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Iàkovos Zaraftis e le fiabe del Dodecaneso. Tra oralità e letterarietà

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La letteratura neogreca

del XX secolo

Un caso europeo

a cura di

Francesca Zaccone, Paschalis Efthymiou, Christos Bintoudis

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Materiali e documenti

Materiali e documenti

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La letteratura neogreca

del XX secolo

Un caso europeo

Atti del convegno internazionale di Studi neogreci

in onore di Paola Maria Minucci

Roma, 21-23 novembre 2018

a cura di

Francesca Zaccone, Paschalis Efthymiou, Christos Bintoudis

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La letteratura neogreca

del XX secolo

Un caso europeo

Atti del convegno internazionale di Studi neogreci

in onore di Paola Maria Minucci

Roma, 21-23 novembre 2018

a cura di

Francesca Zaccone, Paschalis Efthymiou, Christos Bintoudis

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Copyright © 2020

Sapienza Università Editrice Piazzale Aldo Moro 5 – 00185 Roma www.editricesapienza.it

editrice.sapienza@uniroma1.it

Iscrizione Registro Operatori Comunicazione n. 11420 ISBN 978-88-9377-170-2

DOI 10.13133/9788893771702 Pubblicato a dicembre 2020

Quest’opera è distribuita

con licenza Creative Commons 3.0 IT diffusa in modalità open access.

Impaginazione / layout a cura di: Francesca Zaccone In copertina: Alfonso Gatto, La barca incantata (1974).

Quest’opera è pubblicata con il contributo

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20. Iàkovos Zaraftis e le fiabe del Dodecaneso.

Tra oralità e letterarietà

Tommaso Braccini

Iàkovos Zaraftis era nato nel 1845 nel villaggio di Asfendiù sull’isola di Cos; dopo aver studiato a Calimno e ad Atene, tornò sull’isola dove acquisì fama di erudito con una serie di pubblicazioni di storia loca-le. Come rivelano alcune sue lettere, Zaraftis si era ritagliato un ruolo come factotum degli studiosi stranieri in qualche modo legati a Cos e alle isole vicine: per un compenso appropriato, poteva fungere da guida o da procacciatore di prodotti artigianali, nonché raccoglitore di manoscritti e tradizioni folkloriche. Nel 1898, infatti, a Cos conob-be William Henry Denham Rouse (1863-1950), classicista interessato all’insegnamento del greco antico tramite la conversazione, e perciò desideroso di procurarsi specimina di greco moderno, in particolare di ‘letteratura orale’ come canti e fiabe. Tra i due venne stretto un ac-cordo, e da quel momento, almeno fino al 1915, Zaraftis continuò a spedire a Rouse, in Inghilterra, quaderni interi o fogli volanti pieni di canti, narrazioni, superstizioni, proverbi, costumi e fiabe che aveva raccolto a Cos e nelle isole vicine (Olsen: 1999, 27-28; Olsen: 2005, 387-391; Markoglu: 2008).

Solo una parte dei materiali ricevuti da Rouse, che li aveva depo-sitati presso la biblioteca della Faculty of Classics dell’Università di Cambridge, è stata pubblicata. Nel 1950 Richard M. Dawkins, pioniere degli studi di greco moderno e celebre folklorista1, pubblicò il

sontuo-so volume Forty-five stories from the Dodekanese, edito per i tipi della Cambridge University Press, che raccoglieva l’intero corpus di fiabe e novelle raccolte dall’erudito greco2.

1 Su di lui cfr. almeno Georges: 1965; Alexiadis: 1985; Olsen: 2004 e Olsen: 2006. 2 È stato sostenuto che sarebbe stato proprio dal contatto con le fiabe raccolte da

