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I Cadolingi e la signorilizzazione: trasformazione dei poteri, strategie politiche e strutture familiari

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di Laurea in Storia e Civiltà

I Cadolingi e la signorilizzazione: trasformazione

dei poteri, strategie politiche e strutture familiari

Relatore:

Simone Maria Collavini

Tesi di Laurea di:

Marialuisa Mulas

Controrelatore:

Mauro Ronzani

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Sommario

Introduzione _____________________________________________________________________ 5

I. La "rivoluzione feudale" ________________________________________________________ 13

1.1 Il dibattito storiografico _______________________________________________________ 13 1.2 La mutazione feudale in Italia __________________________________________________ 29

II. I possedimenti dei Cadolingi ____________________________________________________ 42

2.1 Fondazioni religiose _________________________________________________________ 42 2.2 Castelli ____________________________________________________________________ 60 2. 3 Curtes ____________________________________________________________________ 64 2.4 Clientele___________________________________________________________________ 72 2.5 Conclusioni ________________________________________________________________ 81

III. La trasformazione in senso signorile dei Cadolingi _________________________________ 84

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Introduzione

La famiglia dei Cadolingi è testimoniata dalle fonti a partire dal 923 e si estingue con la morte del suo ultimo conte, Ugo, nel febbraio del 1113. Nonostante l'arco di tempo relativamente breve in cui si colloca la loro azione, i Cadolingi hanno lasciato la loro impronta sulla storia della Toscana, vivendo le vicende del loro tempo da protagonisti di primo piano e qualificandosi come dei precursori di molte tendenze che si vedranno pienamente realizzate solo ben dopo la loro scomparsa. Si tratta di una famiglia comitale, che per gran parte della sua storia compete per il controllo della città di Pistoia con la famiglia rivale dei Guidi, per poi cedervi completamente. Questo controllo instabile sulla città fu forse una delle ragioni della loro precoce creazione di un comitato eminentemente rurale. Nell'arco di appena sette generazioni riuscirono a espandersi a macchia di leopardo su un territorio per l'epoca molto vasto, spaziando tra i territori di Pisa, Lucca, Pistoia, Firenze, Volterra, arrivando persino al confine col territorio di Bologna. Benché questa dominazione non sia consistente all'interno dell'area qui indicata, è caratterizzata da nuclei di potere situati in coincidenza con le principali vie di transito dell'epoca, una scelta non casuale da parte della famiglia. In queste aree di interesse i Cadolingi stabiliscono delle strutture per il controllo del territorio di varia natura (monasteri, chiese private, castelli, curtes, clientele), con un modello che pare ripetersi uguale nelle sue forme nelle pur diverse direttrici di espansione perseguite dalla famiglia.

La loro importanza ha fatto sì che allo studio di questa famiglia si siano dedicati, chi più assiduamente e chi di passaggio, una schiera di illustri studiosi. La scomparsa repentina della famiglia, in un momento in cui ancora questa era in espansione e non in decadenza, ha suscitato l'interesse degli storici sin dall'età moderna. Già nel Seicento vi si dedica l'Ughelli, il quale fa arrivare la loro discendenza senza interruzione fino ai conti di Marsciano. Nell'Ottocento abbiamo altri fantasiosi tentativi di ricollegare questa famiglia a stirpi più recenti, per cui il

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Gamurrini vi fa risalire gli Opizinghi di Pisa, e Passerini arrivò persino a farvi risalire l'albero genealogico dell'allora regnante Napoleone III1. Nella monumentale opera di Robert Davidsohn2 vari esponenti della famiglia ricorrono nelle varie pagine, di cui alcune dedicate

proprio a descrivere la mancanza di scrupoli con cui seppero farsi avanti nel panorama toscano, cambiando partito a seconda dei loro interessi. In seguito, Natale Rauty ne parla nella sua Storia

di Pistoia (1988)3, soprattutto relativamente alle prime generazioni, più strettamente legate alla città, come si evidenzia dalla tradizionale donazione alla chiesa di S. Zeno, che per i primi conti sembra costituire un rito di passaggio. Importante anche il contributo di Rosanna Pescaglini Monti4, la cui ricerca si sviluppa proprio a partire dai possedimenti dei Cadolingi in Valdinievole e nel Valdarno inferiore, per poi concentrarsi sui decenni successivi alla scomparsa della stirpe, e alle lotte che sorsero intorno al possesso di questi territori. Maria Elena Cortese nei suoi libri sull'aristocrazia toscana5 offre uno sguardo d'insieme sul panorama aristocratico di cui i Cadolingi facevano parte. Pur non essendo al centro della sua attenzione, le vicende della famiglia continuano a ricorrere nella trattazione, focalizzandosi principalmente sui loro castelli e monasteri nel Valdarno, ma toccando anche i loro possedimenti in Valdelsa, Val di Sieve e Val di Bisenzio, arrivando sino ai possedimenti lungo l'appennino bolognese. Una trattazione più sistematica di quest'ultimo territorio la troviamo nel saggio in proposito pubblicato da Renzo Zagnoni6. In maniera più fugace, troviamo notizie sui Cadolingi anche nei

1

H. Schwarzmaier, «Cadolingi», in Dizionario Biografico italiano, vol. 16, 1973, Treccani,

https://www.laleggepertutti.it/225229_come-citare-un-sito-internet. 2

R. Davidsohn, Storia di Firenze, Sansoni, Firenze, 1956. 3

N. Rauty, Storia di Pistoia, vol. I: Dall'alto Medioevo all'età precomunale (406-1105), Felice le Monnier, Firenze, 1988.

4

R. Pescaglini Monti, Toscana medievale: pievi, signori, castelli, monasteri (secoli X-XIV), Pacini Editore, Pisa, 2012.

5

M. E. Cortese, L'aristocrazia toscana: sette secoli (VI-XII), Fondazione centro italiano di studi sull'alto medioevo, Spoleto, 2017 e Signori, castelli e città: L'aristocrazia del territorio fiorentino tra X e XII

secolo, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 2007.

6

R. Zagnoni, I conti Cadolingi nella montagna oggi bolognese (secoli X-XII), in Il Medioevo nella

montagna tosco-bolognese, uomini e strutture in una terra di confine, Gruppo studi Valle Reno, Porretta

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7

testi di Maria Luisa Ceccarelli7 e di Giampaolo Francesconi8, rispettivamente dedicati ai

monasteri di Santa Maria di Morrona e di Rosano. Ancora, si ricorda l'intervento nel Bollettino

storico pistoiese di Biagio Civale9, dedicato alle prime generazioni della famiglia. Pur non

mettendo in discussione il merito degli studi precedenti, che costituiscono pur sempre una guida per questa ricerca, come appare evidente da queste poche righe, ognuno di questi studi pare o non dedicarsi in particolare ai Cadolingi, o avere una specificità areale o temporale che non mira ad abbracciare tutto l'ambito di azione della famiglia. Questo ha anche impedito che si formassero delle ipotesi generali sul loro operato e sulle ragioni, e i progetti, che li guidarono, nonché sull'interazione di questi con gli sconvolgimenti del loro tempo. L'obiettivo che questa tesi si propone è proprio quello di contribuire ad ampliare lo sguardo dal punto di vista geografico e cercare di individuare delle linee di tendenza all'interno dell'operato della famiglia analizzato in maniera organica.

La storiografia europea, a partire dalla metà del secolo scorso, si è distanziata dall'idea di continuità di Marc Bloch, fino ad allora rimasta incontestata, grazie al lavoro di Georges Duby. Quest'ultimo nella sua these sulla contea di Macôn, dei primi anni '50, ha proposto per la prima volta il modello storiografico della mutazione feudale (mutation féodale), che è stata riscoperta negli ultimi anni. L'intento di questo modello è quello di spiegare il cambiamento avvenuto tra 800 e 1100 nelle strutture di potere a livello europeo. Questo cambiamento è molto studiato, perché si tratta di uno sviluppo che segna una cesura nella periodizzazione, distinguendo Alto e Basso Medioevo; oltre a questo, per molti studiosi è proprio questo il momento in cui si lascia

7

M. L. Ceccarelli, Tra Volterra e Pisa: il monastero di Santa Maria di Morrona nel Medioevo (secoli

XI-XIII), in La badia di Morrona e il suo territorio nel Medioevo e in età moderna, Pacini, Pisa, 2008,

(Biblioteca del «Bollettino storico pisano», 55). 8

G. Francesconi, Il Principato e la devozione I Guidi, l’abbazia di Rosano e la Croce dipinta, in La

Croce dipinta dell'Abbazia di Rosano, visibile e invisibile. Studio e restauro per la comprensione, Edifir,

Firenze, 2007, pp. 39-48. 9

B. D. Civale, I conti Cadolingi e i ceti eminenti nella iudicaria pistoriensis del X secolo, in «Bullettino Storico Pistoiese», III ser., 45, 2010, pp. 9-44.

