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Academic year: 2021

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Copyright © FrancoAngeli

This work is released under Creative Commons Attribution - Non-Commercial - NoDerivatives License. For terms and conditions of usage please see: http://creativecommons.org/.

Contro-editoriale

Bruno G. Bara

*

[Ricevuto il 15 novembre 2019 Accettato il 17 dicembre 2019] Il numero monografico che state leggendo è stato curato da Fabio Monticelli, con me nel ruolo di suo consulente quasi nullafacente. Al momento di scrivere una introduzione congiunta, emergono però le differenze sostanziali fra le rispettive visioni sulla relazione terapeutica. Mi sembra giusto rispettare le idee di Fabio, ma mi sembra necessario esplicitare la mia posizione, divergente ma non troppo.

Sono d’accordo sulla sua definizione di relazione, un ottimo punto di partenza per intendersi. Poi iniziano i guai. Monticelli, accompagnato dai clinici anglosassoni che cita, considera la sua utilizzazione principalmente come strumento per riparare le crisi di alleanza fra terapeuta e paziente. Non credo sia utile restringere il concetto di relazione a quello di tecnica di ripristino di alleanza: la relazione serve a costruire la relazione e a tenerla viva con un costante monitoraggio. Certamente nel momento della crisi diventa cruciale, ma attivarla quasi esclusivamente in quel caso diventa problematico, anche perché la coppia non è abituata a lavorarci sopra, e quindi il paziente vive la sua esplicita chiamata in causa come segnale che qualcosa non va (in lui, non nella coppia: forse ha fatto o detto qualcosa di sbagliato, e il terapeuta si sta risentendo).

Il concetto stesso di crisi dell’alleanza mi vede perplesso: quando il paziente agisce in seduta le proprie modalità interpersonali patologiche, è per me il momento cruciale dell’intera terapia, una occasione importante per vivere insieme la difficoltà del paziente di stare con gli altri, e magari anche

* Professore emerito di Psicologia, Università di Torino, Didatta SITCC. e-mail: bruno.

bara@unito.it

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Bruno G. Bara

una possibilità di sperimentare in modo condiviso uno schema diverso da quello usuale patologico. Nei miei termini si tratta di un disallineamento, non di una crisi, di qualcosa cioè che permette di approfondire il lavoro congiunto: a patto naturalmente che il terapeuta sappia cogliere l’occasione senza spaventarsene (oddio, la crisi! E ora che faccio?).

Infine, pazienti con diversi livelli di gravità pretendono modalità relazionali differenti: se mi rapporto con un narcisista come mi rapporto con un ansioso non farò grande strada come clinico. E allora parlare di auto-svelamento con pazienti gravi va benissimo, ma pretendere che sia la modalità fondamentale di relazione coi pazienti è fuorviante: con i nevrotici è semplicemente un errore tecnico, usualmente dovuto alla stanchezza del terapeuta o un burn-out in agguato. Monticelli si occupa di casi gravi, va dunque rispettato per la prassi, ma richiamato per la teoria: l’auto-svelamento non può essere applicato a prescindere dalla diagnosi. Se lo si fa automa-ticamente, sorgono tutti i problemi che sappiamo, di pazienti (nevrotici) invasi dai vissuti di terapeuti stanchi o distratti.

Concordo totalmente sull’effetto potente che ha per il paziente ogni intervento terapeutico che si focalizzi su quel che sta accadendo nel qui e ora della seduta, ma sottolineo come nel caso di pazienti nevrotici (vale a dire quelli non gravi ma difficili perché più simili al terapeuta) la tecnica principe sia la condivisione priva di giudizio, e non l’auto-svelamento.

La necessità di utilizzare tecniche relazionale differenti va a parer mio cercata nella deficitaria competenza metacognitiva dei pazienti con disordini di personalità: il terapeuta non può sfruttare la consapevolezza su di sé del paziente, e dunque è obbligato a trovare altre vie, fra cui quella di vicariare il deficit altrui con una propria esposizione. Cambia l’assetto del terapeuta, indietro rispetto al nevrotico, di fianco o in avanti rispetto al paziente con un disturbo borderline di personalità; cambia il ritmo della seduta, lento coi nevrotici, serrato coi disturbi borderline di personalità.

Altre cose cambiano, per le quali rimando al mio Il terapeuta relazionale (2018), ma ad una almeno è utile accennare in chiusura: il coinvolgimento emotivo del terapeuta nelle due situazioni, la difficoltà percepita e il piacere provato.

Lasciamo ora spazio al lettore, che si formi liberamente la sua opinione.

BIBLIOGRAFIA

Bara B.G. (2018). Il terapeuta relazionale. Tecnica dell’atto terapeutico. Torino: Bollati Boringhieri.

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