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Per quanto assai rara, quest’edizione ha riscosso un durevole suc-cesso: anche in anni recenti si è parlato di «high quality» e della «most interesting collection of Greek tales» (Olsen: 2006, 62; Olsen: 1999, 28), che «ont une valeur littéraire réelle» e si presentano come «de vérita-bles nouvelles ou petits romans» (Mirambel: 1951, 406). Certo è che, a confronto con altre raccolte pubblicate, per non parlare dei materiali inediti e spesso disadorni e inconditi custoditi in archivi folkloristici, le storie di Zaraftis sono molto curate, dettagliate, assolutamente godi-bili. Non è questa la sede, ovviamente, per parlarne nel complesso. Ci si concentrerà sulla narrazione che, fra tutte, ha suscitato un interesse «trasversale», non limitato a folkloristi e studiosi di letteratura orale greca e mediterranea, ma esteso anche agli antichisti. Si tratta della storia di Μυρμιδονιά και Φαραονιά [Mirmidonià e Faraonià], la n. 33 della raccolta, inviata a Rouse a ottobre 1905 (Braccini: 2018, 57-61). Viene da Asfendiù (proprio il villaggio dello stesso Zaraftis), ed è l’u-nico racconto di tutta la raccolta a riportare il nome della narratrice, Chatzighiavruda (Χαζηγιαβρούδα), di cui peraltro nulla si sa3. Come

generalmente accade, la versione manoscritta della storia conservata a Cambridge4 costituisce la ‘bella copia’ di Zaraftis: ci sono solo poche e

minimali correzioni, e il testo è corredato da alcune note in calce che spiegano termini dialettali5.

La storia di Μυρμιδονιά και Φαραονιά è molto lunga, ma la parte che ha suscitato l’eco maggiore è sicuramente quella introduttiva. Non sarà fuori luogo, dunque, fornirne un riassunto. Nei tempi antichi vi sarebbero stati due regni, Faraonià e Mirmidonià. Il re di Mirmidonià si era invaghito di una bella fanciulla di nome Dimitrula, innamorata però di un giovane contadino. Il re cercò più volte di eliminarlo, senza esito. Alla fine però con la scusa di un torneo di lotta lo attirò in un

luo-punto di vista linguistico, avrebbe mostrato un coinvolgimento sempre più profondo e crescente con il genere e con le prospettive comparatistiche da esso offerte. Cfr. Olsen: 2006, 53-54.

3 Non più che illazioni sono quelle avanzate da Olsen: 1999, 31-36.

4 La storia è contenuta alle pp. 54-73 di un quaderno abbastanza malconcio contenuto

nel terzo faldone delle W.H.D. Rouse Papers, intitolato Συνέχεια του Δ΄ των Κωΐων

– Στιχοπλακιές και παραμύθια. Sulla copertina e sul primo foglio del quaderno

si legge un’annotazione, probabilmente di mano di Dawkins, che recita «Finished transcribing 2.VII.41». Ringrazio l’archivista, la dottoressa Rebecca Naylor, per la gentilissima assistenza prestata in occasione della mia visita in loco.

5 Sarebbe interessante verificare se nei manoscritti zaraftiani di Koia conservati

presso la Ippokratios Dimossia Vivliothiki di Cos, contenenti anche paramithia, sia conservata un’altra versione della storia; cfr. Markoglu: 2008, 208.

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go boscoso detto Paradissi, e lì lo fece uccidere dai suoi uomini sotto gli occhi della stessa Dimitrula, che era venuta a vedere il suo bel campio-ne. Il malvagio re però fu punito per la sua malvagità, giacché cadde in un pozzo e vi annegò. Il figlio ritenne che il padre fosse stato punito dagli spiriti («Στοιχιά») del luogo e dunque pensò bene di abbattere tutti gli alberi di Paradissi per vendicarlo.

Proprio mentre l’opera era in corso uno dei suoi uomini colpì una quercia con l’ascia: dal taglio scaturì un fiotto di sangue, accompagnato da lamenti. Il principe ordinò ai suoi uomini di continuare a infierire sull’albero, finché non cadde a terra in un lago di sangue. Lo stesso principe, in preda a un’ira sfrenata, finì per conficcare la sua spada nel legno, senza riuscire più a sfilarla. Dal tronco abbattuto erano intanto emerse le fattezze di Dimitrula che, appena prima di spirare, dichiarò di essere caduta all’interno dell’albero dopo esservi salita per vedere meglio quello che credeva sarebbe stato un torneo di lotta, e che inve-ce si era risolto in un’imboscata contro il suo amato. A quel punto si udì una voce dichiarare che il principe sarebbe stato punito come suo padre, e la gente del luogo cominciò a sussurrare che Dimitrula era in realtà una «νεραϊδοπούλα», la figlia di una nereide (il corrispondente moderno delle antiche ninfe), e che sua madre l’avrebbe vendicata.

