1. La β-cellula e la secrezione insulinica
Le β-cellule sono localizzate nelle isole pancreatiche di Langherans e fanno parte dell’apparato
endocrino dell’organismo. Sono dotate di un complesso apparato di recettori di membrana, enzimi ed
organuli intracellulari, finalizzati a rispondere a stimoli neuro-ormonali, monitorare
continuativamente i livelli di substrati energetici circolanti e rispondere alla loro variazione in seguito
ai pasti secernendo insulina, uno dei principali ormoni anabolizzanti, secondo le necessità
dell’organismo
1. Il glucosio è il più potente secretagogo insulinico e la β-cellula ha una spiccata
capacità di funzionare come suo sensore: questo avviene, sia attraverso i trasportatori di membrana
Glucose Transporter (GLUT) 1 e 2, che determinano l’ingresso del substrato nella cellula, sia
attraverso l’enzima Glucochinasi 4 (GK4), considerato un sensore intracellulare
2,3, deputato alla
fosforilazione del glucosio intracellulare ed alla sua successiva immissione nelle principali vie
metaboliche. Queste molecole svolgono le loro funzioni con una precisa cinetica ed entro uno
specifico range di concentrazioni di glucosio ematico ed intracellulare
4, facendo sì che la risposta di
secrezione insulinica sia dipendente dalla glicemia. Questi meccanismi finemente regolati dai
nutrienti, sono anche finalizzati alla necessità della β-cellula di proteggersi dalla tossicità chimica che
i substrati energetici in eccesso possono deteminare, favorendo l’insorgenza del diabete mellito di
tipo 2 (DM2).
1.1. Componenti della secrezione insulinica
Il 50% del fabbisogno insulinco giornaliero è soddisfatto attraverso un’attività secretoria di fondo,
che oscilla nel soggetto normale, tra 0,2 ed 1,5 U/h di insulina: quest’attività è finalizzata ad inibire
la gluconeogenesi, la lipolisi e la chetogenesi, che altrimenti, in condizioni di carenza dell’ormone (o
di importante squilibrio nel rapporto insulina/glucagone), nella fase di digiuno aumenterebbero
notevolmente, portando a situazioni di iperglicemia, iperlipidemia e chetosi.
Il rimanente 50% del fabbisogno è quello che si verifica in risposta ai pasti e prende il nome di
secrezione insulinica glucosio-mediata (GSIS), anche se è notevolmente influenzata da altri nutrienti
come gli amminoacidi, in particolare l’alanina, la glutamina e l’arginina, e gli acidi grassi
5che
sembrano giocare un ruolo diretto o indiretto di amplificazione, anche attraverso la generazione di
possibili messaggeri a livello mitocondriale
6. Inoltre, precocemente durante il pasto, si ha una fase,
cosiddetta cefalica o di preassorbimento, in cui la secrezione insulinica è indotta dallo stimolo
parasimpatico dei nervi afferenti alle isole pancreatiche
2,7.
Una volta che il glucosio è entrato nella β-cellula ed è stato fosforilato a glucosio-6-fofato (G6P),
dopo una serie di reazioni a cascata viene convertito in piruvato, il quale, trasportato nei mitocondri
sarà soggetto ad ossidazione con produzione di ATP.
L’incremento della concentrazione di questo substrato energetico e la variazione del rapporto
ATP/ADP nel citoplasma, induce la chiusura dei canali del K
+ATP-dipendenti (K
ATP), la riduzione
del flusso in uscita dello ione e la depolarizzazione della membrana plasmatica, con successiva
apertura dei canali del Ca
2+voltaggio-dipendenti di tipo L. Il gradiente di calcio nel citoplasma,
determina l’immediata fusione dei granuli di esocitosi contenenti insulina con la membrana e quindi
la secrezione dell’ormone
8. Così come si è osservato nelle terminazioni nervose, anche nelle β-cellule
abbiamo l’accoppiamento tra il fattore solubile di membrana sensibile alla N-etilmaleimide
(t-SNARE) con la proteina SNARE incorporata nella membrana delle vescicole (v-(t-SNARE), tuttavia
sono ancora in atto studi per comprendere i meccanismi con cui il calcio induce l’esocitosi. Questa
via, definita anche “K
atp-dipendente”, è considerata la principale via di innesco della secrezione
insulinica, ed è pertanto denominata “triggering pathway”
9.
Tuttavia è stata individuata un’altra componente in grado di modulare ed implementare la secrezione
insulinica: si tratta della via dell’amplificazione metabolica (metabolic amplifying pathway),
identificata come indipendente dall’attivazione dei canali K
ATP10,11.Questo duplice controllo sulla
secrezione insulinica è mediato dal glucosio, ma anche da altri nutrienti
12,13, neurotrasmettitori ed
ormoni, che agiscono legandosi a recettori accoppiati a proteine G, ottimizzando la funzione della
β-cellula nella fase post-prandiale. Tra i mediatori coinvolti, troviamo le incretine, gruppo di ormoni,
secreti dall’intestino a seguito del pasto. Le più importanti sono il Glucose-dependent insulinotropic
peptide (GIP), secreto dalle cellule K nel duodeno, ed il Glucagon-like-peptide-1 (GLP-1), secreto
dalle cellule L dell’ileo e del colon il quale ha un ruolo predominante in termini quantitativi e
qualitativi dato che oltre a stimolare la secrezione insulinica, inibisce quella di glucagone
14,15. Una
volta attivato, il recettore del GLP-1 tramite la proteina G
sa cui è associato, induce un aumento dei
livelli di cAMP intracellulare
16, incrementando in questo modo l’attività β-cellulare. Questi effetti
insulinotropici, sono anch’essi glucosio dipendenti, ma nel senso che hanno luogo solo se si verifica
il superamento della soglia glicemica di 4 mmol/L, al di sotto della quale il GLP-1 non agisce
17.
Anche alcuni lipidi sono coinvolti nella via dell’amplificazione metabolica, attraverso l’attivazione
di un recettore, noto come GPR40 (o FFAR1)
18-20, espresso nelle β- cellule ed attivato da parte di
incrementa la concentrazione citoplasmatica di Ca
2+, anche se sono stati ipotizzati meccanismi che
coinvolgono l’attivazione della Fosfolipasi C (PLC) ed aumentano la produzione di cAMP
20,21.
Per quanto riguarda gli stimoli parasimpatici che agiscono precocemente, nella fase di
preassorbimento, tramite l’attivazione vagale, sono stati individuati recettori muscarinici di sottotipo
M3 nelle isole pancreatiche, a cui si lega l’acetilcolina, determinando un aumento dei livelli di
inositolo 1,4,5-trifosfato (IP
3) intracellulare, attivazione conseguente della Protein chinasi C (PKC) e
massiccia stimolazione della GSIS
22. A sottolineare l’importanza della componente cefalica, si è
osservato che topi knock-out per il recettore M3 specificamente a livello pancreatico, mostravano una
riduzione della secrezione insulinica e ridotta tolleranza glucidica, mentre, topi transgenici con
iperespressione del recettore mostravano la situazione opposta
23.
Anche il glucosio stesso, sembra avere un’azione insulinotropica K
ATP-indipendente e quindi
contribuire anch’esso all’amplificazione: quest’azione è stata dimostrata osservando la forte
stimolazione al rilascio insulinico indotta dal glucosio, nel momento in cui i canali K
ATPerano stati
bloccati farmacologicamente in uno stato di apertura o di chiusura
10,11,24, rispettivamente con
diazossido e glibenclamide. Anche quest’attività insulinotropica dipende dalla concentrazione di
glucosio, e la curva di secrezione dell’ormone, rapportata ai livelli glicemici è spostata lievemente a
sinistra rispetto alla curva della GSIS in condizioni regolari, a suggerire che la soglia di
concentrazione di glucosio per la realizzazione del suo effetto K-ATP-indipendente, sia più bassa,
rispetto a quella necessaria per realizzare l’azione K-ATP-dipendente. Inoltre, riguardo al
meccanismo, sembra che non sia necessario l’incremento concomitante della concentrazione di Ca
2+citoplasmatico, essendo coinvolti probabilmente di attivatori della protein chinasi C (PKC) e
dell’Adenilato-ciclasi
25,26.
