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I Modelli economico-aziendali Cap.2

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Academic year: 2021

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SOMMARIO

2.1 Premessa

2.2 Modelli economico-aziendali. Un quadro di sintesi

2.2.1 Finance model: l’approccio Shareholders

2.2.2 Myopic Market Model

2.2.3 Il modello basato sull’abuso di potere da parte degli amministratori

2.2.4 Stakeholder model

2.2.5 I sistemi giuridici reali (cenni e rinvio). Il concetto di successo sostenibile nel Codice di Corporate Governance 2020

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teorici di natura economico aziendale. Nel corso della trattazione verrà posta particolare attenzione alle differenti declinazioni attribuite ai tradizionali ruoli di governance in diversi contesti storici e culturali.

2.2 Modelli economico-aziendali. Un quadro di sintesi

Le problematiche afferenti il funzionamento del Consiglio di Amministra-zione trovano la propria origine tipicamente nel contesto in cui i soggetti che governano l’impresa non coincidono con coloro i quali detengono la proprietà delle azioni. Una tale configurazione societaria implica il rischio che le due categorie in oggetto, ovvero i soci e gli amministratori, possano non perseguire i medesimi interessi. Tale rischio è stato tradizionalmente riconosciuto dalla dottrina1 e rientra nel più ampio meccanismo della

“relazione di agenzia”2. Secondo tale impostazione l’azionista-mandante

(“principale”) dà mandato al manager (“agente”) di esercitare il potere di amministrazione aziendale. Tale interazione presupporrebbe la definizione di precisi termini contrattuali a disciplina del rapporto instaurato. Tuttavia, nella particolare fattispecie della gestione d’impresa, alla luce dell’impos-sibilità di prevedere ogni singola circostanza futura, si rende necessaria la definizione di operazioni preliminari quali l’individuazione di sistemi di misurazione e controllo dell’attività svolta dall’agente e la formulazione di incentivi idonei ad attenuare il rischio di comportamenti opportunistici e di asimmetrie informative3.Tali attività implicano a carico del mandante il

sostenimento di costi, sia in termini monetari sia in termini di “opportunità” costituito dalla differenza tra il risultato dell’azione dell’agente e il risultato che si sarebbe determinato nel caso in cui la gestione fosse stata esercitata dagli azionisti stessi4. Pertanto, nella configurazione degli assetti di

gover-1 Si veda, tra gli altri: L. Guatri, La teoria di creazione del valore. Una via Europea, Egea,

Milano, 1991, pag. 95.

2 Si veda: M. Jensen e W. Meckling, Theory of the firm: Managerial behavior, agency costs

and ownership structure, Journal of Financial Economics, vol. 3, n. 4, pagg. 305-360, 1976; E. Fama, M. Jensen, Separation of ownership and control, in Journal of Law and Economics, n. 26, pagg. 327-349, 1983.

3 Si veda A. Alchian e H. Demsetz, Production information costs and economic

organi-zation, American Economic Review, n. 62, pagg. 777-795, 1972.

4 A. Baroncelli, L. Serio, Economia e gestione delle imprese, McGraw-Hill, Milano, 2013,

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nance, la proprietà dovrà valutare costantemente l’economicità delle proprie scelte anche in termini di convenienza costi-benefici.

La dottrina ha individuato alcuni modelli teorici volti ad approfondire i meccanismi di efficientamento del sistema di corporate governance. In particolare, è stata proposta una modalità di classificazione che li riconduce a quattro approcci principali5, ripresi quale riferimento per la trattazione

che qui si propone.

2.2.1 Finance model: l’approccio Shareholders

Il finance model, sviluppato nel contesto angloamericano, presuppone che la separazione tra proprietà e controllo avvenga principalmente per motivi di efficienza. L’ipotesi di base è che gli azionisti non posseggano le abilità per gestire l’impresa e, per converso, gli amministratori siano dotati di tali abilità, ma non dispongano di risorse economiche e attitudine al rischio suf-ficienti per potere o volere divenire proprietari di quote di capitale. Inoltre, il modello presuppone alla base la sussistenza di una divergenza di interessi tra shareholders e amministratori.

Il finance model assume una visione “deterministica” con riguardo alla regolazione del rapporto tra azionisti e management, affidando ai meccani-smi di mercato la possibilità che gli amministratori agiscano nell’interesse degli azionisti. In particolare, i suddetti meccanismi sarebbero in grado di fornire spontaneamente incentivi e deterrenti capaci di condizionare il comportamento dei soggetti che esercitano il governo dell’impresa. Alla luce di ciò, il modello teorizza che l’imposizione di ulteriori obblighi e regole da parte degli azionisti dell’impresa risulterebbe inutile, e anzi sarebbe fonte di inefficienze. Si tenga conto a tal proposito che, secondo il modello, la separazione tra proprietà e controllo determina di per sé una diminuzione del valore di mercato dell’impresa e quindi un potenziale costo per il porta-tore di capitale, in quanto tale separazione inevitabilmente genera il rischio di una divergenza d’interessi tra soci e gestori. In tale contesto, l’onere per l’azionista di formulare e imporre regole per i dirigenti, nonché di supervi-sionarne il rispetto, rappresenta un ulteriore elemento negativo nell’ottica decisionale del primo, che deve valutare la convenienza della vendita delle proprie quote societarie.

Tornando all’esame dei meccanismi di cui si avvale l’impresa, il finance model si concentra su due tipologie di mercato: il mercato dei capitali e il

5 A. Melis, Corporate Governance. Un’analisi empirica della realtà italiana in un’ottica

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mercato del lavoro. Da un lato, il mercato dei capitali pone costantemente la minaccia di scalate ostili, che si rende sempre più concreta nei casi in cui l’azienda performi al di sotto delle proprie potenzialità e le quote di capitale risultino sottovalutate in rapporto alle effettive potenzialità dell’azienda. Qualora una scalata sia avviata in un simile contesto, l’acquirente potrà verificare a consuntivo le capacità manageriali degli amministratori, e provvedere alla loro sostituzione quando siano individuati come gli effetti-vi responsabili delle inefficienze e delle insufficienti prestazioni aziendali. Viceversa, perseguendo la massimizzazione del valore aziendale il mana-gement ridurrebbe il rischio di scalate ostili, sventando una perdita della gestione aziendale legata a tale evento. Dall’altro lato il mercato del lavoro, con specifico riferimento in questo caso agli incarichi dirigenziali, presenta la minaccia di sostituzione degli amministratori con nuovi soggetti, i quali possono provenire dall’interno o dall’esterno dell’azienda. La concorrenza che si genera dal lato della domanda di lavoro e le possibilità di scelta van-tate dal lato dell’offerta spingono gli amministratori ad agire cercando di sfruttare tali condizioni di mercato. Perseguendo la massimizzazione del valore aziendale, in tal senso, gli amministratori possono ottenere benefici in termini reputazionali. Inoltre, il mercato del lavoro induce l’azienda a configurare meccanismi di retribuzione dei manager fortemente basati sulle performance da questi conseguite. Tale criterio consente di alleviare il rischio di comportamenti opportunistici derivanti dal fatto che i soggetti deputati a prendere le decisioni non sono gli stessi che subiscono gli effetti di tali decisioni. Un tradizionale mezzo per conseguire tale beneficio è rap-presentato dall’istituto delle Stock Options, con il quale gli amministratori diventano portatori di capitale dell’impresa. Tale tema è affrontato in modo più articolato infra nel Capitolo 36.

