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Riutilizzo di scarti del processo conciario per la produzione di materiali polimerici innovativi

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Academic year: 2021

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Scuola di Ingegneria

Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale

Corso di Laurea in Ingegneria Chimica

Tesi di Laurea Magistrale

RIUTILIZZO DI SCARTI DEL PROCESSO CONCIARIO PER

LA PRODUZIONE DI MATERIALI POLIMERICI

INNOVATIVI

Relatori:

Candidata:

Dott. Ing. Maurizia Seggiani

Eleonora Ricci

Dott. Ing. Monica Puccini

Controrelatore:

Prof. Ing. Andrea Lazzeri

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2

INDICE

INTRODUZIONE ... 1

1. MATERIE PLASTICHE E SOSTENIBILITÀ ... 2

Lo sviluppo sostenibile ... 2

1.1 Bioplastiche e biocompositi ... 3

1.2 Scarti del processo conciario ... 7

1.3 2. TECNICHE DI LAVORAZIONE ... 9 L’estrusione ... 9 2.1 2.1.1 Sistema di drive ... 10 2.1.2 Sistema di alimentazione ... 10

2.1.3 Sistema di estrusione (cilindro/vite) ... 11

2.1.4 Sistema di formatura o testa/filiera ... 14

2.1.5 Sistema di controllo ... 14

2.1.6 Zone operative dell’estrusore ... 15

La filmatura in bolla ... 17

2.2 2.2.1 La geometria della bolla ...19

2.2.2 Variabili di processo ... 20

2.2.3 Rapporti geometrici caratteristici ... 21

2.2.4 Irregolarità ed instabilità della bolla ... 22

2.2.5 Caratterizzazione del film ... 25

2.2.6 Proprietà del film ... 28

3. MATERIALI E METODI ... 32 Riblene ... 32 3.1 Idrolizzato proteico ... 33 3.2 Compatibilizzanti/fluidificanti ... 36 3.3 Produzione pellets PE/HC ... 39

3.4 Produzione film... 42 3.5

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3

3.5.1 Produzione dei film per estrusione in bolla ... 43

3.5.2 Produzione dei film mediante termopressa ... 45

Tecniche di caratterizzazione ... 46

3.6 3.6.1 Analisi elementare (CHN) ... 47

3.6.2 Analisi termogravimetrica (TGA) ... 47

3.6.3 Calorimetria differenziale a scansione (DSC) ... 48

3.6.4 Microscopia elettronica a scansione (SEM) ... 49

3.6.5 Analisi reologica ... 50

3.6.6 Prove di trazione ... 60

4. RISULTATI E DISCUSSIONE ... 63

Caratterizzazione dei materiali ... 63

4.1 Produzione pellets e caratterizzazione ... 66

4.2 Produzione film e caratterizzazione ... 76

4.3 5. CONCLUSIONI ... 92

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INTRODUZIONE

Le poliolefine, come il polietilene ad alta densità (HDPE), il polietilene a bassa densità (LDPE) ed il polipropilene (PP), costituiscono i principali polimeri termoplastici utilizzati per produrre imballaggi. Dato il continuo aumento della produzione e del consumo di questi materiali, lo smaltimento dei rifiuti che ne derivano è ormai un problema importante dal punto di vista sia economico sia ambientale. Le poliolefine, così come la maggior parte dei polimeri sintetici, non si decompongono in maniera naturale e la loro capacità di resistere alla degradazione biologica genera problemi di impatto ambientale. Negli ultimi anni è cresciuta l’attenzione verso la produzione di materiali compositi mediante miscelazione di componenti polimerici biodegradabili (ad esempio polisaccaridi, e proteine di origine vegetale o animale) con poliolefine sintetiche.

L’idrolizzato proteico prodotto a partire dai residui dell’operazione di rasatura delle pelli costituisce un sottoprodotto dell’industria conciaria facilmente reperibile a basso costo e utilizzabile in miscela con matrici sintetiche per produrre materiali compositi. Il materiale di scarto della rasatura, costituito prevalentemente da collagene, è trasformato in idrolizzato proteico mediante operazioni di idrolisi alcalina, sgrassaggio e concentrazione, e commercializzato attualmente come fertilizzante per l’agricoltura. Considerata l’ingente quantità di idrolizzato proteico prodotta nel Distretto Conciario Toscano, è auspicabile l’individuazione di processi e tecnologie innovative per la valorizzazione di tale scarto di lavorazione. È stata quindi investigata la possibilità di un riutilizzo dell’idrolizzato proteico nella produzione di materiali compositi a matrice sintetica, destinati alla fabbricazione di prodotti a basso pregio come imballaggi, film e manufatti utilizzabili in campo agricolo. Il presente lavoro di tesi ha consentito di verificare la processabilità dell’idrolizzato proteico in miscela con LDPE (materiale polimerico di largo uso e basso costo), per la produzione di materiali compositi con buone proprietà meccaniche, che consentano la realizzazione di manufatti commerciali. È stata testata in particolare la processabilità delle varie miscele prodotte tramite la tecnologia di estrusione in bolla, utilizzando un impianto su scala pilota. I film prodotti sono stati poi caratterizzati al fine di individuare la miscela che permetta di ottenere il massimo recupero di idrolizzato proteico abbinato a buone proprietà meccaniche del manufatto.

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2

1.

MATERIE PLASTICHE E SOSTENIBILITÀ

Lo sviluppo sostenibile

1.1

Secondo la definizione proposta nel rapporto “Our Common Future” pubblicato nel 1987 dalla Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo (Commissione Bruntland) del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, per sviluppo sostenibile si intende uno sviluppo in grado di assicurare «il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri».

Si introduce quindi un concetto di equilibrio ambientale e si focalizza la necessità di preservare il patrimonio delle risorse naturali del pianeta, sia come quantità sia come qualità, sfruttandole entro i limiti della capacità di carico dell’ecosistema. Ciò significa che:

• il peso dell'impatto antropico sui sistemi naturali non deve superare la capacità di carico della natura;

• il tasso di utilizzo delle risorse rinnovabili non deve essere superiore alla loro velocità di rigenerazione;

• l'immissione di sostanze inquinanti e di scorie non deve superare la capacità di assorbimento dell'ambiente;

• il prelievo di risorse non rinnovabili deve essere compensato dalla produzione di una pari quantità di risorse rinnovabili, in grado di sostituirle.

La necessità di allinearsi a tali principi di sostenibilità ha condotto ad un cambiamento del modo di pensare la produzione industriale e all’adozione di una nuova filosofia di progettazione ”from conception to reincarnation”, cioè una progettazione che considera l’intero ciclo di vita del prodotto, dalla sua nascita al suo smaltimento.

Attualmente le materie plastiche trovano largo impiego in svariati settori grazie alle caratteristiche di durevolezza, leggerezza, resistenza chimica, impermeabilità, resistenza alla corrosione, facilità di processamento e costi contenuti. I principali settori di applicazione dei materiali plastici sono quello degli imballaggi (37%), dell’edilizia (20.6%), delle automobili (7.5%), delle apparecchiature elettriche (5.6%). Negli ultimi anni lo sviluppo delle tecnologie è cresciuto di pari passo alla

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3 quantità di materie plastiche prodotte. Secondo il report della European Plastic Market Organiation, la produzione di materie plastiche è cresciuta più del 500% dal 1976 al 2010 [1].

Tuttavia, insieme agli innumerevoli vantaggi, sono connessi all’uso delle materie plastiche anche importanti problemi sul piano ambientale, e quindi la necessità di cercare soluzioni alternative, sia in termini di smaltimento e dismissione dei prodotti esistenti, sia in termini di concezione di nuovi materiali con caratteristiche meccaniche simili [2].

È da sottolineare che più del 90% delle materie plastiche è prodotto a partire dal petrolio. Con l’incremento della produzione di materiali plastici, si presenta il problema dell’esaurimento dei giacimenti petroliferi. Le previsioni affermano che le riserve saranno sufficienti solo fino al 2040 [3]. Oltretutto, i polimeri sono materiali di lunga durata e ad alto peso molecolare, pertanto rimangono per centinaia di anni inalterati se rilasciati sul terreno o in mare. La produzione e l’eventuale incenerimento a fine vita dei materiali plastici di origine fossile comportano l’emissione di CO2 e gas tossici in atmosfera, che contribuiscono all’effetto serra e al cambiamento climatico mondiale [4].