Figura 1. Rappresentazione schematica della via dell’innesco e della via dell’amplificazione
metabolica alla base della GSIS nella β-cellula (modificato da Henquin, Diabetes Research and
Clinical Practice 2011; 235: 527-531)
1.2. Il modello bifasico della secrezione insulinica
La cinetica temporale della secrezione insulinica glucosiomediata è stata a lungo studiata, sia in vitro,
che in vivo tramite clamp iperglicemici, dimostrando che la risposta si sviluppa secondo un
caratteristico pattern bifasico
27,28. Già a fine anni ’60, Grodsky et al, individuarono questo andamento
infondendo, per un periodo di un’ora, una soluzione contenente glucosio in un pancreas isolato di
ratto
27. La fase più rapida e precoce di secrezione, cessava in circa due minuti, seguita da una più
tardiva e lenta, che aumentava in maniera continuativa fino al termine dell’infusione. Si cercò anche
di capire quale fosse il contributo relativo dell’insulina di nuova sintesi ad ogni fase, comparando il
rilascio dell’ormone in normali preparazioni di controllo, al rilascio in preparati trattati con
paromomicina, un antibiotico inibitore della sintesi proteica. Ciò che emerse fu che la risposta rapida
non era influenzata dal trattamento, mentre la risposta lenta era decisamente ridotta, ad indicare che
l’ormone di nuova sintesi, è rilasciato nella seconda fase di secrezione. Per contro, il trattamento con
tolbutamide, farmaco appartenente alla classe delle sulfaniluree, che incrementano il rilascio
insulinico bloccando i canali del K
+, causava la risposta rapida, non seguita però dalla fase lenta, a
suggerire che il farmaco non ha effetto sull’insulinogenesi e/o sul meccanismo che dà origine alla
seconda fase. In più, un’altra cosa interessante che emerse fu che, la quota totale di insulina rilasciata
sia nella fase precoce che in quella tardiva, risultava proporzionale alla quota di Ca
2+presente nel
liquido di perfusione, fino ad una concentrazione di 4 mEq/l; mentre a livelli di calcio maggiori non
si osservava un incremento ulteriore del rilascio insulinico.
Nelle decadi successive numerosi studi hanno cercato di indagare i meccanismi molecolari alla base
della riposta secretoria bifasica. Inizialmente si è pensato che essa fosse imputabile ad un’eterogeneità
funzionale delle isole pancreatiche, ma anche ad una variabilità tra singole β-cellule
29. Queste ipotesi
sono poi state scartate per mancanza di evidenze a loro favore, così come l’idea che la risposta fosse
determinata da variazioni di metaboliti, anch’esse dall’andamento bifasico. I modelli più accreditati
ad oggi, che non si esclusono a vicenda e potrebbero coesistere, sono lo “storage-limited model” ed
il “signal-limited-model”
30-32.
Secondo il primo modello, sostenuto anche da osservazioni al microscopio elettronico, le vescicole
secretorie contenenti insulina all’interno delle β-cellule, esistono in pool funzionalmente e
logisticamente distinti, ed è il rilascio in sequenza di questi diversi pool, a determinare la dinamica
della secrezione. La maggiore quota di granuli, localizzati nei depositi intracellulari, nelle vicinanze
del reticolo endoplasmatico, fa parte del pool di riserva, mentre la rimanente quota (meno del 5%) è
costituita da granuli pronti ad essere secreti, che si trovano nei pressi della membrana cellulare a
stretto contatto con in canali del Ca
2+che ne regolano l’esocitosi
33,34. Si stima che di più di 10000
granuli maturi contenenti insulina all’interno della β-cellula, solamente tra 50 e 200 costituiscano
questo pool, e il modello sostiene che la prima fase della GSIS sia caratterizzata dal rilascio di questi
granuli, mentre la seconda vedrebbe attuarsi la mobilizzazione dei granuli di riserva verso i siti
t-SNARE della membrana plasmatica, per rimpiazzare i granuli secreti nella prima fase, ma anche per
permettere la fusione con la membrana e la succesiva esocitosi
35. Questa seconda fase avviene con
una quota di 5-40 granuli rilasciati, per cellula al minuto
33.
Studi precoci su cellule β isolate, riportavano la presenza di strutture costituite da microfilamenti che
sembravano influenzare l’accoppiamento tra stimolo e secrezione bifasica
36,37. Molti anni fa, il
citoscheletro di actina è stato riconosciuto come mediatore chiave, e originariamente si pensava che
si comportasse come una barriera in grado di bloccare i granuli che si spostavano verso la periferia.
Più recentemente, la scoperta di GTPasi coinvolte nella riorganizzazione dei filamenti di actina nelle
cellule β, combinata con la disponibilità di reagenti e strumenti più specifici per studiare i meccanismi
che regolano i movimenti dei granuli, ha contribuito in maniera straordinaria alla comprensione del
ruolo del citoscheletro nel regolare la secrezione dell’insulina
38.
Per quanto riguarda il signal-limited model, esso sostiene che la risposta bifasica potrebbe essere il
risultato della somma di stimoli con dinamica e latenza differenti
39,40. Importanti a questo proposito,
sembrano essere i movimenti ionici del Ca
2+: nella prima fase di secrezione abbiamo infatti un
aumento della concentrazione di Ca
2+all’interno della β-cellula, sincrono all’aumento dela glicemia;
mentre nella seconda fase, i canali ionici del calcio, vanno incontro ad una serie di aperture e chiusure,
con una conseguente fluttuazione rapida della concentrazione dello ione, che provoca dei quanti di
secrezione insulinica
32,41. Queste fluttuazioni ioniche, risultano asincrone in β-cellule isolate, ma
sincrone nelle isole pancreatiche, dove le cellule sono unite da gap junctions: se queste comunicazioni
vengono bloccate, la secrezione insulinica perde il suo andamento pulsatorio
42.
È interessante notare che, l’aspetto bifasico della secrezione insulinica è più marcatamente evidente
in condizioni patologiche, quando le concentrazioni più elevate di glucosio, determinano maggiori
oscillazioni della concentrazione di Ca
2+intracellulare e quindi una maggiore demarcazione tra prima
e seconda fase di secrezione; cosa che invece non si riscontra in maniera così netta in condizioni
fisiologiche
43. È ben noto poi, che una riduzione soprattutto della prima fase può essere rinvenuta
nelle fasi precoci del DM2, ma anche nella ridotta tolleranza glucidica (IGT)
44, correlando
prognosticamente con la progressione verso la malattia.
1.3. Il potenziamento
Tramite alcuni esperimenti sia in vitro che in vivo, si è osservato che le variazioni della
concentrazione ematica di glucosio, sono in grado di influenzare positivamente l’effetto
insulinostimolante di alcune sostanze come l’arginina e la tolbutamide
45,46. Si tratta di noti
secretagoghi, i cui effetti non sono secondari ad una stimolazione nel metabolismo energetico delle
β-cellule: infatti l’arginina, amminoacido carico positivamente a pH fisiologico, entrando nella
cellula provoca la sua depolarizzazione, producendo in questo modo l’apertura dei canali del Ca
2+voltaggio-dipendenti e stimolando quindi il rilascio insulinico
47, mentre la tolbutamide, come tutte le
sulfaniluree ha come bersaglio i canali K
+ATP.Più precisamente, all’aumentare della concentrazione di glucosio extracellulare, si osserva un
incremento in ampiezza della risposta insulinica a tali sostanze, pertanto definiamo quest’effetto,
come potenziamento. Per cercare di comprendere come il glucosio esplichi tale azione, se stimolando
la via dell’innesco o la via dell’amplificazione, Ishiyama et al, hanno misurato gli effetti di varie
concentrazioni dell’amminoacido o della sulfanilurea, sulla secrezione insulinica e sui livelli di Ca
2+intracellulari, in isole pancreatiche di ratto, perfuse con varie concetrazioni di glucosio. La
conclusione che ne hanno tratto è che il glucosio potenzi l’azione dei secretagoghi agendo sia sulla
via dell’innesco, che sulla via dell’amplificazione metabolica
48.
Fisiologicamente il fenomeno potrebbe aiutare a prevenire l’ipoglicemia che stimoli non glucidici
potrebbero provocare se fossero pienamente attivi a bassi livelli di glicemia, e ad aumentare la
risposta della β-cellula a frequenti situazioni di stimolazione mista. Nel paziente con DM2 però,
questa attività di potenziamento viene progressivamente a mancare
49-51.
