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"Casa La Vita" di Alberto Savinio: tra autobiografia e mito.

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO

di

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO di LAUREA

in

LINGUA E LETTERATURA ITALIANA

TESI di LAUREA MAGISTRALE

CASA «LA VITA» di ALBERTO SAVINIO:

tra autobiografia e mito

CANDIDATO

RELATORE

Viola Giannelli

Prof.ssa Angela Guidotti

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INDICE

Nota Introduttiva

I.

1.1 La vita di Alberto Savinio

II.

2.1 Una poetica in cerca d’autore:

2.1.1 Parigi: luogo di pellegrinaggio, sperimentazione e santuario di

un’amicizia

2.1.2 Morfologia di un Animo Métaphysique

2.1.3 Un Surrealismo cucito su misura

2.1.4 Ideologia linguistica, scrittura ermafrodita, centrale creativa

III. 3.1 Quando un’idea prende forma: Casa «La Vita» genesi e struttura

3.2 Spicchi di sé: Tra autobiografia, mitologia, memoria e infanzia:

3.2.1 Chi ben comincia è a metà dell’opera: I luoghi del mito Saviniano:

(Alla città della mia infanzia dico, Figlia dell’imperatore, Vendetta

Postuma, Nuove metamorfosi di Ovidio)

3.2.2 Infanzia «come continua rivoluzione»:

(Trololò, Un Maus in casa Dolcemare, Mia madre non mi capisce

)

3.2.3 Il personaggio che si crea da solo:

(Flora, Il castellano di Philippeville, Walde «Mare»)

3.2.4 L’autore alla ricerca di sé come personaggio

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IV.

Conclusioni

V. Bibliografia

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Nota Introduttiva

Ho letto per la prima volta Alberto Savinio un paio di anni fa all’interno di un corso seminariale, tenuto dalla Professoressa Angela Guidotti, sul racconto italiano tra Otto e Novecento. Flora è stato il testo di Savinio trattato a lezione durante il seminario. Un racconto dei primi anni Quaranta, un testo, così perturbante e scritto con ancora tanta voglia di mettere in crisi le coscienze dei lettori di allora e di sempre, che mi è entrato dentro e ci è rimasto, alimentando una curiosità non completamente appagata. La voglia di leggere di più di questo autore mi ha portato all’incontro con la raccolta Casa «La Vita», da cui è tratto Flora, e con i diciassette racconti che la compongono. Quando la scintilla scocca non si può che rispondere “Eccomi” ed è quello che ho fatto, decidendo di incentrare la mia tesi magistrale proprio su questa raccolta e su quest’autore. Un viaggio letterario che mi ha aperto le porte su un mondo metafisico, surreale, linguisticamente complesso e proprio per questo così attraente. Ho strutturato il mio lavoro in tre parti per far conoscere la vita, la poetica e l’opera scelta in modo che l’ideologia di Savinio e il suo modo di vivere, quindi di scrivere, potessero essere fruiti al meglio. Tre capitoli, assecondando inconsapevolmente la passione di Savinio per il numero tre: nel primo si ripercorre la vita dell'autore, scorrendo come delle istantanee i momenti salienti di una biografia che influenzerà tutta la sua produzione artistica e letteraria; nel secondo si cerca di capire quali siano stati i punti fondamentali della sua poetica e quali i suoi modelli di riferimento e nel terzo si analizza la raccolta Casa «La Vita» con un'attenzione particolare ai legami che i singoli racconti hanno con il mito, la memoria e la vita dell’autore. Tre momenti che tessono la trama e l’ordito di una vicenda umana e artistica davvero straordinaria.

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Capitolo 1

1.1 La vita

Potrebbe sembrare quasi superfluo parlare della biografia di un autore come Alberto Savinio che ha intrecciato molte pagine della sua narrativa sul telaio della memoria e gran parte della cui narrativa assume l’impostazione di giornale di bordo. È comunque importante tirare i bandoli di una matassa biografica così intricata e ricca di dettagli, senza dimenticare come suggerisce Silvana Cirillo che: «Un discorso sulla biografia di Savinio è anche un discorso sulla sua cultura, sul suo ruolo all’interno degli ambienti artistici europei del Novecento, sulla sua poetica e sulle sue opere»1.

1891-1911: INFANZIA ED ESORDI

Il nome di battesimo di Alberto Savinio, fratello di Giorgio De Chirico, è Andrea De Chirico, anche se in famiglia lo chiamano fino all’età adulta Betty. Nasce ad Atene da genitori di origine italiana il 25 Agosto 1891 e la prima cosa che stupisce in lui è, in effetti, il gioco dei nomi. Il nome proprio, che è l’altare dell’identità, quello che si consegna alla memoria dei posteri, quello con cui si firmano le carte legali, in lui diventa elemento di sperimentazione. Savinio non accetta il nominativo dato dalla famiglia e nel 1914 a Parigi decide di darsene lui stesso uno tutto personale. Prende il nome, italianizzandolo, di un poligrafo francese: Albert Savin. Assai noto e apprezzato in quel periodo, ma presto rientrato nell’ombra, produceva opere letterarie amate dagli artisti parigini con cui Savinio aveva stretto un fortissimo sodalizio artistico e tra i quali cominciava a emergere come musicista e artista. «Io ho così poca fiducia nel potere magico del nome e del cognome che mi sono cambiato l’uno e l’altro» afferma in Maupassant e l’altro2. In realtà è proprio per assumere una propria fisionomia indipendente rispetto al fratello che cambia nome, ma, paradossalmente e

1 Silvana Cirillo, Alberto Savinio, le molte facce di un artista di genio, Milano, Mondadori, 1997, p. 2. 2 Alberto Savinio, Maupassant e l'altro, Milano, Il Saggiatore, 1960, p. 4.

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con un pizzico di ironia, non inventa il suo pseudonimo, come si fa solitamente, bensì ruba il nome a un altro. «Usa lo pseudonimo, ma ne smitizza la funzione, vieppiù spersonalizzandolo»3.

Il destino di noi uomini civili è nei nostri nomi e nei nostri cognomi: quindi non è vero che non contano. Molto rari gli uomini che non somigliano al loro nome e cognome. Molto rari

gli uomini il cui destino non è scritto nel loro nome e prescritto nel loro cognome4.

Per non subire il destino, dunque, Savinio, sceglie un altro nome che, oltre a dovere la sua rilevanza al fatto di essere deliberatamente selezionato da lui, racchiuda in sé e sottintenda già una scelta letteraria precisa. Le identità di Savinio sono dunque stratificate: all’anagrafe è Andrea De Chirico, in famiglia Betty, firma tutte le sue opere Alberto Savinio, ma in quelle autobiografiche egli si identifica come Nivasio (anagramma di Savinio) Dolcemare.

Come già detto nasce ad Atene da genitori italiani. Il padre Evaristo è un ingegnere trasferitosi in Grecia per lavorare nelle ferrovie, la madre Gemma Cervetto è una nobildonna di origine genovese. I rapporti con il fratello Giorgio, di tre anni più grande, conosceranno periodi di fruttuosa collaborazione artistica, ma saranno anche costellati di incomprensioni e tensioni, tanto che Savinio finirà per non menzionarlo nei libri dedicati alla propria infanzia5. Il piccolo Andrea fin da subito sviluppa con la Grecia un’intimità domestica che lo porta a vedere la sua terra natia come la culla, l’antica madre della civiltà mediterranea, un luogo di confine tra Occidente e Oriente, in cui convivono più lingue, costumi, culture, credenze e più esperienze.

S’intende per “Grecia” un modo di pensare, di vedere, di parlare che la mente, l’occhio, l’orecchio possono afferrare “di colpo”: possono afferrare in un pensiero solo, in uno sguardo solo, in una sola audizione. S’intende per Grecia una mente portatile e nei modelli

3 Ivi, pp. 4-5.

4 Alberto Savinio citato in Silvana Cirillo, Alberto Savinio, Le molte facce di un artista di genio, Milano, Mondadori, 1997, p. 4.

5 La sorellina primogenita, Adele, morta sei mesi prima della nascita di Andrea, appare invece in alcuni racconti dedicati ai ricordi d’infanzia, nonché in alcuni quadri.

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più alti tascabile. S’intende la facoltà […] di intelligere la vita nel modo più acuto e assieme più “frivolo” (i nostri Dei sono leggeri)6.

Questo legame con la sua patria coinvolge i porti, il mare (suo simbolo), le rovine, la mitologia (la sua storia) e anche gli Dei.

Grande privilegio essere nati all’ombra del Partenone: questo scheletro di marmo che non butta ombra. Si riceve in eredità una generatrice di luce interna e un paio di occhi trasformatori7.

