INDICE
INTRODUZIONE………..1
CAPITOLO 1
Il dibattito storico sul principio della non contestazione.
Dal codice del 1865 al codice del 1942
1. Premessa………...6
2. Il codice del 1865………...7
2.1.L’impostazione della dottrina italiana che nega applicazione
generalizzata al principio……….10
2.2. L’impostazione che ne riconosce applicazione generalizzata…..18
3. I progetti di riforma e il codice del 1940……….26
4. Conclusioni………..27
CAPITOLO 2
L’evoluzione normativa e la natura giuridica della non
contestazione. Le posizioni della dottrina e della
giurisprudenza
1. Premessa ………..34
2. La legge di riforma del ’73 sul rito lavoro ………..35
3. L’art. 167 cpc alla luce della riforma del 1990 ………...40
4. Considerazioni relative all’introduzione dello specifico onere di
prendere posizione………...44
6. Le divergenze giurisprudenziali e la sentenza Cass. 12636/2005…54
7. La codificazione del principio: L. 69/2009………..57
8. Le questioni da affrontare………....58
9. Considerazioni preliminari alla luce del nuovo art. 115 cpc……....58
9.1. La non contestazione come mezzo di fissazione definitiva dei fatti………...60
9.2. La non contestazione come prova liberamente valutabile………..62
9.3.La non contestazione come tecnica di semplificazione processuale………...64
10. Il principio di non contestazione nel processo tributario………...69
10.1. Il principio di non contestazione nel processo amministrativo...73
11. Conclusioni………75
CAPITOLO 3
Parti processuali e non contestazione
1. Premessa………..792. Bilateralità dell’onere ……….81
3. Contumacia e non contestazione……….83
4. La non contestazione nei processi plurisoggettivi………...89
4.1. Non contestazione e litisconsorzio necessario………..90
4.2. Non contestazione e litisconsorzio facoltativo………..91
4.3. Non contestazione e intervento adesivo dipendente…………...92
4.4. L’operatività della non contestazione nei processi plurisoggettivi con una parte contumace………..93
5. Non contestazione e poteri del giudice………94
CAPITOLO 4
L’oggetto della contestazione
1. Premessa……….100
2. L’indicazione del legislatore………...101
3. Principio dispositivo e onere di contestazione………....103
4. Principio di economia processuale………...105
5. Fatti per cui sussiste l’onere di contestazione………...106
6. Fatto comune. Fatto conosciuto o conoscibile………....107
7. Limitazioni di carattere oggettivo al principio di non contestazione: i processi in cui si discute di diritti indisponibili……….109
7.1 Contratti con forma scritta ad substantiam………111
8. Conclusioni………...113
CAPITOLO 5
Le modalità della contestazione
1. Premessa………...1152. Contestazione assente; contestazione generica: le clausole di stile……….117
3. L’onere di prendere posizione………...119
3.1. Ammissione esplicita; ammissione implicita………...120
3.2. Contestazione indiretta………...121
3.3. Negazione esplicita………...124
4. La dichiarazione di ignoranza o di estraneità………....126
6. La contestazione specifica nel processo tributario………131
7. Conclusioni………132
CAPITOLO 6
Termine ultimo per assolvere all’onere contestativo
1. Premessa………1342. Ricostruzione normativa del termine ………136
3. Rimessione in termini………142
4. Non contestazione in appello………...143
5. Contestazione tardiva e parte contumace………...144
6. Considerazioni conclusive………...145
CONCLUSIONI...147
BIBLIOGRAFIA………...154
1
INTRODUZIONE
E’ stato scritto, non molto tempo fa, che la non contestazione nel
processo civile è tema far <<tremar le vene e i polsi>>1. L’espressione, seppur spinta allo stremo, è in grado di rendere
efficacemente l’idea della delicatezza e, al contempo, della
pericolosità, dell’utilizzo del fenomeno della non contestazione
all’interno del processo. Se, infatti, ormai, risulta pacifica l’esistenza
del principio di non contestazione, ancora in “discussione” è in cosa
effettivamente esso si sostanzi. Il fenomeno risulta, sotto molteplici
punti di vista, sfuggente (ove per sfuggente si intende di equivoca applicazione) , come “sfuggente” (nel senso che tralascia –volutamente
o no- questioni che avrebbero dovuto essere positivamente risolte) è la
norma che lo codifica (art. 115 cpc).
Il fine ultimo di questa indagine è fornire delle risposte, più o meno,
chiare ed univoche ai quesiti che si pongono quando si cerca di
inquadrare correttamente il fenomeno non contestativo.
2
Si può, fin da ora rilevare, che i problemi che vengono in rilievo sono
di diverso ordine, ed attengono ora al profilo teorico della non
contestazione, ora a quello pratico.
La prima questione, teorico-generale, che si pone riguarda la vexata
questio della natura giuridica della non contestazione: se si tratti,
quindi, di un fenomeno che attiene al piano dell’allegazione dei fatti o
se, viceversa, attiene ad un piano esclusivamente probatorio.
La seconda questione, di ordine pratico, attiene al concreto manifestarsi della non contestazione all’interno del processo.
Nell’insufficienza della risposta legislativa, arrivata, tra l’altro dopo
decenni di dibattito e dopo una quasi pacifica –anche se non univoca-
applicazione del principio in giurisprudenza, deve essere rinvenuta la
ragione stessa di questo lavoro.
Il metodo di indagine seguito è duplice, perché duplice è, come detto,
il campo da indagare: da un lato è necessario inquadrare teoricamente il fenomeno per definirne i confini all’interno dell’ordinamento
processuale; dall’altro lato, è necessario inquadrare praticamente il
fenomeno per verificare come questo si muova all’interno del
3
-Al fine dell’ inquadramento teorico, si procederà dapprima ad una
ricostruzione storica e comparatistica del fenomeno, analizzando le
posizioni assunte da dottrina e giurisprudenza nel più totale vuoto
normativo, per poi passare ad una ricostruzione normativa, analizzando le prime diposizioni che sono intervenute in materia: l’art. 416, III cpc,
introdotto dalla riforma del rito lavoro del 1973; l’art. 167 cpc, così
come modificato dalla legge di riforma del 1990. A questo punto si
procederà cercando di delineare il principio alla luce delle più
importanti pronunce giurisprudenziali, mettendo a confronto gli
orientamenti che si sono andati a formare, col fine di trovare la
soluzione più ragionevole, alla luce soprattutto della connessione che il
principio di non contestazione presenza con altri principi del processo,
in modo particolare con i principi di economia processuale, di giusto processo e di autoresponsabilità delle parti. Concluderà l’esame teorico
del principio lo studio della sua applicazione in processi diversi da
quello civile, così da mostrare che il fenomeno preso in esame costituisce principio generale dell’ordinamento.
-Per l’inquadramento pratico, il metodo che si seguirà è differente, non
4
non contestazione, bensì alla sua manifestazione positiva: l’onere di
contestazione. Soltanto, infatti, rivolgendo lo sguardo ad esso sarà
possibile delineare il principio di cui si discute come regola
processuale concreta che entra in gioco nelle dinamiche processuali
coordinandosi con altre regole processuali; ciò al fine di delineare gli effetti dell’applicazione del principio di non contestazione, qualora
l’onere contestativo non sia assolto. L’analisi partirà sempre dal dato
normativo, prendendo ad esame, per ogni questione pratica che si pone (SOGGETTI; OGGETTO; MODALITA’ e TEMPO), gli artt. di
riferimento (167, 416, 115), passando poi all’analisi delle applicazioni
giurisprudenziali e delle posizioni dottrinali al fine di colmare le
lacune normative.