In effetti una notte il principe vide in sogno proprio una nereide che lo trascinò a Paradissi, ordinandogli di guardare bene cosa suc-cedeva quando si abbattevano gli alberi. Dai tronchi abbattuti uscì un fuoco infernale che avvolse l’uomo ustionandolo; subito dopo apparve una vecchia orribile. La megera, che disse di essere la «Λυσσιασμένη Πείνα», la Fame rabbiosa, strappò dalla quercia che aveva racchiuso Dimitrula la spada, ancora conficcata lì, e la piantò nella bocca del principe, arrivando fino al suo stomaco. Appena si svegliò, il principe si sentì rodere da una fame insopprimibile. Per quanto abbondante-mente mangiasse, non riusciva mai a saziarla: nel giro di pochi anni finì letteralmente per divorare tutto quello che aveva, trovandosi po-vero in canna. La fame, tuttavia, non cessava. Finì per avventarsi sulla propria figlia per divorarla, ma questa riuscì a fuggire e suo padre, non reggendo più ai morsi della fame, cominciò a fare letteralmente a pezzi la propria carne per mangiarla, e fu trovato morto con le proprie mani ficcate in bocca.

La vicenda proseguiva infine con una serie di peripezie che avreb-bero portato la figlia sopravvissuta, Tartana, a sposare il re di Faraonià.

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Ad accendere l’attenzione nei confronti del racconto non è stata tanto la caratura narrativa (peraltro elevata) quanto la possibilità di collocarlo all’interno di una lunghissima prospettiva diacronica. Lo stesso Dawkins, che ancora nel 1930 si era dimostrato molto scettico nei confronti del survivalism nel folklore greco (Olsen: 2004, 115-116), e non aveva mancato di notare il ‘conflitto di interesse’ tra le raccolte di tradizioni popolari apparentemente collegate con l’antichità e un certo nazionalismo6, quando si trattò di maneggiare la storia in questione

cambiò atteggiamento e, pur con qualche cautela formale, individuò nella lunga parte iniziale di Μυρμιδονιά και Φαραονιά «a real sur-vival» (Dawkins: 1950, 348, ribadito in Dawkins: 1955, 17-18, nonché Olsen: 2006, 55).

In effetti questa narrazione, come notato da Dawkins, ricorda mol-to da vicino il mimol-to di Erisitmol-tone, punimol-to con una fame insaziabile da Demetra per aver abbattuto alcuni alberi a lei sacri, narrato nell’Inno a

Demetra di Callimaco (vv. 24-115) e nelle Metamorfosi di Ovidio

(8.738-878). Callimaco, per la precisione, descriveva come nel momento in cui Demetra adirata era apparsa a Erisittone e ai suoi uomini, intenti a ta-gliare gli alberi, questi fossero fuggiti lasciando lì le loro asce. Ovidio, invece, narrava come Cerere, indignata per il sacrilegio, avesse inviato in sogno a Erisittone l’orrida personificazione della Fame, che l’aveva abbracciato e aveva fatto sì che al risveglio fosse divorato da un insop-primibile desiderio di cibo che l’avrebbe portato alla rovina.