La scarsità delle risorse fossili e l’inquinamento connesso all’uso della plastica sono i motivi principali che spingono alla ricerca di soluzioni per limitare gli effetti dannosi dell’uso di tali materiali. Lo sviluppo in questo senso segue due filoni principali:

• il riciclo delle materie plastiche;

• lo sviluppo di materiali derivanti totalmente o in parte da risorse rinnovabili [5].

Bioplastiche e biocompositi

1.2

Con il termine bioplastica si intende una famiglia di materiali anche molto diversi tra loro. Ci sono tre tipi fondamentali di bioplastiche:

• plastiche totalmente o parzialmente derivate da risorse rinnovabili (biobased), ma non biodegradabili, come il bio-PE, bio-PP e bio-PET (i cosiddetti drop-in);

• plastiche che sono sia biobased sia biodegradabili come il PLA e il PHA; • plastiche che derivano da risorse fossili e sono biodegradabili, come il PCL.

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4 Le risorse rinnovabili di partenza sono costituite da piante, come mais e canna da zucchero, dalle quali si possono ottenere polimeri termoplastici. Se destinate all’incenerimento, le bioplastiche possono produrre un quantitativo di anidride carbonica che è pari a quella assorbita dalle piante in fase di crescita. Se poi sono anche biodegradabili, a fine vita possono essere sottoposte a compostaggio. La biodegradabilità del polimero non dipende necessariamente dal tipo di risorsa da cui deriva, ma solo dalla sua struttura chimica [6]. In Figura 1 sono indicati i vari tipi di materiali classificabili come bioplastiche.

Figura 1: I vari tipi di bioplastiche.

Si stima che l’85% delle materie plastiche in commercio attualmente, potrebbe essere sostituito da plastiche biobased, la maggior parte delle quali è processabile tramite le stesse tecnologie usate per le plastiche convenzionali, come lo stampaggio a iniezione, il soffiaggio, l’estrusione, adattando semplicemente i parametri di processo.

Nel 2011, sono state prodotte a livello modiale 3.5 milioni di tonnellate di plastica biobased, contro le 235 milioni di tonnellate di plastica derivante da risorse fossili. Vista la crescita esponenziale della produzione delle bioplastiche negli ultimi anni, si prevede il raggiungimento delle 12 milioni di tonnellate annue prodotte entro il 2020 (Figura 2). La crescita maggiore è prevista per il settore delle poliolefine biobased. Questi composti sono chimicamente identici a quelli derivati da risorse fossili, sono riciclabili e non biodegradabili. A fine vita, quando il riciclo del

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5 materiale non è più possibile, possono essere utilizzati per produrre energia senza emettere nuova CO2 in atmosfera [7].

Figura 2: Produzione annua di bioplastiche nel periodo 2011-2020.

I biocompositi sono invece tutti quei materiali compositi che contengono almeno un componente tra matrice e carica che sia derivato da risorse naturali. Rientrano in questa definizione compositi contenenti cariche organiche biodegradabili disperse in una matrice polimerica (come PE, PP o resine epossidiche), o al contrario, formati da un biopolimero (ad esempio PLA o PHA) e da fibre sintetiche (vetro, carbonio, ecc...). Ovviamente rientrano nella definizione anche compositi i cui componenti siano entrambi derivati da risorse naturali [8].

I biocompositi rappresentano una buona alternativa tra i possibili materiali definiti sostenibili, poichè permettono di ottenere buone caratteristiche meccaniche, buona resistenza termica e costi contenuti. Sfruttando le tecnologie di produzione dei materiali compositi convenzionali e applicandole ai nuovi principi di sostenibilità e ecologia è possiblie limitare l’impatto ambientale dei materiali prodotti. Alcuni esempi di biocompositi parzialmente biodegradabili sono i compositi PP/fibre di legno, PLA/fibre di vetro, PA/cellulosa, PC/lignina. Pur non essendo totalmente biodegradabili, permettono di ridurre la frazione di plastiche sintetiche e quindi l’impatto inquinante del materiale. Inoltre biocompositi

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6 parzialmente biodegradabili possono avere proprietà fisiche e meccaniche migliori rispetto ai compositi totalmente biodegradabili. Negli ultimi anni lo sviluppo di materiali ottenuti dal miscelmento di poliolefine con componenti polimerici biodegradabili (come polisaccaridi e proteine di origine vegetale o animale), ha ricevuto crescente attenzione [9] [10] [11] [12].

A causa della grande differenza di polarità tra la carica organica (polare) e una poliolefina sintetica (apolare), il miscelamento di questi due componenti porta all’ottenimento di una struttura eterogenea, con scarsa adesione interfacciale tra le due fasi. Inoltre, a causa del forte legame a idrogeno intermolecolare, il polimero naturale tende ad agglomerarsi durante il mixing. La scarsa compatibilità e miscibilità sono i principali inconvenienti per il raggiungimento di un composito che abbia buone proprietà meccaniche. Il rafforzamento dell’adesione interfacciale si ottiene industrialmente tramite l’uso di compatibilizzanti [13].

Tra i polimeri naturali, le proteine si sono dimostrate adatte ad essere impiegate in numerose applicazioni tecniche, avendo buone caratteristiche di processabilità secondo le tecnologie comunemente applicate ai polimeri. Numerosi studi in letteratura riguardano l’impiego di proteine di origine animale e vegetale, da scarti industriali, in miscela con materie plastiche sintetiche per ottenere film ed altri manufatti [14]. Tuttavia l’elevato costo delle proteine in confronto a quello di altri polimeri naturali come la cellulosa e l’amido, ha in qualche modo frenato la ricerca in questo settore. Una possibile carica proteica utilizzabile in miscela con polimeri sintetici che, al contrario, sarebbe disponibile in grande quantità e a bassissimo costo, è rappresentata dal collagene idrolizzato derivante da scarti del processo conciario [13] [15] [16] [17].

I vantaggi principali del riutilizzo di uno scarto industriale per la produzione di un materiale composito, sono:

• minor quantità di scarti industriali da inviare allo smaltimento (riduzione dei costi per l’azienda);

• riduzione dell’utilizzo di polimeri sintetici e quindi minor consumo di risorse fossili;

• riduzione del costo del materiale composito, in quanto la carica organica è disponibile quasi a costo zero;

• aumento della quota biodegradabile del materiale finale (riduzione dell’impatto ambientale).

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7

Scarti del processo conciario

1.3

Per rispettare le limitazioni sempre più stringenti previste dalla legislazione a cui è soggetta l’industria conciaria, è d’obbligo cercare sempre nuovi metodi per minimizzare la produzione di materiali di scarto. L’interesse della ricerca si è quindi concentrato sullo sviluppo di nuovi processi per il recupero e la valorizzazione dei sottoprodotti, cercando di individuare nuovi impieghi industriali. Solo il 20-25% della materia prima in entrata al processo di lavorazione della pelle, diventa un prodotto finito. Il restante 75-80%, insieme ai prodotti chimici impiegati, diventa scarto. A seconda della fase di produzione da cui provengono si distinguono scarti di diversa natura: i sottoprodotti di origine animale (carniccio, peli, rasature, cascami e ritagli) rappresentano oltre il 48.4% del totale, a cui si aggiungono i fanghi di depurazione (il 21.7% circa del totale) e i liquidi di concia (il 20.9%).