Riassumendo sinteticamente il presente lavoro:
- OBIETTIVI:
1. Inquadrare in senso teorico-generale il principio di non
contestazione;
2. Dimostrare che il fenomeno di cui si discute costituisce un principio generale dell’ordinamento;
5
3. Inquadrare in senso pratico l’onere contestativo e quindi la non contestazione come “concreta” regola processuale;
- METODI DI INDAGINE:
1. Ricostruzione storica del principio;
2. Ricostruzione normativa del principio;
3. Analisi del dibattito dottrinale e delle applicazioni giurisprudenziali;
4. Confronto con altri principi dell’ordinamento;
5. Ricostruzione dell’onere di contestazione;
6. Individuazione delle conseguenze pratiche che derivano dal mancato assolvimento dell’onere contestativo.
6
Il dibattito storico sul principio della non
contestazione. Dal codice del 1865 alla legge di
riforma del 2009. Le posizioni della dottrina e
della giurisprudenza.
Sommario: 1.Premessa; 2. Il codice del 1865; 2.1. l’impostazione della dottrina
italiana che nega applicazione generalizzata al principio; 2.2. l’impostazione che riconosce applicazione al principio; 3. I progetti di riforma e il codice del 1940; 4. I “nuovi” orientamenti dottrinali;
1. Al fine di comprendere il ruolo che il principio di non contestazione
oggi svolge all’interno del rito civile e di mostrarne la diretta
applicazione anche in riti diversi, quale quello amministrativo e
tributario, sembra interessante, se non necessario, partire da un’analisi storica dell’istituto, che permetta di evidenziarne caratteristiche e
peculiarità alla luce soprattutto della connessione che esso presenta –o
presenterebbe- con altri principi del processo, quali quello dispositivo,
quello di autoresponsabilità delle parti, con il dovere di lealtà e probità,
nonché con i principi costituzionali di giusto processo e di economia processuale. L’analisi che segue partirà dal codice di procedura civile
del 1865, tralasciando l’evoluzione che lo precede per ragioni di
economia, ma non prescindendo da essa nell’analisi delle ragioni che
hanno indotto il legislatore ad adottare una determinata posizione e tenendone conto soprattutto nell’analisi del dibattito dottrinale che
7
intorno ad esso si è formato, con riferimento in particolar modo alla
stretta connessione esistente tra onere di prendere posizione e affermazione dell’esistenza di un principio di non contestazione2
; Tale ricostruzione sarà possibile avvalendosi dell’autorevole opera di
sistematizzazione del professor Antonio Carratta ne il principio della
non contestazione nel processo civile3; successivamente si analizzerà
il recepimento del dibattito sul tema nel codice del 1940, entrato in
vigore nel 1942, si metteranno in luce le diverse posizione
giurisprudenziali e dottrinali che lo hanno seguito.
2. Il codice del 1865 si limitò a recepire nel nostro ordinamento i
principi posti alla base del codice napoleonico4, ragion per cui il
principio di non contestazione non trovava una norma che lo sancisse
esplicitamente, con la conseguenza che il silenzio, serbato dalla parte,
2
Si pensi ad es. al sistema tedesco, il terzo comma del § 138 della ZPO prevede che i fatti “che non sono espressamente contestati, sono da considerarsi sussistenti” a mano che non risulti da “altre dichiarazioni della parte che essa aveva invece intenzione di contestarli.
3
Milano, 1995.
4 Si assiste quindi ad una battuta di arresto rispetto alle innovazioni che erano state
apportate dai codici sardi, che, in tema di non contestazione, pur recependo i principi del codice napoleonico rispetto all’inattività del convenuto da questo si distanziavano, prevedendo che il comportamento della parte rimasta inattiva in giudizio non fosse totalmente irrilevante, Carratta, op. cit., p. 113 ss.
8
poteva essere considerato ficta confessio solo nei casi espressamente
stabiliti dal legislatore; in particolare, il codice unitario prevedeva due
sole ipotesi in cui il silenzio e la contumacia potevano portare a ritenere i fatti dedotti come ammessi, ci si riferisce all’art. 218, II in
tema di interrogatorio formale, che prevedeva “quando la parte non
comparisca, o ricusi di rispondere, si hanno come ammessi i fatti
dedotti, salvo che giustifichi un impedimento legittimo” e all’art. 283
nel caso di produzione in giudizio di una scrittura privata. Fuori da
queste ipotesi il principio di non contestazione non trovava
applicazione, la reticenza non produceva alcuna rilevanza sul piano
probatorio, essendo nella piena facoltà della parte decidere di prendere
posizione o meno. Tale impostazione si inseriva perfettamente nell’idea liberale del processo, disegnato dal codice del 1865 e, prima
ancora, dal codice napoleonico e seguiva in sostanza la disciplina
serbata per la contumacia, inattività che funge generalmente da ficta
contestatio5. Parte contumace e parte costituita rimasta inerte si
5 Si ricorda che originariamente tale soluzione si è resa necessaria per superare il
processo romano basato sulla litis contestatio, che richiedeva la presenza di entrambe le parti ai fini della corretta instaurazione del giudizio, e quindi superare l’impasse prodotta eventualmente dall’assenza del convenuto. Più diffusamente
9
trovavano nella stessa posizione, in nessuno dei due casi, infatti, si
assisteva a relevatio ab onere probandi. La parte, quindi, che avesse
dedotto in giudizio fatti, successivamente non contestati o contro una parte che non si era costituita non era mai esonerata dall’onere di
provare tali fatti. A corroborare la convinzione dell’inesistenza di un
principio generale di non contestazione, nel nostro ordinamento, vi era l’art. 384, I che parlava –nei casi di mancata presa di posizione del
convenuto- di pronuncia sulle conclusioni della parte istante e non di
accoglimento delle stesse sul presupposto della ficta confessio6. I fatti
non contestati, non potevano essere considerati ammessi, e il giudice
doveva in ogni caso verificare le affermazioni della parte istante, onde
evitare però, che il giudice, in questi casi, per eccessivo scrupolo, fosse
indotto ad ordinare d’ufficio atti d’istruzione non necessari7, non venne riportato l’art 150 del codice francese, e cioè la limitazione
all’accoglimento delle domande dell’attore solo “si elle se trouvent
justes et bien vérifiées”. Tale omissione permetteva quindi di
riconoscere una possibile relevatio ab onere probandi ogni qualvolta il
6
Mortara, Commentario, III, p. 836.
7 Come spiega la Relazione sul progetto del Codice di procedura civile presentato in
iniziativa al senato dal Ministro guardasigilli (Pisanelli) nella tornata del 26 novembre 1863, n. 63.
