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Academic year: 2021

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Recensione a Musiche, di Lelli e Masotti

Carlo Serra

Lelli e Masotti, Musiche, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2016.

L’importante catalogo, che accompagnava la mostra tenuta presso la peru-gina Galleria Nazionale dell’Umbria nell’estate 2016, sollecita riflessioni che, sulle prime, potrebbero sembrare lontane dal mondo della fotografia.

Nel 2006 Steven Feld, etnomusicologo profondo ed inquieto, presentò a Milano uno splendido concerto, e un notevole documentario, su un’espe-rienza denominata Accra Trane, in cui rivisitava la musica di Coltrane, con due straordinari musicisti del Ghana, Nii Noi Nortey e Nii Otoo Annan. Il tema della ricerca, in cui studio etnologico e pratica musicale trovavano un equilibrio felice, è stato narrato da Maurizio Corbella in una intervista pub-blicata su Amadeus, dove prende forma una raffinatissima discussione sul jazz ed il cosmopolitismo, tema notevole, vista la ricchezza di possibili radici di queste musiche , di cui parlava, con finezza, Steve Lacy, quando sosteneva, in coraggiosa controtendenza, che il jazz era un genere misto, contaminato, non solo negritudine (https://static1.squarespace.com/sta-tic/545aad98e4b0f1f9150ad5c3/t/5470f3b1e4b09e5ea7e13684/1416688561 338/Amadeus+Feld.pdf): il nodo della discussione si salda attorno ad un con-cetto penetrante, e oggi profondamente disatteso. Nella parole di Feld:

Pren-diamo Nii Noi: ecco un uomo che ha ascoltato per quarant’anni la stessa musica che ho ascoltato io. Come ci si può interrogare sulle complesse vie attraverso cui vite così distanti sono state guidate a lungo da medesime pas-sioni? Come si può spiegare l’ironia di incontrare, in un posto “lontano” come Accra, un uomo che ti spiega che John Coltrane gli ha salvato la vita?

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Si dicono molte cose, ma soprattutto si punta ad una dimensione universale del musicale, che, trapassando contesti culturali diversissimi, illumina da punti di vista sideralmente lontani, lo stesso oggetto, le strutture sonore pen-sate da Coltrane. Un’idea che si rifrange in forme diverse, che rimandano alla medesima esperienza sonora, che si propone come un oggetto, attorno a cui possono proliferare sguardi diversi, che ne mettono continuamente alla prova la consistenza. Sulla musica di Coltrane convergono così ricerche, affetti, stili lontani, collegati da domande comuni, in grado di guidare pratiche musicali.

Durante la proiezione del documentario che accompagnava il concerto, ad un certo punto, la cinepresa entrava nella stanza di uno dei musicisti, per sag-giarne fonti e amori. Avevo a fianco a me un musicologo fine come Emilio Sala, che, guardandomi, osservava divertito quanto quella camera, piena di dischi, gli ricordasse la sua, secondo un taglio generazionale che scavalcava le grandi distanze che separano l’Europa dall’Africa, e, mentre lo diceva, mi rendevo conto che molti degli album inquadrati, erano quelli che ascoltavo anch’io, e che parlavano non solo di Coltrane, ma di un intero panorama mu-sicale, da cui, si sarebbe distillato, progressivamente, un gusto. Qualcuno po-trebbe chiamarlo il “mondo della vita”, un tessuto di credenze condivise, che quasi non sentiamo il bisogno di riattivare, ma che agisce dentro di noi, con-tinuamente, facendoci intendere con gli altri, come ci hanno insegnato Witt-genstein e Husserl.

