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L'evoluzione della disciplina delle società a partecipazione pubblica a seguito della Riforma Madia

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Giurisprudenza

CORSO DI LAUREA IN GIURISPRUDENZA

Tesi di Laurea Magistrale

L’evoluzione della disciplina delle società a

partecipazione pubblica a seguito della Riforma

Madia

Relatore

Chiar.mo Prof. Salvatore Vuoto

Candidata Chiara Ricciato

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2 Ai miei genitori e a mia sorella A Gabriele Ai miei nonni Nello e Maria, Mimino e Rita

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3

INDICE

INTRODUZIONE ... 6

CAPITOLO 1 L’OGGETTO DELLA DISCIPLINA: L’ARTICOLO 1 DEL DECRETO MADIA ... 10

1.1 L’ambito applicativo del decreto ... 11

1.2 I vincoli applicativi imposti dal decreto ... 12

1.3 La “specialità” delle norme del Testo Unico ... 12

1.4 Le società di diritto singolare, gli enti associativi e le fondazioni 14 1.5 L’ambito applicativo del decreto Madia con riferimento alle società quotate ... 19

CAPITOLO 2 I TIPI SOCIETARI AMMESSI E LE FINALITÀ PERSEGUIBILI ATTRAVERSO LA PARTECIPAZIONE PUBBLICA ... 25

2.1 I tipi societari in cui è ammessa la partecipazione pubblica... 25

2.2 Le finalità perseguibili attraverso l’acquisizione e la gestione delle partecipazioni pubbliche ... 29

2.3 Il limite di scopo per la costituzione di società, l’acquisizione ed il mantenimento delle partecipazioni ... 33

2.4 La deroga al vincolo di scopo per la valorizzazione del patrimonio immobiliare dell’amministrazione ... 38

2.5 Il limite di attività per le partecipazioni pubbliche ... 40

2.5.1 L’ammissibilità della partecipazione pubblica per la produzione di servizi di interesse generale ... 40

2.5.2 L’ammissibilità delle partecipazioni per la realizzazione di opere pubbliche attraverso accordi di programma o contratti di partenariato ... 43

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4 2.5.3 L’ammissibilità delle partecipazioni pubbliche per l’ipotesi delle società in house ... 49 2.6 Ipotesi residuali di ammissibilità delle partecipazioni pubbliche 50 2.7 Deroghe all’applicazione dell’articolo 4 ... 53 CAPITOLO 3

LA QUESTIONE DELL’ESTENDIBILITÀ DELLE

PROCEDURE CONCORSUALI ALLE SOCIETÀ A

PARTECIPAZIONE PUBBLICA ... 58 3.1 La tesi privatistica per ammettere la fallibilità ... 61 3.2 La centralità assunta dalla sentenza 22209/2013 della Corte di Cassazione ... ………63 3.4 Il criterio tipologico per escludere la fallibilità ... 72 3.5 Il criterio funzionale per escludere la fallibilità... 73 3.6 L’esercizio provvisorio costituisce una soluzione al problema dell’assoggettabilità a fallimento, oppure no? ... 76 3.7 La crisi d’impresa nel decreto Madia ... 79 3.8 La specifica previsione di procedure volte a prevenire la crisi .... 82 3.9 I piani di valutazione del rischio aziendale e il divieto di ripianamento delle perdite ... 85 3.10 Deroghe al divieto di soccorso finanziario ... 92 3.11 Conclusioni in tema di assoggettabilità delle società partecipate alle procedure concorsuali ... 98 CAPITOLO 4

LA RAZIONALIZZAZIONE DELLE PARTECIPAZIONI

PUBBLICHE ... 102 4.1 Interventi di razionalizzazione precedenti al decreto Madia ... 104

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5 4.2 La razionalizzazione periodica delle società partecipate nel decreto

Madia ... 106

4.3 La revisione straordinaria delle partecipazioni pubbliche ... 109

4.4 Considerazioni finali ... 111

CAPITOLO 5 LA RAZIONALIZZAZIONE, NELLA REGIONE TOSCANA, DELLE PARTECIPAZIONI PUBBLICHE NEL SETTORE DELL’AMBIENTE E DELL’ENERGIA ... 114

5.1 Le origini del percorso di razionalizzazione... 114

5.2 I requisiti necessari per consentire alla Regione il subentro nelle quote societarie di Province e Comuni ... 116

5.3 Le delibere regionali attraverso cui è stata condotta l’istruttoria e gli esiti della stessa ... 118

5.4 L’incidenza del decreto Madia sul percorso di razionalizzazione intrapreso ... 123

5.5 La conclusione del progetto di fusione ... 127

CONCLUSIONI ... 129

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INTRODUZIONE

La prima metà del ‘900 è segnata dal dirigismo economico, dove l’intervento dello Stato imprenditore nell’economia privilegiava le forme pubblicistiche dell’ente economico a discapito delle forme societarie private.

Dopo la seconda guerra mondiale emerge la volontà da parte degli Stati europei di concentrare la propria presenza nell’economia al fine di meglio controllare il processo di ricostruzione post bellica. I servizi ritenuti essenziali o strategici per la ricostruzione economica del Paese venivano affidati a grandi imprese, generalmente monopolistiche, che si trovavano sotto il controllo statale.

Nel 1957, infatti, con la nascita della Comunità Economica Europea, gli Stati fondatori si impegnarono a dirigere e controllare il processo di ricostruzione post bellica.

In questo contesto si spiega la stesura dell’art. 90 del Trattato di Roma, diventato successivamente l’art. 86 TUE, considerato di primaria importanza per la disciplina della concorrenza tra imprese sia pubbliche che private. Questa disposizione è diventata, attualmente, grazie al ruolo ricoperto dalla Commissione europea nell’ambito del processo di liberalizzazione, il più importante strumento di liberalizzazione e di controllo dei rapporti di trasparenza tra Stato e imprese. Negli ultimi due decenni, infatti, l’intervento diretto dello Stato nella fornitura di beni e servizi si è ridotto in tutta l’Unione Europea e il processo di privatizzazione dell’economia ha fortemente ridotto il peso statale nell’ambito del settore dei pubblici servizi.

Essendo la politica della concorrenza uno dei principi cardine dell’intero ordinamento comunitario, gli estensori del trattato si resero conto che né la regolamentazione rivolta esclusivamente alle imprese, né quella rivolta agli Stati, sarebbe stata in grado di regolamentare la categoria delle imprese pubbliche che rappresenta un ibrido tra le imprese private e gli enti pubblici. Il vecchio articolo 90 del Trattato di

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7 Roma, fu introdotto per dare una regolamentazione all’area grigia in cui confluivano gli interessi statali in ambito economico.

Il vecchio articolo 90.1, diventato l’art. 86 TUE, prevede il divieto per gli Stati membri di emanare o mantenere, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, qualsivoglia misura contraria alle norme del Trattato. Ciò rappresenta uno strumento attraverso il quale il Legislatore comunitario sembra aver posto un freno alla crescita dell’intervento pubblico nell’economia. Una prima definizione di diritto esclusivo o speciale l’ha data la Corte di Giustizia nel caso British-Telecom del 1996, definendo gli stessi come “diritti conferiti dagli Stati alle imprese che incidono sulla capacità di altre imprese di fornire servizi sullo stesso territorio in condizioni sostanzialmente equivalenti”. L’art. 86.2 TUE, che era precedentemente l’art. 90.2 del Trattato di Roma, stabilisce che le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme del Trattato e alle regole della concorrenza, nei limiti in cui ciò non osti all’adempimento della missione loro affidata. Sostanzialmente gli Stati sono sì liberi di organizzare e disciplinare i servizi pubblici a carattere commerciale, ma nel rispetto dei limiti imposti dal Trattato e specificamente delle regole sulla concorrenza1.