10
giudice era in grado di fondare la propria decisione sulle affermazioni di una parte, non contestate dall’altra, senza che fosse necessario
espletare la relativa prova, tuttavia quello che poteva aprire in maniera
effettiva la strada per il riconoscimento del principio in esame fu
parzialmente sbarrata dalla relazione Pisanelli, che avvertì che il
silenzio non era comunque in grado di costituire tacita confessione, salvo le eccezione di cui all’art.218 e 283.8
2.1. Il quadro positivo che si prospettava non poteva certo considerarsi
terreno fertile per riconoscere applicazione generalizzata al principio di
cui si discute, tuttavia la dottrina- o meglio, una parte della dottrina- di
allora non lasciò nulla di intentato, e sulla scia di soluzioni già adottate
in altri ordinamenti9, cercò di vagliarne l’efficacia anche nel nostro
processo. A tale orientamento si affianca quello di chi nega a gran voce l’applicazione del principio in esame. Per comprendere, però, quali
sono le ragioni e le argomentazioni poste alla base delle diverse
soluzioni, è necessario allargare il focus delle nostre lenti, e guardando
8 Ed è questa la differenza che si apprezza rispetto al codice sardo del 1859, di cui si
è anticipato in nota 3. Il codice sardo, infatti, si limita a non richiamare l’art.150 senza specificare oltre, lasciando così la possibilità che il silenzio abbia una qualche rilevanza probatoria all’interno del processo.
11
più da lontano, inquadrare in maniera generale il processo delineato dal
codice del 1865 per comprendere, soprattutto, quali erano gli spazi di
manovra possibili affinché si potesse ritenere esistente un principio
non espressamente richiamato. Il processo civile unitario, rispetto a
giudizi in cui si discuteva di rapporti disponibili, si presentava come “cosa delle parti” perché improntato al principio dispositivo, secondo il
quale le parti potevano decidere arbitrariamente cosa far entrare nel
processo e quindi decidere su cosa discutere e cosa, invece, doveva
restare al di fuori di esso, vincolando il giudice a tale scelta. La
disponibilità quindi del diritto sostanziale permetteva alle parti di
disporre in giudizio non solo dei fatti sui si controverte ma anche sulle
prove necessarie per la definizione del giudizio10; se a ciò si aggiunge
che il principio dispositivo veniva collegato in maniera indissolubile
con quello di autoresponsabilità, in ragione del fatto che la parte ha il
potere indiscusso di far entrare nel processo solo determinati fatti e di
lasciarne fuori degli altri, senza che il giudice possa far nulla avrà la
responsabilità di una decisione negativa per es. insufficienza delle
10 Non vi era, quindi, alcun tipo di distinzione tra principio dispositivo sostanziale e
principio dispositivo processuale, in ciò consiste sicuramente il più grande limite della discussione dell’epoca.
12
prove o mancanza di fatti identificativi del diritto, tutto ciò amplificato
considerando che vi era la convinzione comune che non vi fosse necessità di accertamento del “vero” nemmeno tendenziale, e quindi il
tutto dipendeva dalle posizioni che le parti assumevano all’interno del
giudizio ragion per cui la necessità di prova veniva meno quando le parti erano concordi sull’affermazione dell’esistenza di fatti dedotti, e,
invece, l’accertamento probatorio era necessario quando si negava
quanto era stato affermato dall’altra parte. A questi due casi va
aggiunta quella che può essere definita una zona d’ombra, zona che
definisce i margini entro i quali sarebbe stato possibile, fin da allora,
riconoscere applicazione al principio di non contestazione. In altre
parole, utilizzando la distinzione tra fatti proposta da Carnelutti11, è
possibile nel processo distingue tre ordini di fatti:
a) fatti contestati: fatti dedottati da una parte e negati dall’altra, in
questo caso la necessità di prova è evidente per la risoluzione della
controversia.
13
b) fatti non contestati: fatti che possono ritenersi pacifici perché confessati o ammessi dall’altra parte, in questo caso sarebbe assente la
necessità di prova, in virtù delle considerazioni sopra svolte.
c) fatti controversi: fatti dedotti da una parte ma non ammessi e non negati dall’altra. La soluzione da adottare non è di tutta evidenza.
In quest’ultimo caso infatti le soluzioni prospettabili sono due, o si
sceglie di far rientrare i fatti controversi in quelli contestati, in modo da
non eliminare la necessità di prova o si sceglie di equipararli ai fatti
non contestati, assimilando il silenzio serbato dalla parte all’ammissione dei fatti dedotti, producendo così una relevatio ab
onere probandi. La dottrina maggioritaria dell’epoca propese per la
prima soluzione, scartando così la possibilità di configurare il principio
di non contestazione nel nostro ordinamento. Tale scelta venne giustificata argomentando sull’inesistenza nel codice unitario di una
norma che parifichi il silenzio all’ammissione.
La dottrina dominante, quindi, negava applicazione generalizzata al
principio di non contestazione che poteva avere riconoscimento nelle sole ipotesi in cui il legislatore l’aveva espressamente previsto, come si
14
283 (produzione di scrittura privata). E’ possibile distinguere
all’interno di tale dottrina dominante due orientamenti, uno che
configura il silenzio come “gesto ambiguo” e l’altro che lo configura
come “semplice inattività”.
Secondo il primo orientamento l’assimilazione tra ammissione e
silenzio era la conseguenza della violazione dell’obbligo di rispondere
che in generale non sussisteva12, ma che, in questi casi, trovava
fondamento nel principio di autoresponsabilità delle parti. La relevatio
ab onere probandi altro non era, in quest’ottica, che una sanzione al
mancato rispetto del dovere di pronunciarsi sui fatti dedotti; fuori da
questi casi, la mancata contestazione in generale costituiva un “gesto ambiguo”13
che poteva essere interpretato, indifferentemente, sia come
tacita confessione che come tacita contestazione14. Mancando però
ogni indicazione da parte del legislatore in tal senso, il silenzio della
parte restava un comportamento perfettamente lecito e non
sanzionabile con la ficta confessio. In realtà come precisa Carratta,
12
Ed è questa la differenza tra processo tradizionale e processo moderno: non esiste per la parte l’obbligo di rispondere.
13
La formulazione della non contestazione come “gesto ambiguo” si deve a CASTELLARI, Volontà e attività nel rapporto processuale civile, in Studi di diritto processuale civile in onere di Giuseppe Chiovenda, Padova, 1927.
15
anche nelle ipotesi espressamente richiamate dal legislatore sembra difficile collegare l’applicazione del principio di non contestazione alla
presenza di un obbligo di prendere posizione, che mal si concilia con l’impostazione del moderno processo civile in cui sono individuabili
solo oneri e aspettative.15Accanto all’opinione che individua la non contestazione come “gesto ambiguo” si colloca l’opinione di chi pur
negando applicazione generalizzata al principio qualifica la non
contestazione come semplice inattività16, attraverso argomentazioni
che risultano più sofisticate e in alcun tratti lungimiranti rispetto alla
successiva evoluzione del dibattito17. Secondo tale impostazione,
infatti, nessun dovere potrebbe dedursi in capo alle parti ragion per cui
nessuna sanzione può essere attribuita alla parte che abbia mancato di
assolvere tale –ipotetico- obbligo. La rilevanza della non contestazione
con la produzione della relevatio ab onere probandi può essere
15 L’accoglimento di questa tesi renderebbe vani i passi fatti in avanti rispetto alla
struttura tradizionale del processo in cui si configurava un dovere di prendere posizione.
16
Questa la soluzione proposta da CHIOVENDA, Le istituzioni di diritto processuale
civile, Napoli, 1933.
17
Soprattutto in riferimento al collegamento tra principio di non contestazione e principio di economia processuale.
