖 cos 𝛼𝑖

sin 𝛼

𝑖tan 𝜑′𝑖

𝐹𝑆 tan 𝜑′ 𝑖 + 𝑐′𝛥𝑥 cos 𝛼𝑖) 𝑛 𝑖=1 ∑𝑛𝑖=1

𝑊

𝑖

sin 𝛼

𝑖

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