Dawkins, colpito da questa straordinaria coincidenza, si era posto la domanda se Zaraftis avesse registrato l’autentica sopravvivenza di una storia popolare che circolava fin dall’antichità, e che Callimaco e Ovidio avevano elevato a dignità letteraria, oppure se il racconto di Cos fosse stato influenzato da fonti scritte. Lo studioso abbracciò de-cisamente la prima ipotesi. Osservò, infatti, che difficilmente Callima-co e soprattutto Ovidio, un autore latino, avrebbero potuto filtrare nei racconti popolari del Dodecaneso. Addirittura, proseguiva Dawkins non senza condiscendenza, dal momento che la storia di Zaraftis pre-sentava elementi esclusivi sia di Callimaco (come l’ascia abbandonata, divenuta una spada conficcata nel tronco) sia di Ovidio (come la visi-ta onirica della Fame), e dal momento che nell’arretrato Dodecaneso nessuno avrebbe potuto conoscere contemporaneamente i due autori antichi, se ne doveva dedurre di trovarsi probabilmente di fronte alla

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sopravvivenza folklorica di un’antichissima storia popolare alla qua-le avevano attinto indipendentemente il poeta greco e quello romano (Dawkins: 1950, 347-349; Dawkins: 1953, xxxiv).

La posizione di Dawkins convinse innanzitutto vari recensori: Mi-rambel concordava sulla presenza di un «fonds hellénique ancien» (Mirambel: 1951, 406); Trypanis appoggiava in pieno l’ipotesi che la storia raccolta ad Asfendiù fosse «a survival of the original local myth» al quale si sarebbero ispirati sia Callimaco sia Ovidio (Trypanis: 1953, 197); sulla medesima linea si collocò anche un esperto delle tradizio-ni narrative dell’Italia meridionale, e della Sicilia in particolare, come Sebastiano Lo Nigro (1957, 86-87). Di un quasi certo «local survival from classical antiquity» parlò anche un classicista particolarmente in-teressato al folklore (e molto cauto nell’accettare ipotesi di survivalism), nonché editore e commentatore dell’Inno omerico a Demetra, William Reginald Halliday (Halliday: 1955, 300). Forse il più entusiasta asserto-re della genuina antichità dell’incipit di Μυρμιδονιά και Φαραονιά fu però Kenneth John Mc Kay, che nel 1962 dette alle stampe una mono-grafia sul trattamento callimacheo di Erisittone. Al suo interno dedicò quasi trenta pagine alla storia raccolta da Zaraftis, definita «outstan-ding» in quanto «shows the transmission of an ancient tale over at least 2200 years» (Mc Kay: 1962, 34). Mc Kay, oltre a evidenziare tutta una serie di ulteriori paralleli tra il mito e il paramithi di Cos, si spingeva anche a sottolineare come, nella versione del mito presente in Ellanico (FGrH 4 F 7; tramandata da Ateneo, 10.9.416b, ed Eliano, Varia

Histo-ria 1.27), Erisittone fosse figlio di un tale Mirmidone, con un’allettante

vicinanza al regno di Mirmidonia postulato nella fiaba (Mc Kay: 1962, 35). L’ipotesi di una sopravvivenza orale ininterrotta del racconto dall’antichità alla Grecia contemporanea fu accolta da vari studiosi, e anche in anni recenti non è mancato chi l’ha più o meno cautamente appoggiata7.

Non tutti, però, rimasero di quest’idea. Una durissima reazione contro quest’ipotesi fu quella di uno studioso tedesco, Detlev Fehling, che aveva sollevato una serie di obiezioni importanti. Era credibile, se davvero la storia raccolta da Zaraftis fosse derivata da un’antichissima tradizione greca, che millenni dopo risultasse attestata solo ed

esclu-7 Cfr. Hollis: 1970, 130-132 (con la conclusione «on balance it seems rather more

plausible to accept the folk-tale’s antiquity») e 154-157; Brillante: 1983, 30-34; Larson: 2001, 75-78; Alexakis: 2008, 613, n. 24.

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sivamente in un luogo, e per giunta presso una sola persona? Soprat-tutto, osservava Fehling, era inaccettabile affermare che la presenza contemporanea di tratti ovidiani e callimachei fosse una garanzia di indipendenza dalle fonti letterarie, e anzi di anteriorità rispetto a en-trambi i poeti. Dawkins, infatti, si era scordato dei compendi e manuali mitografici che circolavano in Europa, e naturalmente anche nell’areale greco, almeno dall’Ottocento. Il fatto di trovarvi armonizzati tutti i det-tagli che le fonti antiche presentano separatamente, anzi, è una prova pesantissima a sfavore della genuinità della storia (Fehling: 1972).