Dato che agire a monte, tentando di diminuire la quantità di rifiuti prodotti è difficile, essendo la maggior parte di essi di origine animale e quindi non eliminabile, il settore sta puntando sul riutilizzo degli scarti in altre filiere produttive o all’interno dello stesso ciclo conciario, piuttosto che sullo smaltimento degli stessi. Il recupero di tali rifiuti è subordinato all’applicazione di procedure di raccolta e stoccaggio differenziati che ne evitano la miscelazione. I residui provenienti dall’operazione di scarnatura e rasatura delle pelli rappresentano il sottoprodotto più importante dell’industria della pelle. Per avere una stima dell’impatto ambientale di tali sottoprodotti basti sapere che nel solo distretto conciario di Santa Croce sull’Arno (PI) ne vengono prodotti circa 80.000 ton/anno. Questo tipo di scarto viene raccolto e processato in un impianto centralizzato dove, tramite idrolisi alcalina, si ottiene una soluzione di collagene idrolizzato [18]. L’idrolizzato proteico trova attualmente impiego nel settore agricolo come concime organico azotato, che risulta essere interamente disponibile per le piante sia direttamente (applicazioni fogliari) sia in seguito a fertirrigazione del terreno. Ciò è di particolare interesse nell’agricoltura moderna, in risposta alla progressiva riduzione della fertilità dei terreni in linea con le direttive europee che impongono di ridurre l’uso di agenti chimici in agricoltura. La domanda del settore agricolo non è però sufficiente a garantire il riutilizzo di tutto l’idrolizzato proteico prodotto. È stata quindi rivolta l’attenzione verso altre possibilità di impiego sia

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8 nello stesso settore conciario, combinandolo con altre sostanze utilizzate nel processo della concia al cromo, sia in altri settori industriali, come quello della produzione di materiali innovativi.

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2.

TECNICHE DI LAVORAZIONE

Una delle principali tecniche di lavorazione dei polimeri a livello industriale è l’estrusione in bolla (film blowing). Questo tipo di processo, utilizzato per esempio nella lavorazione del polietilene e polipropilene, consente di ottenere film sottili e continui. Prevede l’impiego di un estrusore monovite, dotato di una particolare filiera che permette di produrre un cilindro di polimero fuso, entro il quale viene poi insufflata aria in modo che il materiale venga stirato in direzione radiale e longitudinale, a formare il film [19].

Di seguito verranno illustrati più dettagliatamente il funzionamento dell’estrusore e dell’apparato di produzione del film a valle dell’estrusore.

L’estrusione

2.1

L’estrusione è un processo di produzione industriale a deformazione plastica che occupa una posizione importante per versatilità e vastità di impiego tra le tecnologie produttive.

Il polimero viene inserito all’interno di una camera cilindrica riscaldata contenente una o più viti coassiali in rotazione. Al termine del sistema cilindro-viti, il polimero, opportunamente miscelato con gli additivi desiderati fuoriesce grazie alla spinta delle viti attraverso una piastra (filiera o die): la filiera è dotata di uno o più fori che impartiscono al profilato polimerico una opportuna geometria trasversale.

Per comprendere la struttura di uno strumento di estrusione questo viene generalmente suddiviso in cinque sistemi:

• sistema di drive;

• sistema di alimentazione; • sistema vite/cilindro; • sistema testa/filiera; • sistema di controllo.

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2.1.1

Sistema di drive

Il sistema di drive, collegato alla vite dell’estrusore, è formato da un motore, un riduttore di velocità ed un cuscinetto. Il movimento della vite permette la fusione e il miscelamento della carica ed il trasporto del fuso verso la filiera di estrusione. Il motore elettrico, a potenza variabile, rappresenta il sistema di fornitura di energia. Il motore deve fornire un quantitativo di energia piuttosto elevato a causa dell’alto consumo energetico associato al sistema, dovuto alla necessità di contribuire al processo di fusione del polimero grazie anche al calore generato dalla frizione all’interno della camera e di miscelare e trasportare il fuso, che presenta viscosità piuttosto elevate, vincendo l’attrito generato dai pellets e dal fuso [20].

Figura 3: Schematizzazione generale della vite

2.1.2 Sistema di alimentazione

L’alimentazione del polimero all’interno dell’estrusore è generalmente effettuata tramite una tramoggia gravimetrica collocata nell’estremità della vite vicina al motore; nel caso di dosaggio di polveri è più indicato l’uso di coclee. Il sistema di alimentazione è definito ”a bocca piena” se il polimero solido dalla tramoggia passa alla vite per effetto del suo peso. Diversamente l’alimentazione ”affamata” ed ”affamata forzata” si ha quando il materiale è spinto a forza dalla tramoggia nella vite. Questo sistema è adatto per materiali che hanno difficoltà ad entrare nella vite (ad esempio polvere o fiocchi) e con peso specifico apparente molto basso [21].

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2.1.3 Sistema di estrusione (cilindro/vite)

Questo sistema è il ”cuore” dell’apparecchiatura, che fa sì che il polimero raggiunga lo stato fuso, venga trasportato al die e risulti omogeneo, con temperatura e pressione costanti, in modo da garantire la buona qualità del pellet prodotto [20]. Il cilindro (barrel) si estende dalla zona di alimentazione fino alla fine della vite con una lunghezza compresa tra 20 e 24 volte il diametro della vite. Al cilindro sono associati anche un sistema di riscaldamento, solitamente realizzato mediante delle resistenze elettriche, ed un sistema di raffreddamento. Il riscaldamento garantisce il profilo di temperatura più adatto alla corretta fusione del polimero ed alla modulazione della sua viscosità, in modo da garantire condizioni di lavoro ottimali nelle varie fasi di operazione.

La vite

La vite è l’organo centrale dell’apparecchiatura, ed è quella che può subire le maggiori variazioni di design.

La vite assolve a diverse funzioni:

• trasporto del fuso lungo l’estrusore;

• trasmissione di energia meccanica al materiale come contributo allo sviluppo del processo di fusione;

• miscelazione della carica;

• realizzazione di una pressione tale da permettere l’uscita del materiale dalla filiera.

Per gli estrusore monovite (Single Screw Extruder, SSE) solitamente sono impiegate viti completamente filettate, a passo costante e uguale al diametro della vite.

Gli estrusori bivite (Twin Screw Extruder, TSE), invece, si differenziano principalmente per senso di rotazione e geometria delle viti. In particolare, l’estrusore bivite è dotato di due viti parallele che possono ruotare in senso opposto (Figura 4a), se è necessario realizzare pressioni particolarmente elevate, oppure nello stesso senso (Figura 4b), quando è necessario ottimizzare il mescolamento di diversi componenti

(15)

12

Figura 4: Configurazione delle viti nell’estrusore bivite

Nel sistema a viti co-rotanti il materiale sviluppa un percorso ad otto attorno alle viti stesse permettendo di realizzare un continuo contatto con le pareti del cilindro ed un efficiente riscaldamento per via termica.

Nel sistema a vite contro-rotante, invece, il materiale tende ad accumularsi nelle due zone di contatto, quella superiore e quella inferiore, tra le viti stesse e di qui viene fatto avanzare per mezzo dell’azione delle ali della filettatura. In questa zona si registrano alti valori dello sforzo meccanico agenti sul materiale che però non interessano tutto il materiale accumulato.

Lo sforzo di taglio complessivamente agente sul materiale è infatti inferiore sia a quello registrato per gli estrusori co-rotanti che per gli estrusori monovite in quanto la maggior parte del materiale non subisce nessuna azione meccanica e viene solo trasportata verso la filiera dell’estrusore. Questa configurazione presenta rispetto all’altra il vantaggio di realizzare un’efficiente pompaggio e quindi alte portate di materiale, aspetto indispensabile per alcune applicazioni in cui una buona miscelazione assume importanza secondaria.

L’estrusore bivite permette un miscelamento molto efficace grazie all’interazione tra il polimero e le due viti, in particolare il miscelamento coinvolge l’intera massa alimentata, che fonde in modo rapido e uniforme in una lunghezza molto limitata, e permette di ottenere risultati particolarmente performanti in tempi inferiori, permettendo così tempi di residenza più brevi e minori stress termici per i materiali trattati [22].

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La geometria della vite

I parametri geometrici che caratterizzano la vite di un estrusore sono: • il passo (Ls);

• la distanza tra le ali della filettatura (W); • la lunghezza totale dell’estrusore (L);

• la luce tra il cilindro e la vite o profondità del canale (H - δf);

• la distanza radiale tra la superficie della vite e la superficie interna dell’estrusore (H o channel depth);

• l’angolo di inclinazione tra cilindro e filettatura (θ); • il diametro della vite da filetto a filetto (Ds).

Figura 5: Schematizzazione geometrica della vite [21].