16
giustificata soltanto da esigenze di economia processuali18, che
possono essere perseguite dal legislatore prevedendo un sistema di
termini preclusivi oltre i quali la parte perde la facoltà di esercitare il
diritto a quella preclusione collegato, il codice del 1865, però, non
prevedendo alcun termine preclusivo, porta, seguendo questa
impostazione a negare applicazione generalizzata al principio di non
contestazione, risolvendo la mancata contestazione in una mera
inattività processuale priva di effetti probatori. Entrambe le posizioni sono volte a dimostrare l’impossibilità di riconoscere applicazione
generalizzata al principio in esame, mostrandone l’esclusiva
applicabilità soltanto ai casi in cui il legislatore espressamente equipara la non contestazione all’ammissione, considerandola, fuori da questi
casi, sostanzialmente priva di effetti rilevanti, ritenendola appunto, da un lato come “gesto ambiguo”, dall’altro come “semplice inattività”.
Seppur profondamente diverse nelle loro argomentazioni entrambe le
soluzioni sono ancorate al dato positivo, e cercano in questo di
risolvere il problema, ora ricercando un vero e proprio obbligo di
18
Ed è qui che tale impostazione risulta essere lungimirante, il principio di economia processuale ad oggi infatti è utilizzato dalla maggior parte della dottrina come fondamento del principio di non contestazione per giustificarne determinati effetti, per approfondimenti in tal senso si veda cap.2.
17
prendere posizione inquadrando la non contestazione come sanzione,
ora collegandola al principio di economia processuale richiedendo che
la legge preveda un termine preclusivo entro cui esercitare un
determinato diritto.
Tali orientamenti sono stati confutati da Carratta che, nella sua analisi,
ne fa emergere i deficit che, come anticipato sono individuabili, per il primo orientamento, nell’impossibilità di configurare un obbligo di
prendere posizione allo stato del nuovo processo civile delineato dal codice del 1865 e conseguentemente nell’impossibilità di configurare
l’applicazione del principio di non contestazione come sanzione alla
violazione di tale obbligo.
Per il secondo orientamento, il deficit sta nel connettere
esclusivamente il principio di autoresponsabilità a quello di un sistema
preclusivo, che però, ancora una volta, non trova riscontro all’interno
del codice, e che comunque non sarebbe in grado di spiegare l’applicazione del nostro principio considerando che il mancato
rispetto di un termine preclusivo comporta solo la perdita dell’esercizio
18
quale quella dell’assimilazione tra fatti ammessi e fatti non contestati
con conseguente relevatio ab onere probandi.
2.2. All’opposto di queste tendenze, si collocano i tentativi di chi,
invece, cercava di riconoscere generale applicazione al principio in
esame. Non potendo far leva, come ormai noto, sul dato positivo, gli
sforzi si sono concentrati su una ricostruzione logico-sistematica,
ricercando il fondamento della non contestazione in altri principi applicabili al processo. Anche all’interno della tesi minoritaria è
possibile distinguere sostanzialmente due filoni, uno che collegava il principio di non contestazione al dovere di lealtà processuale e l’altro
che fondava il principio di non contestazione sul principio di
autoresponsabilità delle parti. Per quanto riguarda la prima impostazione si deve precisare, anzitutto, che l’auspicio di Mortara19
era quello che il codice prevedesse espressamente, come già era
avvenuto per i codici austriaco e tedesco20, l’equiparazione tra silenzio
ed ammissione. Non essendo questo possibile allo stato degli atti, la soluzione da ricercare è diversa e parte dall’analisi della ratio che
19
Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, III, Milano, 1905.
19
sottostà alle norme vigenti negli ordinamenti summenzionati, che
sarebbe da individuare nella necessità di utilizzare tutti gli strumenti
che favoriscono la trattazione leale, semplice e sollecita della controversia. Se ne ricava che, nonostante l’assenza di una norma
espressa, il dovere di lealtà processuale impone alla parte di dichiarare
la propria volontà, se tale dovere non è rispettato la sanzione che si
dovrà applicare è quella di ritenere i fatti non contestati come ammessi.
Tale impostazione al pari della prima analizzata, che nega applicazione
al principio, considera la non contestazione- o meglio, gli effetti che ne
derivano- come sanzione, la differenza, nel riconoscere o meno applicazione generalizzata, sta nel fatto che per la tesi del “ gesto
ambiguo” la sanzione è individuabile solo nei casi in cui esiste un
dovere di rispondere e quindi, sempre secondo tale orientamento, negli artt.218 e 283, mentre secondo l’orientamento, che chiameremo del
dovere di lealtà processuale, la sanzione è configurabile sempre in ragione dell’esistenza di un dovere, questa volta generico, di lealtà
processuale che impronta tutto il processo al di là dell’individuazione
di singoli obblighi, giustificando così applicazione generalizzata al principio. Secondo tale impostazione, inoltre, al pari dell’ammissione
20
espressa, la non contestazione costituirebbe una prova liberamente
valutabile, da ciò si ricava anche la differenza tra confessione e
ammissione/non contestazione, infatti, quando si è in presenza di
confessione la prova contraria non è in grado di bloccare gli effetti di tale prova legale, né può essere revocata, l’ammissione e la non
contestazione, invece, sono suscettibili di essere revocate e di essere
confutate attraverso la prova contraria. Il limite maggiore di tale teoria,
come evidenzia Carratta, sta nel fatto che la natura sanzionatoria della
parificazione tra fatto non contestato e fatto provato appare
difficilmente conciliabile con la possibilità riconosciuta alla parte che
non ha contestato di addurre prove contrarie fino a quando lo stato del
giudizio lo consenta. Ancora una volta, quindi, la natura sanzionatoria
sarebbe rinvenibile soltanto nei casi in cui la legge espressamente
prevede la parificazione, riducendo così tale teoria alla prima che nega
applicazione al principio e cioè quella per cui la non contestazione è “gesto ambiguo” che deve essere interpretato come ficta contestatio, in
21 L’altro filone21
cerca di superare tali limiti ancorando il principio di
non contestazione al principio di autoresponsabilità e in particolare, si individua l’intima connessione che ricorre tra il principio dispositivo e
il principio di autoresponsabilità: la parte, proprio perché in grado di
dominare incontrastata lo svolgimento concreto del processo civile,
deve sopportare le conseguenze della sua attività, come della sua
inattività. Secondo tale impostazione, nonostante il nostro ordinamento
faccia riferimento solo ad ipotesi eccezionali, e tenendo conto che il
codice del 1865 non prevede alcun onere generico di prendere
posizione è possibile individuare una portata più ampia della non contestazione e quindi dell’ammissione, al di fuori dai casi
positivizzati, tale figura processuale –quella dell’ammissione- sussisterebbe, infatti, ogni qualvolta un’ affermazione di fatto , posta