La tonalità affettiva di Savinio verso questa realtà, fatta di personaggi mitici ed epici (basti pensare a Ermafrodito, a Mercurio, uno degli Dei prediletti, a Psiche, a Giove, ad Afrodite, a Ulisse, ai Dioscuri, agli Argonauti) addomesticati e rivisitati in modo dissacrante e umanizzante, sta nell’ironia irriverente. Può sembrare così che Savinio voglia farsi beffa della Grecia e degli dei, ma lui non ironizza su di loro più di quanto non lo faccia su se stesso. Il suo essere dissacrante porta a pensare che l’ironia ci possa aiutare a cogliere quell’aspetto metafisico in grado di smontare l’aureola di luce e tradizione creata da secoli attorno al patrimonio mitico. Allo stesso tempo, però, la sua italianità diviene una scelta e, quindi, una straordinaria opportunità di definire la propria identità culturale come atto volitivo, creativo:

Italiano nato fuori dall’Italia, Nivasio Dolcemare si considera un privilegiato. Questa nascita “indiretta” è una situazione ironica, una soluzione di stile, una condizione che alle facoltà nazionali dell’uomo Dolcemare aggiunge alcune sfumature, alcune sottigliezze che la nascita “diretta” non consente. Italiano più italiano dell’italiano, perché “italiano” in lui

non è “stato locale”, ma condizione voluta, scoperta, conquistata8.

L’infanzia passata nella Grecia di Giorgio I, attraversata dal contrasto stridente fra passato eroico e presente borghese, rappresenterà un serbatoio inesauribile di immagini, sensazioni e suggestioni per

6 Alberto Savinio, Vita di Enrico Ibsen, Milano, Adelphi, 1979, p. 9.

7 Alberto Savinio, Narrate, uomini, la vostra storia, Milano, Bompiani, 1944, p. 247.

8 Alberto Savinio, Infanzia di Nivasio Dolcemare, Milano, Mondadori, 1941; ristampato Torino, Einaudi, 1973, 1982. Ora in Hermaphrodito e altri romanzi, a cura di A. Tinterri, con un’introduzione di A. Giuliani [Savinio dei Fantasmi], Milano, Adelphi, 1995, pp. 461-564.

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tutta la sua opera artistica. Il padre Evaristo vigila con attenzione sui figli Giorgio e Andrea, cercando di assicurargli una formazione solida e mirata. Sotto il suo occhio attento, il primogenito coltiva la sua inclinazione per il disegno e la pittura, Savinio quella per la musica, guidato da Hermann Lafont, e si diploma nel 1903, a dodici anni, in pianoforte e composizione al Conservatorio di Atene. Due anni più tardi compone un Requiem per la morte prematura del padre, avvenuta in quello stesso anno. Cambiata la situazione familiare ed economica, i De Chirico si trovano costretti a rientrare in Italia.

Era il 1905 e mio padre era morto. La casa era chiusa, dispersi i mobili e sul finire dell’estate ci imbarcammo a Patrasso sul Romània della Navigazione generale italiana. Lasciavo la terra nella quale ero nato e avevo consumato la parte mitica della mia vita, partivo per un’altra terra di cui non avevo ancora se non una conoscenza ideale, ma alla quale mi sentivo legato da vincoli di sangue e di pensiero. Il primo contatto con L’Italia fu su quella nave. Fu come una seconda nascita e più reale della prima. Sentii che una nuova vita cominciava per me9.

Nella nuova vita il viaggio diventa quindi filo conduttore sotterraneo ed elemento propulsore della scrittura saviniana: Leitmotiv tematico, habitus mentale e cifra stilistica, ove la mobilità prospettica e interpretativa si sposa con uno sfrontato sperimentalismo programmatico. Dopo brevi soggiorni a Firenze, a Venezia e a Milano, di cui si ricorderanno entrambi i fratelli nei loro scritti, nel 1906 si trasferiscono a Monaco di Baviera, dove Alberto continua gli studi di musica e composizione con Max Reger: «Allora quindicenne prendeva lezioni di armonia e contrappunto dal famoso compositore Max Reger, che allora in Germania era soprannominato il Bach moderno»10. Nello

stesso anno, appena quindicenne, Savinio compone musica e libretto dell’opera in tre atti Carmela che Pietro Mascagni propone addirittura a Tito Ricordi perché ne finanzi la rappresentazione proprio a Monaco, ma l’opera non verrà mai rappresentata. A Monaco si avvia anche agli studi

9 Alberto Savinio, Narrate uomini la vostra storia, Bompiani, Milano, 1942, p.54. 10 Giorgio De Chirico, Memorie della mia vita, Roma, Astrolabio, 1945, p. 23.

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classici: «Adolescente passava giornate e notti a studiare il latino, il greco, la filosofia, la letteratura, la storia, scrivendo saggi, componendo poemi, lavorando e meditando instancabilmente»11.

Ovviamente i due fratelli studiano privatamente, perché si spostano da una città all’altra con la madre, ma proprio questo “nomadismo” rappresenta la fortuna intellettuale per entrambi: non si fermano mai, non mettono le radici, né si fossilizzano in alcun luogo, il che offre loro occasioni di incontri, conoscenze e scambi culturali assai proficui. La nascita in Grecia, così come tutti i suoi trasferimenti e l’essere fondamentalmente apolide si trasformano per Savinio in una situazione favorevole per la creazione di una sua cultura personale, eclettica e dinamica. Il nomadismo diventa quindi non solo una vicenda biografica, ma una “soluzione di stile”: plurilinguismo e versatilità saviniane nascono dalla possibilità di attingere alle fonti più prolifiche e più vivaci del momento. Egli stesso per definirsi usa il termine greco «polipragmosine», che vuol dire, appunto, “dedicarsi a più arti”: e lo usa con orgoglio a dispetto della cultura contemporanea tradizionalista che lo legge, invece, come deprecabile spreco di tempo.

Praticare per tutta la vita la medesima arte è darsi in pasto alla noia. E se la morte fa prima a pigliarsi gli specialisti, gli uomini dalla gamba sola, i violinisti di una sola corda, è perché se li ritrova già belli e impacchettati dalla noia come l’arrosto che il macellaio vende già apparecchiato, lardarellato12.

Tutto questo significa non volersi specializzare, ma voler abbracciare, come un polpo13, moltissime discipline e tutte con la massima dedizione. L’arte, la teoria dell’arte e la poetica saviniane sono improntate (ecco una fondamentale differenza con l’eversività del futurismo anche nei momenti di apparente prossimità) a una volontà di ricerca, di conoscenza a tutto tondo, quindi Savinio non si propone di trovare una sola verità, non vuole proprio cercarla, perché:

11 Giorgio De Chirico in Memorie della mia vita citato in Silvana Cirillo, Alberto Savinio, Le molte facce di un artista di genio, Milano, Bruno Mondadori, 1997, p. 9.

12 Alberto Savinio citato in Silvana Cirillo, Alberto Savinio, Le molte facce di un artista di genio, Milano, Mondadori, 1997, p. 13.

13 «Se, secondo le regole del vecchio gioco, qualcuno ci chiedesse a quale animale si potrebbe paragonare Alberto Savinio, senza esitazione risponderemmo: a un polpo. Un polpo dotato di infinite braccia in continuo movimento, inafferrabili e di mille tentacoli, avviticchiati ai materiali più eterogenei e imprevedibili» Ivi, p. 1.

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[…] chi vive di una sola verità e chi nutre una sola idea, o un solo modo di pensare, è un uomo arido, di poche possibilità, è un uomo che non riesce a cogliere i molteplici segnali che manda il mondo circostante. Dunque non dogmatismi, non autoritarismi, non verità uniche14.

Intanto la permanenza nel capoluogo bavarese si mostra per Savinio infruttuosa e allora il giovane con il suo bagaglio di malinconie e di varie esperienze di apolide si reca a Parigi.

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1910-1915: Il PRIMO SOGGIORNO PARIGINO

In quegli anni Parigi è una città che offre generosa accoglienza a uomini di varia nazionalità e non è ostile neppure a questo italiano nato in Grecia e proveniente dalla Germania. Quando Savinio mette piede per la prima volta nella capitale francese è il 25 febbraio 1910 e lui possiede esattamente l’età, diciotto anni e sei mesi, in cui si comincia a dar corpo ai sogni.

Io non voglio essere il pupattolo pendente dalle mammelle di alcuna lupa, né di quella tedesca, né di quella francese, né di quella italiana. Il latte me lo trovo da me solo. Quello che a me importa è l’assoluta indipendenza di idee, di spirito e d’azione. Non tollero che si venga a rompermi le suppellettili con dei compendi artistici stipulati da qualche concistoro d’intellettuali imbottiti di imbecillità con la sanzione della cortigianeria d’un qualsiasi principato o granducato. Io voglio pensare, lavorare, produrre lì dove accademie e professori non hanno alcun potere esecutivo, benché testardo nel voler poggiare nelle abitudini quotidiane, secondo le costumanze sacerdotali, sebbene appartato dalla società, con gli antichi pontefici, pure io voglio vivere nella città rombante di moto vivente e meccanico15.