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8

la storia antica e si gettano i primi semi della modernità. Duby individua la vera cesura non nel 900, alla fine della stirpe carolingia, come si era fino ad allora fatto, ma intorno al 1000, con il fenomeno dell'incastellamento e una nuova forma di potere signorile violento incentrato su questi castelli, che non si basava sulla proprietà fondiaria (seigneurie foncière), ma usurpava le prerogative del potere pubblico (seigneurie banale). Questa tesi ha dato vita a un periodo vivace di studi in cui questo modello venne applicato ad altre regioni della Francia e ampliato da altri storici, come Bonnassie che pubblicò una tesi più sistematica rispetto all'opera di Duby, o Fossier che contribuì alla teoria con la sua nozione di encellulement. La pubblicazione nel 1980 del libro di Poly e Bournazel rappresenta un punto chiave nello sviluppo del modello, integrando alla sua forma base alcuni aspetti fino ad allora solo accennati. Tuttavia, a partire dagli anni '90 questo modello è stato messo in dubbio, attraverso due dibattiti paralleli sviluppati nelle riviste Past and Present e Médiévales. I critici di questo modello si divisero in due correnti di pensiero: la prima, guidata da Dominique Barthélemy, sostenne un ritorno alla periodizzazione precedente, coincidente con la fine della dinastia carolingia, e criticando le fonti utilizzate per descrivere questo cambiamento repentino dai sostenitori del modello come faziose e inaffidabili. La seconda corrente, rappresentata da Stephen White, pensa che mettere spartiacque troppo netti possa risultare fuorviante e insiste sull'idea di cambiamenti graduali nel tempo, senza momenti decisivi e cambiamenti repentini. Non mancarono coloro che supportarono, anche se nei loro termini, il modello proposto da Duby, come Bisson, che pone l'accento sulle pratiche violente di gestione del potere, e Moore, per cui la rivoluzione feudale funziona da apripista per esplorare una serie di cambiamenti che porteranno all'arrivo della modernità10. La disputa si è conclusa senza una chiara parte vincente, ma non si può evitare di constatare che dal primo decennio del XXI secolo questo modello sia rimasto a lungo ai margini

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C. West, Reframing the feudal revolution: Political and Social Transformation Between Marne and

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del dibattito storiografico, specialmente in Francia, dove domina il paradigma "anti-mutazionista"11.

Il dibattito è stato portato sul suolo italiano dalla these di Pierre Toubert del 197312 incentrata

sul Latium medievale. Qui si poneva l'accento sul cambiamento delle strutture economiche e dei modelli insediativi, con il fenomeno dell'incastellamento. Giovanni Tabacco, studioso di istituzioni, oppone al concetto di rivoluzione feudale quello di sviluppo signorile, tenendo sempre le distanze dal continuismo. Cinzio Violante si focalizza sul cambiamento parallelo delle strutture ecclesiastiche, e vede la signoria come un esito non tanto della dissoluzione del sistema pubblico, quanto come un'espansione del potere delle famiglie. Chris Wickham contribuisce al dibattito su Past and present con un suo articolo nel '97. Pur criticando il carattere dirompente e repentino del cambiamento teorizzato dal modello, colorito forse dal

topos della storiografia francese della rivoluzione, riconosce che anche in Italia il panorama che

si presenta nel 1100 è drasticamente mutato nelle dinamiche del potere rispetto a quello di un secolo prima. Riconoscere che un cambiamento che ci sia stato è dunque inevitabile, ma si tratta di un cambiamento graduale, avvenuto nel corso di oltre un secolo13. La data spartiacque per

quanto concerne in particolare la marca toscana si colloca più in avanti rispetto a quella tradizionalmente utilizzata dagli studiosi francesi, nel 1070, con l'inizio della disputa sulle investiture. Queste lotte portarono all'indebolimento del potere pubblico, rappresentato dai marchesi di Toscana, che giunge al culmine nel 1081, quando Enrico IV "privò" Matilde di Canossa della sua dignità pubblica14. In Toscana, prima del 1070 infatti, le signorie esistevano

11A. Fiore, Re-figuring Local Power and Legitimacy in the Kingdom of Italy (900-1150 c.), in «Past and Present», 241, 2018, pp. 33-67.

12P. Toubert, Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine du IXe siècle à la

fin du XIIe siècle, 2 voll., Roma 1973 (BEFAR, 221).

13 C. Wickham, Debate: The «Feudal revolution», IV, in «Past and Present», 155, 1997, Oxford University Press, Oxford, pp. 196-208 .

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A. Puglia, Beata filia Petri: Matilde di Canossa e le città della Toscana nord-occidentale tra XI e XII

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a malapena, ristrette a una manciata di famiglie comitali e poche grandi chiese e non assunsero quasi mai una fisionomia compiuta fino alla fine del XII secolo. La signoria appare nella sua forma compiuta solo nel XIII secolo, per poi scomparire velocemente di fronte al potere crescente delle città. Il motivo è da ricercarsi nella sopravvivenza del potere marchionale fino alla fine del XI secolo, che anche se non poté impedire che si formassero delle signorie de facto, pose un freno alla loro legittimazione formale. Anche i re ebbero raramente occasione di accordare diritti regali ai privati in Toscana al contrario di quanto fecero in altre regioni d'Italia. Questi poteri quando si svilupparono nella Marca, lo fecero in zone e momenti in cui il potere marchionale era debole15. L'elemento di distinzione della declinazione italiana del modello in contrapposizione con la sua versione francese, nel comune riconoscimento del fatto che un cambiamento sia avvenuto, è il percorso con cui si arriva a questa trasformazione: in Italia si predilige parlare di uno sviluppo graduale piuttosto che di una rivoluzione repentina. Il caso dei Cadolingi, esaminato nel contesto di questo modello storiografico, è particolarmente interessante per via della sua precocità all'interno del panorama italiano, con un processo che inizia a delinearsi ben un secolo prima rispetto al resto della Toscana. Si tratta anche di un dominio insolitamente esteso, per quanto frammentato, per il momento storico in cui questa famiglia si muove. Nonostante il fatto che la famiglia venga a estinguersi prima che il processo di signorilizzazione potesse arrivare a pieno compimento, e prima che queste dinamiche si estendessero al resto della nobiltà toscana, vediamo già delineate molte delle caratteristiche di questo processo e dei suoi effetti sulle logiche familiari e sulle pratiche di gestione del potere.

Il modello della "rivoluzione feudale" è stato a lungo messo da parte a seguito delle critiche ricevute nel corso degli anni '90, tuttavia si è recentemente aperta una nuova fase di studi che lo ha riscoperto. In particolare, si ricorda il libro di Charles West, Reframing the feudal

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C. Wickham, La signoria rurale in Toscana, in Strutture e trasformazioni della signoria rurale nei

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revolution (2013), in cui il modello viene revitalizzato grazie a una prospettiva nuova, che

ricerca le origini del cambiamento all'interno della stessa riforma carolingia, eliminando la contrapposizione implicita che era stata fino ad allora posta tra queste due fasi. In Italia, sono stati fondamentali i contributi da parte di Alessio Fiore, che ha analizzato le varie fasi di questo cambiamento nell'Italia centro-settentrionale, concentrandosi sul suo rapporto con la lotta per le investiture e la violenza endemica che questa portò nella penisola. Sul dibattito storiografico suscitato dall'introduzione del modello della mutazione feudale si è incentrato il corso «La

"rivoluzione feudale": un concetto storiografico ancora attuale?» tenuto presso l'Università di

Pisa nell'anno accademico 2018/2019 dal professor Simone Maria Collavini, le cui lezioni hanno avuto un ruolo non trascurabile nell'ispirare questo lavoro.