Il finance model è coerente con un approccio shareholders rintracciabile oltre oceano negli scritti di Rappaport7 e diffusosi in Italia alla fine degli

anni ottanta con gli scritti, tra gli altri, di Guatri8. In sostanza ci si occupa

6 S. Corbella, I piani di Stock Grant e Stock Option destinati al personale. Profili di

misu-razione del reddito di esercizio, FrancoAngeli, Milano, 2004; G. Airoldi, A. zattoni,

Piani di stock option. Progettare la retribuzione del top management, Egea, Milano, 2001; A. Quagli, L’adozione degli IAS/IFRS in Italia: i piani di remunerazione a base azionaria, Giappichelli, Torino, 2006; M. Regalli, Stock option e incentivazione del management, Il Sole 24ore, Milano, 2003; P. Riva, R. Provasi, The European approach to regulation

of director’sremuneration, in The Theory and Practice of Directors’ Remuneration: New

Challenges and Opportunities, Emerald Group Publishing, 2015-12.

7 D. Rappaport, Creating shareholder value, 1986.

8 L. Guatri, La valutazione delle aziende, Giuffrè, 1981; L. Guatri, M. Bini, Nuovo trattato

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in via esclusiva degli interessi degli azionisti senza attenzionare alcun altro soggetto tra quelli quotidianamente coinvolti nelle vicende aziendali. Gli azionisti, in quanto “legalmente proprietari dell’impresa”, possono disporre liberamente della stessa con il solo vincolo del rispetto delle norme di legge. Questo perché gli azionisti, anche quando non coinvolti nella gestione, sono coloro che sopportano il rischio d’impresa. Perseguendo la creazione di valore per gli azionisti si crea valore anche per gli altri stakeholders: non vi è alcuna necessità che l’impresa persegua direttamente obiettivi cosiddetti “sociali”. Anzi, è considerato improprio l’approccio stakeholders, trattato infra, in quanto basato sulla confusione tra obiettivi e vincoli. Lo scopo da perseguire è la massimizzazione del valore dell’azione, mentre le esigenze di altri portatori di interesse diversi dagli azionisti rappresentano solo dei vincoli, ossia elementi di cui tenere conto, che in qualche modo limitano la libertà di decisione degli azionisti, ma che non vanno inclusi nella funzione di utilità dell’azienda. La massimizzazione del valore per l’azionista è misurata con la variabile proxy “massimizzazione del valore delle azioni sul mercato finanziario”. Ciò comporta, come si è già affermato supra, l’accettazione di una ipotesi di efficienza del mercato e quindi della sostanziale equivalenza nel contesto delineato tra capitale economico e capitalizzazione di borsa. Rappaport, ponendosi nella prospettiva dell’azionista, calcola il suo reddito reale, ovvero il risultato cui è interessato in quanto investitore dei propri risparmi nel capitale di un’azienda: esso è costituito dai dividendi percepiti e dalla variazione di valore del capitale economico al netto di eventuali nuovi apporti.

2.2.2 Myopic Market Model

Il Myopic Market Model rappresenta una teoria in contrapposizione con quella del finance model. Il modello in esame si basa infatti sull’assunzione che i mercati dei capitali, tra cui il mercato azionario, risultino caratterizzati da “miopia” in quanto attribuiscono ai risultati aziendali di breve periodo una rilevanza maggiore rispetto a quella assegnata alla creazione di valore nel lungo periodo. La stessa preoccupazione per il valore corrente delle quote societarie, nonché per la minaccia di scalate ostili, considerati dal finance model come efficaci parametri e incentivi in funzione della regolazione del comportamento degli amministratori, secondo il myopic market model rappresentano, al contrario, elementi che spingono gli amministratori ad assumere decisioni volte a risolvere questioni immediate e contingenti e a concentrarsi su risultati di breve periodo trascurando quelli di lungo periodo. L’inefficienza di mercato teorizzata dal Myopic Market Model trova rap-presentazione anche a livello pratico: basti considerare che gli investimenti di lungo periodo vengono ordinariamente attualizzati ad un tasso di sconto

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superiore rispetto a quelli di breve periodo. Tale applicazione risulta fisiologica e giustificata dal fatto che il mercato tende a sottovalutare gli investimenti a lungo termine a causa della mancanza di informazioni sufficientemente certe e dettagliate su di essi9. Gli amministratori, da parte loro, hanno

informazioni certamente più complete rispetto al mercato, e sono pertanto in grado di agire secondo la prospettiva di medio-lungo periodo promossa dal modello. Tale comportamento può essere incentivato includendo i consi-glieri di amministrazione nella compagine societaria, nonché l’alta direzione e i dipendenti. Parallelamente, è opportuno configurare la stessa struttura azionaria in modo tale che anche i soci acquisiscano una mentalità volta alla valorizzazione dei risultati di medio-lungo periodo. A tal fine è opportuno incoraggiare gli azionisti a detenere quote societarie più grandi e ad assu-mere un ruolo attivo nella gestione10, ed è possibile prevedere restrizioni sul

diritto di voto per i soci di breve periodo.

In tale contesto assumono rilevanza, oltre ai piani stock option, gli stru-menti delle azioni a voto maggiorato. L’attribuzione del diritto di voto ai soci basato sul principio “un’azione-un voto” si è affermato nella seconda metà dell’ottocento quale sistema in grado di armonizzare l’interesse eco-nomico degli azionisti e il potere di intervento da questi assunto nella vita societaria. La proporzione “uno a uno” tra il numero di azioni possedute e la forza di voto consente infatti di attribuire maggiore capacità di orientare le scelte societarie agli azionisti sul cui interesse si ripercuoteranno in misura prevalente le conseguenze delle scelte stesse. Tale meccanismo appare poten-zialmente idoneo anche al perseguimento della massimizzazione del valore societario, in quanto il soggetto che ha investito maggiori risorse ha altresì un interesse maggiore verso il buon rendimento e la crescita dell’azienda, sarà stimolato ad attuare un’attenta supervisione sul comportamento degli amministratori, e avrà minori attrattive verso interessi personali in conflitto con il benessere sociale complessivo11.

Nel tempo si sono affermati principi alternativi al tradizionale principio “un’azione-un voto”, con la possibilità per le imprese di adottare titoli di partecipazione a voto multiplo. In particolare, le imprese possono attri-buire un voto maggiorato (o voto plurimo) a tutte le azioni con diritto di voto, oppure possono ricorrere all’emissione dual class shares, ossia di due

9 Si veda M. Jacobs, Short-term America: the causes and cures of our business myopia,

Harvard Business School Press, Cambridge MA, 1991.

10 Si veda M. Porter, Capital Choices: changing the way America invests in Industry,

Con-tinental Bank, Journal of Applied Corporate Finance, 1992.

11 M.C. Jensen, W.H. Meckling, Theory of the Firm: Managerial Behavior, Agency Costs

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categorie di azioni differenti tra loro, che conferiscono diversi diritti di voto ed eventualmente diversi diritti patrimoniali.