Come dicevo prima, l’art. 90 era rimasto per lungo tempo inapplicato, prima di tornare alla ribalta negli anni ’90 del ‘900, quando, sempre su impulso dell’Unione Europea, ha preso avvio il processo di liberalizzazione dei servizi pubblici, che erano precedentemente gestiti in regime monopolistico. L’appartenenza al sistema dell’Unione ha anche accelerato il processo di privatizzazione, che ha segnato il passaggio da un sistema di economia mista ad una economia sostanzialmente privatizzata, dove lo Stato diventa perlopiù regolatore.

1 A. BARRECA, L’art. 86 del Trattato CE: origini e scopi perseguiti, in

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8 Ci si rende conto che solo in condizioni di piena concorrenza i consumatori e le imprese possono trarre il massimo beneficio dalla realizzazione del mercato unico europeo. La privatizzazione e la regolamentazione di un settore sono fondamentali per trasformare il monopolio in regime di concorrenza.

Con la privatizzazione l’ente pubblico monopolista viene trasformato in società per azioni oppure in società a responsabilità limitata e le sue quote azionarie vengono vendute agli investitori privati.

La regolamentazione, invece, consiste nell’imposizione di regole tese a correggere il potere monopolistico, e questa imposizione è tanto più marcata quanto più forte sarà la volontà di correzione dei meccanismi di mercato. Essa è utile per ottenere una migliore allocazione delle risorse, per assicurare l’efficienza del servizio universale di pubblica utilità, per promuovere lo sviluppo industriale e il potenziamento dei settori strategici. Quando l’incompatibilità fra l’interesse pubblico e gli scopi di profitto delle imprese private non può essere sanata con la regolamentazione, ecco che i poteri pubblici avvertono l’esigenza di intervenire direttamente nell’economia. Tuttavia, la scelta fra regolamentazione ed intervento diretto tramite l’impresa pubblica non è mai netta né alternativa, in quanto si possono verificare casi di imprese pubbliche comunque soggette alla forte regolamentazione dei mercati. Difatti, l’intervento pubblico sotto forma di proprietà pubblica dell’attività di produzione ed erogazione di beni e servizi, rappresenta storicamente la principale forma di regolamentazione dell’attività economica in Europa.

Ma la regolamentazione si avvale anche di altri strumenti, ad esempio l’autoregolamentazione, che affida direttamente agli operatori privati il compito di garantire il rispetto delle regole, oppure la concessione ad imprese private dell’esercizio di fornitura del servizio pubblico. Le forme organizzative dell’impresa pubblica possono essere l’azienda autonoma, con cui la pubblica amministrazione assume la forma di

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9 impresa di produzione ed opera con un proprio bilancio; l’ente pubblico economico, che è dotato di propria personalità giuridica, proprio patrimonio e propri dipendenti; oppure la partecipazione minoritaria dello Stato nelle imprese private, attraverso la quale il Governo esercita un controllo sugli indirizzi della gestione2.

La vertiginosa crescita delle società a partecipazione pubblica, la varietà di attività interessate e di obiettivi perseguiti, ha richiamato l’interesse del Legislatore che ha avvertito l’esigenza di dare regolamentazione a questo sempre più imponente fenomeno.

La specialità delle società a partecipazione pubblica, infatti, ha finito per aggredire gli stessi tipi societari privati, in particolare le società per azioni, mettendone in discussione la stessa natura.

Il tema della partecipazione dello Stato nell’impresa privata ha trovato una regolamentazione organica con il decreto legislativo n. 175/2016, in tema di società a partecipazione pubblica. Questo decreto segnerebbe il punto di arrivo del processo di riordino delle società a partecipazione pubblica. L’esigenza di razionalizzazione viene evidenziata nella stessa introduzione allo schema di decreto, che si propone di superare la frammentarietà del quadro normativo precedente in tema di società pubbliche.

Il decreto n. 175/2016 è uno dei decreti attuativi del più ampio progetto di riforma della legge Madia, la legge n. 124/2015. Il principio guida che ha ispirato l’esercizio della delega è stato quello di assoggettare lo statuto delle società a partecipazione pubblica alla disciplina civilistica, considerando le relative deroghe strettamente necessarie al perseguimento dell’interesse pubblico. In sostanza, deroghe al diritto societario privato sarebbero giustificate solo in presenza di interessi pubblici, e di questo si occupa il testo del decreto legislativo 175/2016.

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CAPITOLO 1

L’OGGETTO DELLA DISCIPLINA: L’ARTICOLO 1 DEL DECRETO MADIA

Il decreto legislativo numero 175/2016 è entrato in vigore il 23 settembre 2016, con lo scopo di riordinare la normativa in tema di società a partecipazione pubblica. Tale decreto costituisce l’attuazione dell’articolo 18 della legge delega n. 124/2015, la cosiddetta legge Madia. L’articolo 18 è stato peraltro oggetto di declaratoria di incostituzionalità attraverso la sentenza n. 251/2016 della Corte Costituzionale, la quale ha dichiarato illegittima la legge delega per un vizio rilevato nell’attuazione del decreto delegato. La Corte, infatti, ha affermato che i decreti attuativi sarebbero dovuti essere stati approvati previa intesa tra lo Stato e le Regioni in sede di Conferenza unificata, e non attraverso semplice parere. Peraltro, il decreto legislativo n. 175/2016 è stato emanato prima della sentenza di incostituzionalità della Corte, con la conseguenza per cui questa sentenza non ha prodotto effetti diretti su di esso, almeno non fino a quando il singolo decreto non verrà singolarmente impugnato3.

Il 21 aprile 2016 il Consiglio di Stato ha espresso un parere positivo sul decreto legislativo in questione, affermando come il previgente sistema in tema di partecipazione pubblica fosse caratterizzato da un “persistente disordine, interventi frammentari e dalla mancanza di un disegno coerente di lungo periodo”4.

3 L. GENINATTI SATE’, La nuova disciplina delle società a partecipazione pubblica:

temi e problemi, in www.piemonteautonomie.cr.it, Torino, 18 febbraio 2014.

4 V. ITALIA, M. BASSANI, G. BOTTINO, G. RUGGIERI, Le società partecipate dopo la

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11 1.1 L’ambito applicativo del decreto

Stando ai criteri di delega, i fini prioritari del decreto sono quelli di assicurare la chiarezza della disciplina, la semplificazione normativa e la tutela della concorrenza, attraverso la razionalizzazione e riduzione delle partecipazioni pubbliche e la ridefinizione della disciplina. Con riferimento all’oggetto della disciplina, l’articolo 1, comma 1, del decreto legislativo n. 175/2016, prevede che le disposizioni del decreto abbiano ad oggetto la costituzione di società da parte di amministrazioni pubbliche, nonché l’acquisto, il mantenimento e la gestione di partecipazioni da parte di tali amministrazioni, in società a totale o parziale partecipazione pubblica, diretta o indiretta.

All’interno dell’articolo 1, comma 1, distinguiamo, dunque, un duplice campo applicativo: quello oggettivo e quello soggettivo.

L’ambito di applicazione oggettivo prevede che le disposizioni del decreto riguardino la costituzione, l’acquisto, il mantenimento e la gestione di partecipazioni da parte delle amministrazioni pubbliche. L’articolo 2, comma 1, lettera A, del decreto in esame, richiama, ai fini dell’individuazione del perimetro delle amministrazioni pubbliche, l’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165/2001, laddove prevede che per amministrazioni pubbliche si intendono “tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed Amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane e i loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le Amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale”5.