Ovvero Parigi, la metropoli che stupisce e attrae, che si fa amare e odiare, ma che comunque è la città più viva del momento, impegnata nella lotta per la libertà, rigenerata rispetto alle vecchie usanze e pronta a offrire ospitalità a tutti gli uomini anelanti ad affrancarsi dalla schiavitù. Savinio ne viene coinvolto:

[…] Voglio vivere nella città ove l’atmosfera è scarica di Stimmung; fra la gente educata per tradizione o per pigrizia, alla dolce indifferenza. Voglio passeggiare nelle vie e nelle piazze dove non inciampi nell’opprimente tradizionalismo o nei paralitici o irrigiditi canoni dell’estetica buffona. Io voglio vivere a Parigi16.

La Ville Lumière, dove risiederà in vari momenti della sua vita, è anche la capitale dell’attività artistica, della modernità e dei movimenti d’avanguardia, in primo luogo Cubismo e Futurismo,

15 Alberto Savinio, La realtà dorata (Arte e storia moderna. Guerra. Conseguenze), in «La voce», III, 2 (febbraio 1916), pp.75-90.

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dominati da figure quali Pablo Picasso e Guillaume Apollinaire che acquisteranno per lui un profondo significato. La prima attività parigina di Savinio è quella del compositore e del musicista o in senso più pieno quella di “teorico della musica”. Questo vitalismo musicale e il rifiuto di ricerche armoniche, esattamente l’opposto della ricerca tradizionale di armonia e contrappunto cui Reger lo aveva indirizzato, esaltano la frenesia e lo sperimentalismo compositivo di Savinio. Nei suoi sogni non ci sono ancora né la letteratura, né la pittura, ma solo la voglia di apprendere e creare in campo musicale. Compone principalmente musica per pianoforte che esegue personalmente. I concerti saviniani raggiungono una considerevole notorietà, come testimonia Ardengo Soffici che ne descrive i primi passi come musicista:

[Savinio] s’è fatto distinguere in questi ultimi tempi per il coraggio formidabile col quale s’è dato a rinnovare l’arte della musica, e anche per una violenza di esecutore, sul pianoforte, delle sue creazioni, che fa di lui un mostro degno di storia. Un salvatore dell’umanità, magari, per chi stia alle parole del suo e nostro amico Apollinaire. Per ciò che è della musica mi dichiaro incapace di giudicarla, sebbene l’abbia gustata. I competenti dicono che è ottima al punto che Marinetti, si prevede, ne andrà matto senza pregiudizio dei nostri Pratella e Russolo17.

Anche Apollinaire ricorda queste performances su Paris Journal:

Le performances saviniane sono caratterizzate da una spettacolare violenza di esecuzione e da una carica eversiva che si apparenta, almeno esteriormente, con lo spirito iconoclasta dei celebri interventi spettacolari dei futuristi18.

Proprio in quegli anni, 1911-1913, vengono pubblicati i manifesti futuristi sul teatro, sulla musica e sui rumori, che costituiscono tutta la teorizzazione futurista sul suono. Savinio finge, però, di ignorare questi primi manifesti di Francesco Balilla Pratella e Luigi Russolo19 che, ovviamente, sono conosciuti anche a Parigi, così come il Futurismo. Ci pensa però Soffici a fare un confronto fra

17 Ardengo Soffici, De Chirico e Savinio, in Opere, Firenze, Vallecchi, 1959, vol. I, p. 315. L’articolo, in origine apparso in «Lacerba» (1914), è stato ristampato in Alberto Savinio, Scatola Sonora, cit., p. 437.

18 Guillaume Apollinaire, Musique nouvelle, in «Paris Journal», 21 maggio 1914.

19 Il manifesto dei musicisti futuristi di Francesco Balilla Pratella, Il Manifesto tecnico della musica futurista e L’arte dei rumori di Luigi Russolo.

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musica futurista e Sincerismo, la nuova corrente musicale creata, appunto, da Savinio e la quale teorizza una musica dissonante. Soffici inizia dicendo: «Ho assistito anch’io a un concerto dato dallo stesso Savinio nelle “Soirées de Paris” e posso certificare che quanto afferma Apollinaire è assolutamente esatto»20. Soffici si riferisce a quanto riferito sopra da Apollinaire sul fatto che Savinio nelle sue performance, caratterizzate da una spettacolare violenza d’esecuzione e da una forte carica eversiva, arrivi a insanguinare tutti i tasti del pianoforte e che finisca per stracciarsi gli abiti per la foga, pur mantenendo allo stesso tempo una sua compostezza. A questo proposito Apollinaire dichiara inoltre:

Una ricerca così libera, pluristilistica, così poco attenta all’armonia, anzi disarmonizzante, dava come risultato una stranissima sensazione di austerità, di rigore, che era anche sintomo di serietà nella ricerca21.

È quindi facile che si possa creare un’associazione fra l’uno e l’altro tipo di musica, visti i comuni punti di partenza: l’assoluta negazione di un’arte musicale imitativa di stampo impressionista; una volontà di staccarsi dai precedenti compositivi musicali; la miscela di vari suoni e rumori all’interno dello spartito. È necessario però ricordare come fa Silvana Cirillo che:

La musica futurista voleva creare qualcosa di nuovo tout court, partendo dalla tabula rasa; voleva inventare una nuova musica e una nuova realtà che fossero assolutamente legate ai tempi e arricchite dai rumori, dai suoni della contemporaneità: il famoso novecentismo, proiettato anche in questa visione musicale; quindi: pura invenzione musicale, voluttà assoluta, ricreazione tout court. L’arte di Savinio, invece, non intendeva inventare una realtà alternativa, ma voleva scoprire qualche cosa di diverso, che esistesse già nella realtà; quindi la sua era un’arte tendenzialmente conoscitiva, un’arte che doveva svelare,

20 Ardengo Soffici citato in Silvana Cirillo, Alberto Savinio, Le molte facce di un artista di genio, Milano, Mondadori, 1997, p. 74.

21 Guillaume Apollinaire citato in Silvana Cirillo, Alberto Savinio, Le molte facce di un artista di genio, Milano, Mondadori, 1997, p. 74.

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attraverso dramma, visualità spettacolare, musica, sonorità e tutti i sensi e far emergere il mondo subliminale sconosciuto, il mistero22.

La produzione di Savinio degli anni parigini, dal punto di vista strettamente musicale, è poi influenzata soprattutto dalle esperienze di Eric Satie e Igor Stravinskij. Come nota Alberto Jona:

Si rivolge a Satie per quanto riguarda l’umorismo musicale, la teatralità e la provocazione fantasiosa e inoltre a Stravinskij per quanto riguarda l’aspetto più strettamente compositivo. Di Satie Savinio coglie la dimensione irrispettosa verso la cultura “dominante”; di Stravinskij fa propri i tipici procedimenti politonali, il piacere sintattico della giustapposizione stridente e la percussività insistente23.

Savinio attribuisce un ruolo basilare al ritmo, identificato come «elemento drammatico della composizione musicale, secondo l’identità “movimento ritmico-espressione riassuntiva della vita»24. In effetti la veemenza espressa nei suoi concerti è coerente con la sua visione dell’opera d’arte intesa come stimolo dell’azione umana e detonatore di atteggiamenti trasgressivi e trascinanti. “Trascinante” è infatti il qualificativo che meglio si adatta alla musica considerata come espressione ritmica. L’arte di Savinio, variopinta e funambolica nei mezzi e nei modi espressivi, dimostra tuttavia una sorprendente unitarietà di intenti e coerenza di pensiero. Michele Porzio, nella sua monografia sull’opera musicale di Savinio, ne ha sottolineato lo stretto legame strutturale con le ipotesi fondanti delle altre discipline artistiche:

L’impalcatura armonica delle composizioni di Savinio rivela infatti una precisa rete di analogie con l’organizzazione spaziale e prospettica della metafisica pittorica, permettendo di tracciare celate consonanze strutturali, ancora scarsamente approfondite, tra la musica e le arti figurative del nostro secolo. La seconda stagione compositiva si arricchisce delle

22 Silvana Cirillo, Alberto Savinio, Le molte facce di un artista di genio, Milano, Bruno Mondadori, 1997, p. 75. 23 Alberto Jona, Savinio e la non mai conoscibile, in «Sonus. Materiali per la musica contemporanea», III, 3 (giugno-luglio 1991).