Il meccanismo di dual class shares può avere lo scopo di rafforzare le posizioni di controllo dell’azionista principale o del management che par-tecipa al capitale a discapito di altri soci. Inoltre, può essere legato alla volontà del socio di riferimento di reperire capitale per finanziare nuovi investimenti senza perdere il controllo della società12. Tale ultima strategia,

ad ogni modo, può presentare alcune criticità. Si consideri ad esempio il caso in cui un’impresa non quotata abbia uno o più soci fondatori in possesso di azioni speciali a voto multiplo, emesse in fase di costituzione, e decida di rivolgersi al mercato dei capitali quotando solamente le azioni ordinarie, con il mantenimento delle azioni a voto plurimo in capo ai fondatori e la conseguente configurazione di una struttura dual class. In tale contesto il prezzo delle azioni ordinarie offerte al pubblico risulterebbe condizionato dai rischi, noti agli acquirenti, connessi a tale struttura13. L’effetto complessivo

sarebbe quindi incerto, poiché si potrebbero vendere un numero maggiore di titoli ma ad un prezzo d’offerta più basso, scontato dei maggiori costi di agenzia gravanti sui nuovi soci. Al fine di massimizzare il valore dell’impresa, il socio fondatore dovrebbe pertanto bilanciare tali conseguenze negative mediante il pieno sfruttamento dei benefici connessi al mantenimento del controllo sulla gestione.

Negli ultimi anni il dibattito sui criteri di attribuzione dei diritti di voto è stato alimentato da diversi studi, tra cui quello della Commissione Europea contenuto nell’Action Plan sul diritto societario e la Corporate Governance del 2003, e realizzato nel 2007, che ha rappresentato argomentazioni discordanti sulla validità del principio “un’azione-un voto”14. Successivamente, l’Action

Plan per la modernizzazione del diritto delle società e il rafforzamento del

12 H. De Angelo, L. De Angelo, Managerial ownership of voting rights: A study of public

corporations with dual classes of common stock, Journal of Financial Economics 14, 1985, pagg. 33-69; S. Smart, C.z. zutter, Control as a motivation for underpricing: A

compari-son of dual and single-class IPOs, Journal of Financial Economics, 69, 2003, pagg. 85-110.

13 R.J. Gilson., Evaluating dual-class common stock: The relevance of substitutes, Virginia

Law Review, 73, 1987, pagg. 807-843.

S.J. Grossman e o.D. Hart, One share – one vote and the market for corporate control,

Journal of Financial Economics, 175, 1988, pagg. 175-202.

14 Si veda “Report on the ProportionalityPrinciple in the European Union (2007)” redatto

dall’Institutional Investor Services (ISS), da European Corporate Governance Institute

(ECGI) e dallo studio legale Sherman& Sterling (2007) avente ad oggetto il capitale e l’azio-nariato di 464 imprese in 16 Stati membri. Nel 2007 la Commissione Europea ha pubblicato un Impact Assesment in cui sono stati presentati i pro e i contro in relazione alla possibilità di intraprendere iniziative di policy sul tema.

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governo societario del 2012 ha ampliato la riflessione approfondendo l’op-portunità di incentivare investimenti di lungo periodo mediante l’utilizzo di azioni a voto multiplo e delle c.d. “loyalty shares”, ovvero azioni che attribui-scono diritti di voto maggiorato al socio che ne mantiene il possesso per un determinato periodo di tempo. Le loyalty shares non rappresentano di per sé una vera e propria categoria di azioni, e non costituiscono pertanto una struttura dual class, ma derivano dall’attivazione di una clausola statutaria volta a modificare la regola di attribuzione del diritto di voto proporzionale al numero di azioni possedute15.

2.2.3 Il modello basato sull’abuso di potere da parte degli amministratori

Il modello in esame presuppone che gli amministratori delegati assumano un grado di potere e una autonomia nella gestione aziendale tale da con-sentire loro di perseguire il proprio interesse privato a discapito dell’inte-resse degli azionisti16. Tale scenario appare verosimile specialmente nei

casi in cui la compagine societaria risulti ampia e frammentata, con soci troppo piccoli e deboli per poter contrastare efficacemente l’autorità degli amministratori.

Tale meccanismo assume particolare rilevanza, come detto, alla luce della divergenza di obiettivi tra gli azionisti e gli amministratori frequentemente riscontrabile nelle realtà aziendali.

Baumol (1959)17 definisce l’obiettivo degli amministratori

identificando-lo con l’accrescimento delle dimensioni aziendali, misurato in termini di quote di mercato ovvero di vendite e fatturato. In particolare, secondo la teoria di Baumol, il management tenderebbe a perseguire principalmente la massimizzazione dei ricavi totali, lasciando in secondo piano l’obiettivo di massimizzazione dei livelli di profitto. Ciò in quanto nell’ottica dei manager l’espansione dell’impresa non implica quale fine ultimo il benessere degli azionisti e del collettivo aziendale, ma viene perseguita poiché consente agli amministratori di dimostrare all’esterno le proprie capacità gestorie, con lo scopo di attrarre offerte di lavoro da società disposte a pagare uno stipendio più elevato. In tale ottica, pertanto, per il manager è accettabile che il profitto dell’azienda, in termini di utili, si attesti su livelli appena

suf-15 S. Alvaro, A. Ciavarella, D. D’Eramo, N. Linciano, La deviazione dal principio

“un’azione – un voto” e le azioni a voto multiplo, Quaderni Giuridici Consob, 2014, pagg. 9-12 e 52-57.

16 A. Bruce, T. Buck, Executive Reward and Corporate Governance; K.. Kease, S.

Thomp-son, M. Wright, Corporate Governance. Economic, Management and Financial Issues.

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ficienti per sostenere i programmi d’investimento necessari all’espansione, cercando di evitare quelli troppo rischiosi, e per proteggersi dal malconten-to degli azionisti e dal rischio di scalate ostili. L’azionista, infatti, da parte sua ha quale interesse principale la massimizzazione dell’utile derivante dalla partecipazione detenuta. Tuttavia, non partecipando attivamente alla gestione dell’impresa, potrebbe avere una conoscenza limitata circa le reali capacità reddituali dell’azienda, sopportando una asimmetria informativa vantaggiosa per il management18.

Un aspetto in cui può tipicamente riflettersi l’eccesso di potere in capo agli amministratori è la determinazione della remunerazione a loro spettante. I top manager potrebbero riuscire a configurare meccanismi di maturazione dei propri compensi tali da massimizzare le proprie utilità a prescindere dai risultati aziendali complessivi. In assenza di adeguati meccanismi di limita-zione del potere, è addirittura possibile che gli amministratori aumentino la propria remunerazione anche in frangenti nei quali altre figure aziendali subiscono un taglio degli stipendi, e ciò al di fuori di qualsiasi preciso piano di turnaround o di riposizionamento strategico che implichi un loro mag-giore impegno.

Per far fronte alle distorsioni provocate dall’eccessiva autonomia degli amministratori, gli shareholders sono pertanto chiamati necessariamente a implementare sistemi di controllo efficaci. In questo senso il solo controllo esercitato dai consiglieri di amministrazione senza deleghe esecutive può non essere sufficiente, in quanto la nomina di tali soggetti può essere condizionata dall’Amministratore Delegato. Sono necessari amministratori indipendenti e sistemi di controllo interni ed esterni.

2.2.4 Stakeholder model

Il principio alla base dello Stakeholder model prevede che gli amministratori dell’impresa non debbano solamente perseguire gli interessi dei azionisti dell’azienda, ma anche quelli degli ulteriori portatori di interesse presenti all’interno e all’esterno della struttura societaria, e implica che il controllo sul governo dell’impresa non sia esercitabile esclusivamente dagli azionisti, ma anche da altri soggetti.

In Italia questo approccio è rintracciabile in dottrina sin dalla metà del-lo scorso secodel-lo19. In particolare è in questa sede necessario ricordare gli

18 F. Pastore, Microeconomia di base, Giappichelli, Torino, 2014, pagg. 182-183.

19 C. Masini, L’ipotesi e l’economia d’azienda, Giuffrè, Milano, 1961; C. Masini, Lavoro

e risparmio, UTET, Torino, 1978; P. onida, Le discipline economico-aziendali. Oggetto e

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scritti di Carlo Masini e dei suoi allievi. I punti centrali delle sue riflessioni e convinzioni, elaborati soprattutto tra gli anni Cinquanta e Sessanta, sono rimasti estremamente attuali, anzi in buona parte possono essere considerati avveniristici e sono stati ripresi, peraltro, nei loro contenuti sostanziali da molti autori stranieri al punto di far definire l’autore un “precursore visionario”20.