Nelle pagine che seguiranno tratteremo della rivoluzione feudale, delle forme che prese nella penisola e soprattutto nella Toscana centro-settentrionale, ovvero il campo di azione dei Cadolingi. Successivamente, analizzeremo per tipologia gli strumenti di controllo del territorio utilizzati da questa famiglia nelle diverse aree della Toscana, e infine cercheremo di capire se si possa parlare di una strategia organica da parte della famiglia, le motivazioni del loro precoce tentativo di formazione di una signoria rurale e le conseguenze che questo comportò nelle dinamiche della gestione del potere e nelle logiche familiari.

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I. La "rivoluzione feudale"

1.1 Il dibattito storiografico

Il panorama storiografico europeo relativamente alla storia medievale era, fino alla metà del secolo scorso, fortemente influenzato dalle teorie di Marc Bloch, che ponevano la linea di cesura tra alto e basso Medioevo (per non dire tra la fine del mondo antico e i primi semi della modernità) in coincidenza con la fine della dinastia carolingia16. Nel 1953, con la these di Georges Duby sulla contea di Macôn17, si introduce non solo una nuova proposta di

periodizzazione per il Medioevo che pone il punto di svolta intorno all'anno Mille, ma anche una nuova chiave di lettura per il cambiamento che si verifica in questo periodo e che fa sì che la società pienamente feudale del XII secolo si presenti come radicalmente differente rispetto a quella di due secoli prima. Questo modello è quello della rivoluzione feudale (mutation féodale) e postula un cambiamento radicale nell'ordine politico e sociale del Mâconnaise avvenuto tra il 980 e il 1030. Al termine di questo processo si impone una nuova gerarchia sociale basata sulla signoria bannale e l'utilizzo dei castelli come strumento per il controllo del territorio e si impongono nuovi obblighi sui contadini; una massa divenuta indistinta, essendo ormai andata perduta la differenza tra liberi e servi che almeno formalmente aveva costituito un perno della società carolingia. Vediamo così apparire nei documenti del tempo testimonianze di cattivi usi e una preponderanza, prima inusitata, dell'uso della violenza come pratica di gestione del potere. La diversa articolazione sociale che era ancora presente all'inizio del X secolo, appare alla fine del processo ridotta a una contrapposizione di base tra milites (termine che dopo l'anno Mille si fa sempre più frequente nelle fonti) e pedites, per cui il discrimine sembra proprio cadere sulla facoltà o meno di esercitare violenza. Similmente negli anni '50, J. Fr.

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West, Reframing the feudal revolution, cit., p. 1. 17

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Lemarignier18 dimostrò come alla fine della dinastia carolingia si assista a un frazionamento

del potere pubblico in piccole e piccolissime unità, fino ad arrivare alle castellanie. Egli dimostrò anche come la monarchia capetingia, sebbene duri formalmente fino al 1020 circa, fosse già stata da tempo svuotata di potere19. Il modello proposto da Duby costituì un esempio per una nuova generazione di storici, alcuni dei quali suoi discepoli, anche per quanto riguarda l'ambito geografico d'indagine: fino ad allora era infatti prevalsa l'attenzione alle grandi narrazioni e alle giurisdizioni generali, ora sembra imporsi un taglio regionale sulla scorta della sua opera.

Nei decenni successivi gli storici hanno applicato questo modello a varie regioni della Francia, della Spagna e dell'Italia, trovando che esistevano tra queste aree geografiche delle cronologie comparabili. I primi a portare questo modello fuori dall'ambito francese furono Pierre Bonnassie e Pierre Toubert, che dedicano in particolare i loro lavori alle regioni della Catalogna (di derivazione carolingia, dalla marca ispanica, ma marginale rispetto all'ambito carolingio e francese) e del Lazio medievale (fuori dall'ambito carolingio), entrambe caratterizzate da una maggiore profondità documentaria rispetto al Macônnaise. Bonnassie20 dimostra come in

Catalogna un ordine preesistente, la cui base era costituita da un forte ceto di piccoli allodieri, derivato dalla tradizione visigotica, venga distrutto dalla nascita delle castellanie. Da questa crisi emerge un nuovo modello di società pienamente feudale. Dopo la pubblicazione di questi due lavori, inizia ad affermarsi l'idea dell'esistenza di due modelli di società feudale: una caratteristica del nord Europa e una di area mediterranea. Le differenze riconosciute rispetto al modello di Duby da questi due autori vengono riportate alla proposta di un modello feudale differente in ambito mediterraneo, sia per via dell'elemento urbano che per i permanenti contatti

18J. F. Lemarignier, La dislocation du ‘pagus’ et le problème des ‘consuetudines’ (Xe-XIe siècles), in

Mélanges d’histoire du moyen âge dédiés à la mémoire de Louis Halphen, Paris 1951, pp. 401-410.

19 T. Bisson, The «feudal revolution», in «Past and Present», 142, 1994, pp. 6-42.

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con altre realtà, come quella greca e quella islamica. Il feudalesimo mediterraneo è molto meglio documentato rispetto a quello del nord e divenne un punto di riferimento, come in occasione del convegno Strutture feudali e feudalesimo del '78 a Roma21, che offrì un punto di

vista generale sugli studi di quegli anni. Bonnassie è stato tra i primi a descrivere questo cambiamento come rivoluzionario, benché fosse stato anticipato dallo stesso Duby. Infatti, Bonnassie è uno storico di ispirazione marxista che si focalizza sul passaggio dalle società schiavistiche a quelle feudali. Un modello questo che si scontra con quello blochiano di derivazione francese, correlato col marxismo, ma concentrato sull'aspetto sociale. La rivoluzione feudale secondo Bonnassie è stata un fenomeno ancora più rapido e dirompente che per Duby. Non deriva da una crisi del potere pubblico, che è piuttosto una sua conseguenza. Nella parte iniziale del secolo succede innanzitutto che queste strutture crollano e vengono sostituite dal nuovo modello feudale, che si manifesta in una serie di crisi violente. Insiste sul ruolo della violenza in questa trasformazione, con l'insorgere di numerose guerre private.

Toubert lavora invece sul Lazio22, con un impatto forse ancora maggiore rispetto a quello di Bonnassie. Si concentra sul Lazio rurale, non imperniato intorno alla città di Roma. Non si colloca all'interno della corrente marxista, e quindi la sua interpretazione si differenzia rispetto a quella di Bonnassie. Per lui il punto centrale di cambiamento sono le strutture dell'insediamento, ovvero l'organizzazione della produzione e le forme di prelievo, nonché le forme di vita. La chiave interpretativa del cambiamento offerta da Toubert è l'incastellamento: la nascita e la diffusione di un nuovo tipo di insediamento che avviene in maniera rapida e introduce un cambiamento importante intorno al quale le strutture sociali precedenti si vanno a riorganizzare. L'incastellamento consiste nell'abbandono della forma dell'insediamento sparso

21 Structures féodales et féodalisme dans l’Occident méditerranéen (Xe-XIIIe siècles). Bilan et

perspectives de recherches. Colloque international organisé par le Centre National de la Recherche

Scintifique et l’École Française de Rome (Rome, 10-13 octobre 1978), Roma 1980 (CEFR, 44). 22Toubert, Les structures du Latium médiéval, cit.

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e nella sua sostituzione con dei siti concentrati, perlopiù di nuova fondazione e fortificati, in altura. L'incastellamento del modello di Toubert si aggancia a un altro cambiamento, la riorganizzazione degli spazi agrari. Questo porta a una maggiore razionalizzazione dell'agricoltura. Il modello della curtis viene generalizzato dall'incastellamento. Ogni contadino non ha il proprio spazio specifico, ma vive in un castello insieme agli altri. D'altro canto, questo si connette a un crescente controllo dei proprietari dei castelli che tendono a diventare signori della popolazione. La signoria (che lui chiama castellania) è una ricaduta di questa trasformazione complessiva - una conseguenza in un contesto di indebolimento del potere pubblico e papale. L'esito finale è quello della creazione di una serie di distretti con al centro il castello, con un proprio spazio circostante, ben distinto da quello degli altri castelli.

Anche Fossier, con i suoi studi sulla Piccardia23, contribuisce al modello espandendo la teoria dell'incastellamento di Toubert e sostituendola con quella dell'encellulement: la cellula fondamentale della vita europea è costituita dal villaggio. La sua teoria è che la concentrazione dell'insediamento non sia dovuta meramente al fenomeno dell'incastellamento, ma all'iniziativa signorile in generale24.