2. Metabolismo lipoproteico
I lipidi, molecole idrofobiche, insolubili in acqua ma solubili in solventi organici, nel nostro
organismo, svolgono funzioni importanti, sia dal punto di vista fisiologico, che metabolico: il
colesterolo è necessario per la produzione degli ormoni steroidei, della bile ed è componente
fondamentale della membrana plasmatica, di cui determina la fluidità; i trigliceridi, lipidi complessi
costituiti da acidi grassi esterificati con una molecola di glicerolo, rappresentano una fonte energetica
per la maggior parte dei tessuti e sono normalmente depositati negli adipociti ed in parte nel fegato;
i fosfolipidi sono molecole anfipatiche, ossia costituite da una porzione polare, idrosolubile, ed una
porzione apolare, liposolubile. Questa peculiarità li rende adatti a costituire le membrane cellulari e
l’architettura delle lipoproteine. Queste ultime, sono grosse macromolecole, di forma sferoidale, che
rappresentano l’unico mezzo attraverso il quale, i lipidi, altrimenti insolubili, possono essere veicolati
nel torrente ematico.
Le lipoproteine sono costituite da una porzione centrale, idrofobica, definita core, contenente
principalmente trigliceridi, esteri del colesterolo e vitamine liposolubili; e da un guscio periferico
idrofilico, formato da fosfolipidi, colesterolo non esterificato ed apolipoproteine, la componente
proteica di questi complessi, che non solo ne definisce la struttura, ma anche il destino metabolico:
infatti le apolipoproteine hanno la capacità di interagire con recettori specifici indirizzando le
macromolecole verso differenti sedi
52. Esistono diverse famiglie di lipoproteine, che si differenziano
per dimensioni, densità, definita dalla composizione relativa in lipidi e proteine, e mobilità
elettroforetica. La densità è direttamente proporzionale al contenuto relativo in apoliproteine, mentre
è inversamente proporzionale al contenuto relativo in lipidi. All’opposto, maggiore è il contenuto
lipidico, maggiori sono le dimensioni.
I chilomicroni sono le lipoproteine più grandi (500 nm) e meno dense, essendo costituite per l’80%
da lipidi, soprattutto trigliceridi e in misura minore, esteri del colesterolo. Essi sono prodotti dagli
enterociti della mucosa intestinale in fase di assorbimento: le cellule impacchettano infatti queste
componenti lipidiche esogene, di origine dietetica e liberano le macromolecole sul versante
basolaterale, in modo da distriburle ai tessuti periferici. Le Very Low Density Lipoprotein (VLDL),
sono anch’esse lipoproteine ricche in trigliceridi, ma sono prodotte a livello epatico ed hanno la
funzione di trasferire i lipidi accumulati nel fegato ai tessuti periferici. Una volta nel plasma, le VLDL
sono idrolizzate dalla Lipoproteina lipasi endoteliale (LPL) a generare particelle più piccole e dense,
le Intermediate Density Lipoprotein (IDL), depauperate dei trigliceridi e con un contenuto relativo in
esteri del colesterolo progressivamente maggiore. Durante la lipolisi, questi remnants vengono
arricchiti anche dalla Apo-E, che viene ceduta loro dalle High Density Lipoprotein (HDL): queste
sono le lipoproteine più piccole e dense, dall’alto contenuto proteico e di colesterolo, che vengono
prodotte a partire dalle componenti circolanti. L’Apo-E, ha un’elevata affinità per il recettore delle
Low Density Lipoprotein (LDL) a livello epatico e questo fa sì che una quota elevata di IDL sia
ricaptata dal fegato. Le IDL circolanti possono andare incontro ad un ulteriore processo lipolitico,
perdendo l’Apo-E e convertendosi in LDL. Queste ultime sono estremamente ricche in esteri del
colesterolo e l’unica apolipoproteina che esprimono in superficie è l’ApoB-100, riconosciuta dai
recettori delle LDL.
2.1. Chilomicroni
I lipidi assunti con la dieta sono costituiti per il 90-95% da trigliceridi, che contribuiscono a fornire
la maggior parte dell’energia derivante dai pasti, mentre la rimanente quota è data da fosfolipidi,
soprattutto fosfatidilcolina, steroli, tra cui il predominante è il colesterolo, e vitamine liposolubili.
La digestione dei lipidi comincia già nella cavità orale, attraverso l’esposizione alla lipasi salivare e
continua nello stomaco, il maggior sito di emulsione, grazie soprattutto alla peristalsi. Quest’attività
genera piccole goccioline lipidiche che raggiungono la seconda porzione duodenale, dove si
mescolano alla bile ed ai succhi pancreatici, contenenti lipasi e colipasi.
La digestione e l’assorbimento dei trigliceridi comincia proprio grazie all’attività della lipasi
pancreatica, che fa sì che le molecole siano frammentate in 2-monoacilgliceroli (MAG) ed acidi grassi
liberi (FFA)
53, quindi assorbiti attraverso il lume intestinale. Proteine di membrana quali FAT, CD36
ed FATP4 hanno un ruolo importante nel mediare l’assorbimento, oltre che il trasporto successivo
dei chilomicroni verso il sistema linfatico
54,55. Anche il colesterolo entrerà a far parte del core dei
chilomicroni nella sua forma esterificata: esso nell’organismo è presente sia come quota assorbita a
seguito dei pasti, sia come componente endogena prodotta dal fegato e dai tessuti periferici. Dei 400
mg circa assunti giornalmente con la dieta, solo il 50% di colesterolo è assorbito nell’intestino, mentre
il rimanente è escreto con le feci. Il suo assorbimento dipende dalla disponibilità di acidi biliari e
dalla presenza di proteine trasportatrici sulla membrana apicale degli enterociti. Si tratta infatti di un
trasporto facilitato, che coinvolge Niemann-Pick C1 like 1 (NPC1L1) che ne media l’ingresso nella
cellula, mentre ATP-binding-cassette ABCG5 e ABCG8, ne mediano l’efflusso
56,57. Questi
degli acidi biliari, che garantisce il riassorbimento della maggior parte degli acidi secreti con la bile
nel lume intestinale, così come al trasporto bidirezionale del colesterolo: il trasporto diretto, dal fegato
ai tessuti che ne hanno necessità ed il trasporto inverso, con il ritorno del colesterolo al fegato ed
eliminazione dell’eccesso con le feci. Una volta nell’enterocita, gli enzimi di membrana del reticolo
endoplasmatico (RE), acil-CoA-colesterolo-aciltransferasi (ACAT), catalizzano l’esterificazione del
colesterolo, passaggio importante per inglobarlo nel core dei chilomicroni nascenti
58. I prodotti di
degradazione dei trigliceridi raggiungono anch’essi il RE grazie a specifiche proteine carrier, di cui
le due principali appartengono alla famiglia delle Fatty Acid-Binding Proteins (FABPs), espresse sia
negli enterociti che negli epatociti
59. Successivamente, grazie all’azione degli enzimi
monoacilglicerolo-aciltransferasi e diacilglicerolo-aciltransferasi vengono sintetizzati nuovamente
trigliceridi che si legano alla Microsomal Transfer Protein (MTP). Questa proteina possiede tre
domini, uno legante apoB, uno per il trasferimento di lipidi ed uno per legarsi alla membrana
60e
parteciperà all’assemblaggio non solo dei chilomicroni, ma anche delle VLDL. Passaggio
fondamentale per il processo multistep di produzione di queste grosse lipoproteine, è la sintesi e la
modifica post-trascrizionale dell’ApoB48, forma tronca dell’ApoB100, rinvenuta in ognuna di esse
61.
Una volta assemblati, i chilomicroni sono immessi nel sistema linfatico, tramite il quale
raggiungeranno poi il torrente ematico per distribuire i lipidi ai vari tessuti. In circolo essi
acquisiscono altre apolipoproteine: Apo-CI, Apo-CII, Apo-CIII e dApo-E. ApoCII è in grado di
attivare la LPL, determinando l’idrolisi dei trigliceridi e quindi la riduzione del volume del core dei
chilomicroni ed il trasferimento di componenti lipidiche in eccesso, tra cui fosfolipidi ed esteri del
colesterolo, di Apo-CII ed Apo-CIII alle HDL in formazione. I trigliceridi, intanto sono assorbiti dal
muscolo per ricavarne energia e dal tessuto adiposo per costituirne depositi, mentre i remnants dei
chilomicroni, acquisicono esteri del colesterolo (sia dalla dieta che dalle HDL circolanti) ed Apo-E,
che legandosi al recettore delle LDL epatico, ne media la rimozione dal circolo, che si realizza entro
12-14 ore dal pasto
62.