Il fulcro del pensiero di Carlo Masini è la centralità della persona, cioè dell’uomo nella vita delle aziende, la cui attività dovrebbe essere svolta proprio per la soddisfazione degli interessi delle persone che ad essa contribuiscono apportando lavoro e capitale originato da risparmio reale. La soddisfazione delle persone è un bene essenziale per il successo delle aziende. Queste ulti-me dovrebbero essere delle vere e proprie comunità economiche e sociali orientate al bene comune. L’economia nel suo complesso dovrebbe del resto essere un ambiente in cui si sviluppa la vita dell’uomo, considerato non come l’homo oeconomicus tanto caro agli economisti classici, quanto piuttosto come l’uomo di per sé, cioè come persona intesa unitariamente nelle sue diverse dimensioni21. Le persone nel loro complesso divenire perseguono molteplici

fini di varia specie e di vario grado; il perseguimento di tali fini suscita bisogni; per soddisfare i bisogni le persone svolgono tra l’altro l’attività economica ossia l’attività di produzione e di consumo di beni economici. Gran parte dell’attività economica si svolge nell’ambito di istituti, in particolare di tre classi di istituti: le famiglie, le imprese e le amministrazioni pubbliche. Le persone si aggregano in istituti non come fine ma come mezzo per soddisfare i propri bisogni, e si aspettano che la partecipazione agli istituti permetta loro di mantenere nel tempo la soddisfazione dei propri bisogni. Come è facile capire, il pensiero di Carlo Masini, nettamente orientato all’etica cristiana, afferma che “un istituto si presenta come un complesso di elementi e di fattori, di energie e di risorse personali e materiali. Esso è duraturo. Il suo permanere è della specie dinamica sia per i fenomeni interni sia per quelli esterni con l’ambiente”.

Airoldi, G. Brunetti, Lezioni di economia aziendale, Il Mulino, Bologna , 1989; G. Airol-di, Modelli del capitalismo e modelli di impresa, in Economia e management, n. 2 , 1993.

20 C. Masini, op. cit., 1968. Si condivide il pensiero espresso da Roberto Ruozi in occasione

del ventesimo dalla scomparsa di Carlo Masini. Si fa riferimento in particolare all’inter-vento: R. Ruozi, Perché la Bocconi tiene vivo il ricordo e il pensiero di Carlo Masini, in MF – Mercati Finanziari, 2015.

21 Si è affermato da più parti che i suoi scritti contengono idee che si inseriscono fra quelle

del magistero della Chiesa come espresso nelle grandi encicliche di fine 800 e degli inizi del 900 e le encicliche più recenti di Papa Wojtyla, di Benedetto XVI e di Papa Francesco. Come si vedrà nella seconda parte del volume buona parte delle sue tesi sono state riprese a livello nazionale e internazionale da molti studiosi e uomini di impresa nell’ambito dei filoni di CSR (Corporate social responsibility) e CSV (Creatingsharedvalue).

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Si tratta, aggiunge onida, di permanenza nella mutabilità (l’azienda come economia durevole nonostante il variare dei suoi soggetti): con il trascorrere del tempo cose e persone cambiano. I mutamenti avvengono senza fratture, senza rompere la continuità del sistema dinamico delle relazioni, perché l’azienda trascende i singoli momenti del suo operare. La durabilità delle imprese va al di là delle persone che la formano in un certo momento; la continuità e lo sviluppo di un istituto, infatti, hanno valore non solo per i suoi componenti attuali ma anche per i suoi componenti potenziali futuri e per la collettività in generale.

L’impresa in particolare è un istituto economico sociale con dominanti caratteri e finalità di tipo economico. Come gli altri istituti è posta in essere da un gruppo di persone che si associano per realizzare un bene comune che singolarmente non riuscirebbero a conseguire, o non riuscirebbero a con-seguire in modo conveniente. Questo gruppo di persone nell’interesse delle quali è costituita e retta l’impresa sono i portatori di interessi istituzionali ossia il soggetto di istituto. Fanno parte del soggetto economico i portatori di interessi istituzionali di tipo economico. Poiché nell’impresa gli interessi istituzionali sono prevalentemente interessi economici, tutti i componenti dell’istituto portano sia interessi economici istituzionali sia interessi non economici istituzionali e quindi il soggetto di istituto e il soggetto econo-mico coincidono. Il raggiungimento degli interessi economici istituzionali rappresenta l’obiettivo dell’impresa mentre gli interessi economici non isti-tuzionali una condizione di svolgimento dell’attività. orizzonti brevi non sono considerati idonei ad assicurare il successo durevole verso il quale il soggetto economico delle aziende deve mirare.

Appartengono al soggetto economico delle imprese i prestatori di lavoro e i conferenti capitale risparmio. I portatori di lavoro e di capitale si aspet-tano di vedere soddisfatti i loro bisogni ossia di ricevere nel tempo congrue remunerazioni dei loro apporti. Ad essi sono quindi destinate le remunera-zioni prodotte dall’impresa secondo combinaremunera-zioni varie di stipendi, quote di utili, variazioni di valore delle quote conferite di capitale risparmio. Tali remunerazioni alimentano, direttamente o indirettamente, i redditi e i patrimoni delle aziende familiari di cui i prestatori di lavoro e i conferenti di capitale risparmio sono componenti. Il risparmio è considerato una grande virtù, il vero motore dell’investimento, e condiziona al massimo il successo delle aziende. Il lavoro è stato considerato da Masini come il fattore produttivo per eccellenza, da svolgersi con dignità per la realizzazione del bene dei lavoratori. Il suo più importante libro, intitolato non a caso Lavoro e Risparmio – si noti la connotazione etica legata all’utilizzo della parola “Risparmio” invece che capitale – ha sviluppato questi temi ed in particolare ha enunciato tre principi basilari per lo sviluppo poi negli anni successivi appunto dell’approccio Stakeholders:

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a. gli organi di governo delle aziende dovrebbero essere composti dai rap-presentanti dei portatori del capitale e dai lavoratori;

b. il risultato economico delle aziende dovrebbe essere ripartito tra coloro che conferiscono il capitale e i lavoratori;

c. il lavoro dovrebbe essere concepito e organizzato in modo da realizzare le aspirazioni materiali e spirituali delle persone che lavorano.

Alle imprese fanno sempre capo interessi economici non istituzionali molto rilevanti, basti pensare agli interessi economici dei fornitori, dei clienti e dei finanziatori a titolo di prestito. Si evidenzia in dottrina che qualora gli inte-ressi di questi soggetti siano legati in modo critico al destino dell’impresa – si pensi alla situazione in cui un’impresa produca e venda per un solo cliente – è possibile considerare un concetto di soggetto economico allargato ricom-prendendoli. Al contrario chi, singola persona o gruppo di persone, legasse la vita di impresa ai propri interessi o destini particolari produrrebbe danni economici con riflessi anche di ordine morale sia per gli altri componenti dell’impresa sia per l’economia nel suo complesso.