Guardando le foto del catalogo, viene subito in mente l’episodio: nella snella postfazione, Lelli e Masotti ci dicono che Musiche non offre confini, è una linea di suono, un mix sovramusicale in scorrimento […] che dicono sto-rie accadute nel tempo e lì sospese rimangono; momento precisi, densi di si-gnificato, eppure leggeri ed ironici. Il passo risuona nella bella presentazione di Marco Pierini, quando si osserva che ogni fotografia, assume in sé un ca-rattere di atemporalità e di universalità, che trascende il mero fenomeno. Os-servazione profonda, che entra in un problema spinoso: con Roland Barthes, ci siamo abituati ad una concezione della fotografia dove il reale irrompe e muore, in cui il fotografo vive lo scatto come Orfeo, dove il senso dell’imma-gine non potrà che essere quello di una perdita, di un contatto commosso con il morso di un reale, che ci ha definitivamente abbandonato.

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momento narrativo, quasi drammaturgico, su cui confluiscono passato e turo, senso della sequenza trascorsa, e momento che prepara al salto nel fu-turo, è innestata nel vitale, e non parla soltanto di memorie inabissate, ma proprio di quel momento lì, di quando quella cosa è accaduta, catturata in un eterno presente, che continuamente riattiviamo, e a cui abbiamo imparato, a differenza di Barthes, a non chiedere troppo, secondo la disincantata e pro-fonda visione di Paolo Spinicci. A non chiedere un reale, ad esempio, che metta in gioco la continuità del movimento, che la macchina fotografica non cerca, ma da cui seleziona.

Le foto rimangono sospese, ma non sono precarie, la precisione del mo-mento è direttamente proporzionale alla densità dei significati narrativi: il fo-tografo, che ci regala oggetti muti, trova qui un suo paradossale punto di con-tatto con il musicista, che lavora con una materia, il suono, in grado di portare il tempo sul piano della sensibilità, di riempirlo con il processo di attacco, durata ed estinzione in cui il vibrare della materia dello strumento rende per-cepibile il flusso, con il suo semplice appogiarvisi sopra.

Ma sospensione significa che fotografo e musicista sono prigionieri, e sfruttatori, del tempo. Il suono corre veloce, non ha il tempo di invecchiare, dice Piana, e le tecniche strumentali, la dimensione gestuale, l’incontro di corpi e corpi sonori, le prassi compositive raccontano un problema inaggira-bile, che sembra occupare la puntualità del qui e ora, senza la possibilità di una seconda “take” come diceva Glenn Gould, o come praticavano gioiosa-mente Frank Zappa, o i Beatles.

Le espressioni concentrate, ironiche, divertite, appagate e inquiete del mu-sicista passano attraverso questa dimensione, in cui è sempre troppo tardi per proteggersi ed troppo presto per non annoiarsi: e la vita del fotografo non è meno scomoda, nel suo dover cogliere il momento, la situazione, il contesto, mostrando sempre più di quanto non si veda, al primo approccio. Tale lavoro impone una strategia dello spazio, un pensare per scorci, punti di vista, in cui il taglio prospettico piega le strutture del tempo, facendole convergere nella posa, che vediamo ora: l’accadere della foto cancella quel moltiplicarsi dei punti di vista, attraverso cui è stata sentita. Potremmo chiamarla sincronicità.

Il qui e ora si allarga in un transito per il permanente: del resto, chi cono-sca, anche solo un poco, il mondo della musica sa quanto il paradosso

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dell’evento, del momento in cui avviene tutto, sia una sorta di ossessione con-divisa, quasi uno sport. Lo stesso accade per l’apparente precarietà ontologica del fotografo, che porta l’alito della vita nella staticità: il passato è una ma-schera, guardando foto, ritratti e situazioni veniamo risucchiati, osservati, ri-flessi, in un presente carico di tensione, che è, in fondo atemporale nel senso di Pierini, sottratto cioè al fluire indifferente degli eventi. Il bianco e nero potenzia le sintesi immaginative, e la complicità che stringe immagine e spet-tatore, ma su questi temi rimando al bel volume Simile alle ombre e al sogno di Paolo Spinicci.