Tra l’estremità del filetto della vite e la superficie esterna del cilindro (Db), c’è una

piccola distanza radiale δf dell’ordine di 0.1 ÷ 0.3% di Db. Il polimero fuso riempie

questo spazio vuoto ed agisce come lubrificante, prevenendo il contatto tra i metalli.

L’angolo formato tra il filetto ed il piano normale all’asse si chiama helix angle (θ), ed è funzione del diametro secondo la seguente espressione:

tanθ =Ls/πDs

La profondità del canale W, o distanza perpendicolare tra i filetti, è espressa come: W = Ls cosθ – e

avendo indicato con e la larghezza del filetto.

La vite di un estrusore è genericamente definita attraverso alcuni parametri che ne definiscono le funzioni a cui è preposta.

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14 Il rapporto L/Ds tra la lunghezza totale della vite (L) ed il suo diametro esterno

(Ds), è un parametro che fornisce un’indicazione sulla capacità di lavorare e

miscelare il materiale e sull’energia necessaria per la rotazione della vite (amperaggio). Ad alti valori di L/D si associano buone caratteristiche di miscelazione, buone capacità di fusione ed alti valori di energia assorbita dalla macchina [22].

Il parametro H0/Hm, invece, è il rapporto tra la profondità del canale nella zona

iniziale di alimentazione e quella nella zona finale di laminazione o di trasporto del fluido. I valori di questo rapporto sono indicativi della portata volumetrica di materiale da processare che diminuisce quando polvere o granuli si compattano nella zona di fusione, eliminando l’aria e l’umidità tra i granuli che tornano indietro in controcorrente attraversando il materiale alimentato oppure vengono allontanate per mezzo di un caminetto. Valori tipici di questo rapporto sono compresi tra 2:1 e 4:1.

2.1.4 Sistema di formatura o testa/filiera

La sezione di formatura è rappresentata dalla parte terminale dell’estrusore attraverso la quale il materiale fluisce allo stato fuso verso l’esterno mediante uno o più fori che modellano la massa fusa. Nella sezione successiva, esterna all’estrusore, il materiale viene raffreddato in modo tale da consolidare la massa polimerica in una forma precisa. Il polimero fuso passa attraverso la testa dell’estrusore spinto dalla differenza di pressione (∆P) esistente tra la fine della vite e la pressione atmosferica. La portata nella filiera è nulla per valore zero della pressione e cresce linearmente con la pressione [21].

2.1.5 Sistema di controllo

Il sistema di controllo è necessario per misurare e controllare i parametri di processo principali. La variabili controllate possono essere la temperatura lungo la vite, la pressione nella filiera, la velocità della vite e la potenza assorbita dalla macchina.

Il controllo di temperatura è fondamentale per monitorare che il profilo di temperatura nell’estrusore sia quello desiderato e che ciascuna zona abbia la temperatura più appopriata. Variazioni anche di pochi gradi possono infatti portare a sensibili differenze qualitative nel prodotto finito.

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15 Il controllo di pressione alla filiera è molto importante sia per le caratteristiche qualitative del prodotto, sia per motivi di sicurezza. Una pressione eccessiva può infatti portare alla rottura del cilindro, al danneggiamento della filiera o di altri componenti, oltre a pregiudicare la sicurezza dell’operatore.

Anche la misurazione e il controllo della potenza assorbita risultano molto importanti in quanto danno informazioni sulla resistenza meccanica che la vite deve vincere all’interno del cilindro per trasportare il fuso polimerico alla testa [20].

2.1.6 Zone operative dell’estrusore

Nell’estrusore si possono individuare quattro sezioni operative (figura 10), ognuna delle quali presenta funzioni differenti e che contribuiscono a determinare le caratteristiche del prodotto estruso:

• zona di trasporto del solido; • zona di fusione;

• zona di trasporto del fuso; • zona di formatura nella filiera.

Figura 6: Sezioni operative dell’estrusore Zona di trasferimento dei solidi

Il materiale è introdotto nella tramoggia sotto forma di granuli o di polvere.

I solidi appena entrati in contatto con la vite non devono fondere ma scorrere all’interno del cilindro per permettere il flusso continuo dell’alimentazione verso la

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16 testa dell’estrusore. La capacità di trasporto di questa zona dipende dalla materia prima, dalla forma della vite e dalle caratteristiche della bocca di alimentazione. In questa sezione si possono verificare problemi dovuti alla formazione, alla base della tramoggia, di un ponte che blocca il flusso. Questo fenomeno è associato al calore eccessivo nella sezione di alimentazione che fondendo i pellets li rende coalescenti.

Inoltre, un altro problema può essere associato al flusso solo centrale nella tramoggia che si verifica quando i pellets nella parete esterna non si muovono dando problemi di minor flusso e possibile segregazione dei componenti alimentati.

Zona di fusione

Questa zona è compresa tra il punto in cui si verifica incipiente fusione ed il punto in cui tutto il materiale che si trova in una sezione trasversale della vite è fuso. Mentre il solido è trasportato si verifica prima la fusione del polimero a contatto con il cilindro e, contemporaneamente, la fusione stessa avanza verso il centro della vite.

La temperatura del polimero, a partire dalla zona di alimentazione, aumenta sia a causa del riscaldamento delle resistenze esterne, sia a causa dell’attrito tra le superfici metalliche ed il polimero solido. Generalmente dopo aver trascorso una lunghezza pari ad alcuni diametri di cilindro, il polimero comincia a fondere all’interfaccia con il cilindro. Questa sezione dell’estrusore è particolarmente importante dal momento che alimenta direttamente la successiva zona di trasporto del fuso. La velocità di fusione, che è la velocità con cui il fronte liquido si propaga verso il filetto successivo, può essere aumentata usando elevate temperature del cilindro ed alte velocità di rotazione. Al crescere di questi due parametri aumenterà però la temperatura del fuso che, a causa del calore generato dall’attrito viscoso, può raggiungere valori di temperatura maggiori rispetto a quelli impostati.

Zona di trasporto del fuso

Questa zona è costituita dal tratto finale della vite nel quale il materiale è completamente fuso e l’estrusore funziona semplicemente come una pompa. Il polimero fuso viene spinto verso la testa dell’estrusore e viene assicurata una pressione tale da spingere il fuso oltre la filiera. Dal punto di vista geometrico

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17 questa zona presenta una sezione costante, come la zona di alimentazione, ma presenta una minore profondità del canale; la lunghezza di questa sezione varia inoltre ampiamente in funzione dei materiali plastici impiegati.

Zona di formatura nella filiera

Le filiere (die) o teste di estrusione impiegate nella processazione dei polimeri sono canali metallici o restrizioni che servono ad impartire una specifica forma alla corrente di polimero fuso che vi fluisce attraverso. Principalmente le filiere sono impiegate nei processi di estrusione per produrre in modo continuo prodotti polimerici quali tubi, film, fogli, fibre e profilati di forma complessa. Il die, che ha la funzione di modellare la resina fusa in una certa forma, assume quindi un ruolo fondamentale per la definizione di aspetti relativi alla qualità del prodotto come l’aspetto esterno, la rugosità superficiale, l’uniformità dello spessore e la degradazione del materiale, legata a lunghi tempi di residenza ed alte temperature [23].

La filmatura in bolla

2.2

Con questa tecnologia si possono produrre film di lunghezza infinita, di larghezza variabile da pochi centimetri a diversi metri, con range di spessori di 15÷500µm [24]. Vengono processsati con questa tecnica soprattutto PE, PP, PVC, PS e Nylon, per produrre film da imballaggio, shoppers, sacchi per immondizia, involucri per alimenti.