24 Alberto Savinio, Primi saggi di filosofia delle arti, in «Valori plastici», III, 2-3 (1921); ora in Torre di guardia, Palermo, Sellerio, 1977, p. 241.

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tematiche frattanto elaborate dalla sua letteratura, ora congiunte in una sintesi di parola e suono che celebra una medesima idea dell’arte e della vita25.

Nel 1914 Savinio esordisce anche come scrittore sulla rivista «Le soirées de Paris» in cui pubblica il poema drammatico Le chants de la mi-mort26: per questo testo Savinio disegna anche le illustrazioni e scrive una suite per pianoforte, rimasta incompiuta. L’atto unico, scritto in francese con inserti di italiano, si articola in quattro scene o episodi blandamente collegati fra di loro. Per Ugo Piscopo: «Il titolo Le chants de la mi-mort sembra scaturire dalla poesia apollinairiana, dal tema dei morti, dei semimorti, dei morti viventi che assistono al triste spettacolo della loro decomposizione e della solitudine»27. La “mezza-morte” si riferisce, però, anche al sonno e gli Chants hanno ovviamente una struttura onirica, nella quale i personaggi si muovono come i giocattoli meccanici di quella fase culturale di ricerca in cui l’uso dei “manichini” nasce da un’esigenza di spettacolarizzazione, di esibizione, di denudazione dell’uomo nuovo e delle sue vicende. Riguardo a quest’opera Savinio ci dice:

Ammettiamo che si voglia fare un melodramma all’interno di una stanza. La parte drammatica è quella che si svolge dentro e la parte musicale può essere qualunque suono che venga dal di fuori. Anche il suono di una tromba, anche il rumore dei lavoratori che si dedicano alle proprie attività artigianali. In sostanza, nella rappresentazione deve entrare tutto quello che succede28.

Negli Chants avviene proprio questo: entrano in scena tutti gli elementi che in un dato momento esistono, sia a livello musicale, sia a livello drammatico, senza che necessariamente ne nasca armonia. Per cogliere la realtà e disvelarla, secondo le indicazioni saviniane, dobbiamo cogliere

25 Michele Porzio, Savinio Musicista. Il suono metafisico, Venezia, Marsilio, 1988, pp. 9-10. 26 Alberto Savinio, Le chants de la mi-mort, opera lirica in un atto, 1914.

27 Ugo Piscopo, Alberto Savinio, Milano, Mursia, 1973, p. 57.

28 Alberto Savinio citato in Silvana Cirillo, Alberto Savinio, Le molte facce di un artista di genio, Milano, Mondadori, 1997, p. 74.

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tutto quello che avviene senza la volontà di armonizzare, tipica invece di operazioni artistiche precedenti, ottocentesche e impressioniste:

Un miscuglio di stili tale che possano entrare per esempio dei canti, voci isolate o voci corali, delle grida, dei richiami, dei singhiozzi, degli urli, e poi delle danze, delle danze, delle danze. Tutti i tipi di suoni più articolati, meno articolati, più armoniosi, meno armoniosi e poi il movimento, la danza, il melodramma. Il melodramma deve farsi sentire fisicamente. Deve toccare tutti i sensi, farsi cogliere sinestesicamente, da tutto l’uomo,

fisico, psichico, mentale29.

A livello di narrazione gli Chants procedono poi, secondo Maria Elena Gutiérrez, con bruschi salti di stile, immagini ardite e un linguaggio fitto di ossimori, in una dimensione che si potrebbe definire come protosurrealista:

Le disarmonie, i salti logici e le immagini conturbanti che definiscono lo spazio degli Chants mirano direttamente a creare un’atmosfera paradossale che disorienta il lettore e lo spettatore. Questa singolare «opera prima» denota subito una fortissima personalità, e si segnala per uno stile e una struttura che anticipano alcune delle caratteristiche essenziali del Dadaismo e del Surrealismo con cui Savinio avrà rapporti intensi e fruttuosi, senza peraltro mai procedere a una esplicita adesione. Breton stesso riconoscerà questo debito, e includerà nella Anthologie de l’humour noir alcuni passi da Les chants de la mi-mort, presentando Savinio (unico italiano nell’antologia) come uno dei fondatori del movimento surrealista30.

Breton riconosce che:

Tout le mythe moderne encore en formation s’appuie à son origine sur les […] ouvres […] d’Alberto Savinio et de son frère Giorgio De Chirico, ouvres qui atteignent leur point

29 Alberto Savinio, Il dramma e la musica, cit. in Silvana Cirillo, Alberto Savinio, Le molte facce di un artista di genio, Milano, Mondadori, 1997, pp. 72-73.

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culminant à la veille de la guerre de 1914. Les ressources du viauel et de l’auditif se trouvent par eux simultanemènt mises à contribution pour la création d’un language symbolique, concret, universellement intelligible du fait qu’il prétend rendre compte au plus haut degré de la réalité spécifique de l’époque (l’artiste s’offrant à être victime de son temps) et de l’interrogation métaphysique propre à cette époque31.

Con gli Chants Savinio getta le fondamenta per la sua idea dell’opera d’arte: sostiene la rilevanza per la produzione artistica del demi-sommeil, o demi-mort, e sviluppa la concezione dell’arte come esperienza di shock; evidenzia inoltre l’importanza della valorizzazione dell’infanzia in quanto periodo non razionale e non condizionato della vita dell’uomo e, come più tardi la definirà Andrè Breton nel suo Manifesto del movimento surrealista (1924), «vrai vie»32 dell’artista. Il registro onirico e grottesco che Savinio adopera in Les chants de la mi-mort, il linguaggio ricco e pieno di figure retoriche e la ricerca dello spaesamento attraverso la meraviglia, diventano delle costanti del suo stile espressivo. In quest’opera sono poi già esposti molti dei temi e delle immagini che saranno sviluppati dagli artisti della «Scuola metafisica»: basta ricordare i manichini, che gran ruolo avranno nella pittura di De Chirico, che subentrano agli umani come inquietanti personaggi drammatici, e l’antitesi fra statue e umani. Negli Chants viene iniziato anche il tema del ruolo creativo dello spazio onirico: i sogni raffigurano, da un lato, la fase innovatrice per antonomasia, in cui la ragione molla i freni inibitori, dall’altro, lo spazio favorito per l’investigazione del subconscio: «Non gli occhi guardano, ma quel terzo occhio che al dire degli Stoici portiamo al sommo del cervello, e non si apre se non agli spettacoli dei sogni»33. La via su cui Savinio si è messo è, dunque, quella antica e sempre nuova del sogno. Per Savinio essa riconduce indietro fino al XII secolo e ancora più indietro fino al tempo delle guerre persiane:

31 André Breton, Anthologie de l’humour noir, cit., p. 367.

32 André Breton, Manifeste du Surréalisme, Venezia, Edizioni del Cavallino, 1945, p. 14.

33 Alberto Savinio, Drammaticità di Leopardi [1938], con un’introduzione di Natalino Sapegno, Roma, Edizioni della cometa, 1980, p. 34.

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Lo spirito dell’arte moderna si ricongiunge con freccie che fan la spola e con fili telegrafici al XII secolo; da cotesto XII secolo le freccie e i fili corrono verso quel meraviglioso Onata artefice di xoani, amico dei sogni, il quale era toccato dalle mani dolci dei fantasmi che hanno le dita tiepide […]. E la sola vera nostalgia, pel dolce dolore nostro e la nostra ardente felicità, ci deve dare in preda ai fantasmi. Ai fantasmi consolatori, ai fantasmi che passeggiano al sole e nei luoghi chiari, ai fantasmi che sanno toccare i prediletti con gesto così dolce che par benedizione34.

Nello stesso periodo, fra il 1913 e il 1914, Savinio inizia a collaborare come critico musicale a «Le guide musical» e «Paris Journal». L’attività di critico e giornalista continuerà per tutto il corso della sua vita, da un lato svolgendo la funzione banale di garantirgli un reddito, dall’altra permettendogli continue opportunità per iniziare a dar forma a pensieri e idee che verranno poi spesso rielaborati e approfonditi nelle opere maggiori. Per Savinio le riviste e i giornali assumeranno così il ruolo di una sorta di quaderno di appunti disponibile alla fruizione del pubblico.

34 Alberto Savinio, La realtà dorata. (Arte e storia moderna. Guerra. Conseguenze), in «La Voce», 29 Febbraio 1916, n. 2, pp. 75.

