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Stati e istituzioni economiche sovranazionali

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Academic year: 2021

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Marco Betzu*, Stati e istituzioni economiche sovranazionali, Giappichelli, Torino, 2018, collana Materiali e studi di diritto pubblico, ISBN 978•88•9211537•8 (copertina; indice)

Lo scopo del libro è duplice.

Innanzi tutto dimostrare che l’ipotesi di fine dello Stato non ha avuto sostanziale riscontro nell’effettività (cap. I). Nell’attuale contesto internazionale gli Stati esercitano – ed eserciteranno ancora a lungo – funzioni di primissimo piano. Lo Stato continua a rimanere l’ultimo decisore sulla pace e sulla guerra ed è ancora il principale attore in numerosi settori, quali l’ambiente e la moneta. Più in generale, la crescente istituzionalizzazione che ha interessato negli ultimi quarant’anni il livello sovranazionale è, essa stessa, la spia della capacità di adattamento degli Stati nazionali di fronte al mutare della realtà socioeconomica. Adattabilità che consente loro di conservare una grande importanza nell’assicurare le condizioni della competitività economica, della legittimazione politica e della coesione sociale, sì che lo Stato è comunque chiamato ad assumere un ruolo su più livelli: internazionale, sovranazionale, interno.

In secondo luogo si vuole dimostrare come le istituzioni sovranazionali dell’economia, pur con tutti i loro limiti, siano gli strumenti istituzionali che, nella prospettiva della mediazione e del negoziato utile, proprio gli Stati si sono dati per muoversi all’altezza delle questioni globali che devono essere affrontate. Il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio possono servire a tenere aperta la dialettica tra politica e mercati (cap. II e III). Se immaginassimo un mondo senza queste istituzioni, infatti, avremmo davanti agli occhi uno scenario tutt’altro che tranquillizzante, fatto di guerre commerciali, di protezionismo e, soprattutto, di Stati per lo più incapaci di affrontare la sfida dei mercati. Al contrario, le istituzioni sovranazionali dell’economia, pur bisognose di alcune riforme sia strutturali che di policy (cap. VI), possono garantire quella cooperazione istituzionalizzata necessaria a pacificare i conflitti interstatali, riconducendoli entro regole predefinite per la loro soluzione e, così facendo, consentono il raggiungimento di soluzioni migliori di quelle che si realizzerebbero se vi fosse un’assenza totale di regole. Il multilateralismo, di cui sono espressione, non è altro che la traduzione istituzionale dell’ambizione ad ottenere esiti a somma positiva per tutti gli attori che partecipano alle relazioni economiche internazionali. Un’ambizione che merita in ogni caso di essere protetta, perché fornisce il fondamento assiologico all’esistenza di luoghi neutri nei quali gli Stati possono incontrarsi e dialogare, come aveva intuito Keynes già nel 1932 quando, dubitando della tenuta del sistema capitalistico in assenza di un governo mondiale del sistema finanziario, scriveva che ogni nazione, nel tentativo di implementare la propria posizione relativa, è portata ad adottare misure economiche dannose per i propri vicini, rischiando di subire, però, la medesima sorte.

Se, dunque, la fine dello Stato è un’idea sbagliata, altrettanto sbagliata è la demonizzazione delle istituzioni economiche sovranazionali. La base di senso da cui hanno preso origine, rappresentata dal compromesso di Bretton Woods, esprimeva ed

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esprime, anche in un mutato contesto, una politica della mediazione, utile a disinnescare il conflitto tra le ragioni dell’economia globale e le democrazie nazionali, perseguendo quell’equilibrio necessario a contrastare le pulsioni disgregative di un capitalismo lasciato a se stesso.

Da qui nasce l’esigenza di una rinnovata attenzione dei costituzionalisti nei confronti di tali istituzioni, uscendo dall’alternativa “statalismo/antistatalismo” che ha spesso permeato gli studi giuridici sulla globalizzazione, sterilizzandone analisi e conclusioni. Continuare a parlare di una sovranità statale “limitata” o vagheggiare forme di costituzionalismo sociale senza Stato significa, infatti, utilizzare una terminologia e una logica che nascondono una carica delegittimante di una soggettività ben viva: quella statale (cap. V).

Si tratta, invece, di far vivere le parole del costituzionalismo e della politica davanti alle sfide dell’economia globale (cap. VI). Non meno di altre, forse più di altre. È questa la questione dell’oggi.

* Ricercatore td b) di Diritto costituzionale nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Cagliari.

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