Il processo prevede l’estrusione del polimero fuso attraverso una apposita filiera circolare, il die, che dà origine ad un film sottile di forma tubolare nel quale viene insufflata aria, tramite un orifizio sulla testa dell’estrusore, ottenendo così l’espansione del diametro della “bolla” e una forte riduzione dello spessore. Espandendosi, la bolla viene stirata in direzione circonferenziale, quindi trasversale rispetto alla direzione di macchina (CD). La bolla viene raffreddata tramite un getto d’aria, cooling air stream, per ottenere il film che solidifica all’altezza di quella che viene definita linea di gelo, o frost line. L’efficienza di rimozione del calore dipende principalmente da tre fattori: la velocità, la temperatura e l’umidità dell’aria. Contemporaneamente la bolla solidificata viene indirizzata, tramite dei rulli di guida, guide rolls, ad una coppia di rulli, nip rolls, che la fanno collassare e la stirano portandola quindi al sistema di raccolta e

(21)

18 avvolgimento del film. L’avvolgitore stira il film provocando l’allungamento in direzione di macchina (MD). In Figura 7 è riportata una schematizzazione del processo di est rusione in bolla.

Figura 7: Schematizzazione del processo di estrusione in bolla

La pressione interna dell’aria nella bolla ed il tiraggio assiale concorrono quindi all’orientazione bi-assiale del film. La quantità di aria all’interno della bolla, invece, in condizioni di regime, è costante e piccole perdite sono compensate da aria che viene soffiata all’interno in modo che resti costante la pressione [20]. La distanza tra la filiera ed i rulli, all’apice dei piani, e l’angolo dei piani sono fattori importanti per la determinazione del tempo di raffreddamento della bolla. Inoltre la velocità di stiro (take-off ), che solitamente limita l’output della macchina, deve essere definita in modo particolarmente accurato per ottenere specifiche caratteristiche del prodotto [25].

Il processo di film blowing è più efficacemente utilizzato rispetto all’estrusione a testa piana (film casting) con cui infatti è prodotto un minore quantitativo di film.

(22)

19 I principali vantaggi associati a questo processo di filmatura sono:

• continuità del processo;

• produzione di film tubolari in una singola operazione;

• regolazione delle dimensioni della circonferenza e dello spessore del film tramite il controllo del volume d’aria insufflata nella bolla, dei parametri del processo di estrusione e della velocità di tiraggio del film;

• eliminazione di effetti associati alla disomogeneità della temperatura che possono, invece, risultare con il processo di film casting;

• produzione di film con orientazione bi-assiale che garantisce l’uniformità ed il miglioramento delle proprietà meccaniche ed ottiche del prodotto, rispetto ai film prodotti per cast.

La chimica del polimero e la sua struttura molecolare sono evidentemente fondamentali per determinare le proprietà finali del film estruso, tuttavia anche la geometria della bolla risulta molto significativa. L’orientamento molecolare e la struttura cristallina, infatti, determinate anche dalle dimensioni della bolla, influiscono sulla proprietà meccaniche ed ottiche della bolla.

Il processo di estrusione in bolla ha delle particolarità che lo differenziano anche dagli altri processi di estrusione, nella definizione dello standard qualitativo del prodotto. Innanzi tutto, nonostante i rulli guida che limitano la mobilità della bolla, questa presenta comunque dei gradi di libertà per quanto riguarda le variazioni dimensionali, che devono essere regolate agendo sulle variabili di processo. Questo dà la possibilità di ottenere film con le caratteristiche più varie, ma richiede che l’operatore abbia una notevole esperienza nella manipolazione dei parametri operativi, per poter padroneggiare l’interdipendenza con cui le diverse variabili, e cioè la velocità della vite, il volume di aria insufflato, la velocità dei rulli, il flusso di aria di raffreddamento, si riflettono sulle caratteristiche finali della bolla [20].

2.2.1 La geometria della bolla

La geometria della bolla dipende dall’influenza di diversi parametri di processo. Nel momento un cui fuoriesce dal die, la bolla ha un diametro ridotto e un notevole spessore che si riduce contemporaneamente alla formazione della bolla e all’accrescimento del suo diametro. Raggiunta una certa altezza il diametro diventa

(23)

20 costante. Con riferimento alla Figura 8 si considerano i seguenti parametri geometrici [20]:

• Diametro del die: è il diametro iniziale della bolla nel momento in cui fuoriesce dalla testa dell’estrusore:

Die gap: è lo spessore del fuso al momento della fuoriuscita dal die;

Altezza della linea di gelo (frost line): è la distanza tra il die e il punto in cui la bolla solidifica e il diametro della bolla stessa diventa costante;

Stelo (stalk): è la parte della bolla al di sotto della linea di gelo, in particolar modo quando questa parte è relativamente lunga;

• Diametro della bolla (BD): è il diametro costante che la bolla presenta al di sopra della frost line;

• Spessore del film: è lo spessore finale della bolla;

• Ampiezza del film (LF): è l’ampiezza di ciascuno dei due strati del film una volta collassato dopo i rulli di stiraggio ed è legato al diametro della bolla dalla relazione = 2 ∙ ⁄ .

Figura 8: Geometria della bolla

2.2.2 Variabili di processo

Le principali variabili di processo per determinare la geometria della bolla sono le seguenti:

• velocità del fuso; • velocità di tiraggio;

• volume interno della bolla; • velocità di raffreddamento.

(24)

21 La velocità del fuso è la velocità con cui il polimero fuoriesce dal die. Viene controllata tramite la velocità della vite. Aumentando la velocità della vite, lo spessore del film è maggiore così come il diametro della bolla e l’altezza della linea di gelo.

La velocità di tiraggio è la velocità con la quale la bolla passa attraverso i rulli che la fanno collassare, ed è costante al di sopra della linea di gelo. La velocità di tiraggio è superiore a quella di uscita dalla testa del polimero e questo provoca, oltre alla diminuzione dello spessore del film, la particolare struttura molecolare con orientamento biassiale caratteristico dell’estrusione in bolla. Aumentando la velocità di tiraggio si ha un aumento dell’altezza della linea di gelo ed un allungamento dello stelo, si ottiene un film più sottile e molto orientato in direzione della macchina (MD).

Il volume della bolla è determinato dalla quantità di aria insufflata; è evidente che tanto maggiore sarà il volume della bolla, tanto maggiore sarà il suo diametro, con corrispondente diminuzione dello spessore e dell’altezza della linea di gelo, dovuto a un raffreddamento più rapido.

Se la velocità dell’aria di raffreddamento aumenta, la rimozione del calore è più veloce quindi la bolla si raffredda prima, si abbassa la linea di gelo ed il diametro della bolla diminuisce. Il volume di aria risulta distribuito su una maggiore distanza e si verifica un aumento dello spessore del film.

2.2.3 Rapporti geometrici caratteristici

Per definire la geometria della bolla e il suo orientamento molecolare si utilizzano dei rapporti caratteristici che vengono determinati all’altezza della linea di gelo:

il rapporto di gonfiaggio o BUR (blow-up ratio): rapporto tra il diametro della bolla (Db) in corrispondenza della linea di gelo ed il diametro della

filiera. Il BUR è determinato dal livello di pressione all’interno della bolla, che comporta lo stiramento circonferenziale (CD); questo parametro è generalmente compreso tra 2 e 5 [25];

il rapporto di stiro o DR (draw ratio): rapporto tra la velocità di tiraggio (haul-off rate) e la velocità di estrusione. Il DR comporta l’entità dello stiramento in direzione longitudinale. La velocità dei rulli di tiraggio è la velocità con la quale il polimero attraversa la sezione di avvolgimento [22].

(25)

22 • il rapporto di formatura o FR (forming ratio) è il rapporto tra il DR ed il BUR ed indica il bilanciamento dell’allungamento in direzione trasversale ed in direzione di macchina [20];

• la deformazione totale subita dal polimero è pari al rapporto tra il valore dello spessore iniziale (eo) e quello finale (ef) [21]:

= ∙

Il DR ed il BUR determinano le deformazioni subite dal fuso polimerico e quindi l’orientazione e le proprietà finali del film nelle due direzioni. Per calcolare il valore del BUR, noto il diametro della filiera, si ricava il diametro della bolla da misure delle dimensioni del film steso (lay flat o LF) mediante la formula:

= 2 ∙ ⁄

Per calcolare il DR sono necessarie la velocità di tiraggio dei rulli, impostata dall’operatore, e la velocità del fuso che esce dalla filiera, relazionata alla velocità della vite. Per calcolare la velocità si può usare il principio di conservazione della massa (m):

∙ ∙ = ∙ ∙

= − ⁄

= = ∙ ≥ 1

dove ρ è la densità, Vf la velocità del cilindro, Vm la velocità del fuso che esce dalla

vite e R0 ed Ri il raggio esterno ed interno rispettivamente [20]. 2.2.4 Irregolarità ed instabilità della bolla

Un requisito importante da garantire in fase di processo è la stabilità della bolla in modo da consentire operazioni continue ed ottenere una geometria uniforme del materiale estruso. Questa condizione dipende dal tipo di materiale impiegato, dalle condizioni operative e dall’instabilità nel flusso.