Siamo partiti dal tema dell’idea di musica, che sostiene Musiche, ed ab-biamo incontrato, tramite Coltrane e il Ghana, un cosmopolitismo, che mette in gioco un pensare in grande. Io credo che anche Lelli e Masotti ci facciano pensare in grande, illuminando il senso del musicale in contesti diversificati: così incontriamo una vicenda in cui la performance di Bennink e Brotzman contrappunta la magia del gesto di Kleiber, con quello sguardo intraducibile, che dice già tutto, o entriamo nel momento di intenso studio in cui vengono colti Abbado e Stern. Ancora il gesto, Dudamel e Stratos raccontano l’acca-dere del suono nel conflitto fra le tensioni del braccio destro e sinistro: mondi remoti, eppure così vicini, sul piano della dimensione umana, e indifesa, della ricerca.

Quasi quaranta anni di storia della musica, senza confini di genere, tornano potabili, e lo fanno con la leggiadria di una danza, dove divertimento e com-mozione si intrecciano, in un proliferare di affetti messi in gioco dalla diver-sità dei caratteri musicali, che Lelli e Masotti ci raccontano, e pongono in sapiente contrappunto.

Il viso pensoso di Nono e i denti stretti di Honsinger, il ripiegarsi sullo strumento di Rostropovitch o l’aprirsi del corpo che sostiene lo strumento ne

La veglia degli angeli, il risvegliarsi dell’orgoglio nero in James Brown,

l’im-provvisazione, fra i costumi dell’Art Ensemble e la magia istrionica di un Davis, catturato nell’ascolto di Darryl Jones, sono solo alcune pagine di un diario che muove una tale densità culturale, che per venir commentata, im-porrebbe forme ecfrastiche che mancano a chi scrive.

Eppure, tutto è sotto gli occhi, si guarda, spesso si sorride, e anche questo mostra quanto sia difficile strecciare il piano dell’immaginario da quello del

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documentale, un’ambiguità che torna continuamente, quando si entra nel ter-reno del ritratto, regione in cui il realismo balbetta spesso e volentieri, conse-gnandosi al mitologico. Del resto, l’immagine del musicista che suona gioca con un fondo di teatralità, mai pienamente esplicitata, spesso involontaria, ma sempre operante, in modo più o meno sommesso.

Maurizio Pollini, Milano. Teatro alla Scala

Chiunque abbia ascoltato un concerto di Maurizio Pollini conosce questa situazione: vi è ispirazione profonda, ma anche l’immensa fatica dello scavo e dell’ascolto, il corpo che patisce ed esplora, il canto interiore che sostiene nella solitudine. Dietro a quell’idea di perfezione, si fa strada il senso di una ricerca continua e logorante, tesa all’ascolto dell’ultimo suono, all’ultimo grappolo accordale, che si è già allontanato, mentre si fanno avanti i succes-sivi. Impossibile distinguere fra forza e fragilità perché qui si esce dall’istante, rimanendo sempre in bilico: quanto pudore, nel cogliere un momento come questo, in cui tutto accade insieme. Il fotografo sceglie un punto di vista estremo, collocandosi nella piccola stanza che sostiene il grande lampadario della Scala. il massimo della lontananza garantisce un’intimità che protegge fotografo e soggetto, da una prospettiva che non ti aspetteresti.

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Steve Beresford, Workshop Freie Musik. Berlino, Akademie Den Kunste Fotografare significa pescare nell’evento e nei suoi dintorni, cogliendo l’interazione del pubblico, che qui si fa fotografia nella fotografia: Steve Be-resford colto in bilico nel momento gioioso dell’improvvisazione e del para-dosso, che stravolge lo stesso rapporto organologico con lo strumento. Avan-guardia raffinata, che mescolava sapientemente teatro e musicalità, confron-tandosi con Berio, Evan Parker e Trenet, mettendo alla prova piani giocattolo, grancoda ed euphonium, oggi colpevolmente poco studiata. Giocare con l’improvvisazione, al limite della caduta, aprendo il flusso musicale verso quel cosmopolitismo culturale, che Feld ha colto come un carattere del con-temporaneo, certo, ma, guardando la foto, viene da chiedersi, fra i mille segni del tempo che dissemina, quali dischi potessero abitare la stanza dell’impren-dibile musicista inglese: ognuno si immagini una risposta.

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