da una delle parti a proprio vantaggio, non sia esplicitamente o implicitamente negata (contestata) dall’avversario cui nuoce. Nel
concetto di ammissione sarebbe possibile far rientrare sia le
declarationes contra se della parte o del suo procuratore, sia la
semplice non contestazione. La differenza tra le ipotesi richiamate dal
22
legislatore e tutte le altre non sta nell’impossibilità di configurare, fuori
dai casi previsti dalla legge, l’equiparazione tra ammissione e non
contestazione, che sarebbe invece sempre configurabile in ragione dell’esistenza del principio di autoresponsabilità della parte che
impone, come detto, alla parte stessa di accettare le conseguenze della
sua inattività, ma la differenza si apprezzerebbe in termini di effetti
processuali esclusivamente su un piano probatorio, con riferimento al
convincimento del giudice. In particolare, nelle ipotesi eccezionali, che equiparano il silenzio all’ammissione (art.218 e art.283), il giudice
dovrebbe ritenere tali fatti confessati, in ragione di un effetto
vincolante pari a quello derivante dalla prova legale. Se questi sono gli
effetti nelle ipotesi eccezionali, è possibile, secondo Furno22 ricavare la portata degli effetti dell’ammissione in tutti gli altri casi, che sarebbero
minori; nel primo caso infatti, i fatti non contestati producono effetto identico ad una prova legale, in tutti gli altri casi, invece, l’ammissione
determinerebbe solo una prova liberamente valutabile. La falla di tale
impostazione, come spiega, ancora una volta Carratta, sta nel
fondamento, soltanto logico, senza alcun appiglio normativo. Gli
23
effetti, infatti, che vengono collegati all’ammissione nel caso di
interrogatorio formale e di disconoscimento di scrittura privata non
sono esplicitati dalla legge, ma dedotti soltanto logicamente, soluzione
che per tale ragione, non può essere accolta come assoluta e vera, basti pensare che lo “scontro” fra gli Autori trova il suo terreno più fertile
proprio in ragione di tale lacuna normativa. Per di più, il principio di
autoresponsabilità, che viene utilizzato per spiegare l’equiparazione tra
ammissione e non contestazione in maniera generalizzata, ha senso se collegato ad un’attività che deve essere compiuta nei modi e nei
termini previsti dalla legge e quindi dalla connessione tra ciò che la
parte doveva fare e ciò che la parte ha concretamente fatto, ed
esistendo un onere, così inteso, soltanto nelle ipotesi eccezionali, solo in questi casi il principio di autoresponsabilità spiega l’applicazione
del principio di non contestazione, negli altri casi la parte esercita il
silenzio avendone piena facoltà non essendo tale comportamento in
contrasto con alcuna norma del codice del 1865. Anche tale
impostazione, considerando la confutazione di Carratta, finisce per
precipitare tra quelle che negano rilevanza al principio in esame, ed in
24
inattività priva di effetti rilevanti. Nonostante gli sforzi che gli Autori,
che hanno abbracciato tali orientamenti, hanno fatto, nessuno dei filoni
appena menzionati riesce a spiegare, logicamente e tenendo conto del
dato positivo, e, soprattutto a dimostrare, applicazione generalizzata al
principio.
L’impossibilità di riconoscere applicazione generalizza al principio in
esame deriva soprattutto, come parzialmente emerso, dall’intimo
collegamento, che la dottrina, anche quella più ardita, tiene sempre a
mente, tra contumacia e non contestazione, soprattutto con riferimento all’evoluzione del processo moderno che per superare la necessità della
litis contestatio fa ricorso alla figura della finzione giuridica,
delineando così la ficta litis contestatio, in realtà, come emerge in chiusura dell’analisi storica di Carratta, tale finzione fu adoperata
soltanto per superare la necessità della contestatio come presupposto per l’instaurazione del processo e non anche per superare la mancata
presa di posizione della parte. E’ possibile, anzi necessario, scindere la
contestatio, classicamente intesa, in due profili: quello che la considera
come presupposto, e quindi il profilo che fa riferimento alla
25
accelerare il processo, fissando fin dalle prime battute processuali il
quod desputandum. Se, la ficta contestatio è una figura pensata per
superare la contumacia del convenuto così non è per l’inerzia della
parte, intesa principalmente come mancato assolvimento dell’onere di
prendere posizione, a dimostrazione di ciò basti guardare all’ordinamento tedesco, che da un lato considera la contumacia come
ficta contestatio e dall’altro, introduce una norma che equipara la non
contestazione all’ammissione, facendo quindi ricorso alla figura della
ficta confessio, con conseguente relevatio ab onere probandi per i fatti
non contestati. Alla luce di ciò, quello che serve per l’applicazione del
principio della non contestazione, facendo propria la riflessione della
dottrina tedesca e delle posizioni assunte da Carratta, è il ricorrere di
due condizioni, che possono essere ascritte a due profili diversi, uno pratico, l’altro teorico:
1) un comportamento non contestativo dell’avversario.
2) la possibilità di ricavare dall’ordinamento l’assimilazione fra fatti
non contestati e fatti esplicitamente ammessi.
Il dibattito di chi voleva riconoscere applicazione generalizzata al
26
l’applicazione facendo leva su altri principi dell’ordinamento, con,
però, come è emerso nel corso della trattazione, scarsi risultati anche se, comunque meritevoli di aver “consegnato” ai posteri innumerevoli
spunti di riflessione. L’incapacità di ricostruire il principio saldandolo
agli altri principi del processo unitario, ha indotto gli elaboratori dei
diversi progetti di riforma al codice del 1865, ad inserire una norma, come quella esistente nell’ordinamento tedesco e austriaco che
equiparasse il silenzio all’ammissione, in modo da dare risposta
definitiva al dibattito circa l’esistenza nel nostro ordinamento del
principio di non contestazione. Si fa riferimento, in particolare, ai
progetti Chiovenda del 1919; Mortara del 1923.
3. Il codice del 1940, però, non accolse tali istanze, scegliendo di non
allontanarsi da quella che era già stata la posizione del codice 1865,
serbando, quindi, il silenzio più totale in tema di non contestazione e
neppure si trovava una norma che riconoscesse in capo alle parti il
dovere di dichiararsi sulle allegazioni avversarie. Stando al dato
positivo, quindi, non era possibile individuare direttamente il principio
di non contestazione perché la formulazione originaria del codice del 1940 manca di una norma che fosse l’ equivalente del § 138, III della
27
ZPO tedesco e del § 178 della ZPO austriaca, ma neppure
indirettamente facendo leva sull’onere di dichiararsi, che, ancora una
volta, non veniva esplicitato come esistente in capo alle parti. La scelta
del legislatore, come presumibile, non soddisfece la dottrina del tempo
e, anzi, il dibattito si fece sempre più accesso e sempre più orientato
-sempre più univocamente- verso il riconoscimento generalizzato del principio di non contestazione. L’evoluzione del dibattito si apprezzò
soprattutto con riferimento alla giurisprudenza di legittimità, che cercò
di sopperire alle mancanze di diritto positivo.