Tuttavia fu lo studio di sintesi di Poly e Bournazel a canonizzare definitivamente l'aspetto rivoluzionario di questo modello. Bournazel si era occupato della formazione della potenza plantageneta in competizione con la dinastia capetingia. Poly aveva invece pubblicato una these sulla Provenza, in particolare su Marsiglia, insistendo sul tema della rivoluzione feudale e del feudalesimo mediterraneo. Questo libro di sintesi25 raccoglie il modello negli anni '70 e '80 e viene ripubblicato senza modifiche sostanziali nei primi anni '90. Successivamente, Guy Bois26,

23R. Fossier, L’infanzia dell'Europa. Economia e società dal X al XII secolo, Il Mulino, Bologna, 1987.

24

West, Reframing the feudal revolution, cit., pp. 1-4.

25J.P. Poly, É. Bournazel, Il mutamento feudale. Secoli X-XII (1980), Milano, Mursia, 1990.

26G. Bois, La mutation de l’an Mil, Paris 1989, trad. it. L’anno mille. Il mondo si trasforma, Roma - Bari 1991.

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anch'egli marxista, utilizzando la stessa documentazione esaminata da Duby, ha ulteriormente insistito sull'elemento "rivoluzionario" del cambiamento, in particolare sulla sua rapidità, arrivando a sostenere che si trattasse di un fenomeno europeo. Bois, il quale si era precedentemente dedicato al tardo medioevo e all'età moderna, prova ad applicare al medioevo un modello di ricerca che in età moderna era ormai ampiamente affermato, che derivava dalla ricerca italiana, la microstoria. Per far questo, esaminando i documenti analizzati da Duby, restringe il suo campo di ricerca da tutto il Macônnaise al solo villaggio di Lounard. La società del X secolo prima del cambiamento, è per lui ancora di tipo antico, ovvero basata su un modo di produzione simile a quello antico, la schiavitù. Nell'interpretazione di Bois questa struttura antica, che era basata sul nesso forte tra struttura sociale e stato, nella fase precedente alla rivoluzione si trova di fronte a un paradosso: la società è ancora quella antica, mentre dal punto di vista dell'organizzazione statale abbiamo già una struttura che se ne distanzia, con il collasso del potere regio e comitale.

Negli anni successivi sono state mosse critiche a questo modello, in particolare da parte di Dominique Barthélemy27, che, formatosi in ambito mutazionista, lo abbandona nel 1988,

arrivando a sostenere il completo abbandono del modello. Pur non proponendo una documentazione nuova a supporto della sua critica, si oppone fermamente al modello mutazionista, proponendo un ritorno alla periodizzazione precedente, che collegava la cesura tra alto e basso medioevo successivamente alla fine della dinastia carolingia. La sua principale argomentazione, si basa sull'accusa di aver dato troppo peso alla semantica, in particolare all'occorrenza di termini come milites, o alle accuse di pratiche violente da parte di fonti prevalentemente monastiche, secondo lui parziali e faziose28. Per lui si trattò di un semplice

27D. Barthélemy, La société dans la comté de Vendôme de l’an mil au XIVe siècle, Paris 1993, e La

mutation de l’an mil a-t-elle eu lieu? Servage et chevalerie dans la France des Xe et XIe siècles, Paris,

1997. 28

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cambiamento di punto di vista, molti dei cambiamenti che vengono percepiti sono dovuti al cambiamento della natura delle fonti, che prima del Mille sono perlopiù pubbliche e tendono naturalmente a presentare un panorama uniforme, in contrasto con le fonti più sfaccettate dei secoli successivi, con testi documentari che hanno un carattere narrativo. Per questo, la sua interpretazione oppone l'idea di un cambiamento graduale che sia stato semplicemente rivelato da fonti più tarde (rivelazione feudale) al precedente modello della rivoluzione feudale.

Lo stesso Barthélemy è intervenuto alcuni anni dopo nel dibattito sviluppatosi tra 1994 e 1997 nella rivista storica Past and Present, aperto e chiuso da due articoli di Thomas Bisson. Sin dall'inizio del suo primo intervento che inaugura il dibattito, Bisson si pone come un sostenitore del modello. Pone al centro della sua attenzione il tema della violenza, che era sì presente ben prima che si verificasse questo cambiamento, tuttavia queste pratiche violente arrivarono a modificare i legami di signoria e dipendenza. In questo senso la violenza aveva il potenziale di creare un nuovo ordine di poteri. La violenza trova i suoi simboli e attori principali nel castello e nella casta dei milites, che spesso si ponevano al servizio di un signore e aspiravano a ottenere un rango simile al suo in futuro. Oltre a questi, i signori avevano una schiera di funzionari al loro servizio, e ben presto anche costoro iniziarono ad atteggiarsi come signori. Non era dunque possibile delegare il potere senza condividerlo. Dalle fonti si vede come la violenza, benché ci fosse sempre stata, diviene oggetto di moralizzazione solo in questo momento, con l'insorgenza di termini quali malae consuetudinis. Il conflitto, per Bisson, si colloca tra il vecchio e il nuovo ordine. Intorno all'anno Mille assistiamo a una crisi del sistema di fedeltà, in cui a prevalere non è più l'elemento morale (la fides), ma quello materiale (il beneficium). È la violenza a causare una reazione istituzionale sotto forma di paci di Dio, nuovi termini utilizzati e una regolamentazione dei giuramenti di fedeltà. Questa può essere vista come una rivoluzione, perché istituzionalizza il progressivo potere acquisito dalle signorie rurali a discapito del potere pubblico, sanzionando le rivendicazioni di servizio, fedeltà e dipendenza. Si tratta di una

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rivoluzione senza rivoluzionari, ma fatta solo da agenti inconsapevoli, i signori rurali, mossi dall'opportunismo. Bisson precisa che non si trattò di un conflitto di classe, in quanto nessuno dei contendenti si richiama a una causa. Il conflitto non era tra signori e contadini, ma tra due diversi livelli di élite signorile. Il contemporaneo collasso del potere regio e delle corti comitali portò una nuova responsabilità nelle mani dei signori e dei castelli, che tese naturalmente a trasformarsi in potere. In questo passaggio l'ordine pubblico persistette, anche se cambiarono le forme che lo garantivano29.

Come è stato anticipato, nel 1996 è lo stesso Barthélemy a intervenire nel dibattito sulle pagine della rivista. La sua accusa al modello mutazionista è quella di aver provocato una stagnazione in campo storiografico. Barthélemy contrappone a questo modello quello di una graduale evoluzione sociale, avvenuta in Francia a partire dal 860 con una serie di cambiamenti politici. L'accusa che rivolge a Bisson è di riprodurre le idee della vecchia scuola di fine Ottocento, cambiando solo attori e date. Il potere nobiliare presente in Francia nel XI secolo discende direttamente dall'ordine carolingio: la signoria rurale non era altro che una copia, su scala ridotta, delle signorie reali e comitali. È tuttavia innegabile che il potere venisse esercitato su una scala sempre più piccola. Non c'è bisogno di assumere la nascita di una nuova classe di

milites o la subitanea abolizione della schiavitù o della servitù della gleba. In generale, le

relazioni di dipendenza non sembrano essere più pesanti nel XI secolo di quanto non lo fossero state in precedenza. L'errore che sottolinea poi è quello di prendere la Francia come modello per la storia europea in generale oltre l'anno 1000. Il modello cavalleresco di derivazione carolingia venne, infatti, ben presto sfidato dalla riforma gregoriana e dalla nuova forza delle città30.