(26)

23

Le irregolarità della bolla

La variabilità dello spessore può essere una forma di instabilità dipendente dal tempo o dalla posizione. Se dipendente dal tempo, lo spessore può variare in direzione di macchina a causa di differenze di temperatura di filiera che modificano il flusso del polimero e sono originate da raffreddamento non uniforme [20]. Se la variazione dello spessore dipende dalla posizione, allora per minimizzare le variazioni locali di spessore del film è necessario un sistema di regolazione che consenta di studiare la superficie della bolla [23].

Le irregolarità descritte in seguito riguardano invece la superficie del film. Il fenomeno del melt fracture si configura come un difetto estetico sulla superficie del film (simile ad onde); si verifica soprattutto a causa di un eccessivo shear stress del fuso che passa dalla filiera. Il design del canale di estrusione può influenzare il verificarsi delle instabilità in ingresso e in fase di deformazione del materiale [26]. Sulla superficie della bolla in direzione di macchina si possono rilevare anche le linee di filiera. La presenza di queste imperfezioni riduce l’estetica del film,le proprietà ottiche del film e le proprietà di resistenza a puntura. I gels, invece, sono globuli piccoli e duri presenti nel film, e sono in realtà costituiti da materiale non fuso. Le problematiche connesse alla presenza dei gels sono di natura sia estetica sia meccanica, poichè tali imperfezioni come punti di concentrazione degli sforzi [20].

Le instabilità della bolla

L’instabilità delle bolle si manifestano come variazioni della forma della bolla nel tempo, originate dalle variazioni dello stiramento del fuso al di sotto della linea di gelo (Figura 9).

(27)

24 Si possono riassumere schematicamente come:

bubble instability (BI): quando la bolla è gonfiata con un notevole

quantitativo di aria si osserva generalmente una asimmetrica fluttuazione periodica del diametro della bolla. Questa continua variazione del diametro della bolla è causata da valori troppo alti di DR e del prodotto (DR · BUR). Il valore del DR si può abbassare aumentando la velocità della vite;

helical instability (HI): presenza di protuberanze nella bolla che ruotano intorno alla circonferenza e moto elicoidale della bolla tra l’uscita della filiera e l’altezza dei rulli di tiraggio. Questo fenomeno è attribuibile alla presenza di una linea di gelo troppo bassa che quindi non permette all’aria di raffreddamento di fluire adeguatamente; si verifica con alti valori di BUR. L’instabilità si può risolvere con altezze maggiori della linea di gelo ovvero con un aumento della portata del fuso;

frost line oscillation (FLHI): questo comportamento, definito metastabile, è

osservato quando il diametro della bolla resta invariato ma sia l’altezza della linea di gelo sia la tensione della bolla fluttuano seguendo una funzione a gradino (Figura 10). Questo fenomeno è originato da instabilità in alimentazione e da variazione delle condizioni ambientali [27].

Figura 10: Frost-line oscillation

bubble tear: si verifica per eccessivo stiro del film in corrispondenza dell’uscita della filiera; può portare a rotture quando il film è tirato o raffreddato troppo velocemente. Una possibile soluzione a questo fenomeno è l’aumento della temperatura della filiera e la diminuzione del DR;

bubble flutter: si verifica quando la linea di gelo è troppo bassa e si manifesta con vibrazioni sulla bolla causate dal flusso dell’aria di raffreddamento. Una soluzione consiste nel variare l’altezza della linea di gelo;

(28)

25

bubble breathing: si verifica a causa dell’aumento e della diminuzione

periodica del volume di aria interna alla bolla.

2.2.5 Caratterizzazione del film

Mediante questo processo di lavorazione si producono film polimerici con orientazione biassiale. Le proprietà finali conferite al film dipendono dal polimero impiegato e dalle condizioni di processo, come schematicamente riassunto in Figura 11. Il processo di filmatura in bolla è infatti possibile solo se il polimero possiede i giusti requisiti, soprattutto reologici. Poichè il polimero, durante l’espansione della bolla, deve subire una orientazione senza rompersi, è indispensabile un’alta resistenza del fuso (melt strength). L’operazione di formatura della bolla è controllata, inoltre, dalle seguenti condizioni di processo:

• quantità di aria di raffreddamento; • quantità di aria all’interno della bolla; • velocità dei rulli di traino;

• temperatura del fuso; • il diametro del die.

In generale è noto che le proprietà del film prodotto dipendono dalla morfologia assunta dal polimero in fase di formatura. Nella regione di formazione della bolla l’orientazione delle tensioni agisce sulla entità della cristallizzazione.

Per comprendere la dipendenza delle proprietà del film dal tipo di polimero e dalle condizioni di processo si possono o seguire modelli viscoelastici costitutivi, che interpretano gli stress osservati sperimentalmente con aspetti di reologia dei polimeri, o seguire correlazioni tra gli stress sviluppati all’altezza della linea di gelo e le proprietà finali dei film [24].

(29)

26

Comportamento reologico dei fusi polimerici

I fusi polimerici non si presentano come liquidi puramente viscosi ma esibiscono una sostanziale elasticità, perciò le loro proprietà risultano intermedie tra quelle dei fluidi ideali e quelle dei solidi Hookiani ovvero presentano comportamento viscoelastico [26].

Il comportamento viscoelastico dei fusi polimerici si manifesta osservando come si presenta un fuso che entra nella filiera di estrusore. A causa della pronunciata variazione della sezione trasversale si manifesta una caduta di pressione in ingresso alla filiera e parte di questa deformazione è accumulata elasticamente nel fuso polimerico. All’uscita della filiera queste deformazioni elastiche sono rilasciate ed il materiale estruso rigonfia (die swell). Le macromolecole del fuso polimerico, disordinatamente aggrovigliate, si orientano ad ampio raggio lungo la direzione della deformazione e del flusso ma al contempo presentano alcuni riarrangiamenti macromolecolari nel tempo (rilassamento). Il processo di rilassamento comporta una lenta riduzione dell’orientazione anche quando il materiale viene fuori dalla filiera.

Il tempo richiesto per il passaggio dallo stato orientato al rilassamento diminuisce con l’aumento della temperatura, dal momento che all’innalzamento della temperatura sono connessi l’incremento della mobilità molecolare e del volume libero disponibile. La storia termica e di deformazione che il polimero ha subito in fase di processo potrebbero influenzare la microstruttura e le proprietà finali del film: si parla perciò di effetto memoria o di memoria del fluido.

La processabilità di un polimero dipende principalmente dal suo comportamento reologico ovvero alle sue proprietà di flusso sotto l’azione di sforzi di taglio (shear), collegate anche a differenze nella architettura molecolare ovvero alla presenza di ramificazioni o di componenti ad alto peso molecolare.

La morfologia del film

Per cercare di controllare le proprietà del film polimerico prodotto, è importante considerare l’impatto delle condizioni di processo sulla struttura risultante. L’orientazione molecolare nel processo di film blowing è il risultato di una complessa interazione tra la reologia del polimero ed i parametri di processo. Il processo di cristallizzazione in flussi polimerici è considerevolmente differente da quella di fusi in quiete. Dal momento che l’orientazione (segmentale) delle

(30)

27 macromolecole in un flusso fuso può provocare la formazione di un più ampio numero di nuclei, il grado di cristallizzazione può aumentare considerevolmente e la temperatura di cristallizzazione può innalzarsi.