4. In particolare due furono gli orientamenti giurisprudenziali che si
andarono delineando negli anni immediatamente successivi all’entrata
in vigore del nuovo codice di procedura civile. Il primo orientamento, maggioritario, seguiva la scia dell’orientamento minoritario della
dottrina, già formatosi sotto la vigenza del codice precedente, che
fondava il principio di non contestazione sulla natura disponibile dei
diritti oggetto della controversia, ritenendo appunto che se non
28
della decisione della controversia. Secondo la Corte23, “le ammissioni
sui fatti giuridici, sulle domande e sulle eccezioni possono avere, indirettamente, influenza sull’andamento del processo, nel senso che eliminano la necessità di prova e simile, ma portano sempre ad una pronuncia del giudice, conforme a quelle concordi ammissioni, siano esse di rito o di merito. E il giudice, sempreché non si tratti di ammissioni irrilevanti ai fini del diritto, perché non coincidenti su tutti gli elementi della fattispecie dedotti in giudizio o relativi a materie di ordine pubblico, nelle quali il suo potere superi il principio della domanda, deve ritenere ormai posti fuori della controversia i punti ammessi e pronunciare in conseguenza,essendogli precluso, appunto, dall’art.112 cpc di sostituirsi alle parti”. Ammettere che le
ammissioni hanno una influenza diretta e che queste portano
inevitabilmente ad una pronuncia conforme a quelle ammissioni vuol
dire, in linea di principio attribuire all’ammissione non più il valore di
elemento indiziario24 ma il valore di una prova piena che si avvicina,
23 Cass. 27 gennaio 1955, n.207, in giust. Civ., 1955, p. 1472. 24
Come si era espressa la Corte qualche mese prima con sent. 22 gennaio 1955, n. 166, in Mass. Giur. Ital., 1955, 40, la cui massima stabilisce: sebbene le dichiarazioni dei procuratori alle liti non valgono come confessioni della parte, né possono considerarsi come presunzioni vere e proprie, esse possono, tuttavia, costituire
29
sotto un certo aspetto alla confessione25 Secondo tale impostazione il
principio di non contestazione è nel nostro ordinamento conseguenza
diretta del potere dispositivo delle parti, che decidendo su cosa
controvertere vincolano il giudice a pronunciare sentenza concorde alle
affermazioni delle parti, in quanto i fatti allegati da una parte e ammessi dall’altra sono espunti dal thema probandum e si danno per
assodati. infatti, il principio di non contestazione non era da
considerarsi un vero e proprio istituto, che per essere riconosciuto
aveva bisogno di una espressa positivizzazione, esso costituirebbe,
come ha spiegato la Corte stessa negli anni successivi26, l’effetto del nostro impianto processuale, nell’ambito del quale dominando il
principio dispositivo delle parti, non spetta al giudice accertare d’ufficio circostanze che, pur rientrando tra i fatti costitutivi del diritto
di cui si chiede il riconoscimento, non sono oggetto di contestazione da
elementi indiziari idonei a corroborare il convincimento del giudice. Cass. Civ. in Giur. Compl. Cass. Civ., 1953, XXXII, P.251, n. 2407, la cui massima: le ammissioni contenute nei capitoli di prova, poiché la formulazione di questi è opera esclusiva del procuratore, non possono valere come confessioni, ma come semplici indizi che il giudice può ben ritenere irrilevanti di fronte al complesso delle altre prove esaminate e discusse.
25
Schiavone S. in giur.it. 1956, I, 1030.
30
parte del convenuto. Il principio di non contestazione, così come
delineato, è applicabile solo nei casi di ammissione esplicita, o
implicita o per difesa logicamente incompatibile27. Né il silenzio, né la
contumacia potevano essere equiparati ad ammissione implicita
mancando nel nostro ordinamento un vero e proprio onere di
contestare specificamente ed esplicitamente le circostanze dedotte dall’avversario28
.
Il secondo orientamento giurisprudenziale, invece, richiamando l’art. 116, II come ostacolo all’impostazione di cui sopra, esclude la
possibilità che gli effetti del principio di non contestazione nel nostro
ordinamento siano quelli della relevatio ab onere probandi, infatti, non
esistendo nel nostro ordinamento un onere di contestare i fatti ex
adverso allegati, l’atteggiamento di non contestazione è da considerare
semplicemente come legittimo contegno processuale ed in quanto tale
il referente normativo deve essere rinvenuto nel secondo comma dell’art.116, con la conseguenza che il giudice potrà ricavare qualche
utilità da tale comportamento utilizzando il comportamento della parte
27 Sulle modalità della contestazione si veda cap. 5. 28
Cass. 18 maggio 1971, n. 1458, in Mass. Giust. Civ., 1971, p. 788; Cass. 15 novembre 1974, n.3635, in rep. Giust. Civ., 1974, voce Sentenza civile, n.50.
31
come argomento di prova. Emblematica in tal senso la sent. N. 524 del 1951 che stabilisce: “le dichiarazioni contenute nelle comparse
conclusionali possono impegnare la parte come elementi indiziari, che il giudice può valutare secondo il suo libero convincimento, ponendoli in relazione alle circostanze del caso, sempre che tali dichiarazioni non siano state modificate o rettificate nel corso del giudizio.”29 E ancora, sempre la cassazione “ le ammissioni contenute negli scritti
difensivi, pur non avendo valore di confessione, costituiscono elementi indiziari, che, da soli o in concorso con altri elementi processuali, possono essere liberamente valutati dal giudice ai fini della formazione del suo convincimento.”30
Dall’adozione di tale
impostazione se ne ricava, come è stato autorevolmente sottolineato31
che la non contestazione opera esclusivamente su di un piano
probatorio ed è idonea a fornire la prova dei fatti allegati dall’avversario32
. La dottrina maggioritaria del tempo abbraccia la tesi
29
Cass. 2 marzo 1951, n. 524, in rep. Foro it., 1951, voce prova in genere in materia civile.
30
Cass. 8 aprile 1987, n. 3465, in rep. foro it., 1987, voce prova civile in genere, 35.
31 Carratta, op.cit.,p.205. 32
Soprattutto se si considera l’orientamento secondo il quale i comportamenti qualificabili come argomenti di prova non sono elementi di valutazione delle
32
giurisprudenziale secondo la quale, nonostante l’assenza di una
specifica norma, il principio di non contestazione è direttamente
ricavabile dalla disponibilità sostanziale del rapporto dedotto. Naturalmente, se così inteso, è facilmente superabile l’assenza di una
norma specifica e altrettanto superabili risultano essere le obiezioni all’esistenza del principio che su tale assenza si fondono33. L’unico
presupposto infatti è la disponibilità del rapporto sui cui si controverte,
e la non contestazione rappresenterebbe quella linea di congiunzione
tra disciplina sostanziale e processuale che proprio grazie ad essa
risultano essere conformi: se, infatti, non si desse rilevanza alla volontà
della parte di non rendere contestati i fatti dedotti ex adverso si
negherebbe sostanzialmente la possibilità di disporre del proprio diritto
che dovrebbe e –si traduce, secondo tale orientamento- nella
disposizione non solo dei fatti che saranno oggetto della controversia ma anche delle prove all’interno del giudizio. Il nucleo di questo
ragionamento, come evidenzia Carratta, sta nello “stretto rapporto che
si profila fra non contestazione e principio della domanda, o meglio,
risultanze probatorie acquisite ma sufficienti fonti di prova, si veda Taruffo,
l’istruzione probatoria, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1993, p.321 ss.