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1915-1925: RIENTRO IN ITALIA E «SCUOLA METAFISICA»

Nel 1915 Savinio e il fratello Giorgio, immersi nel fervore creativo di Parigi, partono dalla capitale francese per rientrare in Italia e recarsi a Firenze, presso il distretto militare, desiderosi di prendere parte alla guerra. Savinio mostra tutti i segni della sua educazione parigina e dell’influenza di Apollinaire, a cui si sente molto legato, oltre che per la comune esperienza di sradicati, anche per la decisione di rispondere alla chiamata alle armi:

Apollinaire si era precipitato ad arruolarsi, ma egli fece questo, non tanto per amore della Francia, come molti ingenuamente credono, quanto perché egli aveva delle origini molto imbrogliate e oscure; era di origine polacca, cioè la madre sua era polacca, ma poi era nato in Italia, a Roma; pare che suo padre fosse italiano; aveva passato la fanciullezza nel principato di Monaco e la giovinezza in Germania; finalmente si era stabilito a Parigi. Egli anelava quindi ad appartenere ad un Paese, ad una razza, ad avere un passaporto in regola. È una cosa che provano molti di quelli che essendo originari di un Paese sono nati in un altro. Molti provano questa specie di pudore e vergogna di essere nati in un Paese, mentre hanno la nazionalità di un altro Paese, insomma di non essere per esempio italiani nati in Italia da genitori italiani, a francesi nati in Francia da genitori francesi. Molti hanno questo pudore ed anch’io e mio fratello l’abbiamo avuto ed ingenuamente allora abbiamo pensato che presentandoci alla chiamata alle armi per fare, come si suol dire, il nostro dovere, avremmo cambiato qualche cosa35.

Savinio e il fratello vengono destinati al 27° reggimento di fanteria a Ferrara e qui, sotto la risolutiva influenza di Giovanni Papini, fondano con Carlo Carrà un movimento artistico a cui danno il nome di «Scuola metafisica» che rappresenterà una delle più emblematiche esperienze artistiche del Novecento italiano. Al movimento aderiranno in seguito Giorgio Morandi, Giuseppe Ravegnani e altri artisti. Nel 1916, per sottrarsi all’isolamento e al tedio della vita militare, Savinio intensifica i rapporti con Ardengo Soffici e Giovanni Papini e comincia a collaborare anche alla

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rivista «La voce» di Giuseppe Prezzolini che due anni prima aveva ceduto la direzione a Giuseppe De Robertis. Quando si parla di “rifuggire l’isolamento e il tedio” rispetto all’esperienza militare di Savinio è perché, durante la I Guerra Mondiale, Alberto fa il servizio militare nelle retrovie e in zone periferiche, senza tralasciare le occasioni di divertimento quando gli capitano:

[…] Lasciò l’onore di sacrificarsi sull’altare della Patria con la «p» maiuscola, come allora si usava scrivere e come il nostro stesso autore scriveva, a poveri e anonimi diavoli, molti dei quali venivano dalle campagne meridionali e non si erano mai sentiti solleticare all’idea che la guerra è moralizzatrice o che «un cannone è bello plasticamente; ma più bello è quando spara»36.37

Sicuramente, nel trattare questi temi, l’autore intende illustrare e forse esaminare a fondo qualche aspetto della sua poetica e non, invece, intervenire su un piano pratico e politico. Il problema è stato che la “polemologia”, come oggi è definita l’esaltazione della guerra e del militarismo di marca futurista, condivisa anche da Savinio, ha avuto un ruolo non trascurabile nello svolgimento dei fatti di quel tempo oltre i limiti ristretti dell’attività letteraria, come favoreggiamento del bellicismo e del nazionalismo. L’impegno a favore della guerra dopotutto celava, come già detto, anche una necessità di carattere strettamente letterario e artistico: l’esigenza di modificare e ampliare il gusto, al di là o contro gli schemi e le prescrizioni ufficiali della società. È un voler polemizzare, inteso ad avvalorare l’avventura degli artisti anticonformisti che dal secondo Ottocento in poi si sono opposti ai riti e alle tradizioni della società borghese e hanno scelto di vivere coscientemente la loro condizione di artisti eretici. Anche una volta trasferitosi in Italia Savinio mantiene una fitta rete di contatti internazionali, rimanendo al centro delle correnti di avanguardia europee. Sviluppa tra le altre cose un forte scambio epistolare con Tristan Tzara, fondatore del Dadaismo, e collabora a «Da-da», nonché alla rivista «Nord-Sud» di Pierre Reverdy. Nel 1917 Savinio viene inviato in

36 La guerra, in Hermaphrodito, cit., pp. 34-37.

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Grecia, a Salonicco, come interprete per le truppe italiane: è il momento per scoprire nuovamente i luoghi mitici della sua fanciullezza con gli occhi della maturità. Da questo viaggio trae molti spunti per il tema centrale del racconto La partenza dell’argonauta (dedicato a Giovanni Papini) che insieme ad altri frammenti, alcuni in lingua francese, confluisce in Hermaphrodito (1918), opera che d'altra parte risente nel suo complesso di questa esperienza di vita. A partire da questo scritto l’elemento autobiografico diventa onnipresente nell’opera di Savinio fino a creare un’autentica rete di interconnessioni e richiami fra le varie opere. Si sviluppa così uno stretto rapporto dialogico fra biografia e opera d’arte, una mappa di intrecci fra vita vissuta e letteratura:

In Tragedia dell’infanzia […] è trascritta la tragedia della mia infanzia. In Infanzia di Nivasio Dolcemare […] è narrata la storia della mia infanzia e della mia adolescenza. In Souvenirs […] sono raccolti i ricordi dei miei due lunghi soggiorni a Parigi (1910-1915 e 1925-1933). In La casa ispirata […] è narrata una mia avventura parigina anteriore al 1914 e protratta nel primo anno della Grande Guerra. E quando si saranno letti anche alcuni miei racconti sparsi in vari libri […], della mia vita si avrà la storia quasi per intero […] Chi volesse anche conoscere la mia storia in forma musicale, ascolti il mio balletto Vita dell’uomo38.

Il romanzo Hermaphrodito, opera decisamente sperimentale, è un complesso testo plurilingue, nel quale si fondono autobiografia e romanzo, versi e prosa, fantasie e riflessioni; è una specie di diario di viaggio che racchiude episodi della Grande Guerra, veri e al tempo stesso immaginari. Il testo è controverso, non ha una struttura uniforme, né a livello linguistico né stilistico e gli episodi sono flebilmente uniti fra loro, “casuali”, dato che la loro sistemazione nasce dall’ordine della pubblicazione nei vari anni e non da una coerente consequenzialità. L’interlocutore è investito da un linguaggio franto, spiazzante e spaesante che mira a divertire, ma soprattutto a provocare. Ed è da “spettatore sano” e incapace di apprezzare criticamente questo anti-romanzo che reagisce Giuseppe

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Prezzolini. Nonostante abbia ospitato sulla sua rivista, «La voce», le prime puntate dell’opera, la stronca, prendendone le dovute distanze e definendo il lavoro «una pustola e un bubbone indecente»39. Non manca però chi sappia apprezzare le varie novità presenti nel testo, come Giovanni Papini, che la recensisce in modo positivo, nonostante sottolinei la difficoltà di darne una definizione.

Hermaphrodito non è un romanzo […], non è un libro di poesie […], non è neppure un diario di spunti e capricci […]. È un libro che sembra un emporio levantino, un bazar di tappeti d’ottoni, dove soltanto il padrone può ritrovarsi, dove il novizio si perde, sbattendo il muso contro una lumiera di rame […]. Ma nel disordine c’è un ordine, nella stravaganza una ragione, nelle dissonanze un’armonia40.

Quest’opera “altra” è sicuramente una sorta di allenamento artistico e di preludio alle opere successive. Savinio stesso accoglie questi termini con molto humour, quasi con orgoglio e volontà di trovarne un risvolto positivo. Dichiara infatti:

Tutto che io sono nasce da lì. Tutto che ho fatto viene da lì. Non c’è idea, pensiero, concetto, sentimento, immagine da me espressi di poi in quella ventina di volumi che compongono la mia opera letteraria […] che non tragga da quella “pustola” e da quel “bubbone”, indecente l’una e malefico l’altro, ma straordinariamente fecondi ambedue41.

Nel 1918, finita la guerra, Savinio si trasferisce a Milano e poi si stabilisce a Roma. L’esperienza bellica lascia un segno indelebile nell’animo di molti e prosciuga non poco la spavalderia giovanile degli intellettuali ardentemente interventisti e nocivamente propensi a fraintendere o a scherzare con la formula “letteratura come vita”. Questo è quello che Renato Serra aveva presagito che sarebbe

39 Maria Elena Gutierrez, Alberto Savinio. Lo psichismo delle forme, Cadmo Edizioni, 2000, p. 83.

40 In «Il tempo» 2 gennaio 1919 e anche in «Il resto del Carlino» 3 gennaio 1919: ristampata in G. Papini, Ritratti italiani (1904-1931), Firenze, Vallecchi, 1944; ora in Opere, Milano, Mondadori, 1977, pp. 715-720.