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Bisson, The «feudal revolution», cit. 30

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Nello stesso anno, interviene nel dibattito Stephen White. L'osservazione interessante con cui inizia l'articolo è quella sul giudizio morale implicito nella contrapposizione tra il caos violento della rivoluzione e lo stato apparentemente ordinato che lo aveva preceduto. Anche lui dedica buona parte del suo articolo al tema della violenza, in risposta all'analisi di Bisson. Quest'ultimo nel suo articolo dà per scontato il significato che si debba attribuire alla parola violentia, considerandola interna alla classe nobiliare. Tuttavia, White analizzando le carte monastiche, mostra che la violenza appare essere un costrutto sociale altamente complesso, il cui uso non era certo ristretto alle pratiche oppressive messe in atto dai nobili, ma trovava spazio anche nelle dispute tra pari. In questo senso, la violenza poteva avere molti significati differenti: era un elemento della strategia legale ed era quindi finalizzata al raggiungimento di certi fini. Vediamo dunque che la violenza non era arbitraria, ma obbediva a uno scopo ed era usata in modi limitati e strategici. La violenza era insomma un metodo utilizzato, nei suoi limiti, per rinegoziare relazioni politiche preesistenti e non si trattava dunque di un'azione apolitica, come sostiene Bisson.La nostra comprensione della violenza dell’XI secolo è, secondo White, stata plasmata da come veniva rappresentata nelle fonti che abbiamo a disposizione. Gran parte di esse sono testi religiosi che drammatizzano sia la violenza da parte dei nemici della Chiesa che la risposta inflitta loro di volta in volta dai monaci stessi o da Dio e dai suoi santi. Questo tipo di fonti non sono solo relative all’XI secolo, ma ne troviamo modelli precedenti, con lo stesso paradigma, risalenti al IX e X secolo.Queste sono le critiche che White move alla tesi di Bisson: Bisson si inserisce nel filone che ha creato un'immagine oscura, piena di violenza incontrollata, del XI secolo, anche se in maniera più sfumata di altri suoi colleghi. Prima di tutto, a differenza di Bois e Bonnassie, Bisson dubita che la trasformazione politica abbia modificato le relazioni di produzione. Ma se la violenza signorile non è finalizzata ad imporre una nuova forma di servitù, la tesi di Bois e Bonnassie per la rivoluzione feudale crolla. Un'altra cosa che distingue Bisson dagli altri mutazionisti, e che mette in crisi la classica opposizione tra la violenta

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anarchia del XI secolo e il nascente governo del XII, è il fatto che lui dubita che i signori del 1200 controllassero veramente i propri territori, per via della condivisione forzata del potere con i loro funzionari. Si può dunque supporre che lo stato delle cose non sia cambiato nella sua sostanza anche dopo il 1200. Similmente, Bisson definisce anacronistica la distinzione tra potere pubblico e privato che aveva segnato molte delle argomentazioni precedenti in favore del mutazionismo. Tutti questi aspetti contribuiscono a un indebolimento della tesi stessa, per cui la supposta rivoluzione feudale perde molto del suo carattere rivoluzionario31.

Una terza risposta all'articolo di Bisson è quella di Timothy Reuter, dell'anno successivo. Secondo Reuter, la visione di Bisson pone due problemi: uno concettuale e metodologico, l'altro geografico e storiografico. Il primo riguarda il modo in cui identifichiamo la prevalenza e il significato sociale della violenza e la relatività e l'efficacia dell'ordine pubblico. Nonostante la tesi di Bisson sia persuasiva, sarebbe facile opporgli una serie di fonti sulla violenza del IX e del X secolo. Ma per Reuter questo tipo di obiezione servirebbe solo per affermare indirettamente che nulla sia cambiato, cosa impossibile. Sostiene infatti che sia impossibile osservare realmente se la violenza fosse o meno aumentata alla fine del X secolo, così come non potevano farlo i contemporanei. Fa l'esempio su dei giudizi che potremmo dare noi su cambiamenti di questo genere avvenuti nella nostra generazione, proponendo come esempio come la nostra percezione dei cambiamenti possa essere colorita dal nostro orientamento politico. La tendenza a esagerare l'elemento violento nel caso il sovrano fosse assente o non piacesse a chi scriveva è presente lungo tutto il medioevo. Allo stesso modo, vediamo che quando un sovrano falliva in materie di politica estera, o in qualsiasi altra area, le accuse di mancato mantenimento dell'ordine pubblico aumentavano. Questo succede perché quando c'è un fallimento in generale, si è portati a osservare più criticamente tutto il resto. Inoltre, non dobbiamo pensare che nel Medioevo si applicasse la distinzione moderna tra ciò che è civile e

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ciò che costituisce un crimine. Abbandonando l'analisi quantitativa, bisogna perciò concentrarsi su un’analisi del significato che assumono questi atti di violenza, distinguendo la violenza tradizionale da quella nuova dei castellani. Secondo Reuter, non esiste una differenza effettiva tra i due tipi di violenza: la loro violenza non era unicamente legata al capriccio o all'emozione, ma era anzi calcolata e strumentalizzata. Bisson dice inoltre che questi signori potevano esercitare senza restrizioni o giustificazioni la violenza, ma vediamo dalle fonti che egli stesso ha citato che non era così. Già solo l'uso del termine consuetudo per indicare le imposizioni fatte ai contadini, indica una volontà di legittimazione. Un'altra spia di questo desiderio è il fatto che le imposte che erano state privatizzate continuarono ad essere chiamate con i nomi che avevano nell'epoca carolingia, come per esempio il fodro. Il secondo gruppo di problemi sollevati dal modello di "rivoluzione feudale" è, come abbiamo detto, di natura geografica e storiografica. Deriva infatti dalla visione franco-centrica del Medioevo che ha imperversato a lungo nella storiografia. Nonostante il dibattito sia stato iniziato da storici francesi e da medievisti inglesi o americani che si occupano della Francia, e abbia presentato come prove fonti provenienti dall'ambito francese, il modello elaborato dovrebbe avere una validità europea che va molto oltre i tradizionali confini francesi. Applicare questo modello in un contesto tedesco, per esempio, equivarrebbe ad appiattire le specificità che hanno distinto questa realtà dall'ambito francese. Non c'è stata una rivoluzione del tipo francese in Germania, perché i castelli sono sempre esistiti e non c'era un potere pubblico abbastanza forte da dover essere sovvertito. In Inghilterra invece, un ordine di tipo carolingio si formò tardivamente, ma fu anche più pervasivo di quanto il suo modello non sia mai riuscito ad essere. La sua struttura era talmente forte da rendere sufficiente conquistarne il centro per controllare tutta la regione, proprio come successe con i Normanni e anche successivamente. La stessa Francia, che presenta ampie variazioni regionali, non si adatta totalmente al modello. Per esempio, lo stato carolingio non era affatto omogeneo, e non sappiamo come fosse la situazione nel sud della

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Francia - dal quale i re erano assenti sin dal periodo dello stesso Carlo. Al nord invece, il potere pubblico non svanì mai veramente, anche se cambiò forma32.

L'ultimo intervento è quello di Chris Wickham, nello stesso anno. Nel suo articolo assume una posizione abbastanza moderata, rivolgendo delle critiche al modello mutazionista, ma riconoscendone la sostanziale utilità. Per quanto riguarda le critiche, prima tra tutte è quella al moralismo implicito nella teoria, che oppone un'epoca carolingia "buona" a un XI secolo "cattivo".Ci sentiamo attratti e tendiamo a simpatizzare con l'epoca Carolingia per via dei suoi valori, ma la verità è che proprio in quest'epoca si consolida il potere predatorio dell'aristocrazia. Un limite della teoria mutazionista è per Wickham quello di fissare l'anno Mille come spartiacque in maniera troppo netta. In Italia si trattò di un processo di lungo periodo, iniziato intorno al 900, e che non era ancora concluso nel 1100. In Inghilterra dei cambiamenti simili si svolgono all'interno di una pressoché ininterrotta egemonia reale. Il sistema politico rimase intatto, nonostante i violenti cambi dinastici che ebbero luogo in quel lasso di tempo. L'attenzione a un particolare e ristretto periodo di crisi, riguarda strettamente la Francia e se vuol essere preso a modello per tutta l'Europa, allora deve dimostrarsi valido almeno per alcune aree all'infuori della Francia moderna e medievale. Il modello mette al centro il feudalesimo che è stato perfezionato in Francia ed è per questo un tema caro alla storiografia francese.Nonostante queste critiche al modello della rivoluzione feudale, Wickham non nega che ci siano stati dei cambiamenti significativi nelle forme del potere tra 800 e 1150 nella maggior parte dell'Europa occidentale. In Italia questi cambiamenti si dipanano nel corso di almeno un secolo, quindi non possono essere definiti propriamente rivoluzionari, ma crearono un nuovo mondo in cui i comuni italiani del XII secolo si trovarono a navigare. La conclusione di Wickham, nonostante le sue critiche è che, essendo innegabile che un cambiamento sia avvenuto, è utile categorizzarlo e proporre una periodizzazione che ne tenga conto. Nel dibattito