33
Ci si riferisce, ancora una volta, alle posizioni della dottrina che negavano generale applicabilità al principio già sotto il codice previgente, si veda par.2;2.1
33
fra non contestazione e potere monopolistico delle parti sui fatti del processo”. Tale tesi non è accettabile perché confonde la causa con gli
34
L’evoluzione normativa e la natura giuridica
della non contestazione. Le posizioni della
dottrina e della giurisprudenza
Sommario: 1. Premessa; 2. La legge di riforma del 73 sul rito lavoro; 3. L’art. 167
cpc alla luce della riforma del 1990, l’onere di prendere posizione; 4. Considerazioni alla luce dell’introduzione dello specifico onere di prendere posizione; 5. La sentenza 761/2002; 6. Le divergenze giurisprudenziali e la sentenze n. 12636/2005; 7. La codificazione del principio: L. 69/2009; 8. Le questioni da affrontare;
9.Considerazioni preliminari alla luce del nuovo art. 115 ; 9.1 La non contestazione
come mezzo di fissazione definitiva dei fatti; 9.2 La non contestazione come prova liberamente valutabile; 9.3 La non contestazione come tecnica di semplificazione processuale; 10. La non contestazione nel processo tributario; 10.1 La non contestazione nel processo amministrativo;
11. Conclusioni.
1. L’analisi del dibattito storico attorno al principio di non
contestazione, affrontata nel precedente capitolo non ha portato a
risposta univoca circa la sua esistenza, in totale assenza di appigli
normativi sia per quanto riguarda una norma che sancisse un onere di prendere posizione sui fatti allegati dall’avversario sia di una norme
che equiparasse il silenzio all’ammissione, infatti la ricostruzione
doveva avvenire necessariamente su un altro piano e le posizione della
dottrina e della giurisprudenza quasi mai convergevano. Adesso
invece, è necessario guardare a quella che può essere definita la strada
del riconoscimento normativo del principio in esame, che inizia con l’introduzione nel rito lavoro, ad opera della legge 533 del 1973,
35
sui fatti allegati dall’attore; passa per la riforma del 1990, che
introduce lo stesso onere, nel rito civile e si conclude con la
positivizzazione del principio in esame ad opera della riforma avvenuta
con legge delega n.69/2009. L’analisi non potrà però fermarsi al dato
normativo sarà necessario infatti analizzare le risposte che dottrina e
giurisprudenza hanno dato in tema di non contestazione dopo le
diverse riforme, e ci accorgeremo ancora una volta che lo sforzo
ricostruttivo non è minore rispetto a quello precedente, mancando
importanti indicazioni quali ad esempio sia il fondamento del principio
di non contestazione, analizzeremo infatti parallelamente le posizioni
di dottrina e di giurisprudenza, con particolare attenzione alla sentenza
delle sezioni unite n.761/2002.
2. L’inesistenza, nel codice del 1865, come nella formulazione
originaria del codice del 1940, di una norma che riconoscesse in capo
alle parti un onere di prendere posizione specifica rispetto alle
allegazioni avversarie ha costituito uno dei principali argomenti, come
visto, utilizzati da quella parte della dottrina che intendeva negare
applicazione generalizzata al principio di non contestazione. La legge
36
di lavoro, imponendo alle parti di collaborare con il giudice fin dalle prime battute processuali, introduce al III comma dell’art. 416 cpc
l’onere per il convenuto di prendere posizione sui fatti allegati
dall’attore “in maniera precisa e non limitata ad una generica
contestazione”. Tale formulazione avrebbe dovuto non solo dimostrare
l’esistenza di un onere di contestazione, ma anche andare a corroborare
l’idea per cui nel nostro ordinamento può e deve avere rilevanza il
principio di non contestazione, riconoscendo, di conseguenza,
rilevanza giuridica ad ogni comportamento non contestativo. La
dottrina e la giurisprudenza, tuttavia, non si mostravano concordi nell’interpretazione della norma qui in esame. Per meglio evidenziare
le diverse posizioni e le argomentazioni addotte a sostegno di queste è
possibile suddividerle in tre filoni, due dei quali si collocano, fra loro,
agli antipodi, ed uno che rappresenta una soluzione intermedia.
Il primo orientamento, fermandosi ad un’interpretazione letterale della
norma, nega che si tratti di un vero e proprio onere, ciò in ragione dell’assenza di una espressa sanzione all’inottemperanza dell’onere. Si
tratterebbe, piuttosto, di un semplice invito a prendere posizione, che si
37
nell’esercizio del proprio diritto di difesa, ragion per cui nessuna
conseguenza poteva trarsi dal comportamento della parte che aveva mancato appunto “l’invito” di cui all’art. 416. Oltre a quanto fin qui
detto, a sostegno di tale tesi34, si argomentava che la posizione del
convenuto costituito non poteva essere più gravosa di quella del
convenuto contumace e poiché nessuna conseguenza negativa era
prevista per la parte che aveva scelto di non costituirsi, allo stesso
modo, non potevano prodursi conseguenze giuridiche negative in capo alla parte che non ottemperava alla richiesta dell’art.416 II. In tal senso
si esprimeva anche la giurisprudenza35.
All’opposto si colloca la tesi, assolutamente minoritaria, e supportata
da isolate pronunce giurisprudenziali di merito36, di chi, invece,
34
Così D’Aloja, onere della prova e onere della contestazione nel processo del lavoro, in dir. lav.,1976, II, p.156.
35
Si veda, fra tutte, Cass. 06-03-1986, n. 1488, la cui massima stabilisce: “la
previsione dell’obbligo (…) di prendere posizione in maniera precisa (non limitata ad una generica contestazione) in ordine alla domanda (…) non esclude il potere-dovere del giudice di accertare se l’attore abbia dato dimostrazione probatoria dei fatti costituitivi e giustificativi della pretesa, indipendentemente dalla circostanza che, in ordine ai medesimi, siano state o meno proposte contestazioni specifiche (…)”, rep.foro it., 1986, voce lavoro e previdenza (controversie), n.223.
36 Così pret. Parma, sent. 16/05/1975 “i fatti oggetto di contestazione generica nella
memoria difensiva di cui all’art. 416 cpc sub art.1 legge 533, 1973 devono essere considerati, agli effetti processuali, come “non contestati” e , quindi, sono posti,
38
riteneva, che in virtù dell’onere presente nell’art. 416,III la
contestazione generica portasse a relevatio ab onere probandi per la
parte che aveva allegato i fatti non contestati e per il giudice alla
pacificità degli stessi fatti, che doveva per questa ragione assumerli
come veri.
La terza tesi, quella più seguita in dottrina e in giurisprudenza,
ammette effettivamente la presenza di una lacuna nell’art.416 III, ma
ritiene, allo stesso tempo, che ciò non sia rilevante, potendosi trovare
sanzioni al comportamento della parte in altre disposizioni del codice,
assumendo che il comportamento inadempiente della parte rientri nell’applicazione dell’art.116,II e quindi come comportamento
liberamente valutabile da parte del giudice, il quale poteva assumerlo
come semplice argomento di prova37.
Anzitutto si può ricorre agli artt. 88 comma 1, e 116 comme 2 per
sostenere che il comportamento omissivo del convenuto è sanzionabile
attraverso la condanna al pagamento delle spese processuali ex art.92 e
attraverso la possibilità per il giudice di trarre argomenti di prova a
senza bisogno di prova a base della decisione.” Foro it.,1975, I, 1841 e pret. Pavia
16-10-1980 in foro.it, I, 2078.
37
In tal senso anche D’AVOSSA, il processo del lavoro nell’esperienza della riforma, pp. 33-45, Milano, 1985.