Perché l’impresa possa operare secondo economicità, e quindi in modo duraturo, è necessario che l’attività dell’impresa porti al soddisfacimento degli interessi di tutti i componenti del soggetto economico e quindi almeno del capitale e del lavoro. Se i bisogni di uno dei due gruppi fossero ignorati si creerebbe un disequilibrio che minerebbe alla base la continuità azien-dale. Se, per esempio, il lavoro non fosse adeguatamente remunerato, sia in termini monetari, sia in termini non monetari, si correrebbe il rischio di perdere le persone più qualificate, depositarie del know how aziendale, le quali potrebbero essere indotte a lasciare l’impresa. Allo stesso modo se il capitale di rischio non fosse adeguatamente remunerato gli azionisti potreb-bero decidere di dismettere la partecipazione. In entrambi i casi l’impresa avrebbe perso risorse importanti per la propria sopravvivenza.

Il principio di economicità non si identifica con il criterio di massimizza-zione del profitto, ossia con un criterio massimizzante rivolto esclusivamente ad una classe di soggetti quelli conferenti il capitale proprio, ma esige la realizzazione di massimi simultanei per quanto riguarda salari, dividendi e autofinanziamento, dinamicamente insieme combinati e opportunamente contenuti al fine del loro mutuo rafforzamento. Perché gli interessi di tutti i componenti del soggetto economico siano soddisfatti, e quindi perché sia garantito lo svolgimento duraturo dell’attività di impresa, allo stesso spettano le prerogative di governo dell’impresa: ciò significa che sia gli azionisti sia i lavoratori dovrebbero prendere parte alla gestione aziendale così che sia garantita la soddisfazione di entrambe le categorie di interessi.

Secondo questo approccio, che allarga lo spettro dei soggetti portatori di interessi o Stakeholders, occuparsi dell’assetto istituzionale di una impresa significa quindi identificare:

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1. i soggetti nell’interesse dei quali l’azienda si svolge (in primo luogo i por-tatori di capitale risparmio e di lavoro);

2. i contributi che tali soggetti forniscono all’azienda (risparmio e lavoro); 3. le ricompense che ne ottengono: monetarie (dividendo e paga), non

mone-tarie (stima, potere);

4. le prerogative di governo economico facenti loro capo;

5. i meccanismi e le strutture che regolano le correlazioni tra i contributi e le ricompense mediante le quali le prerogative di governo economico sono esercitate.

Perché il governo dell’azienda sia possibile e la stessa sia retta secondo econo-micità, è necessario il contemperamento degli interessi economici istituzionali individuati. Il fine di un’azienda è quello di creare valore per tutti gli stakehol-ders coordinandone le differenti istanze. I soggetti che gestiscono l’impresa non devono considerarsi fiduciari solo degli azionisti, ma di tutti gli stakeholders dell’impresa. Il valore creato è costituito perciò: dalla remunerazione al capi-tale proprio (dividendi e capital gain), ma anche dallo stipendio corrisposto ai dipendenti (capitale lavoro), dall’interesse soddisfatto a favore di fornitori di capitale di credito, dalle imposte e tasse versate allo Stato e alla comunità locale, ecc. La funzione di pianificazione strategica deve pertanto definire le regole di comportamento nei confronti degli stakeholders, che sono le differenti categorie di soggetti che a vario titolo risultano interessati alle vicende aziendali perché con l’azienda intrattengono rapporti e dalla gestione aziendale traggono delle aspettative: azionisti, dipendenti, banche, fisco, clienti, istituzioni. Le scelte in questione sono linee guida su cui si fondano le decisioni di strategia vere e proprie, sintomatiche del rapporto che l’azienda, per il tramite del suo management, intende instaurare con le categorie sociali ed economiche da cui dipende il suo sviluppo e a volte la sua stessa sopravvivenza22. L’integrazione

con gli stakeholders può essere realizzata in maniera maggiormente intensa, mediante l’inserimento nel Consiglio di rappresentanti dei soggetti (o istituti) esterni che ricoprono un ruolo particolarmente rilevante per l’azienda23.

22 È coerente con questo approccio e permette di comprendere se e come l’azienda riesca a

creare valore nel senso indicato la riclassificazione del conto economico a valore aggiunto. Si tratta di una modalità di riclassificazione particolarmente significativa che permette di comprendere se l’impresa sia in grado, grazie alla propria attività, di aggiungere valore ai fattori produttivi esterni e come l’impresa distribuisce tale valore tra i portatori di interesse economico istituzionali: i prestatori di lavoro e i portatori di capitale risparmio, dopo avere pagato le imposte, avere reintegrato grazie agli ammortamenti le immobilizzazioni utilizzate nel processo produttivo e avere rimunerato i prestatori di capitale di credito.

23 In tal senso, un’impresa caratterizzata da un elevato livello di indebitamento può

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È di sicuro interesse la riflessione di Ferrero24 sul tema qui discusso: egli

afferma che un soggetto deliberante poliedricamente configurato che com-prenda tutti coloro che all’esercizio dell’azienda si vincolano conferendo i diversi e complementari fattori produttivi e di conseguenza assumendo rischi patrimoniali – per chi conferisce capitale proprio e di credito – ed extra-patrimoniali – assunti da tutti coloro che partecipano all’impresa con vincoli e interessi diversi dai precedenti tipicamente i lavoratori – potrebbe essere correttamente inteso solo come “figura astratta” di soggetto economico. L’individuazione di una tale configurazione deriva dal noto e indiscutibile principio della complementarietà di tutti i fattori di produzione che riduce ad unità d’insieme i fattori medesimi nel composito processo economico-produttivo, che ne coordina l’impiego e simultaneamente ne determina la disponibilità anche per quanto dipende dalla loro congiunta remunerazione, tenuto conto delle condizioni di mercato, oltre che d’azienda, che ne con-figurano l’acquisizione. Da tale principio discende come corollario quello della convergenza degli interessi che dovrebbe accomunare, negli intenti e nei comportamenti, tutti coloro che all’esercizio dell’azienda si vincolano conferendo i diversi fattori produttivi di cui l’azienda stessa abbisogna e assumendo i corrispondenti rischi patrimoniali o extrapatrimoniali. L’autore evidenzia che “non esiste alcun modo adatto per configurare il simultaneo concorso delle diverse parti alla costituzione del soggetto economico come organo collegiale equamente rappresentativo degli interessi convergenti nell’azienda”. Un soggetto economico che si supponesse esclusivamente o prevalentemente costituito da rappresentanti della comunità aziendale di lavoro, quando fosse portato a sopravvalutare il tornaconto particolare di

più importanti; un’azienda che produce su commessa un bene di nicchia può coinvolgere nell’amministrazione i rappresentanti dei propri clienti più grandi; una società fortemente condizionata dalla regolamentazione svolta da organismi statali può individuare esponenti di prestigio del mondo politico da coinvolgere nel Consiglio di Amministrazione. Si parla di “Consiglio di Amministrazione concatenato” (interlockingdirectorate) quando un soggetto copre contemporaneamente il ruolo di componente del consiglio amministrazione due aziende distinte. Tale soggetto rappresenta un legame di comunicazione tra le due aziende in cui è coinvolto, costituendo una “concatenazione diretta”. Si verifica una “concatenazione indiretta”, invece, nei casi in cui entrambi i consiglieri di due aziende separate sono anche membri del consiglio di una terza azienda, instaurando contatti personali tra di loro. Così: A. zattoni, Corporate Governance, Management vol. 10, ed. Il Sole 24 ore-Università Boc-coni Editore-La Repubblica, 2006, pagg. 309-324.Una ricerca ha mostrato come un’azienda tenda ad aumentare le concatenazione dirette con istituzioni finanziarie nei periodi in cui rileva il proprio declino finanziario, mentre in caso di incertezze finanziarie che coinvolgono l’intero settore si registra un aumento delle concatenazioni indirette promosse tra aziende concorrenti. Si veda: R. Draft, Organizzazione aziendale, Apogeo, pagg. 144-145.