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12 L’ambito soggettivo di applicazione del decreto, invece, si riferisce da un lato alle pubbliche amministrazioni che effettuano operazioni di costituzione di società e di acquisto e mantenimento delle partecipazioni; dall’altro alle società stesse che sono oggetto di costituzione e in cui le pubbliche amministrazioni detengono le partecipazioni.

1.2 I vincoli applicativi imposti dal decreto

Il comma 2, dell’articolo 1 del decreto legislativo n. 175/2016, prosegue affermando che le disposizioni contenute nel decreto vengano applicate avendo riguardo all’efficiente gestione delle partecipazioni pubbliche, alla tutela e alla promozione della concorrenza e del mercato, nonché alla razionalizzazione e alla riduzione della spesa pubblica.

Il secondo comma dell’articolo 1 costituisce, quindi, una norma di interpretazione autentica, un vincolo di applicazione, non solo rispetto al primo comma del medesimo articolo, ma anche rispetto agli altri articoli del TU. Attraverso questa norma il Legislatore, infatti, dichiara che le altre disposizioni del decreto debbano essere applicate in modo funzionale, ovvero non solo con riguardo all’efficiente gestione delle partecipazioni pubbliche e alla tutela e alla promozione della concorrenza e del mercato, bensì anche alla razionalizzazione e alla riduzione della spesa pubblica.

1.3 La “specialità” delle norme del Testo Unico

Il comma 3 dell’articolo 1 del decreto legislativo n. 175/2016 afferma, poi, che per quanto non derogato dalle disposizioni del decreto, si applichino alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato.

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13 Il comma 3 dell’articolo 1 del decreto n. 175 configura le norme del TU come legge speciale rispetto a quella generale del codice civile. Questa norma contiene, oltre che il riferimento alle disposizioni di diritto societario contenute nel codice civile, anche un riferimento ambiguo e poco chiaro alle “norme generali di diritto privato”. Tale imprecisa espressione dovremmo intenderla, probabilmente, come l’intenzione del Legislatore di voler operare un rinvio alle norme di diritto fallimentare che si applicano a tutte le società.

La sostituzione, in questo comma, dell’espressione “leggi speciali” con la dizione “norme generali di diritto privato”, è stata voluta dal Consiglio di Stato e dalle Commissioni parlamentari competenti, in quanto tale espressione meglio chiarisce l’intenzione di fare salve le disposizioni generali e non quelle speciali rispetto al testo del decreto e conferma il regime di non specialità della società a partecipazione pubblica.

L’impostazione adottata dal Legislatore nell’articolo 1, comma 3, sembrerebbe, peraltro, confermare l’idea già presente in significative pronunce giurisprudenziali precedenti, per cui la partecipazione pubblica non è di per sé idonea a mutare la natura delle società di capitali e lo scopo di lucro come scopo primario dell’attività sociale. Inoltre, nell’ottica del Legislatore non parrebbe lo statuto della società pubblica ricavabile esclusivamente dalla applicazione del diritto societario. In questo senso si spiega il richiamo alle norme generali di diritto privato, cioè oltre che alle leggi speciali di diritto civile e commerciale, anche ai principi di efficienza e concorrenza che ispirano le imprese private e che sono da stimolo agli investitori privati. Questa impostazione è confermata nel comma 2 dell’articolo 1, dove, appunto, si richiama l’efficienza della gestione e la promozione e la tutela della concorrenza6.

6 E. CODAZZI, Intervento in VIII convegno annuale dell’associazione italiana dei

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14 La Corte dei Conti, già in un parere del 22 luglio 2015 (Sezione Autonomie, deliberazione n. 24/SEZAUT/201/FRG) si era occupata del rapporto fra le regole del codice civile e quelle in tema di tutela della concorrenza, affermando che “le società di capitali partecipate dagli enti pubblici per le loro finalità istituzionali conservano la propria natura privatistica”. Inoltre, aggiunge la Corte, “la relazione illustrativa all’articolo 2458 cc (attuale articolo 2449 c.c.) conferma che è lo Stato che si assoggetta alla legge delle società per azioni per assicurare alla propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici”7.

Nonostante si comprenda la necessità di far convivere norme di diritto pubblico e regole civilistiche, tuttavia bisogna sempre tener presente che vi è una fisiologica e naturale differenza tra gli interessi privati e quelli pubblici, perciò nonostante l’interesse pubblico venga perseguito da parte delle P.A. attraverso lo strumento del diritto privato, alcune volte potrebbero verificarsi ineludibili antinomie.

1.4 Le società di diritto singolare, gli enti associativi e le fondazioni

Per quanto non diversamente disciplinato nel TU restano ferme le disposizioni del codice civile e delle altre leggi speciali vigenti, e continuano a trovare applicazione anche le disposizioni di legge contenute in regolamenti governativi o ministeriali che sono relativi a società a partecipazione pubblica di diritto singolare costituite per la gestione di servizi di interesse generale (SIG) e servizi di interesse economico generale (SIEG) o per il perseguimento di una missione di interesse pubblico; resta ferma anche l’applicazione delle leggi relative a enti associativi diversi dalle società e a fondazioni8 .

grandi dibattiti in corso, i grandi cantieri aperti, Roma, 17-18 febbraio 2017, pp.

11-13.

7 Corte dei Conti, Sezione Autonomie, deliberazione n. 24/SEZAUT/201/FRG del 22

luglio 2015.

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15 L’articolo 2 del decreto legislativo n. 175/2016 fornisce sia la definizione di “servizi di interesse generale” (SIG), che quella di “servizi di interesse economico generale” (SIEG).

In particolare, la disposizione individua nei servizi di interesse generale, le attività di produzione e di fornitura di beni o di servizi che non sarebbero svolte dal mercato senza un intervento pubblico o sarebbero svolte a condizioni differenti in termini di accessibilità fisica ed economica, continuità, non discriminazione, qualità e sicurezza, che le amministrazioni pubbliche, nell'ambito delle rispettive competenze, assumono come necessarie per assicurare la soddisfazione dei bisogni della collettività di riferimento, così da garantire l'omogeneità dello sviluppo e la coesione sociale, ivi inclusi i servizi di interesse economico generale.

Il SIG ricomprende, dunque, attività che le autorità pubbliche degli Stati membri considerano di interesse generale e che pertanto possono essere oggetto di specifici obblighi di servizio pubblico (tra questi servizi segnaliamo, ad esempio, il sistema scolastico obbligatorio).

Rientrano, invece, nella nozione di “servizi di interesse economico generale”, quei servizi che, pur essendo di interesse generale, sono erogati o sono suscettibili di essere erogati dietro corrispettivo economico su un mercato. Si tratta, cioè, di attività economiche i cui risultati contribuiscono comunque all’interesse pubblico generale, ma alcune di esse non sarebbero svolte dal mercato senza un intervento pubblico, o sarebbero svolte a condizioni differenti in termini di qualità, sicurezza, accessibilità economica, parità di trattamento o accesso universale.

A livello comunitario, la nozione di SIEG è utilizzata espressamente negli articoli 14 TFUE, nell’articolo 106 paragrafo 2 TFUE, nel

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16 protocollo n. 26 allegato al TFUE e nell'articolo 36 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.

La nozione di SIG, invece, come ha avuto modo di chiarire la Commissione europea nel Libro Verde, del 21 maggio 2003, ai paragrafi 16 e 17, non è presente nel Trattato, ma è derivata nella prassi comunitaria dall’espressione “servizi di interesse economico generale” che invece è utilizzata nel Trattato. Si tratta di un’espressione più ampia rispetto a quella di “servizi di interesse economico generale”, e riguarda sia i servizi di mercato che quelli non di mercato che le autorità pubbliche considerano di interesse generale e assoggettano a specifici obblighi di servizio pubblico9.