Le obiezioni di Fehling lasciarono il segno: negli anni successivi in genere, pur con vari gradi di cautela, si è accettato che la fiaba di

Μυρμιδονιά και Φαραονιά abbia un’origine letteraria8, o perlomeno si

è arrivati a una sospensione del giudizio (Stephens: 2015, 268). In effetti, l’ipotesi di Fehling sembra senz’altro sensata. Quali po-trebbero essere state, tuttavia, queste fonti scritte che, per vie che ci sfuggono, finirono per ridondare nel racconto raccolto da Zaraftis ad Asfendiù, dalla bocca di Chatzighiavruda? In genere i classicisti han-no evocato la traduzione delle Metamorfosi di Ovidio approntata dal monaco bizantino Massimo Planude (Kenney: 1963; Otis: 1964, 427), ma si tratta di un’opera che ha avuto una circolazione non amplissi-ma (pur tenendo presente l’editio princeps parigina del 1822, curata da J.Fr. Boissonade) e non c’è probabilmente bisogno di scomodarla. Più facile pensare a una delle traduzioni di Ovidio in greco moderno che comparvero in forma completa a partire dal 17989 o, ancora meglio, a

un rientro nella circolazione orale a partire da uno dei tantissimi ma-nuali di mitologia per le scuole elementari che si diffusero nel mondo di lingua greca nell’Ottocento10. Quest’ultima ipotesi permetterebbe

tra l’altro di spiegare molto economicamente la presenza di elementi derivanti sia da Callimaco sia da Ovidio: come accade sovente, infat-ti, nelle elaborazioni per i manuali scolastici si tende a effettuare una massiccia contaminazione per fornire la versione più ‘completa’.

Non bisogna, del resto, sospettare che a Cos l’istruzione primaria fosse un lusso impensabile. Nella stessa Asfendiù, nel 1908, la scuola elementare aveva quattro classi con centosessanta alunni, di cui trenta

8 Così, in maniera molto equilibrata, Hopkinson: 1984, 26-30; Alexiou: 2002, 259. 9 Il riferimento è alla versione di Spiridon Vlandìs stampata a Venezia nel 1798 (sulla

quale vd. Nikitas: 1998); successivamente si può ricordare la versione integrale di Vassilios G. Vithulkas, pubblicata ad Atene nel 1890.

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bambine, seguiti da due maestri (Olsen: 1999, 31). Anche la presenza di un erudito locale come Zaraftis sembra indicare una certa qual viva-cità e circolazione di nozioni relative all’antichità: è lo stesso Dawkins a osservare che l’uditorio delle isole maggiori del Dodecaneso era già abbastanza smaliziato e cominciava ad auspicare contaminazioni e no-vità, che gli alfabetizzati non mancavano e che circolava anche qualche libro di storie (Dawkins: 1950, 4-5, 11); lo studioso, del resto, qualche anno prima della pubblicazione delle Forty-five stories non aveva avu-to problemi a riconoscere che, almeno in alcuni dettagli se non nella trama generale di Μυρμιδονιά και Φαραονιά e di storie simili, «po-pular books and schoolmasters play a large part» (Dawkins: 1942, 12). Dawkins si riferiva in particolare ai nomi delle due località che danno il titolo alla storia, in riferimento ai quali, peraltro, lo stesso Zaraftis aveva vergato la nota in calce nella quale, unica, compare il nome della narratrice, proprio per asserire che Chatzighiavruda non aveva idea di che posti fossero Mirmidonià e Faraonià: «άγνωστα μέρη εις την παραμυθούν μου Χαζηγιαβρούδαν» (Dawkins: 1942, 54).