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tra continuisti e mutazionisti molti dei primi hanno sempre più evidenziato gli elementi di continuità, erodendo in alcuni casi totalmente i tratti di cambiamento. Si tratta di una tendenza pericolosa, perché potrebbe portare a dire che non ci sia stato affatto un cambiamento storico. Possiamo insomma contestare la scelta di una data piuttosto che un'altra come spartiacque, ma non l'utilità in generale di un punto di riferimento simile.Di conseguenza, essendo innegabile che tra la società europea dell'800 e quella del 1100 ci sono delle profonde differenze, è utile descrivere la prima come carolingia e la seconda come feudale.Tuttavia si tratta di un arco di tempo molto lungo per poter parlare di una rivoluzione per tutta l'Europa occidentale. Per questo Wickham ritiene preferibile l'utilizzo di date specifiche per ogni regione, suggerendo di prendere come punto di riferimento la scomparsa dei placiti. Se il cambiamento si qualifichi o meno come rivoluzionario dipenderà dalle specifiche cronologie relative ad ogni regione33. A chiudere il dibattito interviene nuovamente Bisson, in quello stesso anno. Pur continuando a difendere la teoria mutazionista, riconosce che questa sia uscita dal dibattito più debole rispetto a come vi era entrata tre anni prima. Il problema però trascende il modello della rivoluzione feudale, e concerne la spiegazione delle società europee dopo l'anno Mille. Il modello nasce dal tentativo di alcuni storici di indagare più profondamente sulle uniformità che caratterizzavano gli storici dell'inizio del secolo scorso. È un modo per spiegare le caratteristiche evidentemente nuove dell'Europa del XII secolo. Non si prescinde dal riconoscimento della continuità storica e non ci si propone di interromperla con questo modello, ma serve a prendere le distanze dal modello continuista che aveva a lungo dominato la storiografia europea, e proprio per questo respinge le accuse di Barthélemy relative al fatto che il modello avesse causato una stagnazione nella storiografia europea34.

33Wickham, Debate: «The Feudal Revolution», cit.

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In seguito a questa accesa fase del dibattito storiografico, il modello mutazionista venne accantonato per una decina d'anni, proclamando de facto la vittoria dei suoi critici. Negli ultimi anni tuttavia, si è inaugurata una nuova stagione di studi che ha rivalutato il modello. Potremmo individuare un momento chiave di questo nuovo capitolo nella pubblicazione del libro di Bisson, The Crisis of the Twelfth Century (2008). In questo libro Bisson si propone di rispondere alle critiche rivoltegli dieci anni prima da Reuter, il quale nel dibattito svoltosi su

Past & Present aveva chiesto una cronologia più specifica dello sfruttamento e della violenza

signorile che Bisson aveva messo al centro del proprio articolo. Questo libro, a differenza della maggior parte dei lavori inseriti all'interno del filone mutazionista, non presenta un taglio regionale, abbracciando invece gran parte dell'Europa occidentale. In questo modo l'autore riesce a riconoscere le declinazioni particolari che questo modello subisce nelle varie regioni, ma allo stesso tempo tratta l'Europa come un'unica entità culturale. In questo libro Bisson pone ancora una volta al centro dell'argomentazione il tema della violenza, al punto che il suo esercizio va a coincidere con la definizione stessa di potere. La rivoluzione feudale è qui riportata al basilare contrasto tra la società carolingia, dominata da un forte potere pubblico, e la società feudale in cui le linee tra poteri pubblici e privati si fanno sfumate e le norme rispondono solo ai capricci di chi è al potere. Bisson si rivela riluttante a parlare di "governo", ritenendolo un termine anacronistico, e allo stesso tempo non gli sembra che i signori del XII secolo fossero troppo preoccupati nel creare istituzioni e amministrazioni finalizzate a migliorare il governo dei loro territori. Tuttavia, segnala una timida inversione di tendenza sul finire del secolo. Nello stesso periodo, affiora una nuova tipologia di documenti legata al sorgere di un controllo più stringente imposto dai signori ai loro funzionari, in opposizione al loro storico affidamento sulla fedeltà. Questi cambiamenti sono i primi segnali di un nuovo interesse per l'aspetto prettamente burocratico e legale dell'amministrazione del potere. Ciò per

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Bisson segnala una politicizzazione del potere, marcata da una distinzione più netta tra interessi e diritti35.

Charles West è l'altra voce che rianima in questa fase l'interesse per il modello mutazionista col suo libro Reframing the feudal revolution (2013), una classica these che applica il modello della rivoluzione feudale a un'area geografica determinata, in questo caso la parte di Francia compresa tra i fiumi Moselle e Marne. L'autore si propone di dimostrare che un cambiamento sia avvenuto tra 800 e 1100 nelle strutture di potere, che si sia trattato di una differenza nella formalizzazione, e che si tratti di una conseguenza della riforma carolingia. West constata che il dibattito sviluppatosi negli anni '90 si era concluso senza un chiaro vincitore, e propone come soluzione l'analisi dei documenti di epoca carolingia, fino ad allora poco studiati dagli storici che avevano partecipato al dibattito; questo era dovuto al fatto che si è trattato principalmente di studi concentrati sui secoli centrali del Medioevo, mentre raramente chi si occupa dell'epoca carolingia estende la sua ricerca oltre il X secolo. L'altro problema è legato alla tradizionale distinzione weberiana tra pre-moderno e moderno, che rileva nel tentativo carolingio un modello che sembrava avere le giuste premesse per dirigersi verso la modernità per poi fallire, e per la divisione degli studi tra la riforma carolingia e le reali pratiche di potere degli attori del tempo, quasi mai analizzate negli stessi studi.La domanda a cui West si propone di rispondere è se i carolingi abbiano tentato di creare uno stato fallendo o se le pratiche signorili permeassero già il IX secolo. L'autore propone un ribaltamento del metodo: non guardare dai secoli centrali del Medioevo indietro verso il periodo carolingio, ma partire da quest'ultimo ricercando le basi dei cambiamenti che si sveleranno in tutta la loro evidenza nell'XI secolo. Attraverso questo metodo, la conclusione che si trae è che all'interno del sistema carolingio i conti erano coloro che amministravano la giustizia localmente al posto del re, la cui autorità veniva mantenuta da

35 T. Bisson, The Crisis of the Twelfth Century: Power, Lordship, and the Origins of European

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simboli del suo potere (castelli) e dalla sua saltuaria presenza fisica. Per esercitare il loro ufficio erano concessi ai conti dei beni (res de comitatu), e l'idea era quella di circoscrivere agli ufficiali pubblici l'esercizio della violenza. Anche i signori e i vescovi (e abati) di questo periodo esercitavano il loro potere tramite dei loro sottoposti, talvolta di origine servile (ministeriales), questi si comportavano comunque in modo marcatamente diverso rispetto ai sudditi e facevamo ampio uso della violenza, che era del resto parte dell'identità della classe aristocratica. Insomma, le pratiche violente di gestione del potere, l'utilizzo dei castelli per il controllo del territorio e la creazione di una casta di sottoposti che aiutassero in questo compito - tutti elementi centrali della trasformazione dirompente sottolineata dal modello mutazionista - trovano tutti per West le loro radici già nello stesso sistema carolingio e non nella sua sovversione36.

I contributi più recenti al modello mutazionista sono quelli offerti negli ultimi anni da Alessio Fiore37, relativi al centro e al nord Italia. Nella sua prima fase di sviluppo, questo modello era stato considerato in Italia un problema francese, e la storiografia italiana si è tradizionalmente concentrata più sui cambiamenti a lungo termine che sulle repentine deviazioni prese dalla storia. Tuttavia, a partire dagli studi di Wickham si è voluto individuare un momento di svolta per le forme del potere nei decenni intorno al 1100. Alcuni studiosi hanno individuato come motore di questo cambiamento la lotta per le investiture, che portò nell'Italia centro-settentrionale una situazione di guerra endemica a partire dal 1080. Queste guerre portarono al collasso improvviso del potere pubblico, consentendo al potere signorile di divenire più

36West, Reframing the feudal revolution, cit., 1-57.