L’effetto del sottoraffreddamento del fuso però sembra controbilanciare l’aumento dell’entità della cristallizzazione, dovuto all’orientazione delle macromolecole nella regione di formazione della bolla [24]. Inoltre, stirando il film in una o entrambe le direzioni, di solito quando abbastanza rigido e freddo, le molecole sono srotolate ed allineate e come risultato si ottiene che il film diviene più resistente [25]. Le poliolefine sono i polimeri maggiormente impiegati nell’industria di produzione di film polimerici dal momento che presentano rapida velocità di cristallizzazione con tempi di raffreddamento dell’ordine di 1.5 ÷ 5 secondi [23]. In letteratura si riscontra che per film polimerici di HDPE ottenuti per estrusione in bolla, le macromolecole nel fuso polimerico non presentano elevata orientazione che però aumenta nella regione in cui viene formata la bolla [24]. L’orientazione aumenterebbe in particolar modo a causa dell’incremento della velocità di cristallizzazione e del controllo sulla direzione di crescita dei cristalli. Sperimentalmente questo processo di cristallizzazione è stato definito in due stadi. Nel primo stadio si formerebbero cristalli a forma di lamelle (Figura 12) aventi l’orientazione lungo la direzione degli stress principali (asse c), ma con catene che si sviluppano in una direzione perpendicolare agli stress (l’asse b) formando una struttura a spiedino. Nel secondo stadio, le lamelle crescerebbero attorcigliandosi attorno all’asse b, formando però cristalli di piccola dimensione dato l’elevato numero di nuclei; di conseguenza il numero di spirali è molto piccolo.

Figura 12: Modello di cristallizzazione del PE e morfologia dei cristalli.

Le superfici dei film di PE prodotto per estrusione in bolla sarebbero quindi composte da sottili lamelle che si accumulano le une sopra le altre con le loro normali allineate nella direzione di estrusione. La distribuzione di tali pacchetti di

(31)

28 lamelle dipende dalla direzione degli stress principali. La morfologia riscontrata sperimentalmente per film di LDPE ed LLDPE sembra in stretta connessione con i parametri di processo, come il BUR e il DR, e l’entità e la direzione degli stress applicati.

2.2.6 Proprietà del film

Le proprietà principalmente considerate per valutare i film prodotti per estrusione in bolla sono:

• proprietà meccaniche; • proprietà ottiche;

• proprietà connesse al materiale base.

Proprietà meccaniche

I parametri che maggiormente influenzano le proprietà meccaniche dei film sono: • stiro longitudinale (DR);

• rapporto di soffiaggio (BUR); • temperatura del fuso;

• portata del fuso;

• velocità di raffreddamento.

Con l’aumento di questi parametri, crescono il modulo elastico e la tensione a rottura ma diminuisce l’allungamento a rottura. Le proprietà meccaniche sono influenzate dagli stress alla linea di gelo, in quanto questi sono in stretta correlazione con l’aspetto morfologico del film e quindi con la cristallizzazione. Secondo quanto indicato in letteratura, le varie proprietà meccaniche (modulo elastico longitudinale e trasversale, la resistenza a trazione, il comportamento a snervamento e a rottura) sono in stretto collegamento con il draw ratio (DR) e con gli stress all’altezza della frost line, indipendentemente dal tipo di LDPE, dalla geometria dello stampo, dallo spessore del film e dalle condizioni di processo applicate. I film di LDPE ottenuti per estrusione in bolla comunemente presentano i valori dei moduli in direzione trasversale che eccedono quelli in direzione longitudinale. Dal momento che la morfologia dipende dagli stress applicati sul film in corrispondenza della linea di gelo e che il modulo è una proprietà elastica lineare, ci si aspetterebbe che per uguali stress applicati alla linea di gelo si

(32)

29 avessero moduli uguali. Da prove meccaniche, riportate in letteratura, condotte sui film di LDPE emerge che aumentando il DR, aumenta lo stress tensile e diminuisce l’allungamento a rottura. Inoltre emerge che indipendentemente dal tipo di LDPE impiegato, dalla geometria della filiera e dalle condizioni di processo, applicando stress uguali alla linea di gelo si riscontra:

• in direzione di macchina (MD): incremento degli sforzi tensili e diminuzione degli allungamenti a rottura;

• in direzione trasversale (CD): diminuzione degli sforzi tensili e dell’allungamento a rottura [24].

Tutti i parametri elencati causano delle variazioni della linea di gelo e della forma della bolla. A parità di rapporto di stiro DR, la forma della bolla ha una notevole importanza soprattutto sull’orientazione trasversale. In particolare, una bolla di tipo (A) presenterà una maggiore orientazione trasversale rispetto alla bolla di tipo (B) (Figura 13).

Figura 13: Possibili forme della bolla.

Per una bolla di tipo (A) l’orientazione in senso longitudinale avviene nella zona vicino all’uscita dalla filiera che è ad alta temperatura, bassa viscosità e bassi tempi di rilassamento ovvero si manifesta un parziale rilassamento dell’orientazione. L’orientazione in senso trasversale avviene invece più in alto, a temperature minori, e quindi è congelata più facilmente. Bolle di questo tipo si ottengono quando la linea di gelo e le velocità di raffreddamento sono alte. Per una bolla di tipo (B) le due orientazioni avvengono quasi nella stessa zona e sono congelate nello stesso tempo, quindi sono bilanciate in entrambe le direzioni.

In corrispondenza di alte linee di gelo (bolle di tipo (A)) aumentano le proprietà meccaniche in direzione trasversale. In particolare lo sforzo tensile è funzione

(33)

30 anche della materia prima, dei diversi gradi dei polimeri, degli additivi impiegati ed è sensibile al processo di estrusione. Un eccessivo apporto di calore comporta degradazione del polimero riducendone le proprietà meccaniche. Il tempo di residenza e la manutenzione della filiera minimizzano la degradazione del polimero.

Proprietà ottiche

Per comprendere come le proprietà ottiche di film estrusi in bolla sono influenzate dal materiale di partenza e dalle condizioni di processo è necessario considerare alcune teorie secondo le quali le proprietà ottiche dipendono dalla qualità superficiale del film e non dalle caratteristiche del bulk. La qualità superficiale del film è legata in gran parte ai difetti di estrusione originati dal flusso interno all’estrusore ed all’uscita della filiera.

La produzione di film estrusi in bolla a partire da fusi polimerici che presentano comportamento altamente elastico, dovuto ad un’ampia distribuzione dei pesi molecolari e a catene polimeriche con lunghe ramificazioni, consente di ottenere film dalle moderate proprietà ottiche.

Da evidenze sperimentali emerge che le proprietà ottiche dei film ottenuti per estrusione in bolla tendono a migliorare con l’aumento del BUR e dipendono fortemente dal flusso all’interno della filiera piuttosto che dalla regione di formazione della bolla [24]. Il design della filiera può influenzare le proprietà ottiche del film. Le pareti parallele che costituiscono la filiera condizionano le tolleranze dimensionali così come la qualità del film; difetti sulla superficie del canale di flusso hanno un effetto particolarmente negativo sulle proprietà del prodotto risultante [26]. Nello specifico le proprietà ottiche di un film polimerico si quantificano mediante misure di brillantezza del film (gloss) ovvero quanta luce è riflessa dalla superficie del film; questa grandezza è funzione della levigatezza della superficie del film. Altri test invece forniscono misure relative alla trasparenza o chiarezza del film, ovvero quanta luce passa senza essere difratta, ed alla quantità di luce difratta (haze).

Le scarse proprietà ottiche di un film possono derivare da molte cause che però si possono dividere in due gruppi ovvero materiale e processo, come precedentemente affermato.

(34)

31 Relativamente al materiale si possono verificare contaminazione e separazione di fase di materiali incompatibili. La contaminazione si verifica in presenza di sporco, acqua e particelle di materiale degradato nell’estruso.

I problemi derivanti dal processo che causano basse proprietà ottiche sono linee di filiera, bassa velocità di raffreddamento, melt fracture ed instabilità interfacciale.

Proprietà connesse al materiale di base

Una proprietà connessa la materiale base è la densità del film, proprietà che dipende dal materiale ed è correlata al grado di cristallinità.

La viscosità del polimero, come descritto nei paragrafi precedenti, e, più in generale, la reologia di un polimero fuso risultano fondamentali per lo studio del comportamento del polimero fuso in fase di estrusione.

Il comportamento del flusso dipende da molte condizioni come la temperatura e lo shear rate. La viscosità può essere quantificata mediante misurazioni con reometro capillare [20].