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successo dopo la sventura della guerra: la vita avrebbe ripreso il suo corso sempre in difesa di un ordine antico:

Che cosa è che cambierà su questa terra stanca, dopo che avrà bevuto il sangue di tanta strage: quando i morti e i feriti, i torturati e gli abbandonati dormiranno insieme sotto le zolle, e l’erba sopra sarà tenera lucida nuova, piena di silenzio e di lusso al sole della primavera che è sempre la stessa? E alla fine tutto tornerà press’ a poco al suo posto. La guerra avrà liquidato una situazione che già esisteva, non ne avrà creata una nuova42.

Gli intellettuali superstiti e non solo, non possono esimersi da un esame di coscienza in cui riesaminano l’assurda frivolezza alla quale si sono abbandonati alla vigilia dello scoppio bellico e con la quale hanno calcolato i valori della vita e l’indipendenza dei popoli su mere cifre oratorie. E così per Savinio gli anni del dopoguerra sono, come letterato, un ritorno ad un mestiere lontano dall’effervescenza prebellica e allo stesso tempo motivo di riflessione e depurazione. Il suo primo approccio con l’arte era stato con la cultura francese e adesso Savinio, man mano che si sta imbevendo delle tendenze della letteratura italiana, sente il bisogno di riesaminare la sua formazione e la sua preparazione e apprendere quelle norme grammaticali che prima aveva usato irrazionalmente o aveva volutamente ignorato e violato. La voglia, comune a molti altri autori reduci da esperienze belliche, di una letteratura “pulita e ordinata” si inserisce in un percorso inevitabile di autocritica su tutto il lavoro svolto fino a quel momento.

[…] dopo una prima travolgente esplosione creativa, gli intellettuali europei si accorgono che è necessario procedere con maggiore cautela, che è opportuno risvegliare gli antichi padri, avere sotto gli occhi dei modelli, diffidare del facile linguaggio usato per l’innanzi, darsi una solida preparazione filologica, per poter così costruire su stabili terreni l’edificio della nuova civiltà43.

42 Renato Serra, Esame di coscienza di un letterato, Milano, Treves, 1915, p. 28. 43 Ugo Piscopo, Alberto Savinio, Milano, Mursia, 1973, p. 119.

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A Roma Savinio, insieme al vecchio gruppo dei metafisici, cui si uniscono anche altri pittori fra cui Ardengo Soffici, dà vita a un movimento artistico che troverà il suo punto di riferimento teorico nella rivista di critica d’arte «Valori Plastici» diretta dal pittore e collezionista Mario Broglio.

Sulla rivista di Mario Broglio, Savinio riprende, approfondendoli, i concetti di arte metafisica come ricerca del mistero e del meraviglioso nel reale; come impegno assoluto, che penetri «ogni dominio sociale: politica, finanza, esercito, clero»: come esaltazione dell’oggetto, perché «oggetti, cose, persone sono segni in se stessi, che solo nel proprio esser visti soli, senza contesti, svelano un altro collegamento tra di loro, non legato a dati psicologici o a pretese di fruizione».44

Sempre nella capitale Savinio conduce personalmente un’intensa attività di critico, occupandosi d’arte, di letteratura, di musica e di cinema e scrivendo prefazioni a libri e articoli su giornali e riviste, fra cui spiccano «Il Primato», «Il Mondo» ma soprattutto «La Ronda»45. Negli scritti rondeschi, almeno per la fase dell’immediato dopoguerra e nonostante si possano ravvisare certi felici esiti della brillante prosa narrativa che si avrà negli anni a venire, si possono notare anche altri dati interessanti: il tentativo dell’autore di un distaccamento dalle teorie avanguardiste, di una sconfessione delle concezioni artistiche precedentemente abbracciate e di una manovra di avvicinamento a ipotesi culturali di stampo nazionalistico e regressivo. Questo “revisionismo” è forse anche una sorta di mea culpa per la consapevolezza di aver un tempo collaborato, rispetto al trattamento della lingua, a generare confusione e a far terroristicamente deflagrare il linguaggio:

Le parole medesime della nostra favella antica e famigliare, smarrita la significazione per la quale ciascuna di esse era stata creata, separate dai concetti cui prima erano unite, e anzi indicandone ora di opposti e bizzarri, si agitavano nell’aria con grande confusione,

44 Silvana Cirillo, Alberto Savinio, Le molte facce di un artista di genio, Milano, Bruno Mondadori, 1997, p. 145. 45 La collaborazione di Savinio alla «Ronda» si protrae dal 1919 al 1922.

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ingenerando diffidenze, sospetti, contese e uno sbigottimento generale. In Italia, non ci s’intendeva più46.

Savinio si lancia poi in affermazioni azzardate: «Noi siamo per l’ordine e la nettezza, e nessuno ci caverà mai dalla testa che la gerarchia e la distinzione dei gradi sono condizioni indispensabili a un consorzio civile e costumato».47 Sono esternazioni, non solo in contrasto con il libertarismo del

primo scritto vociano, ma anche sostenenti, pur senza volerlo, il sorgente fascismo.

Quanto citato da Savinio ribadisce il concetto nazionalistico sopra già discusso della fondamentale ingenuità, freschezza e originalità italiane da contrapporre al supposto collettivismo e altre analoghe deviazioni dei tedeschi, dei francesi e degli ebrei. E non solo qui ma anche altrove l’ebreo rappresenta un facile termine di confronto48.

C’è persino una sorta di “misogallismo” nella foga saviniana impiegata nel favorire la restaurazione di un “ritorno all’ordine”:

Cotesto popolo francese, con tutto che si sia fatto una nomea di rivoluzionario, è in effetti il meno rivoluzionario di tutti i popoli, o, se rivoluzionarismo ha da esserci, esso culmina fatalmente nel più rigido, rigoroso, schematico ordinamento accademico. L’accademia è la sola, vera forza della Francia, in ogni specie di attività, dall’industria dei profumi ai cànoni della poesia. È indubitato che i francesi sentono il bisogno di unirsi, di stringersi, di collaborare, operando in un assieme che ha qualcosa di un raggruppamento orchestrale in cui è assai difficile riconoscere il direttore49.

46 Alberto Savinio, Non ferire il fuoco col coltello, in «La Ronda», giugno 1920, p. 430. 47 Alberto Savinio, Deprezzamento collettivo, in «La Ronda», gennaio-febbraio 1921, p. 91. 48 Ugo Piscopo, Alberto Savinio, Milano, Mursia, 1973, p. 123.

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Dov’è finito l’elogio di Parigi degli albori? Adesso l’attacco alla cultura francese va di pari passo con quello mosso contro il modernismo. Così facendo Savinio fa rotolare dalla rupe dei suoi capisaldi un altro mito:

Che cos’è questa poesia moderna? quali ne sono i caratteri, le particolarità? In che differisce essa dalla poesia o antica o medievale, dalla poesia di tutti i tempi e di tutti i climi? Imbarazzantissime domande alle quali ci dichiariamo incapaci di rispondere…50.

A dare credito a questa momentanea ostentazione di “inintelligenza saviniana” sembrerebbe che la Francia debba ritenersi un paese di spirito e lingua monotono e piatto.

La lingua francese di oggi somiglia troppo a un mare domestico o addomesticato, sul quale si naviga con ogni sicurezza, senza pericolo di venti o burrasche, senza nemmeno il timore di scogli insidiosi51.

Ovviamente a precipitare giù dal dirupo dei vecchi miti giovanili con Parigi e il Modernismo se ne vanno anche il Futurismo con tutti i movimenti successivi:

Gli aspetti che presentano cotesti enormi cataclismi di scemità che, di tanto in tanto, quasi con ritmo fatale, si abbattono sui campi di concentramento delle genti più spiritose e delicate, variano a seconda sia della diversa specie degli individui, sia della particolare posizione topografica dei raggruppamenti stessi. […] Senza possibilità di salvazione fu con tale furiosa irruenza che si scatenò fra noi il futurismo; a proposito del quale converrà soggiungere che la incapacità di allegria, anzi l’innata tristezza della nostra razza contribuirono non poco alla gravità del morbo. Lo stesso è da dire dell’espressionismo che tutt’ora imperversa sulla Germania. […]52.

50 Ibidem.

51 Alberto Savinio, Alain; Mars ou la guerre jungée, in «La Ronda», agosto-settembre 1921, p. 617.

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Bisogna ricordare però che, nonostante tutta la premura inquisitoria rivolta contro gli ambienti e i movimenti modernisti, questo “ritorno all’ordine”, dichiarato in alcuni dei suoi articoli, per Alberto è solo superficiale e di breve durata. Questo è possibile perché, per una sorta di “inclinazione al paradosso” tutta saviniana, il ritorno al caos, al gusto per l’intelligenza dissacratrice, per lo spirito critico e inquieto e per il respiro tutto europeo, non sarebbe stato così efficace, volutamente paradossale, se non avesse seguito un percorso così problematico come l’autore stesso che lo sta percorrendo.