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A. Fiore, Il mutamento signorile. Strutture del potere e comunicazione politica nelle campagne

dell'Italia centro-settentrionale (1080 -1130 c.), Firenze, Firenze University Press, 2017; 'Bonus et malus usus'. Potere, consenso e coercizione nelle campagne signorili dell'Italia centro-settentrionale (secc. XI-XII), in «Quaderni storici», 132 (2010), pp. 501-532; Il tempo dei cambiamenti. Assetti di potere nelle campagne dell'Italia centro-settentrionale intorno al 1100, in «Storica», 61-62 (2015), pp.

59-107. e Refiguring local power and legitimacy in the Kingdom of Italy, c. 900-1150, in «Past and

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pervasivo, formalizzato e completo. Non si tratta per Fiore di una rottura radicale col passato, ma di un'accelerazione di processi già in atto prima dell'esplosione di queste guerre. Ciò porta a una riconfigurazione delle forme del potere, espressa da un cambiamento degli strumenti di legittimazione. La legittimazione non proveniva più dall'alto (come ancora accadeva nel X secolo, sebbene il potere pubblico risultasse indebolito rispetto al secolo precedente), ma era richiesta dai propri pari e dal basso. In concomitanza con questo passaggio, abbiamo anche un cambiamento nella struttura del placito. I placiti nel periodo precedente erano un'espressione della giustizia regia, ma da questo momento in poi diventano sempre più uno strumento difensivo contro i poteri regionali che si erano appropriati di prerogative regie. In questo contesto i placiti divennero sempre meno decisivi, per poi scomparire, salvo rare eccezioni, intorno al 1100. L'obiettivo principale era ancora quello di ottenere una legittimazione dall'alto, ma questo divenne sempre più difficile per via dell'assenza dei re, impegnati oltre le Alpi, e per l'indebolimento della struttura pubblica del potere in seguito alle lotte per le investiture. Ciò portò a un collasso dei principali nodi di potere, che vennero ricostruiti a livello patrimoniale, tramite un restringimento delle aree di controllo.I singoli villaggi, ora fortificati, divennero il fulcro di questo nuovo sistema di potere. Il controllo signorile basato intorno a questi castelli si caratterizza per il suo aspetto violento.Nei primi decenni del XII secolo, i nuovi poteri locali abbandonarono così le forme tradizionali di amministrazione della giustizia in favore di pratiche più informali. La crisi del potere regio creò nuove opportunità per nuovi attori che aspiravano a creare delle aree di dominio personale. Le loro prerogative erano tuttavia, particolarmente fragili e instabili; le relazioni tra poteri locali erano fluide e spesso conflittuali, specialmente durante questa fase di cambiamento. Il collasso del potere pubblico costrinse i signori locali a cercare altrove la propria legittimazione. La Toscana è un esempio emblematico di questo processo, con l'insorgere di numerosi patti di aiuto reciproco, spesso di natura militare, che testimoniano sia la posizione precaria dei signori che li contraevano e la crescente

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militarizzazione dei conflitti, che la crescente consapevolezza da parte dell'aristocrazia del fatto che i rapporti coi propri vicini e pari stavano divenendo più strategiche per mantenere o incrementare il loro potere locale.Per quanto riguarda invece la legittimazione dal basso, sono due le tipologie di documento che ne offrono una testimonianza: i patti tra il signore e i propri sudditi e i giuramenti pronunciati da personaggi locali, seguiti da un giuramento da parte del signore di mantenerli e garantirli. Queste tipologie di documento sono estremamente rare nei primi decenni del XI secolo, ma divenatono più comuni verso la metà del secolo.Altro elemento cruciale della legittimazione è l'utilizzo della forza contro altri attori politici e, soprattutto, contro i propri sudditi.Le pratiche violente non costituivano una novità nel panorama italiano, ciò che era nuovo era la loro pervasività nell'ambito politico rurale. Questo nuovo atteggiamento rispetto alla violenza non era limitato ai signori laici, ma si estendeva a tutti gli attori politici come i vescovi, gli abati, i proto-comuni e le poche comunità rurali indipendenti38. 1.2 La mutazione feudale in Italia

Si è già anticipato come il momento di svolta sia individuato nella penisola nello scoppio delle lotte per le investiture, che portarono nell'Italia centro-settentrionale uno stato di guerra endemica. Queste lotte portarono alla distruzione dei grandi domini pubblici, come la contea di Tuscia, la marca arduinica e la contea del Friuli, tuttavia queste presentavano già in precedenza delle forti tensioni strutturali. Per rintracciarne le cause, è necessario fare un passo indietro di cinquant'anni: infatti la riforma dei benefici del 1037 li rende ereditari, aprendo le porte al consolidamento dei grandi domini che gli ufficiali pubblici già andavano costruendosi in questo periodo. Questo rese possibile l'ascesa delle clientele aristocratiche e il crescere della competizione del territorio, risolvendosi in una crescente localizzazione della politica. Un segnale importante di come questi processi non sfuggissero alla percezione dei contemporanei ci viene dalle politiche degli imperatori che si susseguono in questo arco di tempo. Alla metà

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del XI secolo il potere imperiale in Italia era in qualche misura contraddittorio: da una parte era ancora la fonte più alta di legittimazione, dall'altra la sua influenza sulla penisola a livello pratico era molto labile, e solitamente limitata ai brevi periodi in cui gli imperatori varcavano le Alpi. Così, già Enrico III tentò di creare delle strutture politiche permanenti nella penisola, tentando di sostituire gli ufficiali pubblici presenti con uomini a lui fedeli, anche se il suo potere era molto limitato in questo ambito, e cercò persino di approfittare dei problemi dinastici dei Canossa per assumere il diretto controllo della marca toscana. La prematura morte di Enrico III impedì lo sviluppo di questo progetto oltre questi primi interventi. Inizialmente, sembrò che Enrico IV intendesse seguire le orme del padre, adottando un approccio prudente in considerazione delle tensioni che attraversavano la penisola. In questa fase, la situazione era caratterizzata da una crescente instabilità e violenza, riconosciuta con lucidità dallo stesso vertice regio, che provò nel 1077, in occasione del ritorno dell’imperatore nella Penisola, a intervenire per favorire il ristabilimento della pace entro i confini del regnum. A quest'anno risale infatti la proclamazione della pax italica da parte di Enrico IV. Il contenuto del provvedimento è di per sé assai significativo: si cercavano di limitare confische, furti ed estorsioni e di vietare le operazioni militari contro i castelli. Successivamente, lo scoppio delle lotte per le investiture tra il suo partito e il partito filo-papale guidato militarmente da Matilde di Canossa gli consentì un approccio più aggressivo, che portò direttamente alla scomparsa di molte tradizionali circoscrizioni pubbliche. L'espressione più alta di questo intento è sicuramente il momento in cui Enrico destituì Matilde di Canossa dal suo incarico pubblico nel 108139. Il progetto si articolava in una duplice strategia che prevedeva da un lato l'indebolimento dei grandi funzionari pubblici italiani e dall'altro la creazione di una relazione diretta tra l'imperatore e le società locali (come i neonati comuni di Lucca e Pisa), dimostrata dall'elargizione di numerosi diplomi imperiali in quegli anni in tutto il territorio del regno.

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Risulta infatti una evidente volontà di ristrutturare e di riqualificare la presenza regia sul territorio attraverso un rapporto non mediato con le comunità locali. Tuttavia, questo progetto si rivelò sostanzialmente fallimentare, tanto che Enrico IV lasciò l'Italia avendo perso gran parte della sua originaria influenza. Enrico V, al contrario, sembra voler ripristinare alcuni grandi e vecchi distretti pubblici, ormai vestigiali, al fine di mantenere la propria influenza anche durante le lunghe assenze dal suolo italiano, affidandoli a personaggi strettamente legati al sovrano, spesso di origine germanica40. Scese infatti in Italia nel 1116, in seguito alla morte di Matilde, per rivendicare come suo l'immenso patrimonio della contessa. Sempre in questo anno, tra i vari ufficiali pubblici che nominò al fine di controllare i diversi domini, affidò la marca a un suo ministerialis, Rabodo. Inizialmente la sua strategia parve risolversi in un grande successo, ma si dovette scontrare con forti resistenze locali. Col suo ritorno in Germania nel 1118 si assistette a un progressivo indebolimento della rete fiscale e nel 1119, in seguito all'assedio fiorentino del castello di Montecascioli, lo stesso Rabodo, che stava difendendo il castello, venne ucciso. La morte dell'imperatore nel 1125 segnò il definitivo fallimento del suo progetto. Sopravvissero piccoli distretti in mano ad ufficiali tedeschi, che però ormai si atteggiavano da signori locali41.