Il melt index, invece, misura quanti grammi di fuso si possono estrudere in 10minuti. Questo test, condotto secondo la ASTM D1238, è frequente impiegato a livello industriale dal momento che fornisce un’indicazione qualitativa del peso molecolare del polimero, secondo una relazione di inversa proporzionalità.

(35)

32

3.

MATERIALI E METODI

Riblene

3.1

Il polimero utilizzato per questo lavoro di tesi è un polietilene a bassa densità (LDPE), un materiale termoplastico molto diffuso e di basso costo. Si presenta sottoforma di pellets, di colore bianco traslucido, con una struttura a catena ramificata. Ha caratteristiche di buona flessibilità, resistenza alla corrosione e bassa permeabilità al vapore d’acqua. Rispetto al polietilene a catena lineare, la struttura a catena ramificata comporta caratteristiche meccaniche inferiori, poiché diminuiscono le forze di legame intermolecolare, oltre al grado di cristallinità e alla densità. In letteratura il polietilene a bassa densità è stato utilizzato in miscela con idrolizzato proteico e processato mediante estrusione in bolla.

Il polietilene utilizzato è il Riblene FF30 della Eni-Versalis (Milano, Italia), mostrato in Figura 14, le cui proprietà sono riassunte in Tabella 1.

Tabella 1: Proprietà del polietilene utilizzato.

Nome Tipo Densità MFI Tfusione

Riblene FF30 LDPE 0.923 g/cm3 0.8 g/10 min 113 °C

Ha caratteristiche che lo rendono adatto alla lavorazione per filmatura in bolla, come un elevato peso molecolare e un basso MFI, oltre ad un’elevata tenacità del fuso che consente buona stabilità della bolla. In seguito il polietilene utilizzato verrà indicato con la sigla PE.

(36)

33

Idrolizzato proteico

3.2

La carica organica utilizzata in miscela con PE è l’idrolizzato proteico liofilizzato, derivante dall’operazione di rasatura del processo conciario. A seguito dell’operazione di concia, le pelli sono sottoposte al processo di rasatura al fine di equalizzarne lo spessore. La rasatura viene realizzata tramite la macchina rasatrice, che asporta il tessuto sottocutaneo dalla pelle già conciata e produce quindi un residuo costituito prevalentemente da collagene, grassi e sali. La struttura della pelle è schematizzata in Figura 15. La composizione chimica del tessuto sottocutaneo è riassunta in Tabella 2.

Figura 15: Struttura della pelle

Tabella 2: Composizione del tessuto sottocutaneo della pelle bovina.

Massa totale Massa secca

Acqua Proteine Grassi Ceneri Polisaccaridi

75 ÷ 87% 35 ÷ 60% 10 ÷ 35% 5 ÷ 7% 10 ÷ 14%

La macchina rasatrice (Figura 16a) è costituita da uno o più cilindri trasportatori in acciaio provvisti di scanalature, in genere ad eliche incrociate (Figura 16b), che hanno lo scopo di favorire il trascinamento delle pelli. Per pelli leggere si ha un solo cilindro trasportatore, mentre se ne hanno due per quelle pesanti. Il sistema trasportatore (Figura 17) è in genere a due velocità ed è azionato da un apposito

(37)

34 motore. Un cilindro gommato, sul quale è appoggiata la pelle, viene premuto per mezzo di un pedale contro il cilindro a lame, e contemporaneamente contro i cilindri trasportatori. La posizione del cilindro gommato, rispetto a quello a lame, è regolabile mediante leva o volantino, in modo da adeguare il cilindro allo spessore della pelle. Nei modelli più recenti la regolazione del cilindro di appoggio viene fatta automaticamente.

(a) (b)

Figura 16: Macchina rasatrice (a) e particolare del cilindro a lame (b).

Figura 17: Principio di funzionamento di una macchina rasatrice.

Il residuo dell’operazione di rasatura (chiamato a sua volta rasatura) subisce una serie di lavorazioni che portano all’ottenimento dell’idrolizzato proteico in polvere. Il ciclo di lavorazione comporta le seguenti fasi:

• idrolisi alcalina delle proteine; • sgrassamento;

• depurazione e concentrazione in evaporatori a multiplo effetto; • liofilizzazione.

(38)

35 La rasatura viene macinata ed idrolizzata a 70-80°C a pH basico, trascorse alcune ore, la fase grassa saponificata, meno densa, viene sfiorata alla superficie mentre la fase proteica viene recuperata dal fondo del separatore. Successivamente la fase grassa saponificata viene acidificata per favorire la riformazione del grasso. La fase proteica, invece, viene ”grigliata” per eliminare i pezzi più grossolani che non si sono sciolti e successivamente viene sterilizzata a 131°C per 2 ore. Viene in seguito filtrata per eliminare la componente organica insolubile, quindi ossidata per eliminare i solfuri e decalcificata. Infine viene concentrata in un sistema di evaporatori a multiplo effetto e liofilizzata. L’idrolizzato proteico è una sostanza completamente solubile in acqua e notevolmente igroscopica, composta prevalentemente da una frazione organica, una inorganica e da acqua.

Per quanto riguarda la frazione organica (proteica), dall’analisi della composizione chimica risulta che l’amminoacido presente in maggior quantità è la glicina, che è infatti il maggior costituente del collagene (una molecola su tre), con prolina e idrossiprolina. La struttura dei tre amminoacidi è mostrata in Figura 18.

Il processo di idrolisi provoca la rottura della struttura collagenica che si separa in oligopeptidi e amminoacidi liberi. Questo influenza anche il peso molecolare medio dell’idrolizzato, che risulta chiaramente molto inferiore rispetto a quello che si avrebbe se la struttura collagenica non fosse degradata.

(a) (b) (c) Figura 18: Struttura della glicina (a), prolina (b) e idrossiprolina (c).

La frazione inorganica è costituita principalmente da sali, derivanti dai trattamenti di conservazione delle pelli mediante salatura, in particolar modo da cloruro di sodio. Si rileva anche la presenza di calcio, dovuta all’impiego di idrossido di calcio in fase di depilazione (calcinaio).

Sono presenti tracce di metalli pesanti, in particolare di cromo, i cui sali sono utilizzati nel processo di concia.

L’idrolizzato proteico è stato fornito dalla S.G.S s.p.a di Santa Croce sull’Arno (Pisa, Italia) e verrà indicato in seguito con la sigla HC (Hydrolyzed Collagen). Si

(39)

36 presenta in forma di polvere di colore giallo chiaro, leggermente appiccicosa e dall’odore caratteristico (Figura 19).

Figura 19: Idrolizzato proteico liofilizzato.

Compatibilizzanti/fluidificanti

3.3

L’aggiunta di una carica organica ad un materiale polimerico porta quasi sempre alla formazione di miscele eterogenee, dove la fase dispersa (carica) è immiscibile con la matrice (polimero). Il blend così ottenuto ha scarse proprietà meccaniche, a causa della ridotta capacità di trasferimento degli sforzi tra le due fasi [28]. Per migliorare la miscibilità e l’adesione tra fase dispersa e matrice è necessario aggiungere un compatibilizzante. Il compatibilizzante può essere reattivo o non reattivo. Nel primo caso, la molecola di compatibilizzante ha comportamento anfifilico: una parte della molecola è miscibile con una fase, una seconda parte è miscibile con l’altra fase. Il compatibilizzante non reattivo si colloca all’interfaccia tra le due fasi immiscibili, riducendo la tensione interfacciale del sistema. Un compatibilizzante reattivo invece è composto da macromolecole miscibili con una delle due fasi del composito, che presentano gruppi funzionali capaci di reagire con l’altra fase. Un esempio sono i compatibilizzanti aggraffati, che possono essere prodotti a parte e poi aggiunti agli altri componenti del composito, oppure possono essere generati in situ durante il processamento del materiale, aggiungendo dei composti che legandosi alle catene polimeriche vanno a costituire i gruppi funzionali aggraffati, reattivi verso l’altra fase. Nel caso di materiali compositi a matrice polimerica e carica organica, data la presenza di numerosi gruppi reattivi

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