Il secondo romanzo La casa ispirata esce nel 1920 a puntate sul «Convegno» e poi in volume presso la casa editrice Carabba nel 1925. Il testo ha tutte le caselle narrative in ordine:

Il romanzo è condito di notazioni liriche; il tessuto memorialistico è ben in rilievo su un plafond autobiografico; l’io narrante esordisce subito canonicamente e stringe un rapporto elettivo con il deuteragonista; i personaggi di contorno, dall’immancabile Apollinaire a Marionov il sincronista, puntellano il racconto e, dotati di una precisa fisionomia, gli assicurano una base di verosimiglianza; il finale (Marcello, deuteragonista muore in guerra) decanta uno spaccato di realtà riconoscibile storicamente e legittima possibili ricavi etici o abbandoni emotivi53.

Ecco, però, cosa ne pensa Lorenzo Montano, uno dei maggiori rondisti:

[…] La casa ispirata è il frutto recente della sua metamorfosi di facciata. […] Ferma restando una fabula letteraria che è ipoteca di linearità e antidoto a una mostruosa proliferazione della scrittura, l’intreccio, andandosene molto per suo conto, oltre a scovare la bella pagina, il frammento sapido, il segmento polito e in stile, fa di più: apre spiragli tra «gli oggetti e i personaggi», perfora la trama del racconto e dai «pertugi trae immagini e scopre quel che si nasconde al di là»54.

53 Marcello Carlino, Savinio, Lecce, Milella Editore, 1988, p. 33.

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L’opinione del recensore, un rondista al di sopra di ogni sospetto, invita quindi a riflettere, a futura memoria, che la stessa supposta riconversione di Savinio al gusto della prosa d’arte non è esente da lacerazioni e proprio attraverso “quei pertugi”, che immettono in un enigmatico al di là, l’ordine del dettato incontra l’altro da sé che lo tenta e cerca di sedurlo:

[…] Una realtà sospesa fra il sogno e l’incubo, fra il fantastico e l’iperreale. Tramite questo procedimento di straniamento Savinio trasforma la realtà univoca in una realtà ambigua, in perenne metamorfosi, di cui addita le molteplicità e multiformità incontrollabili55.

Traspaiono e agiscono, dunque, quelle stesse valutazioni che, parallelamente, Savinio sta sviluppando nei suoi scritti critici. L’accento messo sul mondo del profondo e dell’irrazionale si inserisce in un percorso di scoperta delle opere di Freud, così come la rivelazione della doppiezza della realtà coincide con il suo interesse per le tematiche pirandelliane. In quest’opera Savinio espone poi le proprie riflessioni sulla “mostruosità del reale”56 e sul “senso di morte” che lo pervade. Prima però, nell’analisi di questo romanzo, conviene ricordare un’affermazione dell’autore:

Tutto quello che ho fatto viene da Hermaphrodito. […] non c’è nulla che non tragga da quella pustola e da quel bubbone […] È nel male, o in ciò che agli uomini “sembra” male, la grande e misteriosa forza generatrice […] Tutto quello che ho fatto di poi, è o formato o

in germe, in Hermaphrodito: una lunga variazione su “quel” tema57.

Secondo quanto affermato, quindi, tutta l’opera posteriore a Hermaphrodito sarebbe una variazione continuata non solo dei temi in esso contenuti, ma anche delle forme inquiete che emergono e in cui

55 Maria Elena Gutierrez, Alberto Savinio, lo psichismo delle forme, Roma, Edizioni Cadmo, 2000, p. 28.

56 «Un terzo della nostra vita se ne va in sonno. Un altro terzo e forse più, e per taluni quasi due terzi se ne vanno in cecità. […] Fuori dalla nostra cecità, alcune forme acquistano un aspetto ridicolo e spaventoso» cit. in Savinio, Drammaticità di Leopardi, p.123.

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questi temi si calano. Questo non fa che confermare l’idea di Montano di un cambiamento stilistico solo di facciata e indubbiamente crea delle problematicità riguardo a un’intera stagione letteraria e artistica.

Significa rileggere i romanzi di Savinio, composti negli anni Venti e Trenta, in pieno clima restaurativo, secondo una prospettiva che ribalta le certezze acquisite su un periodo generalmente considerato di pugnace e granitico “ritorno all’ordine”. Significa invitare a scorgervi i prolungamenti di una “mostruosità” originaria ed esortare a diagnosticare i sintomi di una malattia non perfettamente debellata, la cui virulenza ramificata e occulta non ha cessato di esercitare il suo potere corrosivo nei confronti di una struttura narrativa apparentemente coesa e stabile58.

Significa inoltre supporre che il classicismo saviniano, non più solo ma in due, risenta di un dualismo intrinseco a confine tra il rigore e il mostruoso, tra il canonico e l’anticanonico. Questa “mostruosità” rilevata a posteriori appare tanto più sconvolgente quanto più la si analizzi pienamente collocata nel contesto storico letterario in cui è avvenuta la sua gestazione: primi anni Venti e un Savinio che partecipa in prima linea al movimento di rappel à l’ordre, sostenendo accanitamente i caratteri del nuovo classicismo sulle pagine della «Ronda» e di «Valori Plastici». Che tipo di classicismo è dunque quello praticato e teorizzato dall’autore, se è capace di celare in sé una tale viva germinazione di contraddizioni interne?

[…] Un classicismo concepito come un traguardo di acquietamento e di riequilibrio delle forze convulse sprigionatesi nelle epoche artistiche precedenti, luogo terminale e germinale insieme, secondo un’ottica quietamente progressiva della storia. […] Ogni inquietudine si avvia fatalmente a una calma in cui quella sostanza stessa che provocò l’urto inquietante si

58 Silvia Bellotto, Metamorfosi del Fantastico, Immaginazione e linguaggio nel racconto surreale italiano del Novecento, Bologna, Edizioni Pendragon, 2003, p. 50.

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spiana e si distende in tutta la sua verità: è il processo che conduce dal barbarismo al classico59.

È poi a partire da questo romanzo che un altro tema, quello della morte, in seguito più e più volte ripreso e declinato, diviene dominante. Le considerazioni non sono tuttavia mai angosciose:

Pensa! Non individui più: sciolti nel nulla – nel tutto… Una parola ancora. L’ultima. In questa lingua che stiamo per abbandonare. Ascolta. Nascere è un atto individuale: morire è un atto universale. Il “nostro” atto universale. Il solo nostro atto universale. Questo il grande segreto della morte. Questo il suo immenso bene…60

Intorno alla metà degli anni Quaranta Savinio viene infine invitato da più parti, in vista di una riedizione, a rivedere i suoi primi tre libri. Il sentimento, nel rileggere La casa ispirata, è quello di un non celato turbamento. Nella Avvertenza, infatti, composta per una ripubblicazione che non avverrà mai, Savinio sembra distanziarsi da questo testo, riconoscendovi come un peccato di gioventù:

Il primo impulso è di scomporre il testo primitivo e ricomporlo di sana pianta, ma la tentazione di un rifacimento è frenata dal pensiero che questa scrittura intricata, angolosa, cigolante, in fondo, non è che l’immagine di un’adolescenza letteraria e che a nulla vale mascherare con la nostra faccia più levigata e scaltra di oggi, la faccia aspra, ambigua, sospettosa di allora61.

Del 1920 è, invece, la stesura definitiva di Tragedia dell’infanzia. In quest’opera, scritta quando la cultura e la letteratura subiscono il dettato del ritorno all’ordine, della necessità di costruire e di recuperare uno stile più classico, troviamo che «[…] il Savinio giocoliere, trapezista, assolutamente

59 Alberto Savinio, Anadiomenon. Principi di valutazione dell’Arte contemporanea, cit. in «Valori Plastici», aprile-maggio, 1919.