In Toscana, prima del 1070, le signorie esistevano a malapena, ristrette a una manciata di famiglie comitali e a poche grandi chiese prima del 1100, inoltre, non assunsero quasi mai una fisionomia compiuta fino alla fine del XII secolo. La signoria appare nella sua forma compiuta solo nel XIII secolo, per poi scomparire velocemente di fronte al potere crescente delle città. Il motivo è da ricercarsi nella sopravvivenza del potere marchionale fino alla fine del XI secolo, che anche se non poté impedire che si formassero delle signorie de facto, pose un freno alla loro legittimazione formale. Questi poteri quando si svilupparono nella Marca, lo fecero in zone e

40Fiore, Il tempo dei cambiamenti, cit., pp. 76-77. 41Fiore, Il mutamento signorile, cit., pp. 51-52

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momenti in cui il potere marchionale era debole42. Ancora in questa fase si trattava di territori

di ragguardevoli dimensioni, a volte persino regionali o sub-regionali, al cui interno erano ancora vitali, nonostante le trasformazioni in corso, i tradizionali funzionamenti del potere pubblico43. Con l'apertura della conflittualità si acuirono tendenze già rilevabili nei decenni precedenti: gli ufficiali pubblici ebbero sempre più difficoltà a controllare i detentori di poteri signorili all'interno dei loro domini, e lo stesso avvenne ai grandi signori nei confronti dei loro sottoposti. Si assiste insomma a una progressiva localizzazione del potere, con lo sfaldamento dei grandi domini che fino ad allora avevano mantenuto il controllo del territorio. Venne dunque meno la capacità di coordinamento su spazi ampi; le nuove egemonie avevano generalmente raggi di azione e capacità di proiezione territoriale più modesti rispetto a quelle precedenti. Parallelamente, le prerogative giurisdizionali pubbliche vengono progressivamente usurpate e confuse con i poteri derivati dal possesso fondiario. All'interno di questa nuova conflittualità risultarono avvantaggiate le grandi famiglie comitali, come i Cadolingi, che già potevano vantare un'ampia base territoriale di potere e e una lunga esperienza di gestione, in virtù della loro posizione di pubblici ufficiali, delle prerogative giurisdizionali pubbliche: la fusione tra poteri di natura fondiaria e poteri di origine pubblica venne facilitata dalla legittimazione dall'alto già posseduta da queste casate. Tuttavia anche in questi casi i territori, per quanto vasti, controllati da queste stirpi non apparivano compatti, ma intervallati da domini appartenenti ad altri attori politici44. Tali famiglie, valorizzate in senso signorile le proprie basi fondiarie, si allontanarono dalle città, sebbene con tempi diversi e dopo periodi più o meno lunghi di strategie altalenanti tra i due ambiti, che talvolta arrivarono anche a decisi tentativi di controllare alcuni centri urbani. In linea generale l'allontanamento dall’ambito urbano era ormai compiuto al massimo entro la fine dell’XI secolo, anche se con alcune eccezioni, cosicché nel

42Wickham, La signoria rurale in Toscana, cit., pp. 344-345. 43Fiore, Il tempo dei cambiamenti, cit., pp. 63-64.

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momento in cui le città cominciarono a divenire una presenza sempre più importante in Toscana, le più importanti compagini aristocratiche erano andate a costituire un gruppo d’impianto principalmente rurale45. L’area più fertile sotto il profilo dei principati territoriali è

costituita senza dubbio dalla Toscana meridionale. A proteggere il nord e il centro della regione da un controllo così totalizzante ci fu la frammentarietà della proprietà, che vedeva più proprietari all'interno di uno stesso villaggio, e viceversa le terre di un unico nobile divise a macchia di leopardo su un territorio variamente ampio e disomogeneo. Un'altra ragione sono le cronologie simili dello sviluppo delle signorie e delle città, che portò la maggior parte dei signori a non tentare di costruire un territorio omogeneo, anche perché molti di loro scelsero la strada del potere cittadino, che li portò a una maggiore vicinanza con la ricca borghesia e forse a identificarsi più con questi valori che con quelli signorili46. Tra coloro che attuarono un progetto di signoria, nel nord della regione, spiccava la famiglia dei Cadolingi, nel X secolo conti di Pistoia, il cui potere abbracciava anche le valli dell’Arno, fra Firenze e Fucecchio, e dell’Elsa, oltre che l’area di montagna verso Bologna. Anche in questo caso, questa ampia area non risulta essere totalmente sotto il controllo della famiglia, qualificandosi più come una somma di nuclei di potere egemonico dalla funzione strategica, sparsi a macchia di leopardo su questa vasta fascia territoriale.

I Cadolingi rappresentano anche un monito particolarmente forte sulla pericolosità delle pratiche di pianificazione familiare che divennero sempre più frequenti all'interno delle famiglie aristocratiche più importanti, parallelamente ai loro tentativi di instaurare un dominio territoriale ampio. La legge in Italia prevedeva, almeno formalmente, una suddivisione equa tra tutti gli eredi del patrimonio familiare. Questo portava con sé la certezza di una pressocché

45M. E. Cortese, Aristocrazia signorile e città nell'Italia centro-settentrionale (secc. XI-XII), in I comuni

di Jean-Claude Maire Vigueur: percorsi storiografici, a cura di Maria Teresa Caciorgna, Sandro

Carocci, Andrea Zorzi, I libri di Viella, 172, Viella, 2014, pp. 69-94. 46Wickham, La signoria rurale in Toscana, cit., pp. 391-392.

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totale dissipazione del suddetto patrimonio nel giro di poche generazioni. Quindi, sebbene la tendenza al maggiorascato non fosse sostenuta dalla legge, la pratica tendeva a preferirla nella stragrande maggioranza dei casi, tranne alcune eccezioni. Le strategie potevano essere varie, tra XI e XII secolo la tendenza era quello a limitare il più possibile il matrimonio dei figli cadetti, o comunque a consentire solo a un figlio di sposarsi e continuare la stirpe. Proprio questo fu il caso dei Cadolingi, e anche il motivo per cui si estinsero alla settima generazione, sebbene quattro figli maschi fossero arrivati all'età adulta: tutti i fratelli cadetti morirono prima del conte Ugo, che a sua volta morì senza eredi. Un modo per mitigare questo rischio era quello di consentire più matrimoni in una generazione, assegnando tuttavia al figlio cadetto una parte esigua dell'eredità. Un'altra strategia era quella di non dividere formalmente il patrimonio familiare, ma di gestirlo in quote ideali divise tra i fratelli; tuttavia questa soluzione presentava non pochi problemi organizzativi e portava spesso a una divisione reale del patrimonio47. Nell’arco di circa duecentocinquant’anni, cioè tra la tarda età carolingia e la metà del XII secolo, l’Italia si coprì di una fitta rete di castelli, con un processo tutt'altro che lineare. Si tratta del famoso concetto di incastellamento, introdotto nel panorama storiografico italiano da Toubert48. In questa nuova fase di elevata conflittualità, il castello diviene allo stesso tempo simbolo e strumento del potere signorile. Inizialmente, questi castelli avevano principalmente una funzione protettiva nei confronti dei domini dei signori, e solo raramente la loro presenza si legava all'esercizio di prerogative giurisdizionali, come invece avvenne in seguito. Nel corso del secolo XI il numero delle signorie territoriali cresce costantemente, grazie alle sempre più numerose concessioni di diritti giurisdizionali ad aristocratici laici o chiese da parte del regno. Questi nuovi signori cercano di modellare la propria azione su quella dei grandi funzionari pubblici, per esempio tenendo come loro dei placiti. Accanto a questa tendenza si rileva quella

47Ibidem, pp. 30-33.

48M. E. Cortese, Una convivenza difficile. Castelli e città nell’Italia centro-settentrionale (secc. X-XII), «Studi storici», 2016/4, pp. 863-878.

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