2.2. Very Low Density Lipoprotein
Una delle principali funzioni del fegato è quella di sintetizzare VLDL, in relazione alla disponibilità
di trigliceridi
63. Questi sono sintetizzati nel lume del RE degli epatociti, in risposta a flussi
intermittenti di acidi grassi liberi (FFA), che derivano soprattutto da: FFA mobilizzati dagli adipociti,
remnants dei chilomicroni e quelli derivanti dall’assorbimento intestinale tramite la vena porta
64.
Si tratta di un processo altamente controllato, che gioca un ruolo importante nel regolare l’omeostasi
lipidica: un’eccessiva produzione di VLDL associata da un’eccessiva secrezione nel torrente ematico
è uno dei maggiori fattori di rischio per lo sviluppo di aterosclerosi
65. Infatti elevate concentrazioni
di VLDL nel sangue, si traducono in conseguenti elevati livelli di LDL, particelle altamente
aterogeniche. Quindi al fine di evitare conseguenze avverse, tra cui anche la steatosi epatica, la
produzione di VLDL deve essere sincronizzata con la loro secrezione
66.
I componenti strutturali di queste lipoproteine sonon quindi soprattutto trigliceridi, circondati da
fosfolipidi, colesterolo e suoi esteri e specifiche apolipoproteine
67. Le dimensioni delle VLDL variano
tra i 35 ed i 100 nm di diametro e tra le apolipoproteine, le ApoB, sono le più importanti nel conferire
alla particella nascente la stabilità strutturale
68. Nell’uomo l’apolipoproteina chiave nell’architettura
sia delle VLDL che delle IDL e delle LDL è l’ApoB100, sintetizzata sulla superficie del RE.
La sintesi delle macromolecole, avviene in due step successivi: primo, la traslocazione di ApoB100
appena tradotta, attraverso la membrana del RE rugoso e la sua parziale lipidazione, a formare una
primitiva particella VLDL ancora povera di lipidi. Questo step è facilitato dall’azione della MTP.
La lipidazione dell’apolipoproteina, dipende strettamente dalla disponibilità di trigliceridi: se ciò non
avviene, la maggiore quota di ApoB100 viene degradata
67. Nel secondo step, si realizza la fusione tra
la VLDL primordiale ed altre particelle ricche in trigliceridi già presenti nel citosol. Molti studi
indicano che il RE sia il sito finale di maturazione delle VLDL, mentre altri indicano che l’apparato
di Golgi sia sede di una loro maturazione secondaria
69. In ogni caso, una volta mature, le VLDL sono
liberate in circolo e veicolate verso i tessuti perferici: anche in questo caso, come accade per i
chilomicroni, saranno bersaglio dell’attività lipolitica della LPL, generando inzialmente quelle che
vengono definite VLDL remnants e trasferendo la componente lipidica in eccesso sulle HDL in
formazione
52. Quindi, dato che queste lipoproteine ricche in trigliceridi sono substrato dello stesso
enzima lipolitico in circolo, può succedere che un eccesso di chilomicroni nel periodo post-prandiale,
inibisca la clearance delle VLDL.
2.3. Low Density Lipoprotein
Le LDL hanno un core lipidico costituito soprattutto da colesterolo, trasportandone una quota pari al
70% di quello totale plasmatico. Tuttavia nel torrente ematico, la loro composizione subisce delle
modifiche: esse infatti interagiscono con Cholesterol ester transfer protein (CETP), enzima in larga
misura legato alle HDL, che determina lo scambio di esteri del colesterolo e trigliceridi tra le
lipoproteine. Precisamente sostenendo il passaggio di trigliceridi dalle VLDL alle LDL ed alle HDL
e raccogliendo colesterolo esterificato. In questo modo le LDL si arricchiscono in trigliceridi che
saranno poi idrolizzati dalla LPL
70.
I livelli di LDL circolanti, sono determinati da un equilibrio tra produzione e rimozione. Il recettore
delle LDL è in grado di legare ApoB100 espressa sulla superficie delle lipoproteine, permettendo ai
tessuti che necessitano di colesterolo, di effettuarne l’uptake, con un meccanismo, finemente regolato
attraverso un sistema a feedback, grazie ad una famiglia di fattori di trascrizione denominati
sterol-regulated transcription proteins (SREBPs). Quando il colesterolo nella cellula scarseggia, le
SREBPs, sono veicolate da proteine denominate cleavage activating proteins (SCAP) verso
l’apparato di Golgi, dove sono processate da due proteasi, a rilasciare frammenti che entrano nel
nucleo ed attivano la trascrizione di molti geni target, inclusi quelli codificanti per
l’idrossi-metilglutaril coenzima A (HMG-CoA), enzima chiave per dare il via alla produzione di colesterolo,
e per il recettore delle LDL
71, che sarà in questo modo maggiormente espresso sulla membrana
cellulare. Tra le altre molecole che funzionano come sensori del colesterolo, troviamo PCSK9, una
serina proteasi in grado di promuovere la degradazione del recettore delle LDL per via lisosomiale e
in questo modo di controllare i livelli di LDL circolanti
72.
Il recettore delle LDL epatico è responsabile della rimozione del 70% circa del colesterolo circolante
e la sua espressione sugli epatociti è modulata, oltre che in relazione al contenuto di colesterolo
intracellulare, anche rispetto alla produzione di IDL ed LDL a partire dalle VLDL. Infatti il recettore
è in grado di legare con elevata affinità anche ApoE espressa sulle IDL, quindi un aumento della
captazione epatica di queste ultime, corrisponderà ad una diminuita produzione di LDL ed una
diminuizione dell’espressione del recettore
52.
2.4. High Density Lipoprotein
Le HDL sono le lipoproteine plasmatiche più piccole e dense. Nell’uomo, loro elevati livelli,
mostrano una relazione di proporzionalità inversa con l’incidenza di malattie cardiovascolari su base
aterosclerotica
73. Le proprietà antiaterogeniche sono legate principalmente alla loro capacità di
rimuovere il colesterolo in eccesso dalle cellule, inclusi i macrofagi e le cellule schiumose costituenti
le placche lipidiche, nel processo di trasporto inverso del colesterolo
74(RCT), che lo veicola verso il
fegato dove sarà eliminato per via biliare; in più esse inibiscono l’ossidazione delle LDL
75,
promuovono la riparazione endoteliale
76, hanno proprietà antitrombotiche ed antinfiammatorie
77,78,
ed inibiscono il legame dei monociti all’endotelio
79.
Il loro metabolismo è molto più complesso rispetto a quello delle altre lipoproteine: i componenti
lipidici e proteici sono infatti per lo più assemblati dopo la secrezione, frequentemente scambiati o
trasferiti ad altre lipoproteine ed attivamente rimodellati nel compartimento plasmatico
74.
L’apolipoproteina A1 (ApoA-1) è la più importante componente proteica delle HDL, sia dal punto di
vista strutturale, che funzionale, e costituisce l’80% della particella. È secreta principalmente nel
fegato e nell’intestino, inizialmente come ApoA-1 povera di lipidi. In seguito, un processo di
progressiva lipidazione con fosfolipidi e colesterolo, poduce a partire da queste lipoproteine
primitive, HDL sempre più mature, discoidali e sferiche. Le HDL discoidali, sono costituite da
particelle proteiche di ApoA-1 che avvolgono un monostrato lipidico di fosfolipidi e colesterolo
libero, mentre le HDL sferiche, sono più grandi e meno dense, costituite da esteri del colesterolo e
crescenti quantità di trigliceridi
80. Dal punto di vista della composizione nel plasma troviamo
sottopopolazioni di HDL estremamente eterogenee: sono state individuate più di 75 tipi di proteine
ad esse associate; e studi di elettroforesi ed ultracentrifugazione, nello specifico le classificano in 5
sottopopolazioni di dimensioni decrescenti: HDL 2b, HDL 2a, HDL 3a, HDL 3b, e HDL 3c. Le HDL
di sottotipo 3, sono piccole e dense, con dimensioni inferiori a 9 nm, peso inferiore a 200 kDa ed
elevata densità, mentre le HDL di sottotipo 2, sono grandi e leggere. Per queste caratteristiche
morfologiche è possibile che le HDL 3 corrispondano alle HDL discoidali in formazione, mentre le
HDL 2 siano quelle più mature, sferiche
81-83.