I SIEG sono definiti dall’articolo 14 TFUE come “valori comuni dell’Unione in riferimento al loro ruolo di promozione della coesione sociale e territoriale, imponendo all’Unione e ai suoi Stati membri di provvedere affinché questi servizi operino sulla base di principi e in condizioni che permettono loro di compiere la loro missione”. All’interno del Protocollo n. 26 del TFUE, intitolato “Sui servizi di interesse generale”, gli articoli n. 1 e n. 2 si occupano di sottolineare il ruolo delle autorità nazionali, regionali e locali, nel fornire servizi di interesse economico generale quanto più vicini agli interessi degli utenti, ed in particolare viene sottolineata la circostanza in base alla quale tali servizi debbano essere forniti garantendo uno standard elevato di qualità, di sicurezza e di accessibilità economica, di parità di trattamento e di promozione dell’ accesso universale e dei diritti dell’utente10.

9 A tal proposito, Consiglio di Stato, Adunanza della Commissione speciale del 16

marzo 2016.

10 Ai sensi dell’articolo 1 del TFUE, infatti, “I valori comuni dell'Unione con riguardo

al settore dei servizi di interesse economico generale ai sensi dell'articolo 14 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea comprendono in particolare: - il ruolo essenziale e l'ampio potere discrezionale delle autorità nazionali, regionali e locali di fornire, commissionare e organizzare servizi di interesse economico generale il più vicini possibile alle esigenze degli utenti; - la diversità tra i vari servizi di interesse economico generale e le differenze delle esigenze e preferenze degli utenti che possono discendere da situazioni geografiche, sociali e culturali diverse; - un alto

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17 D’altro canto, l’articolo 36 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nell’affermare che “al fine di promuovere la coesione sociale e territoriale dell'Unione, questa riconosce e rispetta l'accesso ai servizi d'interesse economico generale quale previsto dalle legislazioni e prassi nazionali, conformemente ai trattati”, in linea con quanto affermato dall’articolo 14 TFUE, sancisce il rispetto da parte dell’Unione dell’accesso ai servizi di interesse economico generale previsto dalle legislazioni nazionali, nei limiti in cui questi siano compatibili col diritto dell’Unione.

Infine, l’articolo 106, paragrafo 2, del TFUE, prevede che in via generale la gestione del servizio sia soggetta alle regole del mercato, tuttavia sarà ammissibile una deroga al rispetto delle regole sulla concorrenza laddove ciò rischi di pregiudicare la missione affidata al gestore. In questo senso, se il mercato non è in grado di fornire i servizi in maniera adeguata, allora le autorità pubbliche, discrezionalmente, potranno imporre agli operatori obblighi di servizio pubblico o concedere diritti esclusivi o speciali.

Infatti, poiché i soggetti incaricati della gestione dei SIEG esercitano un’attività economicamente rilevante, essi rientrano nella nozione di impresa e sono, quindi, soggetti alle regole della concorrenza: l’unica deroga è rappresentata, appunto, dall’articolo 106 par. 2, TFUE. Come ha sottolineato il Consiglio di Stato nel parere n. 1574 del 20 marzo 2012, le società per azioni svolgono un’attività che ha necessariamente natura economica, e questo alla luce della definizione generale di cui all’articolo 2082 c.c., che è valida anche in presenza di una partecipazione pubblica al capitale11.

livello di qualità, sicurezza e accessibilità economica, la parità di trattamento e la promozione dell'accesso universale e dei diritti dell'utente”.

Cfr. l’articolo 2 del TFUE, il quale prevede che “Le disposizioni dei trattati lasciano impregiudicata la competenza degli Stati membri a fornire, a commissionare e ad organizzare servizi di interesse generale non economico”.

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18 È, pertanto, la definizione di SIG e di SIEG fornita dall’articolo 2 del decreto legislativo n. 175/2016, compatibile con quella fornita dalle fonti normative europee, sia perché dal punto di vista oggettivo la nozione di SIEG viene ancorata alla circostanza per cui il servizio non sarebbe stato svolto senza intervento pubblico, o quantomeno non sarebbe stato svolto alle stesse condizioni di economicità, universalità e sicurezza; sia perché dal punto di vista soggettivo si perimetra la nozione di SIEG considerando che esso sia solo quello ritenuto necessario dagli enti locali per il soddisfacimento dei bisogni della popolazione.

Si è visto come l’articolo 4 del decreto legislativo n. 175/2016, quindi, faccia salve dall’applicazione del decreto le società di diritto singolare e anche le partecipazioni a enti associativi (diversi dalle società) e a fondazioni.

Con riferimento, in particolare, alle società di diritto singolare, il Consiglio di Stato nel parere n. 16 del 16 aprile 2016, relativo allo schema di decreto legislativo n. 175/2016, ha fornito una definizione di società di diritto singolare, affermando che si tratti di “società disciplinate ad hoc da una specifica legge per l’esercizio della gestione di servizi di interesse generale o di interesse economico generale”, apparendo individuate, perciò, in relazione al diverso criterio della istituzione con specifica norma primaria per l’esercizio di particolari servizi di interesse generale (es. Rai s.p.a.). In questo parere il Consiglio di Stato si era rivelato molto critico nei confronti di tale tipo di deroga contenuta all’interno dell’articolo 1 comma 4, sostenendo la necessità di limitare la deroga solo alle disposizioni contenute in leggi e non anche in altre fonti di rango inferiore, ed anche la necessità di chiarire che per ciò che non è espressamente previsto nella disciplina delle singole società in questione, si applicano le disposizioni del Testo Unico che sono speciali rispetto a quelle di diritto privato.

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19 Infine, si è visto come l’esclusione riguardi anche partecipazioni pubbliche a enti associativi diversi dalle società e alle fondazioni. Innanzitutto occorre chiarire le differenze tra le due figure (artt. 14-42 c.c.): infatti, mentre l’atto costitutivo che dà vita ad una associazione ha carattere sempre plurilaterale, l’atto istitutivo di una fondazione presenta una struttura unilaterale anche laddove vi sia una pluralità di fondatori. Questa differenza strutturale la si coglie anche nel fatto che nelle associazioni la finalità della associazione stessa sia definita dagli associati congiuntamente, mentre, invece, avendo la fondazione struttura necessariamente unilaterale il potere di decisione delle finalità perseguibili spetta al fondatore. I soci fondatori possono essere sia privati che enti pubblici, e dotano la fondazione dei mezzi necessari per raggiungere i propri scopi: nel momento in cui, nell’ambito della gestione ordinaria si verifichi una perdita, ad essa è tenuta a fare fronte la fondazione stessa col suo patrimonio, e quando tale patrimonio non sarà più sufficiente la fondazione stessa si estinguerà.

Sembrerebbe, pertanto, che l’esclusione delle fondazioni dal campo di applicazione del decreto legislativo in questione, dipenda dagli elementi strutturali della fondazione stessa: risulterebbe molto rischioso, infatti, affidare la gestione e la tutela dell’interesse pubblico ad una fondazione che è sì vincolata al raggiungimento dello scopo statutario, ma che in mancanza di fondi sufficienti per il raggiungimento di quello scopo è inevitabilmente destinata all’estinzione.

1.5 L’ambito applicativo del decreto Madia con riferimento alle società quotate

Per definire esaustivamente l’ambito di applicazione delle disposizioni del decreto legislativo n. 175/2016, non possiamo non richiamare il comma 5 dell’articolo 1, il quale prevede che le disposizioni del decreto si applichino alle società quotate solo se espressamente previsto, e

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20 rinvia, per la definizione di società quotate, alla formulazione dettata dall’articolo 2, comma 1, lettera P, del medesimo decreto.