Se anche viene meno il ‘mito’ (particolarmente tenace, peraltro) della strabiliante continuità della storia di Mirmidonià e Faraonià, che conseguenze ci sono sulla valutazione della storia? Occorre applicare a Zaraftis lo stesso termine vagamente derogatorio che, per i motivi di cui sopra, negli ultimi decenni viene applicato alla raccolta dei fratelli Grimm, accusata di essere fin troppo artefatta e letteraria, nelle fon-ti e nell’approccio – in altri termini, si deve parlare di fakelore piutto-sto che di folklore (Braccini: 2018, 154)? Si tratterebbe di un approccio assolutamente ingeneroso. Nemmeno lo stesso Fehling, il campione dello scetticismo, si era spinto a sospettare di falsità o di inganno la vecchia Chatzighiavruda e Zaraftis. È vero, com’è stato osservato, che «we cannot be certain to what extent he [scil. Zaraftis] played the role of editor» (Olsen: 1999, 30). Un conto, tuttavia, è curare la redazione scritta di un racconto orale, e un conto è fabbricare consapevolmente un fake relativo a una presunta continuità con il mondo antico – come pure esistono nella storia della fiabistica greca (Braccini: 2018, 37-54). In realtà non c’è bisogno di essere manichei: il confine tra ‘letteratura orale’ e ‘letteratura scritta’ è spesso sfumato e poroso, e la compresenza dei due elementi è perfettamente naturale. Lo stesso Dawkins, in altra sede, si era dimostrato consapevole del ruolo importante e germinale che la tradizione letteraria può avere sul folklore, e non aveva mostrato pregiudizi in tal senso (Olsen: 2006, 58). E d’altronde è evidente che

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nel racconto di Μυρμιδονιά και Φαραονιά non è stato riciclato di peso alcun testo letterario, ma piuttosto che una serie di elementi, nel corso del tempo e forse passando per più bocche, è stata adottata e inserita nel contesto culturale del Dodecaneso degli inizi del secolo scorso; e, pur senza postulare alcuna mirabolante continuità, il fatto stesso che tale adozione abbia potuto aver luogo dimostra come certi elementi mitici, conosciuti con l’ausilio di materiale letterario, forse scolastico, non fossero assolutamente incompatibili con l’ambiente di arrivo e con la cultura popolare in generale11, e potessero dunque dare vita a

varian-ti locali, ‘ecovarian-tipi’, parvarian-ticolarmente elaboravarian-ti12. Allo stesso modo, anche

in una fiaba ‘rinata’ a partire da suggestioni letterarie possono trovare posto autentici motivi tradizionali, che anzi possono aver favorito il riassorbimento della vicenda nel patrimonio orale (Meillier: 1985, 206-207). Stando alla testimonianza di John Cuthbert Lawson, che aveva a lungo frequentato la Grecia tra la fine del xix e gli inizi del xx secolo, i boscaioli dell’Arcadia settentrionale erano soliti pregare mentre col-pivano gli alberi con l’ascia, e correvano a gettarsi proni a terra, senza proferire motto, quando la pianta cadeva, per non farsi scorgere dalla Nereide che si sarebbe allontanata dal proprio domicilio ormai violato (Lawson: 1910, 158-159). In questo, eventualmente, si può trovare un elemento di continuità con la tradizione antica.

Il merito di Zaraftis, dunque, non è stato quello di salvare dall’o-blio un’antichissima versione locale, pre-ovidiana e pre-callimachea, del mito di Erisittone, che per un qualche miracolo era sopravvissuta solo nella memoria della sfuggente Chatzighiavruda. Il suo merito, e questo è davvero indiscusso, è stato di aver letterariamente stabilizza-to il racconstabilizza-to orale, non un survival ma un esempio comunque impor-tante della ‘fortuna’ del mito, in una veste scritta e letteraria (peraltro particolarmente godibile), all’interno di un vero e proprio ciclo delle narrazioni folkloriche che, in un continuo processo di osmosi tra ora-lità e scrittura, circolavano agli inizi del secolo scorso nelle isole del Dodecaneso.

11 In questo senso Morrison (2007, 171), ha buon gioco a dire che la vicinanza

tra Μυρμιδονιά και Φαραονιά e l’Inno a Demetra callimacheo «conveniently demonstrates the affinities of the narrative of Hymn 6 to a folktale».

12 Cfr. Brillante: 1983, 34: «bisognerà in ogni caso ritenere che la tradizione orale

abbia profondamente rielaborato il materiale utilizzato sino ad offrirci quella che possiamo considerare una nuova versione della leggenda».

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