Il processo di lipidazione avviene innanzitutto grazie all’efflusso di colesterolo dalle cellule
periferiche, reso possibile da trasportatori di membrana con cui ApoA1 interagisce: i principali sono
ABCA1, ABCG1 ed il recettore scavenger B1 (SR-B1). ABCA1 trasferisce colesterolo libero e
fosfolipidi dai macrofagi carichi alle HDL discoidali e la sua importanza nel processo di formazione
delle HDL è dimostrato da studi in cui animali con deficit del gene avevano una carenza sia di HDL
che di ApoA-1
84,85; ma anche dal fatto che mutazioni del gene sono alla base dell’eziopatogenesi della
malattia di Tangier, determinando livelli di colesterolo HDL estremamente bassi
86. ABCG1 invece
garantisce l’efflusso di colesterolo e fosfolipidi esclusivamente verso le HDL sferiche; mentre
SR-B1, media un trasporto bidirezionale tra epatociti e macrofagi, dipendente dal contenuto intracellulare
di colesterolo.
Dopo la fase di assemblaggio, le HDL in circolo vanno incontro ad ulteriori rimodellamenti mediati
da enzimi quali Lecitina-colesterolo acil-transferasi (LCAT) e CETP. LCAT genera la maggior parte
del colesterolo esterificato nel plasma
87. Gli esteri del colesterolo essendo estremamente idrofobici,
tendono a portarsi al centro della particella nascente nel momento in cui si formano, e questo
contribuisce a stabilire un gradiente, riducendo il colesterolo in superficie e favorendone un continuo
afflusso sia da altre lipoproteine che dalla reazione dell’enzima LCAT. CETP come abbiamo visto,
media il trasferimento di trigliceridi tra le lipoproteine contenenti ApoB, chilomicroni, VLDL ed
LDL, e le HDL in formazione. Quindi progressivamente si formano le HDL discoidali, costituite da
particelle proteiche di ApoA-1 che avvolgono un monostrato lipidico costituito da fosfolipidi e
colesterolo libero, e successivamente le HDL sferiche, più grandi e meno dense, costituite da esteri
del colesterolo e crescenti quantità di trigliceridi
80. Un altro enzima che agisce modificando la
composizione delle HDL è Phospholipids Transfer Protein (PLTP), che vi trasferisce fosfolipidi
derivanti dalle VLDL e dalle LDL. Con l’aumento di dimensioni e l’incremento della quota di
trigliceridi, le HDL divengono substrato dell’attività della LPL ed inoltre alcune particelle di
Apo-A1 si dissociano, dando origine nuovamente ad ApoA-1 povere di lipidi e quindi pronte a
ricominciare il ciclo di lipidazione
52. Oltre a questa via catabolica, le HDL mature possono essere
internalizzate dal recettore delle LDL, che riconosce Apo-E, presente sulla loro superficie, oppure
tramite un processo noto come estrazione oloparticellare, in cui la particella viene endocitata e
catabolizzata per intero
74.
3. Il diabete e la dislipidemia
Il diabete mellito, i cui criteri diagnostici sono riportati nella Tabella 1, è una malattia cronica
sistemica complessa, caratterizzata da alterazioni del metabolismo glucidico, proteico e lipidico,
conseguenti ad un deficit nella secrezione o nell’azione insulinica, la cui causa primaria è un danno a
livello del pancreas endocrino e delle β-cellule. Dal punto di vista epidemiologico è una patologia in
forte aumento: la prevalenza globale tra gli adulti era stimata a 285 milioni (6,4%) nel 2010, ed entro
il 2030 ci si aspetta che arrivi a 439 milioni (7,7%)
88. L’impatto della malattia è fortissimo,
determinando essa non solo complicanze microvascolari, quali la retinopatia, la nefropatia e la
neuropatia, ma anche e soprattutto, un aumento da 2 a 4 volte del rischio di eventi cardiovascolari
89,90e quindi complessivamente della mortalità.
Diagnosi/dosaggi OMS 2006/2001 ADA 2003/2012 Diabete
HbA1c
FPG
2hPG
Può essere usato
Se il risultato è ≥6,5% (48 mmol/mol) Raccomandato ≥7,0 mmol/l (≥126 mg/dl) O ≥11,1 mmol/l (≥200 mg/dl) Raccomandato ≥6,5% (48 mmol/mol) ≥7,0 mmol/l (≥126 mg/dl) O ≥11,1 mmol/l (≥200 mg/dl) IGT FPG 2hPG < 7,0 mmol/l (<126 mg/dl) ≥7,8<11,1 mmol/l (≥140 < 200mg/dl) < 7,0 mmol/l (<126 mg/dl) Non richiesto Se il risultato è 7,8-11,0 mmol/l (140-198 mg/dl) IFG FPG 2hPG 6,1-6,9 mmol/l (110-125 mg/dl) Se il risultato è <7,8 mmol/l (<140 mg/dl) 5,6-6,9 mmol/l (100-125 mg/dl)
FPG = glicemia plasmatica a digiuno; IGT = Alterata tolleranza al glucosio; IFG = alterata glicemia a digiuno; 2hPG = glicemia plasmatica 2 ore dopo carico orale di glucosio
Il diabete mellito di tipo 1 (DM1) è caratterizzato dalla distruzione delle β-cellule, principalmente su
base autoimmune, cellulo-mediata (DM1a), meno frequentemente su base idiopatica (DM1b), che
porta, già all’esordio clinico, ad una riduzione della massa pancreatica del 70-90% e
progressivamente ad una carenza totale di insulina, che raggiunge nel sangue livelli non dosabili.
Questa forma si presenta di solito in un bambino od un adolescente, che manifesta il più delle volte
un episodio acuto e violento di scompenso metabolico, una chetoacidosi. Il diabete mellito di tipo 2
(DM2) è la forma prevalente, costituendo globalmente il 90% dei casi
91e mostrando un trend in
aumento, più marcato nei paesi in via di sviluppo che in quelli sviluppati (69% vs 20%)
88: questo
soprattutto a causa di modifiche dello stile di vita quali, la riduzione dell’attività fisica e la tendenza
alla dieta ipercalorica, e di un conseguente incremento dell’incidenza di sovrappeso ed obesità
92,93,
condizioni associate ad una progressiva riduzione dell’azione insulinica, definita insulinoresistenza.
Questo comporta, inizialmente un tentativo di compenso, caratterizzato da un’aumentata attività di
secrezione da parte delle β-cellule, che mantiene la glicemia a livelli normali o lievemente patologici.
La condizione di iperinsulinemia, si protrae fino all’esaurimento funzionale della β-cellula, che quindi
non riesce più a dominare il progressivo instaurarsi dell’iperglicemia e della malattia conclamata.
Esistono anche altre forme di diabete, caratterizzate da fenotipi intermedi tra le due principali, tra cui
il Latent Autoimmunes Diabetes of Adults (LADA), una forma di DM1 a presentazione tardiva, ed il
Maturity Onset Diabetes of the Young (MODY) quest’ultimo, un gruppo di sindromi diabetiche legate
a difetti di singoli geni
94.
3.1. Patogenesi del diabete: importanza della disfunzione β-cellulare
La patogenesi del DM2 è caratterizzata sia da insulinoresistenza che da disfunzione β-cellulare
95,96,
per quanto, nel tempo si sia data molta più enfasi al primo meccanismo, anche a seguito dell’evidenza,
tramite dosaggio dell’insulina con saggi immunoenzimatici, di come i suoi livelli in soggetti diabetici,
fossero più elevati rispetto a quelli di individui con normale tolleranza glucidica (NGT).
Tuttavia, noi sappiamo che in condizioni fisiologiche, la normoglicemia è mantenuta grazie ad un
equilibrio tra insulinosensibilità e secrezione ormonale, strettamente correlate, in modo che quando
la sensibilità insulinica si riduce, la secrezione aumenti; questo fino a quando l’aumentata attività
β-cellulare, non è più in grado di compensare l’insulinoresistenza periferica.
Pertanto è la progressiva perdita di funzione della β-cellula, a determinare la transizione dallo stato
pre-diabetico allo stato di malattia conclamata
97. Questa transizione avviene lentamente, essendo il
DM2 caratterizzato da una lunga fase subclinica che precede la malattia. Quindi possiamo individuare
un continuum di eventi che si sovrappongono e portano al progressivo deterioramento della tolleranza
glucidica, il cui primum movens è rappresentato da un eccesso cronico di nutrienti in soggetti
geneticamente predisposti
95,98, che riduce la sensibilità periferica all’insulina ed insieme ad eventi
stressogeni, porta allo scompenso β-cellulare.