L’articolo 2 del TU, infatti, contiene un elenco di definizioni dei termini che si ritrovano all’interno del decreto stesso. Nel caso del comma 5 dell’articolo 1 del TU, esso rinvia proprio all’articolo 2, comma 1, lettera P, che contiene una definizione stipulativa relativamente alle società quotate. Le definizioni stipulative sono quelle in cui il Legislatore innova il significato di un termine preesistente, o scegliendo un significato nuovo all’interno di una cornice di significati, oppure prendendo atto di una prassi consolidata.

L’articolo 2, comma 1, lettera P, del TU, prevede, dunque, che le società quotate siano quelle “società a partecipazione pubblica che emettono azioni quotate in mercati regolamentati; le società che hanno emesso, alla data del 31 dicembre 2015, strumenti finanziari, diversi dalle azioni, quotati in mercati regolamentati; le società partecipate dalle une o dalle altre, salvo che le stesse siano anche controllate o partecipate da amministrazioni pubbliche”.

L’articolo 1, comma 5, del decreto legislativo n. 175/2016, è stato anche oggetto di riforma a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 100/2017, il quale si è reso necessario a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 251/2016. Si tratta di una sentenza in cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità di alcuni dei criteri contenuti nell’articolo 18 della legge Madia, la legge n. 124/2015, sulla cui base è stata adottata la disciplina in tema di società partecipate.

Questa legge violava la ripartizione di competenze tra lo Stato e le Regioni come prevista dall’articolo 117 Cost., in quanto, per l’emanazione dei decreti attuativi (tra cui lo stesso d. lgs. n. 175/2016), non prevedeva che vi fosse l’intesa tra Stato e Regioni in sede di Conferenza unificata, ma si limitava ad affermare che i decreti

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21 dovessero essere emanati previo parere della Conferenza unificata da rendersi entro quarantacinque giorni. La Corte Costituzionale ha infatti evidenziato come anche una legge di delega possa essere oggetto di controllo di costituzionalità in via principale quando il carattere delle disposizioni contenenti le deleghe sia tale da configurare una lesione delle sfere di competenza delle Regioni.

La questione di costituzionalità era stata prospettata alla Corte dalla Regione Veneto, la quale lamentava la violazione dell’autonomia finanziaria e organizzativa delle Regioni. La Corte Costituzionale ha ritenuto fondata la questione di legittimità12. Quello che appare contraddittorio, tuttavia, è il fatto che la Corte Costituzionale abbia affermato che le pronunce di illegittimità costituzionale contenute nella sentenza in questione, siano limitate alla legge Madia e non si estendano ai decreti attuativi, e che nel caso di impugnazione espressa delle disposizioni dei decreti attuativi, si dovrà dapprima accertare l’effettiva lesione delle competenze regionali13.

L’intesa è stata raggiunta nella seduta del 16 marzo 2017, quando lo Stato, le Regioni e gli Enti locali hanno approvato lo schema di decreto adottato dal Governo a febbraio 2017, convenendo, comunque, su alcune correzioni e modifiche che il Governo si è poi impegnato a recepire nel testo definitivo14.

Il Consiglio di Stato con il parere n. 83 del 17 gennaio 2017, ha, in risposta ad un quesito formulato dal Ministro per la semplificazione e la Pubblica Amministrazione, rilevato innanzitutto l’importanza di “portare a termine le previsioni della l. n. 124/2015 a seguito della sentenza n. 251/2016 della Corte Costituzionale”, anche “per non far

12 S. POZZOLI, Le società partecipate alla luce della sentenza n. 251/2016 della Corte

Costituzionale, in www.leggiditaliaprofessionale.it, Azienditalia, 1 ottobre 2017, pp.

2-3.

13 G. D’AMICO, Il seguito della sentenza n. 251/2016 della Corte Costituzionale fra

suggerimenti, correzioni e nuove impugnative, in www.leggiditaliaprofessionale.it,

Giornale di diritto amministrativo, 2017, 3, 287, pp. 2-4.

14F. MORETTI, Il Testo Unico partecipate alla luce delle novità recate dal decreto correttivo, in www.leggiditaliaprofessionale.it, Azienditalia, 2017, 723, pp. 1-3.

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22 perdere slancio riformatore all’intero disegno: i decreti legislativi interessati dalla sentenza costituiscono, infatti, non soltanto misure di grande rilievo di per sé, ma anche elementi di una riforma complessiva, che risulterebbe meno incisiva se limitata ad alcuni settori”.

A seguito della riforma, l’attuale articolo 1, comma 5, stabilisce che le disposizioni del decreto si applichino, solo se espressamente previsto, alle società quotate, nonché alle società da esse partecipate, salvo che queste ultime siano, non per il tramite di società quotate, controllate o partecipate da amministrazioni pubbliche. Ciò equivale a dire che il decreto legislativo in questione appare applicabile alle società quotate solo laddove si tratti di società a partecipazione pubblica che emettono azioni quotate in mercati regolamentati, o che si tratti di società che hanno emesso alla data del 31 dicembre 2015 strumenti finanziari, diversi dalle azioni, quotati in mercati regolamentati; o ancora, che si tratti di società partecipate dalle quotate, salvo che il controllo o la partecipazione di questa da parte di amministrazioni pubbliche avvenga direttamente e non attraverso società quotate.

Per dirla ancora diversamente, laddove si tratti di società partecipate da società quotate che siano anche partecipate da amministrazioni pubbliche, il decreto si applicherà in virtù di questa partecipazione e nei limiti inerenti alla natura (di controllo o meno) di tale partecipazione. Laddove si tratti, invece, di società controllate da una società quotata, ma che non siano altresì controllate da una amministrazione pubblica, allora tali società saranno sottoposte alla stessa disciplina delle società quotate stesse.

Per completezza di trattazione, è necessario aggiungere che la stesura originaria del decreto legislativo n. 175/2016 prevedeva, all’articolo 1, la presenza anche di un sesto comma, il quale attribuiva al Presidente del Consiglio dei Ministri il potere di esentare singole società

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23 dall’applicazione del decreto Madia, in ragione della misura e della qualità della partecipazione pubblica, nonché degli interessi pubblici coinvolti. Tale previsione è stata eliminata e non è stata trasposta nella versione definitiva del decreto, in quanto forti critiche sono pervenute tanto dal Consiglio di Stato quanto dalle Commissioni parlamentari (Commissione I del Senato e Commissione V della Camera).

Il Consiglio di Stato, nel parere n. 638 del 14 marzo 2017, ha evidenziato, su suggerimento anche della Corte dei Conti, come l’attribuzione di tale potere in capo al Presidente del Consiglio avrebbe rappresentato una palese violazione del principio di legalità, ma già prima, nel 2016, aveva affermato che una tale previsione sarebbe stata ammissibile nei limiti in cui si fosse fatta salva esclusivamente “la disciplina delle società per le quali si ritenesse che le deroghe poste dal TU alla disciplina privatistica non avessero ragion d’essere”.

Anche la I Commissione del Senato con un parere del 29 giugno 2016 e la V Commissione della Camera con un parere del 30 giugno 2016, hanno avuto modo di intervenire sulla questione, affermando che l’esclusione di singole società dall’applicazione delle disposizioni del decreto potesse semmai avvenire indicando le ragioni dell’intervento e dandone comunicazione al Parlamento.