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questa comunità (come del resto a volte accade con soggetti legati alla pro-prietà del capitale), potrebbe essere indotto, per le stesse umane debolezze che non di rado suscitano abusi di potere da parte del capitale di comando, a trascurare il bene dell’azienda concepita come fonte durevole di comune benessere presente e futuro a vantaggio di un male inteso bene delle comu-nità di lavoro momentaneamente rappresentate. D’altra parte, ove capitale e lavoro avessero per ipotesi un egual peso nella costituzione del soggetto economico, la risultante situazione non sarebbe migliore: il fifty fifty anche in queste circostanze è origine di dissidi tra le parti, di indugi al conveniente operare d’azienda, di remore al perseguimento del bene aziendale e di coloro che hanno legittimi interessi nell’ambito dell’azienda stessa, di ostacoli alla sopravvivenza e allo sviluppo di una potenziale fonte di generale benessere. Gli inconvenienti qui accennati potrebbero moltiplicarsi qualora il criterio dell’egual peso venisse riferito al lavoro, da un lato, e al capitale di credito, dall’altro: la supposta funzione moderatrice del terzo è fatalmente destinata ad estendere anziché dirimere il latente conflitto di interesse tra le parti. L’intento di moralizzare un sistema che le umane debolezze rendono sempre più corrotto è indubbiamente lodevole. Ma impostare la realizzazione di questo intento, supponendo che uno spirito altruistico si sostituisca in ogni caso all’atavico egoismo dei singoli – i cui intenti di tornaconto particolare leggi e ordinamenti possono soltanto contemperare ma non annullare –, è quanto meno una astrazione che l’esperienza di ogni paese e di qualsiasi epoca storica destituiscono di validità sul piano del concreto agire verso un necessario rinnovamento. Ferrero identifica di conseguenza una “figura reale” di soggetto economico costituita dalle persone fisiche che detengono ed esercitano il potere. Questa è la figura che, si legge nei suoi scritti, con tutti i pregi e difetti caratterizza il nostro mondo economico.

La risposta a tali opportune osservazioni virtualmente rintracciabile in Masini, richiamato per altro nei passi di Ferrero sopra citati, e poi anche tra gli altri in Coda e Airoldi, è semplice, ma al contempo rigorosa e coerente con l’approccio stakeholders proposto. Tale “figura reale”, nei casi in cui non corrisponda con tutti i componenti del soggetto economico e quindi almeno il capitale e il lavoro, rappresenta un “soggetto economico improprio” e “l’esercizio delle prerogative di governo economico da parte di un soggetto economico improprio è condizione non favorevole per la vita duratura econo-mica dell’azienda”. In un ordinamento più conforme, anche dal punto di vista etico, alla struttura della moderna impresa, il soggetto economico dovrebbe essere esponente degli interessi sia di coloro che forniscono capitale proprio, sia delle persone che attuano, con attività organizzata, l’azienda e che di que-sta fanno l’oggetto del proprio lavoro, inteso nel suo significato economico (attesa di remunerazione) e morale (esplicazione e perfezionamento della personalità umana). Il bene della comunità lavoro non può essere legato

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ad un contingente e ristretto tornaconto delle persone in un dato momento impiegate, fino a sacrificare, per esso, lo sviluppo e la stessa vita dell’azien-da, come fonte di occupazione per le future leve del lavoro. È necessaria la conservazione dell’azienda e per questo sono funzionali la mobilità del lavoro e la remunerazione congrua del capitale in quanto essenziale per attuare la produzione. In altri termini l’azienda va difesa contro l’egoistico tornaconto sia dei portatori di capitale, sia dei lavoratori.

Il forte radicamento nella dottrina economico aziendale italiana di questi rilevanti valori è testimoniato da alcuni passaggi di Coda che negli anni ottanta ricordava che i risultati dell’attività aziendale possono ricondursi alle seguenti categorie: risultati economico-finanziari, risultati competitivi, risultati sociali e sviluppo25. I risultati economico-finanziari sono espressi

dai consuenti indicatori di economicità (margine di contribuzione, reddito operativo, reddito ante imposte, reddito netto, redditività delle vendite, redditività del capitale investito, redditività dei mezzi propri, tasso di auto-finanziamento), di solidità patrimoniale (tasso di indebitamento, grado di copertura degli mmobilizzi, margine di struttura), di liquidità (indici di liquidità primaria e secondaria, margine di tesoreria, capitale circolante netto, grado di utilizzo dei fidi, riserve di capacità di indebitamento), i quali tutti vanno opportunamente interpretati nel contesto delle relazioni dina-miche che li compongono a sistema. I risultati competitivi sono espressi dai consueti indicatori del grado di affermazione dell’impresa nell’arena o nelle arene competitive in cui è impegnata (quote di mercato, assolute e relative, indici di copertura del mercato, grado di compenetrazione nel mercato, livello della clientela ecc.). I risultati sociali sono rappresentati dai livelli di soddisfazione, fiducia, coesione (intorno all’impresa e ai suoi obiettivi) dei vari interlocutori sociali del cui contributo e consensi l’impresa ha bisogno: lavoratori, esponenti sindacali, azionisti, finanziatori con vincolo di credito, esponenti sindacali, azionisti, finanziatori con vincolo di credito, esponenti politici delle economie locali o regionali o nazionali in cui l’impresa opera e via dicendo. Trattasi di variabili che non sono misurabili direttamente, ma possono essere significativamente apprezzate per via indiretta mediante indici e sintomi vari. Ad esempio, i livelli di soddisfazione/insoddisfazione del personale, com’è noto, si rispecchiano nei tassi di assenteismo, di tur-nover, di conflittualità, di produttività, senza dire dei molteplici segnali qualitativi verbali e non verbali, con cui si manifestano a chi opera in stretto contatto col personale di cui trattasi. Lo sviluppo infine costituisce una quarta dimensione dei risultai aziendali, la cui messa a fuoco è

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spensabile per leggere, nelle loro mutue relazioni, la dinamica dei risultati economico-finanziari, competitivi e sociali: è infatti variabile dai conte-nuti sia quantitativo sia qualitativo. In senso quantitativo, lo sviluppo sta a significare la variazione delle dimensioni aziendali, vuoi della dimensione operativa (espressa, ad esempio, dal fatturato), vuoi di quella strutturale (espressa ad esempio, dal numero di dipendenti, dalla capacità produttiva, dall’ammontare dell’attivo totale netto di bilancio). In senso qualitativo, lo sviluppo sta ad indicare la crescita dell’impresa e del suo personale sul piano della professionalità, dell’efficienza, dell’innovatività, della velocità e flessibilità di adattamento alle mutevoli esigenze del mercato e così via. La crescita qualitativa sottende dei significativi processi di apprendimento organizzativo ed è normalmente seguita, prima o poi, da una crescita anche quantitativa. I risultati economico-finanziari, competitivi e sociali sono variamente collegati da relazioni di tipo conflittuale e di tipo sinergico. Nel breve periodo tendono ad evidenziarsi aspetti di rivalità, nel senso che un miglioramento su un dato fronte frequentemente va a scapito di un progresso su altri fronti. Nel medio-lungo periodo, invece, diventa possibile coniugare ciascun tipo di risultato in funzione degli altri. Il fatto che questa possibilità diventi poi realtà dipende da come si configura il finalismo dell’impresa, nell’ambito del quale il perseguimento di ciascun tipo di risultato viene a trovare la sua collocazione.