Tra questi, i meccanismi più importanti sono condizioni
quali l’infiammazione cronica, gli aumentati livelli circolanti di adipochine, rilasciate dal tessuto
adiposo in eccesso, quali leptina, adiponectina, visfatina ed apelina
99; così come, disregolazioni
dell’autoimmunità
100che conducono all’accumulo di sostanza amiloide a livello insulare
101; e non in
ultimo gli effetti mediati dall’iperglicemia stessa, la glucotossicità
102. L’iperglicemia cronica infatti
aumenta l’apoptosi delle β-cellule, compromette la sintesi e la secrezione dell’insulina oltre
all’insulinosensibilità, attraverso la graduale perdita di espressione del gene codificante per l’ormone
o di altri geni specifici delle β-cellule; lo stress ossidativo cronico a carico del RE e cambiamenti nel
numero, nella forma e nella funzione dei mitocondri
103.
Quindi il deficit β-cellulare è una caratteristica comune sia al DM1 che al DM2 e nella pratica clinica,
talvolta è difficile discriminare tra le due forme, che sostanzialmente possono sovrapporsi: possiamo
prendere in considerazione molti criteri clinici e di laboratorio, quali l’età, la gravità dei sintomi, il
grado di iperglicemia, la presenza di chetosi, il body mass index (BMI), la necessità di una terapia
insulinica e, quando è possibile misurarli, la presenza di anticorpi diabete-specifici; tuttavia nessuno
di questi criteri ha una soglia definita, che ci permette una precisa distinzione, né è esclusivamente
correlato con una delle due forme. È stato quindi suggerito che il diabete mellito sia uno spettro
continuo di patologie la cui patogenesi vede la distruzione cellulare su base autoimmune nell’infanzia
da una parte, e il deterioramento metabolico correlato all’invecchiamento dall’altra
104. In più,
“l’ipotesi dell’acceleratore” suggerische che anche se su differenti background genetici, il DM1 ed il
DM2, siano di base lo stesso disordine, distinti solo dalla quota di distruzione β-cellulare e da fattori
causali (“acceleratori”) che portano alla perdita delle cellule: tra questi, un alto tasso apoptotico
intrinseco, insulinoresistenza ed autoimmunità, presenti in vario grado in individui diversi
105-107.
Comunque, considerato che il deficit di massa β-cellulare funzionante è presente alla diagnosi di DM2
e progressivamente peggiora in relazione alla durata di malattia, essendo chiaramente associata ad un
peggioramento del controllo glicemico e ad una riduzione dell’efficacia delle terapie, è necessario
preservare la massa di β-cellule funzionanti e dato che la loro capacità rigenerativa nell’uomo è molto
limitata, possiamo farlo riducendo il sovraccarico, innanzitutto con modifiche dello stile di vita e
perdita di peso
97.
3.2. Impaired Fasting Glucose ed Impaired Glucose Tolerance
L’insulinoresistenza e la disfunzione β-cellulare, nella fase antecedente la patologia conclamata,
portano all’insorgenza di alterazioni dell’omeostasi glucidica che sono distinte in due grosse
categorie, le quali possono anche coesistere nello stesso individuo: si parla di intolleranza glucidica
a digiuno (Impaired Fasting Glucose – IFG) e di intolleranza glucidica post-prandiale (Impaired
Glucose tolerance – IGT). I criteri diagnostici secondo American Diabetes Association (ADA) e
World Health Organization (WHO), sono riportati nella Tabella 2.
ADA
WHO
IFG
FPG
≥100 mg/dl ≤ 125 mg/dl
FPG
≥110 mg/dl ≤125 mg/dl
IGT
2hPG
≥140 mg/dl ≤199 mg/dl
2hPG
≥140 mg/dl ≤199 mg/dl
Tabella 2.
I pazienti con queste alterazioni mostrano caratteristiche differenti, ma anche molti punti in comune.
Innanzitutto l’insulinoresistenza si riscontra sia nella IFG che nella IGT
108,109, ma il sito in cui essa si
realizza è differente
110: nella IFG isolata, vi è una ridotta sensibilità insulinica a livello epatico, mentre
nel muscolo scheletrico è normale; invece nella IGT abbiamo elevata insulinoresistenza nel muscolo
scheletrico, mentre nel fegato la sensibilità è solo lievemente ridotta
111. Nei pazienti con sia IFG che
IGT, l’insulinoresistenza è presente sia a livello epatico che muscolare. Questo determina anche
alterazioni del metabolismo lipoproteico che rendono ragione della differente correlazione con il
rischio cardiovascolare che possiedono queste due categorie. Infatti i pazienti con IGT isolata,
mostrano elevati livelli di trigliceridi, VLDL e rimodellamento strutturale delle LDL ed un chiaro
aumento del rischio di mortalità cardiovascolare e generale, mentre i pazienti con IFG isolata
presentano un aumento dell’apolipoproteina B e delle LDL totali ed una correlazione leggermente
più incerta rispetto all’instaurarsi della patologia aterosclerotica
112,113. Molti studi riportano che i
pazienti con queste alterazioni dell’omeostasi glucidica, hanno un rischio maggiore rispetto alla
popolazione sana, di evoluzione verso il diabete e questo ha portato a definirli come pre-diabetici.
Tuttavia questa definizione non è del tutto esatta, perché in realtà la progressione può anche non
verificarsi mai durante la vita di questi individui.
3.3. Dislipidemia e diabete: un problema aperto
Nel 1988 Reaven aveva notato una correlazione tra la presenza di insulinoresistenza ed
iperinsulinemia, condizioni predisponenti al diabete, ed ipertensione, notando come tutte queste
condizioni, associate insieme, portassero ad un aumento del rischio di malattia coronarica (CAD)
114.
Questo rischio non risultava ridotto in pazienti trattati con farmaci antipertensivi, a significare che
l’aggregazione di più fattori di rischio, più che la loro singola presenza, avesse una maggiore valenza
nell’incrementare il rischio di CAD. I fattori di rischio presi in considerazione, oltre al diabete ed
all’ipertensione comprendevano alterazioni del metabolismo lipoproteico, tra cui un aumento delle
VLDL e dei trigliceridi e bassi livelli di colesterolo HDL. Questi furono definiti da Reaven nel loro
insieme come sindrome X e ad oggi fanno parte di quella che prende il nome di sindrome metabolica.
I parametri diagnostici della sindrome metabolica, elencati nella figura, ci consentono di identificare
individui che hanno un aumentato rischio di sviluppare DM2, CAD e morte cardiovascolare.
Figura. Criteri diagnostici della sindrome metabolica, secondo OMS, NCEP-ATPIII e IDF
(modificato da Fiocca et al, G Ital Cardiol 2010; 11 (Suppl 1): 295-325)
Inoltre la dislipidemia è molto comune anche nel paziente diabetico, con una prevalenza tra il 72 e
l’85%
115ed assume delle caratteristiche specifiche, tanto da far parlare di dislipidemia diabetica.
Questa include non solo anomalie quantitative, ma anche qualitative e nella cinetica delle
lipoproteine,
che
le
rendono
maggiormente
aterogeniche.
Innanzitutto
si
riscontra
un’ipertrigliceridemia, soprattutto post-prandiale e aumentati livelli di remnants, legati ad una
aumentata produzione di lipoproteine ricche in trigliceridi e loro ridotto catabolismo; una riduzione
dei livelli di HDL, secondaria ad un aumentata clearance; ed infine, le più frequenti alterazioni
qualitative, potenzialmente aterogeniche, includono un aumento di VLDL che porta a sua volta
all’incremento di LDL piccole e dense (sdLDL); un’aumentata tendenza all’ossidazione delle LDL
ed un incremento del contenuto in trigliceridi sia delle LDL che delle HDL
116. Nel complesso, si parla
di triade lipidica, ad indicare le alterazioni lipoproteiche caratteristiche di questi pazienti,
l’ipertrigliceridemia, la riduzione delle HDL e l’aumento delle sdLDL, riconducendo il loro sviluppo
all’aumentato flusso di FFA, legato all’instaurarsi di insulinoresistenza ed iperinsulinemia
117.