Il comma 6 dell’articolo 1, comunque, non è stato introdotto nella versione definitiva del decreto n. 175/2016. Questa previsione è stata sostituita da quella di cui al comma 9 dell’articolo 4 del TU, definita dal Governo “molto più circoscritta nel campo di applicazione”, che prevede la possibilità di esclusione totale o parziale dal campo di applicazione della disciplina di singole società a partecipazione pubblica, con “decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’Economia e delle Finanze o dell’organo di vertice dell’amministrazione partecipante, motivato con riferimento alla misura e alla quantità della partecipazione pubblica, agli interessi pubblici a essa connessi e al tipo di attività svolta, riconducibile anche

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24 alle finalità di cui al comma 1 dell’art 1”15, e previa trasmissione del decreto alle Camere ai fini della comunicazione alle Commissioni parlamentari.

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CAPITOLO 2

I TIPI SOCIETARI AMMESSI E LE FINALITÀ PERSEGUIBILI ATTRAVERSO LA PARTECIPAZIONE

PUBBLICA

2.1 I tipi societari in cui è ammessa la partecipazione pubblica

Il Testo Unico fissa i criteri per delimitare l’ambito di ammissibilità delle partecipazioni pubbliche. Tali criteri sono contenuti all’interno degli articoli 3 e 4 del decreto legislativo n. 175/2016.

Iniziando dall’articolo 3 del TU, vediamo come esso fissi un primo limite, che è un limite tipologico.

La disposizione autorizza le pubbliche amministrazioni a partecipare esclusivamente a società, anche consortili, costituite in forma di società per azioni o di società a responsabilità limitata (le quali hanno scopo di lucro e svolgono attività imprenditoriale), anche in forma cooperativa (con scopo mutualistico). E’ esclusa, invece, la partecipazione a società di persone, a società in accomandita per azioni e ad altre forme societarie previste dalla normativa di settore (in particolare, le società a responsabilità limitata semplificata, di cui all’articolo 2463 bis del codice civile).

La limitazione dei tipi societari si spiega sulla base delle caratteristiche strutturali degli stessi, infatti le tipologie ammesse hanno personalità giuridica e autonomia patrimoniale perfetta, e ciò comporta che per le obbligazioni sociali risponda soltanto la società con il suo patrimonio. Nelle società di capitali, i soci hanno responsabilità limitata verso i creditori, limitata, cioè, alla quota di capitale sottoscritto.

Le società di persone, invece, sono prive di personalità giuridica, nel senso che esse non costituiscono soggetti giuridici autonomi rispetto ai soci. In esse, infatti, i soci rispondono di eventuali inadempienze: saranno, cioè, illimitatamente e solidalmente responsabili verso i terzi

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26 delle obbligazioni, ed in caso di fallimento, falliranno insieme alla società.

Secondo un censimento della Corte dei Conti del 2016, le società ammesse alla sola partecipazione di questi tipi societari sono 4838, perciò, nonostante la limitazione tipologica imposta, esse costituiscono, comunque, un numero considerevole.

Dall’articolo 3 TU si ricava, quindi, che sono certamente consentite le società per azioni e le società a responsabilità limitata, a fini di lucro ai sensi dell’articolo 2247 c.c.16, nonché le società consortili, le quali, pur

essendo orientate ad uno scopo diverso da quello lucrativo, si avvalgono di una forma organizzativa societaria che nella maggior parte dei casi è proprio quella di una s.p.a. o di una s.r.l.

Le società consortili a partecipazione pubblica, tuttavia, sembrano non corrispondere al modello codicistico di cui all’articolo 2615 ter c.c., il quale, richiamando l’articolo 2602 c.c. qualifica come “imprenditori” i partecipanti a una società consortile. Ma se noi considerassimo rientranti nel perimetro dell’articolo 3 del TU solo le società consortili cui fa riferimento il codice civile, dovremmo escludere dall’applicazione tutte quelle società consortili in cui i partecipanti non siano qualificabili come imprenditori, come ad esempio le società consortili partecipate dallo Stato o dagli enti territoriali. La dottrina ritiene che il Legislatore abbia inteso inserire nel perimetro applicativo di cui all’articolo 3 del TU anche quelle società consortili in cui nessuno dei partecipanti sia qualificabile come imprenditore, ovvero le ipotesi in cui una o più amministrazione pubblica decida di costituire una “impresa per conto proprio”, cioè un’impresa destinata alla produzione di beni o servizi che non saranno messi sul mercato, ma saranno fruiti dalle amministrazioni stesse. Questa ipotesi è espressamente considerata dall’articolo 4, comma 2, lettera D, del decreto legislativo

16 Cfr. articolo 2247 c.c., secondo cui con il contratto di società due o più persone

conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili.

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27 in questione, tra le ipotesi ammesse per la costituzione di società partecipate o per l’acquisto o il mantenimento di partecipazioni pubbliche.

Per quanto riguarda, invece, le società cooperative, esse sono rappresentate da una forma organizzativa di impresa mutualistica, in cui i cooperatori non sono necessariamente imprenditori, ma possono anche essere consumatori oppure produttori di beni o servizi17. La formulazione di cui all’articolo 3, comma 1, fa sorgere dubbi circa il campo applicativo della norma stessa, poiché attraverso l’inciso “[…] anche in forma cooperativa”, il Legislatore sembra riferirsi a quelle società costituite in forma di s.p.a. o di s.r.l., tuttavia l’adozione di un modello societario esclude l’altro, nel senso che ovviamente una società non può essere contemporaneamente costituita sotto forma di società cooperativa e di s.p.a. o s.r.l.

Pertanto, il significato della disposizione sarà quello per cui le partecipazioni delle pubbliche amministrazioni saranno consentite non solo in società di capitali a fini di lucro e a fini consortili, ma anche in società consortili18.

L’articolo 2477 c.c., inserito nel Titolo V, Capo VII, relativo alle società a responsabilità limitata, prevede l’obbligo per le sole società obbligate al bilancio consolidato, o per le società che controllano una società obbligata alla revisione dei conti, o ancora per le società che per due esercizi consecutivi abbiano superato due dei limiti indicati dall’articolo 2435 bis (€8.800.000 di ricavi, €4.400.000 di totale attivo, 50 occupati in media) di nominare l’organo di controllo o il revisore.

Invece, l’articolo 3 del TU si pone in deroga alla previsione dell’articolo 2477 c.c., prevedendo l’obbligo della nomina di un organo di controllo

17 Cfr. articolo 2512, comma 1, c.c.

18G. MARASÀ, Il diritto commerciale verso il 2020: i grandi dibattiti in corso, i grandi cantieri aperti, in VIII Convegno annuale dell’Associazione italiana professori universitari, Roma, 17 febbraio 2017, pp. 4-9.

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28 o di un revisore, sempre, quando si tratti di società a responsabilità limitata a controllo pubblico.

Quindi, laddove la pubblica amministrazione opti per il conseguimento dell’interesse pubblico attraverso lo strumento societario privatistico regolato dalle norme del codice civile, ecco che allora il Legislatore non ammette che manchi l’organo di controllo interno alla società stessa. La ratio dell’articolo 3 è, pertanto, quella di tutelare l’interesse pubblico, in maniera più rafforzata rispetto a quello privato, anche attraverso un maggior rigore che si coglie nelle forme organizzative stesse. Tale necessità è costituzionalmente fondata, laddove l’articolo 97 della Costituzione prevede la necessità di assicurare il buon andamento dell’amministrazione.

Nelle s.p.a. a controllo pubblico la revisione legale dei conti deve essere disgiunta e non può essere affidata al collegio sindacale19.

In deroga a quanto previsto dall’articolo 2409 bis c.c., il quale prevede che la revisione legale dei conti sulle società sia affidata a una società di revisione legale o ad un revisore legale dei conti iscritti in un apposito registro, ma che per le società non tenute alla revisione del bilancio consolidato la revisione possa essere affidata anche al collegio sindacale, l’articolo 3 del decreto legislativo n. 175 non ammette che per le società a partecipazione pubblica la revisione possa essere talvolta affidata anche al collegio sindacale, ma tale eventualità è del tutto preclusa.