2.2.5 I sistemi giuridici reali (cenni e rinvio). Il concetto di successo sostenibile nel Codice di Corporate Governance 2020

Nella realtà italiana il sistema giuridico non prevede, quale sistema ordinario, un modello di governance coerente con il contemperamento degli interessi. Il modello più diffuso è quello tradizionale nel quale il Consiglio di Ammi-nistrazione è nominato in via esclusiva dall’assemblea degli azionisti e in cui non siedono rappresentanze di altri portatori di interesse quali i lavoratori o i portatori di capitale di debito. Il Consiglio di Amministrazione è espressione nei fatti degli azionisti di maggioranza che quindi esercitano il potere gesto-rio. Gli azionisti di minoranza trovano importanti tutele giuridiche dei loro interessi, nel senso che per esempio hanno diritto ad ottenere informazioni ed eventualmente ad impugnare determinate delibere, ma raramente – e tanto più nelle realtà di più grandi dimensioni – partecipano attivamente mediante i loro rappresentanti alla amministrazione dell’azienda. I lavoratori trovano ed esprimono la propria voce mediante le rappresentanze sindacali con cui il management deve relazionarsi in una logica che è però di contrattazione e non di cogestione. La soddisfazione dei bisogni dei portatori di capitale di minoranza e la soddisfazione dei bisogni dei portatori di lavoro rappresenta pertanto un vincolo e non un fine dell’impresa.

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È necessario però evidenziare che, negli ultimi anni si è diffusa su ampia scala proprio l’idea – di masiniana memoria – che la gestione delle imprese deve essere ispirata ai principi di responsabilità sociale e deve tenere conto sia dei bisogni degli shareholders sia di quelli degli stakeholders così da conseguire il fine ultimo dell’economicità che è il conseguimento di equilibri compositi che permettono il permanere duraturo dell’azienda. In questo senso deve essere letta la modifica rilevantissima apportata dal Comitato per la Corporate Governance nel Codice di CG 2020 proprio nelle moda-lità con cui è definito in apertura del documento nel Principio I dell’Art. 1 “Ruolo dell’Organo di Amministrazione” il fine ultimo che deve essere perseguito dalle società. Vi si legge infatti che l’organo di amministrazione guida la società perseguendone il successo sostenibile, dove per Successo Sostenibile si deve intendere l’obiettivo che guida l’azione dell’organo di amministrazione e che si sostanzia nella creazione di valore nel lungo termine a beneficio degli azionisti, tenendo conto degli interessi degli altri stakeholder rilevanti per la società. Per comprendere la portata del cambiamento è utile confrontare il testo attuale con quello previgente contenuto nell’Art. 1 del Codice di Autodisciplina 2018. Al Principio 1.P.2. si prevedeva letteralmen-te che gli amministratori agiscono e deliberano con cognizione di causa e in autonomia, perseguendo l’obiettivo prioritario della creazione di valore per gli azionisti in un orizzonte di medio-lungo periodo. Nessun cenno era fatto agli interessi degli altri stakeholder rilevanti per la società. Pare a chi scrive che nella formulazione del Codice di CG 2020 non solo il significato, ma altresì il significante ossia l’utilizzo del termine “Successo” – qualificato dagli estensori del Comitato come “Sostenibile” – ricordino in modo diret-to e diret-totale la concezione sistemica descritta nel precedente paragrafo 2.4 dedicato allo stakholder model. In particolare il richiamo è proprio all’idea di una poliedricità degli obiettivi aziendali che nel lungo periodo devono essere votati al conseguimento sia del “successo economico-finanziario”, sia del “successo competitivo”, sia del “successo sociale”, sia infine dello “sviluppo aziendale”.

Le imprese quotate sembrano pertanto essere state chiamate ad un cam-biamento di impostazione molto importante. In realtà, però, la situazione sembra essere differente in quanto, come si è già visto nel capitolo preceden-te, la nuova formulazione del Codice è il frutto del confronto del Comitato proprio con le Società Quotate che devono applicare il codice e che nasce da un’attenta analisi dagli esiti del monitoraggio condotto dal Comitato sull’ap-plicazione del Codice, ancorchè naturalmente nella precedente versione, nonché delle evoluzioni internazionali in materia di governo societario. Si può affermare che il Comitato ha fatto propri e ha esplicitato nel Codice, indicandoli come riferimenti per tutti, una serie di comportamenti virtuosi comuni nelle realtà aziendali di successo che le società cui il documento è

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rivolto hanno già effettivamente posto in essere o che in ogni caso le stesse considerano espressione di visioni e di approcci condivisi.

Ha senz’altro contribuito alla diffusione dell’approccio stakeholders l’intro-duzione, come verrà evidenziato nella seconda parte del volume, dell’obbligo giuridico di redigere la cosiddetta DNF (acronimo di Dichiarazione Non Finanziaria), ossia un reporting di tipo non finanziario che affianca e integra le informazioni finanziarie usualmente e tradizionalmente predisposte.26

Si tratta per ora di un dovere delle imprese quotate e quindi di maggiori dimensioni, che però rappresentano il benchmark di riferimento per la gene-ralità degli operatori e ne ispirano il comportamento. La composizione di questo documento rappresenta il passo finale di un percorso necessario di interazione e di engagement degli interlocutori rilevanti aziendali. Mediante il processo che porta alla DNF, l’azienda è chiamata a rendere conto e a prendere posizione in modo esplicito sugli aspetti considerati materiali dai propri stakeholders.

Inoltre, come si avrà modo di approfondire nel Capitolo 14 della prima parte del volume, il tema dell’Adeguata Articolazione degli Assetti Organizzativi nelle grandi come nelle medie e piccole aziende ha recentemente assunto una nuova e importante rilevanza alla luce delle modifiche al codice civile introdotte dal Codice della crisi e dell’insolvenza. È in atto un processo di cambiamento questa volta soprattutto per le PMI che porterà quantomeno all’obbligatoria implementazione di presidi di controllo indipendenti, utili per limitare gli effetti di una gestione delegata – senza presidi – ai soli portatori di capitale solitamente famigliare.

Nel codice civile è possibile rinvenire un tentativo di avvicinamento all’idea di contemperamento degli interessi invece in uno specifico modello di gover-nance previsto dall’ordinamento ossia nel caso delle società cooperative. Le prime società cooperative nascono intorno all’ottocento in Gran Bretagna27,

in un contesto di continuo incremento dell’inflazione che spinse gli operai inglesi a costituire la forma cooperativa con lo scopo di gestire gli spacci alimentari sottraendosi alla continua crescita dei prezzi dei beni di consumo primari, soprattutto grazie all’assenza di terzi intermediari. La cooperati-va è un’impresa – in forma di società – nella quale il fine e il fondamento dell’agire economico è rappresentato dal soddisfacimento dei bisogni della

26 Sull’origine del tema delle informazioni non finanziarie e quindi della DNF si rinvia a:

P. Riva, Le informazioni non finanziarie nel sistema di bilancio, Egea, 2001; P. Riva, La

rilevanza delle informazioni non finanziarie nel bilancio di esercizio, in IR Top, L’eccellenza dell’informazione finanziaria, Anno I, numero 4, ottobre-dicembre 2002.