Studi più recenti rivelano però che anomalie del metabolismo lipidico sono frequenti anche prima
dell’insorgenza del diabete
118; questo unito all’evidenza da studi longitudinali, che ogni componente
lipidica compresa nella definizione di sindrome metabolica, sia di per sé un fattore di rischio per il
DM2
119, conferisce forza all’ipotesi che le alterazioni del metabolismo glucidico possano essere
causate dalla dislipidemia stessa, dovuta in questi individui per lo più ad uno stile di vita scorretto.
Questo fornisce nuovi orizzonti non solo rispetto all’eziopatogenesi del DM2, ma anche rispetto ai
possibili interventi terapeutici e preventivi per la patologia dismetabolica e per il rischio
cardiovascolare ad essa correlato: ogni alterazione del metabolismo lipoproteico può infatti costituire
un potenziale bersaglio di intervento
120.
4. Lipotossicità
L’evidenza che condizioni quali, sovrappeso, obesità e dislipidemia, caratteristiche della sindrome metabolica, siano, non solo tratti propri del fenotipo diabetico, ma spesso presenti anche nelle fasi antecedenti la patologia conclamata, soprattutto negli individui con storia familiare, ha portato negli anni a dare una maggiore rilevanza al ruolo della lipotossicità nella patogenesi del diabete, non solo per quanto riguarda l’insorgenza dell’insulinoresistenza, ma anche della disfunzione della β-cellula.121,122
Il termine Lipotossicità è stato coniato da Unger, che per primo ha descritto gli effetti avversi sulla secrezione insulinica e quindi sull’omeostasi glucidica, indotti dagli acidi grassi123.
Per lungo tempo si è ritenuto che gli acidi grassi agissero solo sinergicamente all’iperglicemia, nel determinare il danno sulla β-cellula, parlando quindi di glucolipotossicità124, ma ad oggi sappiamo che le varie componenti
del profilo lipidico, presenti in concentrazioni alterate nel torrente ematico e nella β-cellula, sono in grado di agire indipendentemente dall’iperglicemia, determinando accumulo di metaboliti tossici a livello intracellulare, riduzione dell’espressione genica dell’insulina, calo della GSIS con conseguente progressiva perdita della tolleranza glucidica103.
4.1. Ruolo dei NEFA
Gli acidi grassi non esterificati (NEFA o FFA) rappresentano un substrato energetico importante per le cellule dell’organismo incluse quelle pancreatiche, soprattutto nella fase di digiuno, quando i loro livelli circolanti, sia in forma libera che di VLDL, aumentano. Le concentrazioni in assoluto più elevate di NEFA si rilevano nella zona dell’interstizio peri-insulare piuttosto che nel plasma, grazie all’idrolisi dei trigliceridi impacchettati nelle lipoproteine, mediata dalla LPL espressa sulla superficie β-cellulare. Nella fase post-prandiale, al contrario, grazie all’effetto anti-lipolitico dell’insulina, i livelli di NEFA circolanti risultano ridotti. Questo effetto dell’insulina, viene meno nel tessuto adiposo insulinoresistente, in cui, nonostante elevati livelli di ormone circolante, c’è un eccesso di attività lipolitica, con conseguente incremento dei NEFA plasmatici. Questi determinano l’insorgenza di un circolo vizioso, favorendo l’insulinoresistenza nel muscolo scheletrico e il deterioramento ulteriore della funzione β-cellulare125.
Studi epidemiologici, hanno dato supporto nel tempo all’ipotesi che gli acidi grassi liberi circolanti potessero avere un ruolo rilevante nel determinare gli effetti di lipotossicità, dimostrando sia nella razza caucasica126,
che negli indiani Pima127 che loro elevati livelli circolanti, rappresentavano nel lungo termine un fattore di
Studi in vitro hanno dimostrato che, se un’esposizione acuta ad elevati livelli di NEFA, comporta un miglioramento della GSIS, per contro, gli effetti di un’esposizione cronica sono deleteri, compromettendo la secrezione insulinica e determinando l’apoptosi della cellula128.
Questi risultati sono stati confermati in modelli murini in cui era presente una disfunzione β-cellulare progressiva, esposti ad elevati livelli di trigliceridi e NEFA per 48h. L’effetto deleterio di questi ultimi, risultava tanto più marcato, quanto più grave era la perdita della tolleranza glucidica sottostante129.
4.1.2. Meccanismi cellulari e molecolari di lipotossicità
I meccanismi di lipotossicità e glucotossicità che hanno ricevuto maggior supporto come determinanti il deterioramento della funzione β-cellulare, comprendono un effetto diretto degli FFA, o mediato da PKC e ceramide, nell’indurre uno stato di infiammazione cronica, di stress ossidativo e sul reticolo endoplasmatico.130
Figura 1. Meccanismi di lipotossicità da parte dei NEFA, in base agli studi in vitro.
Sono mostrati anche gli effetti additivi e sinergici della glucotossicità.
Le vie di trasduzione del segnale ed i principali fattori di trascrizione che consentono alla β-cellula di differenziarsi, proliferare e rilasciare insulina, sono stati oggetto di numerosi studi, e alterazioni nell’espressione genica sono state riscontrate nelle isole pancreatiche di individui con DM2131. Tra i fattori di
trascrizione implicati nell’alterazione della GSIS, sono noti in particolar modo Pancreatic duodenal
homebox-1 (Pdx-homebox-1), Forkhead box-containing protein Ohomebox-1 (FoxOhomebox-1) e Steroid regulatory element binding protein homebox-1c
(SREB1c)132.
Pdx-1 è principalmente localizzato nelle β-cellule133 e sue mutazioni in omozigosi, risultano nell’agenesia del
pancreas, mentre in eterozigosi, comportano l’insorgenza di ridotta tolleranza glucidica, MODY-4 e DM2134.
Wang et al nel 2005 hanno dimostrato che sopprimendo l’espressione di Pdx-1 in linee di cellule insulari INS-1, si ottiene una down-regulation nell’espressione del recettore GLP-1R. Questo comporta una riduzione dell’interazione con il suo ligando GLP-1, una delle principali incretine, che normalmente agisce sulle β-cellule135 determinando il potenziamento della secrezione insulinica attraverso un aumento della produzione
di cAMP e fosforilazione di CREB (cAMP responsive elements binding protein). Lo stesso effetto inibitorio sull’asse incretine-β-cellula, è stato ottenuto da Kang et al nel 2013, attraverso la prolungata esposizione di cellule insulino-secernenti di ratto al palmitato. Il trattamento con bezafibrato e quindi la normalizzazione del profilo lipidico in topi diabetici, per contro, ha mostrato di migliorare nettamente l’efficacia di terapie a base di incretinici, tra cui l’inibitore della Dipeptidil-peptidasi-4, Sitagliptin, e l’agonista del GLP-1R, Exendin-4 , ripristinando l’espressione del GLP-1R136.
Per quanto riguarda SREBP-1c, si tratta di un fattore di trascrizione espresso sulla membrana plasmatica e coinvolto nella regolazione della lipogenesi epatica132,137. La sua espressione è incrementata dall’introito di
carboidrati con la dieta ed acidi grassi saturi, come osservato recentemente in colture β-cellulari e nel topo138,
in cui una sua iperespressione determina l’insorgenza di ridotta tolleranza glucidica139. Tutti gli effetti
soppressivi sulla GSIS derivanti dall’infusione di palmitato, risultano assenti nei topi SREBP-1c-null, segno che ci potrebbe essere un’importante interazione nel signaling tra questo fattore di trascrizione, Pdx-1 e GLP-1R140.
FoxO1 fa parte di una famiglia di proteine, dotate di un dominio legante il DNA, chiamato forkhead box141.
L’isoforma FoxO1 è la più abbondante nel fegato, nel tessuto adiposo e nelle β-cellule, dove regola il metabolismo glucidico e lipidico. È noto che un carico di FFA che ecceda la capacità di esterificazione della β- cellula, possa ridurre le funzioni del reticolo endoplasmatico e scatenare una sua risposta stressogena, contribuendo alla tossicità cellulare142; in queste condizioni sembra che FoxO1 possa favorire l’apoptosi e
quindi la comparsa di una ridotta tolleranza glucidica concomitante143. Al contrario, l’inibizione di FoxO1
riduce l’espressione dei geni marcatori di stress del RE, promuovendo la sopravvivenza della β-cellula142 e
migliorando la GSIS a valori elevati di glicemia144.