19 U.S. CODAU, Il nuovo Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica,

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29 2.2 Le finalità perseguibili attraverso l’acquisizione e la gestione

delle partecipazioni pubbliche

L’articolo 4 del TU è rubricato “Finalità perseguibili mediante l’acquisizione e la gestione di partecipazioni Pubbliche” e prevede le condizioni e i limiti per la costituzione di società a partecipazione pubblica, ovvero per l’acquisizione o il mantenimento delle partecipazioni.

Innanzitutto, a proposito di “partecipazioni ammissibili”, la Relazione illustrativa allo schema di decreto (che è diventato poi il decreto legislativo n. 175/2016) prevede che in via generale le società partecipate che sono tendenzialmente ammesse sono quelle che posseggono una connotazione pubblicistica, mentre sono escluse quelle che hanno una connotazione esclusivamente privatistica e che, pertanto, svolgono attività d’impresa in regime di mercato.

L’articolo 4, al primo comma, stabilisce che le amministrazioni pubbliche non possano, direttamente o indirettamente, costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né acquisire o mantenere partecipazioni in tali società, anche laddove si trattasse di partecipazioni di minoranza.

La formulazione dell’articolo 4 è stata interamente ripresa dal primo periodo dell’articolo 3, comma 27, della legge n. 244/200720 (abrogato con l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 175/2016), il quale statuiva che per tutelare la concorrenza ed il mercato le amministrazioni

20Ai sensi dell’articolo 3, comma 27, della legge n. 244 del 24 dicembre 2007, infatti, “ Al fine di tutelare la concorrenza e il mercato, le Amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente o indirettamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società. E' sempre ammessa la costituzione di società che producono servizi di interesse generale e l'assunzione di partecipazioni in tali società da parte delle Amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nell'ambito dei rispettivi livelli di competenza”.

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30 di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165/2001 non potessero costituire società aventi ad oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società.

Autorevole dottrina ha ritenuto che la strumentalità cui faceva riferimento l’articolo 3 fosse attinente solo all’oggetto sociale, cioè all’attività per cui la società fosse chiamata ad operare, e non alla causa sociale che rimaneva lucrativa; ma questa dottrina si contrapponeva all’interpretazione di tale norma fornita dal Consiglio di Stato nella pronuncia n. 1574/2012, in cui diceva che l’articolo 3 fosse una norma imperativa che poneva un chiaro limite all’esercizio dell’attività d’impresa in forma pubblica rappresentato dalla funzionalizzazione al raggiungimento anche dell’interesse pubblico, mutando così la causa societaria privatistica in assenza di una espressa previsione legislativa21.

Tale criterio venne ripreso nel 2014 nel Rapporto Cottarelli (il programma di razionalizzazione delle partecipate locali del Commissario straordinario per la revisione della spesa), in cui si affermava l’obbligo per le partecipate di agire strettamente entro i compiti dell’ente partecipante, e si aggiungeva la previa delimitazione delle attività rispetto alle quali la scelta potesse essere rimessa alla valutazione dell’amministrazione, con il coinvolgimento anche di una autorità esterna. Inoltre, al fine di delimitare ulteriormente le partecipazioni non essenziali, si stabiliva che venissero limitate le partecipazioni indirette (partecipate di partecipate), le micropartecipazioni (le partecipazioni troppo piccole per essere considerate strategiche), le scatole vuote (ovvero quelle partecipate con un numero bassissimo di dipendenti e fatturato, ma che comunque

21 F. GOISIS, La natura delle società a partecipazione pubblica: norme nuove e

questioni antiche, in quinto incontro del ciclo alla ricerca del filo di Arianna, Milano,

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31 richiedono un apparato amministrativo), le partecipate in perdita prolungata e le partecipate da piccoli Comuni22.

L’obiettivo dell’irrigidimento all’approccio delle partecipate era, evidentemente, quello di arginare l’esplosione del fenomeno che aveva dato vita a partecipazioni “troppo piccole, troppo numerose, troppo inefficienti”. Tuttavia, anche il piano Cottarelli ha deluso le aspettative, lasciando incompiuto il progetto di riordino delle partecipate.

Su questa scia si innesta la legge Madia che, nell’evidenziare la necessità di restringere e delimitare il perimetro entro cui consentire l’assunzione o il mantenimento delle partecipazioni, fa riferimento proprio alle finalità istituzionali come limite non esclusivo ma probabilmente prioritario23.

Nell’affrontare adeguatamente il tema della capacità della pubblica amministrazione di costituire società a partecipazione pubblica ovvero di acquisire o mantenere partecipazioni, non si può prescindere dall’analisi della capacità giuridica dell’amministrazione stessa. L’articolo 1, comma 1 bis, della legge n. 241 del 7 agosto 1990, prevede che nell’adozione di atti di natura non autoritativa, la pubblica amministrazione, salvo che la legge non disponga diversamente, agisce secondo le norme di diritto privato. Tale norma avrebbe rappresentato una svolta epocale nel sistema, sancendo il principio per cui la regola per l’esercizio dell’attività amministrativa non è più il diritto amministrativo bensì il diritto privato 24, e ribaltando la precedente impostazione dottrinale per cui la regola fosse l’utilizzazione del diritto amministrativo e l’eccezione l’utilizzo degli strumenti privatistici, “essendo regolati dal diritto privato solo quei rapporti per cui per legge

22 Rapporto Cottarelli, 7 agosto 2014.

23 M. ZUPPETTA, Partecipate e funzionalizzazione, in S. LUCHENA, M. ZUPPETTA, Il

riordino delle società partecipate nella riforma Madia, Aracne Editrice, Roma, 2016,

pp. 100-105.

24 A. TRAVI, Autoritatività e tutela giurisdizionale: quali novità?, in SANDULLI (a cura

di), Riforma della legge 241/1990 e processo amministrativo, in Foro amministrativo

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32 espressa o per consuetudine debba applicarsi tale diritto o quelli patrimoniali in cui lo Stato agisce in regime economico di uguaglianza, libertà e concorrenza”, dove l’autorità dello Stato avrebbe rappresentato la necessità di considerare l’interesse dello Stato un interesse superiore a quello del cittadino25.

Tornando al testo dell’articolo 1, comma 1 bis, della legge n. 241/1990, la linea discriminante tra il diritto privato e il diritto amministrativo sarebbe l’adozione o meno di atti di natura non autoritativa.

L’espressione “atti di natura non autoritativa” non compariva nella versione del disegno di legge n. 6844 presentato alla Camera dei Deputati l’8 marzo 2000 da Cerulli Irelli (il disegno di legge è stato convertito nella legge n. 15 l’11 febbraio 2005, e ha comportato l’aggiunta del comma 1 bis all’articolo 1 della legge n. 241/1990), dove la distinzione che compariva non era tra atti di natura autoritativa e non autoritativa, ma si contrapponeva l’utilizzo degli strumenti di diritto privato riservati all’amministrazione, salvi i poteri amministrativi espressamente conferiti dalla legge o dai regolamenti: tale distinzione rifletteva la considerazione in base alla quale l’esercizio del potere amministrativo è soggetto al principio di legalità e la sfera di attività amministrativa non esercizio di poteri autoritativi non sarebbe soggetta al principio di legalità e sarebbe, pertanto, regolata dal diritto privato. Dal comma 1 bis dell’articolo 1 della legge n. 241/1990 scaturirebbero, quindi, due conclusioni importanti: ai rapporti non disciplinati in modo specifico dal diritto pubblico si dovrebbe applicare in via analogica non il diritto amministrativo bensì il diritto privato; inoltre, in tutti i casi in cui si prospettasse la possibilità di scegliere alternativamente tra l’utilizzo di atti di diritto privato e i provvedimenti amministrativi, ecco

25F. CAMMEO, Corso di diritto amministrativo, a cura di G. MIELE, Padova, CEDAM Editore, 1960, pp. 594-597.