39
sostegno dei fatti allegati dall’attore38; l’atteggiamento non
contestativo della parte quindi sarà comportamento da valutare
liberamente da parte del giudice; in tal senso si sono pronunciate
diverse sentenze che sono volte di conseguenza a negare rilevanza al
principio di non contestazione. Si è stabilito, infatti, che
“l’inadempimento, da parte del convenuto, dell’onere impostogli dal 3º comma dell’art. 416 c.p.c., il quale prevede che, nella memoria difensiva di costituzione, tale soggetto debba prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda, non è sanzionato da decadenza (come è, invece, ai sensi dello stesso articolo, per l’onere di proposizione delle eccezioni e delle domande riconvenzionali nonché per l’indicazione dei mezzi di prova) e non comporta la conseguenza che i fatti non specificamente contestati debbano ritenersi come ammessi e provati, potendo tutt’al più valere come argomento di prova liberamente apprezzato dal giudice del
38 Così PROTO PISANI, In tema di prova nel processo del lavoro: temperamenti al
principio di eventualità, in foro it., 1981, I, 2402 e Ciaccia Cavallari, la contestazione
40
merito (art. 116, 2º comma, c.p.c.)”39. Entrambi gli ordinamenti
maggioritari, non ritengono applicabile il principio di non
contestazione al rito lavoro, ciò, per lo più, a causa della tendenza a
voler ricondurre il principio in esame a quello della disponibilità del
rapporto su cui si controverte e poiché nel rito lavoro si discute di
rapporti indisponibili o semi-indisponibile un principio di non
contestazione così delineato non poteva trovare applicazione.
3. La riforma del 199040, sostituendo l’art. 167, introdusse anche nel
rito ordinario l’onere di prendere “posizione sui fatti posti dall’attore a
fondamento della domanda”. La prima riflessione si soffermò, come
39
Così Cass. civ., 13-12-1986, n. 7476. In rep. Foro, 1986, voce lavoro e previdenza (controversie) n 221. Allo stesso modo si è pronunciata Cass. civ., 07-07-1987, n. 5933. <<L’inadempimento, da parte del convenuto, dell’onere impostogli dal 3º
comma, art. 416 c.p.c., il quale prevede che, nella memoria difensiva di costituzione, tale soggetto debba prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda, non è sanzionato da decadenza (come è, invece, ai sensi dello stesso art., per l’onere di proposizione delle eccezioni e delle domande riconvenzionali nonché per l’indicazione dei mezzi di prova) e perciò non preclude al convenuto la successiva contestazione dei fatti costitutivi della domanda, anche in grado d’appello, né al giudice il potere-dovere di accertarne la dimostrazione probatoria, all’uopo ricavando eventuali argomenti di prova (ai sensi dell’art. 116, 2º comma, c.p.c.) anche da quel comportamento del convenuto stesso.>>
41
ovvio, sulla differenza lessicale tra la previsione dell’onere all’interno
del rito lavoro e quella prevista per il rito ordinario di cognizione. Il problema riguarda sostanzialmente l’omissione della locuzione
“precisa e non limitata ad una generica contestazione”. Ci si è chiesti
in particolare se la diversa formula lessicale fosse espressione dell’intenzione del legislatore di prevedere un onere più tenue nel rito
civile. La risposta a tale quesito aprì a contrasti in dottrina, da un lato troviamo chi sostiene che l’omissione non comporta alcuna
conseguenza sul piano pratico, dall’altro troviamo chi sostiene che nel
rito civile, data la formulazione più generica dell’onere, si giustifica
una maggiore libertà del convenuto nel formulare le proprie difese. La riflessione dottrinale intorno all’art.167 non si esaurisce nel
commentare la scelta linguistica del legislatore, ma si spinge oltre
portando alla luce quesiti non diversi rispetto a quelli che avevano accompagnato la riflessione intorno al terzo comma dell’art.416, di cui
si è ampiamente detto41. Se si considera, poi, che è possibile
identificare una medesima ratio, sottostante ad entrambe le norme, le
differenze pratiche che dovrebbero cogliersi in virtù della differenza di
42
formulazione linguistica si riducono –se non annullano- notevolmente.
La ratio a cui ci si riferisce è l’esigenza di fissare, fin dalle prime
battute processuale, il thema decidendum e il thema probandum, prevedendo in capo alla parte l’onere di dichiararsi con precisione e
completezza sui fatti di causa. Se si accoglie poi la tesi che connette il
principio di non contestazione al principio di autoresponsabilità si
coglie la centralità di tale onere, come quello previsto dall’art.416,III, e cioè l’impossibilità che l’inottemperanza si traduca solo in una perdita
di facoltà dell’esercizio del diritto di difesa, nonostante l’assenza di
una sanzione specifica e l’assenza di un termine entro cui compiere
tale attività. Molti però hanno ritenuto che proprio l’assenza di una
sanzione escludeva la configurazione di un vero e proprio onere all’intero degli artt.416 e 167 cpc propendendo, invece, per la
configurazione di semplice invito a prendere posizione. Tale
impostazione non può essere accolta alla luce del principio di
autoresponsabilità che informa il processo di parti su diritti
disponibili42 e alla luce, soprattutto, degli scopi perseguiti dalla riforma del ‘73 del rito lavoro e da quella del ’90 per il rito civile. Assurdo
43
sarebbe credere che l’inosservanza di tale disposizione porterebbe al
medesimo risultato della sua osservanza e cioè la capacità di rendere i
fatti dedotti ex adverso contestati. “Vale a dire che, intanto la “presa di posizione” ha significato ed è apprezzabile, in quanto si riconosce che
la parte può raggiungere dei risultati vantaggiosi soltanto
conformandosi a quanto previsto dalla legge e che, in caso contrario, si
espone ad una serie di conseguenze sfavorevoli le quali, se non proprio
direttamente dagli artt. 416 e 167, sono comunque ricavabile aliunde dal sistema. Omettendo di “prendere posizione”, infatti, la parte:
a) non contribuisce al raggiungimento degli obiettivi, di
concentrazione e di economia processuale, che il legislatore si è proposto di raggiungere mediante l’introduzione nel processo ordinario
dell’attuale art.167 e per questo va incontro alla sanzione del
combinato disposto degli artt. 88 e 92, comma 1, cpc, oltre che alla
decadenza dal potere di elevare contestazioni in un momento
successivo;
b) rinuncia a contestare i fatti allegati dall’avversario e così subisce le
conseguenze, per lei sfavorevoli, che l’ordinamento ricollega ai fatti
44 spese processuali.”43
Date queste considerazioni, alla luce delle
riforme summenzionate, è possibile riconoscere in capo alle parti un
vero e proprio onere di prendere posizione che giustifichi applicazione
generalizzata al principio di non contestazione, seppur, allora, non
ancora positivizzato.
4. Dopo le riforme del 1973 e del 1990, finalmente, abbiamo nel nostro
ordinamento un onere positivizzato che permette di ricostruire e
formulare il principio di non contestazione, al fine di dare una qualche rilevanza all’inerzia della parte. Si eliminano le incertezze di quella
parte della dottrina che negava applicazione al principio, di cui si discute, facendo leva sull’assenza di tale norma nel nostro
ordinamento. Da questo punto in poi, il dibattito si fa più sofisticato,
passando dall’affermazione dell’esistenza ai modi di manifestarsi e di
esplicarsi del principio e soprattutto alle conseguenze giuridiche che la
sua applicazione porta con sé, nonostante, però, pur essendo codificato l’onere di prendere posizione, ancora manca una formulazione positiva
del principio di non contestazione. Il riconoscimento dell’uno infatti
non dipende necessariamente dell’altro, il fatto che vi sia una norma