Il recettore x dei farnesoidi FXR, è un altro fattore di trascrizione, ampiamente espresso nel fegato, nell’intestino e nelle ghiandole surrenali, coinvolto nel mantenimento dell’omeostasi glucidica e lipidica145. È
stato dimostrato da Popescu nel 2010, che esso è coinvolto anche nella protezione dallo stress metabolico: in condizioni di lipotossicità, infatti, viene traslocato nel nucleo ed inattivato e le insule di topi FXR- negativi, mostrano una compromissione della GSIS146.
Anche Ubiquitin C-terminal idrolasi L1 (UCHL1), enzima deubiquitinante, è stato dimostrato essere fondamentale per la normale funzionalità β-cellulare, soprattutto in condizioni di lipotossicità.
Infatti Chu et al nel 2012 hanno osservato che la proteina era iperespressa in cellule β MIN6, trattate con palmitato e che in topi UCHL1-negativi, per contro, dopo 4 settimane di dieta ricca di grassi, si osservava ridotta tolleranza glucidica e deterioramento della secrezione insulinica., a fronte di un un aumento dello stress del RE e dell’apoptosi147.
Un’altra molecola implicata nella protezione delle β-cellule dall’apoptosi in condizioni di stress è
N-myc Downstream Regulated Gene 2 (NDRG2). È stata identificata da Shen et al, come potenziale substrato
della proteinchinasi Akt, la quale fa parte di vie di signaling dell’insulina e potrebbe promuovere la sopravvivenza della β-cellula in condizioni di stress indotto da FFA148.
Un altro meccanismo citoprotettivo nei confronti della lipotossicità coinvolge i domini lipidici intracellulari ed alcune proteine espresse sulla loro superficie, quali le perilipine e la roteina o adipocyte differentiation
related protein (ADFP). Queste proteine sono espresse costitutivamente, ma la loro espressione aumenta in
risposta a stimoli lipogenici149, indirizzando gli FFA citosolici verso depositi di trigliceridi e aumentando la
capacità di stoccaggio dei lipidi nella β-cellula. In condizioni di lipotossicità, ed perespressione di perilipine in cellule INS-1, si osserva il mantenimento della GSIS150.
Silent Information Regulator 2 Protein 1 (Sirt1) è una proteina deacetilasi, che fa parte della famiglia delle
sirtuine151 e gioca un ruolo essenziale nell’insorgenza del DM2, in virtù della sua attività
insulinosensibilizzante. Infatti risulta marcatamente diminuita in cellule insulinoresistenti152, mentre la sua
iperespressione mostra di migliorare l’omeostasi glucidica153.
Il polipeptide pituitario attivante l’adenilato ciclasi (PACAP), appartiene alla famiglia delle incretine ed è in grado di potenziare la GSIS con un meccanismo autocrino/paracrino154. L’azione insulinotropica avviene
tramite il legame del PACAP al suo specifico recettore ed il successivo accoppiamento al signaling sia del cAMP che del calcio, quindi le stesse vie di trasduzione impiegate anche da altre incretine quali il GLP-1. Nello studio di Nakata et al del 2010, si è osservato come, un trattamento a breve termine di insule pancreatiche di ratto, con palmitato, inducesse un decremento nella GSIS, nei topi PACAP-null, ma non in quelli wild-type. Questi risultati, indicano l’importante ruolo protettivo del PACAP sulla β-cellula, contro la lipotossicità155.
Infine, anche la grelina, mostra avere un ruolo nella prevenzione del danno lipotossico: si tratta di un peptide secreto soprattutto nel fondo dello stomaco, ma anche in alcune cellule ε del pancreas, che quindi potrebbe agire sulle cellule β, sia per via endocrina che paracrina156. Dopo numerosi studi sugli effetti della grelina, dai
signaling PI3K/Akt, che aumenta la proliferazione e la sopravvivenza cellulare157; in più la grelina mostra di
ridurre lo stress ossidativo del RE, riducendo i livelli di Tg citoplasmatici, di sopprimere l’espressione di geni quali SREBP-1c, BAX e CHOP10 ed inibire la traslocazione nucleare di FoxO1158,159.
Figura 2. Espressione/attività delle molecole effettrici in condizioni di lipotossicità.
4.1.3. Studi sull’uomo
Per quanto riguarda gli studi clinici sull’uomo, uno molto significativo è quello di Carpentier et al del 2000, che va a dimostrare come, individui obesi e non diabetici, siano suscettibili ad un incremento protratto di trigliceridi e NEFA circolanti, manifestando una riduzione della GSIS e della clearance insulinica. Per contro in pazienti con diabete, questa suscettibilità non è presente, probabilmente perché la β-cellula ha una funzione già troppo compromessa.
Il protocollo dello studio utilizza un’infusione di 48 h di Intralipid (un’emulsione lipidica costituita da: 20% di olio di soia, 1,2% di fosfolipidi, 2,25% di glicerina disciolti in acqua), ed eparina, la quale stimola l’attività lipolitica della LPL.
L’innovazione dello studio rispetto ai precedenti, sta anche nel considerare, non la compromissione in assoluto della GSIS, ma la sua riduzione, in relazione al decremento della sensibilità insulinica indotto dai livelli aumentati di NEFA circolanti, ossia nel tenere presente il Disposition Index. Questi due parametri sono infatti legati da una relazione costante, indice di funzionalità della β-cellula: al diminuire della sensibilità periferica all’insulina, fisiologicamente si osserva un aumento della sua secrezione, con andamento iperbolico, tale da mantenere lo stato di euglicemia.
Quindi, a fronte di un’aumentata insulinoresistenza indotta dai NEFA, una riduzione della GSIS, risulta ancor più importante ed esplicativa del grado di disfunzione β-cellulare160.
Figura 3. Disposition index (DI) in differenti stati funzionali della β-cellula.
Un altro importante studio del 2003 di De Fronzo et al, mostra l’importanza della predisposizione genetica come fattore favorente il danno lipotossico sulla β-cellula, mettendo a confronto gli effetti di un’infusione di 48 h di Lyposin III su un gruppo di individui con familiarità positiva per diabete con un gruppo di soggetti sani. L’emulsione è composta da un 20% di trigliceridi, soprattutto olio di soia, e viene somministrata in assenza di eparina. Il risultato è una riduzione, nei soggetti con storia familiare di diabete, sia della sensibilità dei tessuti periferici all’insulina, che della sua secrezione. Fenomeni che invece non si osservano nei soggetti sani, che si adattano all’insulinoresistenza
NEFA-indotta, attraverso un’adeguata risposta compensatoria della β-cellula161.
Da una review di tutti gli studi in vivo130, si arriva alla conclusione che la prolungata esposizione ad elevati
livelli di NEFA circolanti, ha sicuramente effetti deleteri e che tentare di ridurre la loro concentrazione, può rappresentare un bersaglio terapeutico molto appetibile sia per la prevenzione che per la correzione del deterioramento funzionale della β-cellula. Tuttavia l’approccio farmacologico con gli antilipolitici presenta sicuramente dei limiti, sia per quanto riguarda l’efficacia, infatti sono farmaci che hanno un’emivita molto breve, sia per quanto riguarda gli effetti avversi, determinando un rebound dei NEFA, alterazioni della sensibilità insulinica, e non meno importante, se non si corregge il bilancio energetico netto, l’esacerbazione dell’obesità e delle sue conseguenze sia infiammatorie che metaboliche.
Pertanto ci si orienta anche verso bersagli alternativi, quali la riduzione farmacologica dello stress ossidativo ed infiammatorio sul reticolo endoplasmatico, che ha mostrato buoni risultati nella riduzione degli effetti lipotossici sulla β-cellula, sia nell’uomo che negli animali. In particolare, in uno studio condotto su un campione di uomini obesi e non diabetici, si è evidenziato che il trattamento giornaliero con taurina, sostanza antiossidante, eseguito per due settimane prima di un’infusione di 48 h con Intralipid, determina una riduzione dei marcatori plasmatici di stress ossidativo, attenua il calo della sensibilità insulinica e il deterioramento della funzione β-cellulare indotto dagli FFA162. I risultati positivi ottenuti attraverso l’infusione endovenosa di
salicilato in ratti, contrastano invece con i risultati negativi ottenuti con 4,5 g di salicilato per os, somministrato per una settimana in individui obesi 163; anche se in un altro recente studio, condotto in giovani obesi, un dimero
del salicilato, il salsalato, migliorava la GSIS164.
Prima di utilizzare queste terapie per la prevenzione ed il trattamento del DM2 sono necessari comunque trial clinici più ampi e approfonditi.