60 Alberto Savinio, Alcesti di Samuele [1949], Milano, Adelphi, 1991, p. 189.

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anarchico, gratuito nell’espressione e nell’immaginazione, deve abbassare il tiro»62. Il linguaggio dell’Hermaphrodito, assolutamente libero, alimentato dall’osceno, dall’immaginario e dall’eros più sfrenati, qui subisce un ridimensionamento e indossa una struttura in apparenza più classica. Trattandosi però di una raccolta di episodi autobiografici, lo scrittore riesce comunque a far muovere, sotto l’impianto memorialistico, una tematica onirica, trasgressiva, rivoluzionaria fatta di sogni e deliri. Il libro era già stato pubblicato a puntate su una rivista con il titolo La città scomparsa, poi, una volta assunto il nome definitivo, viene pubblicato vari anni dopo nel 1937. Il titolo è già di per sé singolare e anticonformista: chi altro oserebbe definire “tragico” un periodo idoleggiato e mitizzato come l’epoca più felice e idillica della vita di un uomo, «una fase che nell’opinione pubblica è colorata addirittura di rosa»63? La psicanalisi e le teorie freudiane però «hanno squarciato i veli della leggenda della felicità infantile»64 e hanno svelato tutta la conflittualità e il dramma che vive il bambino nei confronti dell’adulto, quando, sia dal punto di vista linguistico, sia comportamentale e della comunicazione si deve adeguare alle richieste che la società organizzata per salvaguardare l’ordine sociale gli impone mediante l’intervento dei genitori. Attraverso quest’azione educativa il principio del piacere si trasforma quindi in principio della realtà e come dice Freud «solo così, anche se in maniera traumatizzante, l’individuo da bestione si muta in uomo»65. Savinio coglie, proprio attraverso la memoria e la rivisitazione autobiografica del passato, il momento di passaggio dall’infanzia fiduciosa e ingenua a quello dell’infanzia condizionata e avvilita. La fase in cui si sviluppa la lotta vana del bambino contro genitori e società per cercare di restare “integro”: infantile, lucido, schietto, sensuale, spontaneo.

62 Silvana Cirillo, Alberto Savinio, Le molte facce di un artista di genio, Milano, Mondadori, 1997, p. 253. 63 Silvana Cirillo, Alberto Savinio, Le molte facce di un artista di genio, Milano, Mondadori, 1997, p. 254. 64 Ugo Piscopo, Alberto Savinio, Milano, Mursia, 1973, p. 129.

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Infanzia – onda continua di rivoluzione, e sistematicamente stroncata dai «grandi», questi reazionari. Rivoluzione infaticabile e mai delusa, perché essa non sospettala disfatta cui è destinata66.

Savinio con molta acutezza rileva tutto questo e la sua ribellione si rivolge, quindi, non contro la società in genere, ma contro quello specifico tipo di società, che scambia la paura con la prudenza, la difesa egoistica dei propri privilegi con l’amore dei figli. Ovviamente l’opinione della società-bene ha offerto notevole resistenza e ha sollevato varie difficoltà alle teorie freudiane con l’accanimento e la cecità comuni ai pregiudizi secolari, ma poi questi pensieri si sono imposti perché riguardavano verità anche troppo ovvie, che intanto venivano provate e documentate da ampi e profondi studi di una nutrita schiera di psicopatologi e di studiosi affini. Inoltre Tragedia dell’infanzia si presta a una doppia chiave di lettura: legata alla situazione infantile in generale, ma anche a quella dell’uomo in senso più stretto:

[…] Dell’uomo che viene scaraventato sulla terra, mentre ancora mantiene in sé il ricordo di un paradiso perduto, di uno stato di felicità in cui era assente la consapevolezza della mortalità. L’uomo che sente in sé stesso un che di divino, e che è costretto a prendere atto della mortalità del suo essere, della scissione operata dagli dei, cioè da Dio, Giove, in due parti separate e monche. L’uomo che viene investito del senso di colpa del problema del male e dell’angoscia inculcatagli da Cronos. Il bambino non ha la sensazione precisa del tempo: le categorie spazio-temporali sono molto elastiche nelle sue mani, tanto che non coglie affatto la restrittiva sensazione del tempo che passa con le sue scadenze, i suoi traguardi e le sue sconfitte. Il bambino vive felice finché tutto gli sembra eterno e si sente padrone di sé: dopodiché la vita diventa sofferenza.

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Savinio sa che la lotta per rompere le catene della quotidianità, intesa come un insieme di mortificanti consuetudini, è molto dura, perché «[…] la congiura della mediocrità è troppo forte e non ammette che sul mondo si diffonda il seme della libertà che rende gli uomini grandi»67:

Perché questo rigoroso divieto a una vita come «seguito» e «continuazione» dell’infanzia? La terra è troppo piccola forse? Non c’è spazio sufficiente per un’umanità di ragazzi «grandi»68?

In Tragedia dell’infanzia c’è poi un’analisi del ruolo della donna in tutte le sue sfaccettature. Per lo scrittore quelle ideali sono forti, ferine, selvagge, espressione del sesso libero così come il bambino le vedrà nel corso del racconto. Questa sua idea è in opposizione alla tradizionale visione della donna della società borghese che nel testo vede la madre come una ruffiana, la ragazza bene come un’opportunista che cerca marito e dove amore ed erotismo sono dimenticati, mentre sottile e subdolo è proprio il concetto di mercificazione che sta alla base del sesso69. Savinio, allora, sogna:

La donna!

Non la docile, smutandata donna pronta a tutto, sì una pantera con reggipetto e cache-sexe, occhi fiammanti e denti a coltello, la quale dietro a sé traccia una scia di sangue e di fuoco. Amarla? Sì, ma a rischio della vita70.

Una commistione di umano e animale insieme. Sangue e fuoco, simboli vitali dell’immaginario materiale:

67 Ivi, p. 134.

68 Alberto Savinio, Tragedia dell’infanzia, Firenze, Sansoni, 1945, p. 152. 69 Ivi, Cfr. nel capitolo 1, p.7.

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Il sangue che rappresenta la vita e partecipa anche dell’acqua, e il fuoco che è il segno più vitale della terra, si mischiano e si “sposano” in una stessa immagine, rimandando allo stato primordiale della terra71.

Nel romanzo il protagonista Nivasio, anagramma di Savinio, si innamora di tutte le donne che incontra nel suo percorso:

Si innamora della donna che suona l’arpa, e sembra abbracciarla come in un gesto sensuale quasi fosse un organismo vivente; così come si innamora della donna del suo amico Cimone, donna bellissima, grintosa, enfatizzata dagli occhi del bambino: «Le brillavano gli occhi, i denti, le dita. Rovesciava il capo nel tremolo del riso, si gargarizzava come l’uccelletto che beve […]. Nel suo ridere peraltro, rosseggiava una vena di crudeltà»72.

Torna il sorriso ed ecco tornare anche la bocca: una bocca perlata e profilata dal sangue delle labbra, da un rosso sanguigno. Il sangue è un elemento vitale, selvaggio, primitivo. In questa bocca può appuntarsi l’attenzione e il desiderio del bambino, riuscendo per un po’ a svicolare alla censura materna. Tutta la Tragedia si basa infatti sul desiderio di Nivasio di mantenere un rapporto ombelicale e mitico con la figura della madre, che significa rapporto spontaneo con il primo se stesso e con la magna mater di tutti e la consapevolezza di doversi per forza staccare ed emancipare da questo rapporto primigenio. Il protagonista capisce, infatti, che la madre gli sta censurando l’approccio con la donna, allora sente che lo schermo della sessualità sta per frapporsi tra sé e la sua genitrice, tra sé e la società benpensante. Quindi Nivasio inizia il suo percorso di crescita che coincide anche con un momento doloroso di solitudine in un mondo di grandi a cui si deve adeguare:

71 Silvana Cirillo, Alberto Savinio, Le molte facce di un artista di genio, Milano, Mondadori, 1997, p. 258. 72 Ivi, p. 260.

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[…] Crescendo, conosce, e quindi sa: sa che ci sono i divieti, sa che c’è il tempo che passa, sa che le gioie e le speranze possono diventare squallidi bisogni, e allora si tuffa simbolicamente nell’acquario, nel capitolo intitolato Nel fondo del mare, per farsene inghiottire73.

Questo diventa un gesto mitico: è il ritorno alle acque, all’utero, ma è anche il ritorno a una forma di morte o di vita prima della vita. Anche qui, poi, assistiamo a una sessualizzazione del linguaggio e della scrittura: meno impetuosamente e smaccatamente dionisiaca rispetto all’Hermaphrodito, in un certo qual modo filtrata dal ricordo e dalla memoria, ma inconfondibile:

L’io narrante racconta proprio attingendo alla memoria, filtro passato per la consapevolezza della maturità: chi scrive non è più bambino, ma del bambino rivive il punto di vista: la “struttura dell’infanzia” è quella che agisce all’interno della scrittura74.

Savinio-Nivasio assume questa struttura da una posizione di adulto, più cosciente; L’artista è il puer aeternus che filtra e sceglie tra i ricordi e le suggestioni quelle più a effetto e trova il linguaggio adatto per comunicare con i lettori che, rispecchiandosi nelle sue parole, ritrovano in quello che leggono, non tanto lo scrittore, ma loro stessi.

73 Ivi, p. 261. 74 Ivi, p. 263.

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