27 S. Merz, R. Madonna, P. Sguozzi, Manuale pratico delle società cooperative, Cedam,

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persona che assume la qualifica di socio. Alla base della cooperativa vi è la comune volontà dei suoi soci di tutelare i propri interessi di consumatori, lavoratori, agricoltori e così via. L’elemento distintivo e unificante di ogni tipo di cooperativa – a prescindere dalle distinzioni settoriali – è il fatto che esse hanno uno scopo mutualistico, che consiste – a seconda del tipo di cooperativa – nell’assicurare ai soci il lavoro, o beni di consumo, o servizi, a condizioni migliori di quelle che otterrebbero dal libero mercato. In linea di principio, perseguendo lo scopo mutualistico i soci divengono imprenditori di se stessi, creando un organismo economico in grado di procurare loro un vantaggio in termini di risparmio di costi o di maggior remunerazione, con la ripartizione degli utili residuali eventualmente prodotti che assume un ruolo secondario e limitato. Il risparmio sui costi o la maggior remune-razione derivante dall’attività svolta dalla cooperativa rappresenta il risul-tato economico e il vantaggio patrimoniale ricercato dai soci, sostituendo l’obiettivo della massimizzazione della remunerazione del capitale investito caratterizzante invece le società a scopo di lucro e differenziando così le due forme societarie28. Ciò implica una gestione della cooperativa

intrinse-camente rivolta a favore dei soci, i quali rappresentano i diretti destinatari dell’attività d’impresa nel caso delle cooperative di consumo, e i protagonisti dell’attività con il proprio lavoro nell’ambito di cooperative di produzione e lavoro29. Lo scopo mutualistico ha da sempre contraddistinto le società

cooperative, e a livello normativo nel 1942 il codice civile ha identificato in tale scopo l’elemento nozionale distintivo delle cooperative rispetto alle altre società. Non è escluso, ad ogni modo, che la cooperativa possa operare con terzi non soci, o che lo scopo mutualistico possa convivere parzialmente con

28 Il socio è comunque in grado di trarre un vantaggio economico dalla propria

partecipa-zione alla cooperativa. La tipica modalità di monetizzapartecipa-zione del vantaggio mutualistico è detta “ristorno”, e si differenzia dall’utile, così come la ripartizione dei ristorni si differenzia dalla distribuzione degli utili, in quanto è ragguagliabile non al capitale investito bensì alla misura della fruizione del servizio sociale. I ristorni rappresentano le eccedenze patrimoniali delle quali la cooperativa beneficia grazie allo scambio mutualistico, e la loro distribuzione costituisce l’erogazione del reale vantaggio mutualistico, che generalmente viene ricono-sciuto in proporzione alla quantità e alla qualità degli scambi operati tra i soci e la società e non invece, come avviene per gli utili, in proporzione ai conferimenti effettuati. Si ha un ristorno, ad esempio, quando in una cooperativa di consumo il socio non trae vantaggio dal minor prezzo di acquisto della merce, ma dal ristorno che riceve a fine anno come differenza tra il prezzo pagato e il costo effettivo. F. Galgano, Il nuovo assetto della cooperazione, in Riforma del diritto societario: il nuovo assetto della cooperazione regionale, Atti del Con-vegno, Trento, 26 novembre 2001; A. Fusi, D. Mazzone, La riforma del diritto societario, Il Sole 24 ore, Milano, 2001, pagg. 66-67.

29 Associazione Preite, Il nuovo diritto delle società di capitali e cooperative, Il Mulino,

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finalità lucrative. La riforma societaria del 2003 ha riconosciuto, accanto alle società cooperative tradizionali, la categoria delle cooperative in cui lo scopo mutualistico non deve essere necessariamente perseguito in via esclusiva, ma quantomeno in misura prevalente rispetto a quello lucrativo. Il rapporto tra le prestazioni erogate ai soci e le operazioni con soggetti terzi esterni alla società determinerà pertanto, in concorso con altri elementi, la possibilità di qualificare la cooperativa a mutualità prevalente30. L’imposizione in ogni

caso di un vincolo di prevalenza, il cui rispetto viene verificato mediante spe-cifici parametri contabili e documentali, è volta a scongiurare il processo di demutualizzazione, in quanto qualora la cooperativa incrementasse la propria attività senza aumentare proporzionalmente la propria compagine sociale rischierebbe di emarginare i soci, e di venire gestita prevalentemente dal management o prevalentemente nell’interesse dei dipendenti o nell’interesse non mutualistico dei soci31. Nel tempo sono state ammesse a partecipare alla

società cooperativa figure quali il socio finanziatore e il socio sovventore, con l’intenzione di consentire il superamento delle difficoltà finanziarie riscontrabili nelle cooperative alla luce delle piccole dimensioni societarie e delle conseguenti ridotte disponibilità finanziarie che tradizionalmente caratterizzano la forma societaria in oggetto32. In particolare, sono previste

“clausole mutualistiche” che esplicitano i limiti entro i quali i soci possono perseguire uno scopo lucrativo33, e dal punto di vista amministrativo occorre

30 N. Abriani et al., Diritto delle società. Manuale breve, Giuffrè Editore, Milano, 2012,

pag. 484.

31 Le cooperative possono svolgere con terzi attività produttive di utili e possono

compren-dere nella propria compagine societaria soci sovventori che apportano capitale di rischio utile allo svolgimento dell’attività. Alcune innovazioni sono state introdotte nel 1947 dalla c.d. Legge Basevi, che ha previsto la possibilità di annoverare nella cooperativa una quota minoritaria di soggetti non interessati allo scambio mutualistico ma dotati di particolari caratteristiche tecniche o amministrative, nel numero strettamente necessario al buon fun-zionamento dell’ente, contemperando l’essenza dello scopo mutualistico con la necessità di un’amministrazione professionale adeguata al pari delle società lucrative.

32 Tali soci, analogamente agli azionisti delle grandi società per azioni, non sono deputati

ad intervenire nella gestione della cooperativa, ma partecipano al sostentamento econo-mico della società mediante il conferimento di capitale. Il socio sovventore, in particolare, apporta conferimenti di capitale ulteriori rispetto a quelli iniziali, sotto forma appunto di sovvenzioni, in cambio di un corrispettivo patrimoniale generalmente collegato agli utili sociali e di un potere di controllo inversamente proporzionale alla solidità della struttura societaria. Tuttavia, anche in questo caso sussistono limitazioni normative ben definite, rafforzate nel percorso legislativo nazionale con la Legge 59/1992 nonché con la riforma societaria del 2003, volte a tutelare il permanere della finalità mutualistica tipica della cooperativa. G. Ragazzini, Nuove norme in materia di società cooperative, zanichelli, Bologna, 2001, pag. 160.

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tenere conto di alcune limitazioni alla distribuzione degli utili realizzati, i quali devono essere destinati quantomeno prevalentemente al reinvestimento nella società o alla devoluzione ad altre finalità mutualistiche34.

In conclusione, pur rinviando al Capitolo 13 in cui il tema è affrontato e approfondito, si richiama un importante esempio, rinvenibile questa volta oltralpe, rappresentato dal meccanismo di cogestione tedesco. In Germania l’Aktiengesetz del 1937, e successive modifiche, prevede che esistano due organismi fondamentali nelle imprese tedesche: uno per la gestione (Mana-gement Board o Vorstand) e l’altro per il controllo (Supervisory Board o Aufsichtsrat) e che i lavoratori nelle imprese di maggiori dimensioni siano presenti a tutti i livelli compresi quelli più alti della direzione di impresa (Work Council ma anche nel Supervisory Board). Ancorchè vi siano dei meccanismi di stemperamento della potenziale importanza dello strumento di cogestione, lo stesso rappresenta nei fatti un istituto certamente coerente con i modelli più complessi descritti in questa sede.

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