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33 che in forza della supremazia assegnata dal comma 1 bis dell’articolo 1 al diritto privato, la scelta dovrebbe ricadere su quest’ultimo26.

2.3 Il limite di scopo per la costituzione di società, l’acquisizione ed il mantenimento delle partecipazioni

L’articolo 4 del TU, nell’affermare la possibilità per le amministrazioni di costituire società per la produzione di beni o servizi, pone una duplice limitazione: un limite teleologico o di scopo e un limite funzionale o di attività. È bene sottolineare che si tratta solo di una possibilità per le amministrazioni, potendo esse decidere di erogare tali servizi direttamente o di affidarli a privati senza prevedere alcuna partecipazione in tali società.

Non sempre il ricorso al modello societario è ammissibile, ma lo sarà solo se le finalità attraverso le quali le amministrazioni costituiscono società o acquisiscono o mantengono partecipazioni saranno finalizzate al raggiungimento delle finalità istituzionali, e quindi al conseguimento dell’interesse pubblico. Tale considerazione ci permette di ricavare la regola per cui il ricorso al modello societario da parte della pubblica amministrazione sarà ammissibile solo in quanto volta al raggiungimento di un pubblico interesse: questo rappresenta il limite di scopo consacrato nel primo comma dell’articolo 4 del TU.

Il criterio della stretta necessarietà rappresenta, quindi, una conditio sine qua non per poter procedere alla partecipazione stessa: si deve trattare di una effettiva necessità, riferibile al concetto di indispensabilità, in assenza della quale non si può concepire una gestione dell’ente all’insegna di efficienza, efficacia ed economicità. In altri termini, la partecipazione deve essere basata su “reali necessità degli enti”27.

26 V. CERULLI IRELLI, Verso un più compiuto assetto della disciplina generale

dell’azione amministrativa (primo commento alla legge 15/05 recante modifiche alla legge 241/1990, in www.astrid-online.it, n.4, 2005, pp. 2-3.

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34 Tuttavia, l’articolo 4, opera un’ulteriore specificazione, che è quella per cui l’attività intrapresa deve anche essere inerente alle finalità istituzionali dell’amministrazione agente. Quindi, astrattamente, potrebbe verificarsi la situazione per cui, l’attività intrapresa, pur essendo finalizzata al perseguimento di un pubblico interesse, non sia altresì inerente alle finalità istituzionali dell’amministrazione.

Infine, l’articolo 4, individua un’ ulteriore condizione, che è quella della indispensabilità del ricorso allo strumento societario: pertanto, posto che bisogna preliminarmente verificare che il fine perseguito dall’amministrazione sia inerente all’interesse pubblico, che quel fine sia compatibile con le finalità istituzionali dell’amministrazione agente, bisogna altresì verificare che il ricorso allo strumento societario sia strettamente necessario per il perseguimento del fine stesso, che può quindi essere l’attività di produzione o di erogazione di beni o servizi. La funzionalizzazione dell’attività amministrativa al perseguimento di un fine superindividuale, veicola sempre l’agire amministrativo, anche quando questo fa ricorso a strumenti tipici del diritto privato, e quindi l’attività di diritto privato attraverso la quale si esprimerà l’attività della pubblica amministrazione non sarà mai libera28.

Per meglio spiegare il principio della funzionalizzazione dell’attività amministrativa, si può citare il parere della Corte dei Conti, n. 861/2010 (Sezione regionale di controllo per la Lombardia), in cui la questione prendeva le mosse dall’articolo 3, comma 27, della legge n. 244/2007. La questione riguardava un caso in cui il Sindaco del Comune di Castel Rozzone chiedeva alla Sezione di controllo per la Lombardia se fosse ammissibile, in linea con l’articolo 3, comma 27, la costituzione di una società fra alcuni enti locali per la “progettazione, lo sviluppo e la realizzazione di impianti di produzione di energia rinnovabile quali impianti eolici, biomasse, fotovoltaici, pannelli solari, nonché

28 S. GLINIANSKI, Funzione amministrativa tra potere pubblico e capacità giuridica

generale di diritto comune, in P. FAVA, Il contratto, Milano, Giuffrè Editore, 2012, p.

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35 progettazione e costruzione, […] nonché commercializzazione dell’energia elettrica prodotta da tali impianti […]”, anche con finalità di abbattimento dell’inquinamento atmosferico. Nel caso specifico la Corte ha rigettato la questione di ammissibilità, rilevando che a seguito dell’entrata in vigore dell’articolo 10, comma 32, del decreto legge n. 78/2010, i Comuni che hanno meno di 30.000 abitanti non possono procedere alla costituzione di società di capitali; ma soprattutto la Sezione consultiva ha ritenuto che la richiesta del Sindaco esulasse dai limiti previsti dall’articolo 3, comma 27, della legge n. 244, configurandosi queste attività principalmente come lucrative e pertanto esulanti le funzioni istituzionali dell’ente.

Già in vigenza della legge n. 244/2007 si era posto il problema di capire entro quali limiti un’attività intrapresa e sostanzialmente ammissibile, poiché finalizzata al raggiungimento di un pubblico interesse, fosse in realtà anche compatibile con le finalità istituzionali dell’amministrazione. In vigenza della legge del 2007 si era detto, con riferimento espresso alle amministrazioni comunali, che le finalità compatibili fossero quelle relative ai bisogni della popolazione e del territorio comunale.

Si è detto, infine, come le amministrazioni agenti debbano, altresì, dimostrare che il ricorso al modello societario sia nel caso concreto indispensabile. La dimostrazione avviene attraverso la motivazione relativa alla convenienza economica, alla compatibilità con i principi di efficienza, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa, corollari del principio di buon andamento di cui all’articolo 97 Cost., rafforzato, nella prospettiva della sana gestione finanziaria, dall’obbligo dell’equilibrio del bilancio per tutte le amministrazioni pubbliche29. Le stesse delibere di acquisto o mantenimento delle

29 A tal proposito, si vedano gli articoli 81, 97 e 119 della Costituzione come novellati

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36 partecipazioni devono tenere conto e dare atto nelle motivazioni della situazione economica e patrimoniale della società, in ossequio al principio di legalità finanziaria che conforma l’attività amministrativa. A tale proposito, il successivo articolo 5 del TU specifica che l’amministrazione che voglia costituire una società o acquisire partecipazioni debba inviare l’atto deliberativo alla Corte dei Conti a fini conoscitivi, e anche all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, la quale può esercitare i poteri di cui all’articolo 21 bis della legge n. 287 del 10 ottobre 1990. In particolare, l’Autorità è legittimata ad agire contro i provvedimenti dell’amministrazione pubblica che violino le norme in materia di concorrenza e di mercato, potendo emettere, eventualmente, entro sessanta giorni, un parere motivato in cui indica i motivi per cui ritiene che vi sia stata la violazione, dopodiché se l’amministrazione agente non si conforma al parere, nei successivi trenta giorni l’Autorità potrà presentare ricorso.

Alla Corte dei Conti, invece, viene trasmesso l’atto deliberativo ma a soli fini conoscitivi, mentre la formulazione originaria della norma prevedeva la possibilità per la Corte dei Conti di formulare rilievi sulla compatibilità dell’atto deliberativo dell’amministrazione con riferimento al comma 1 dello stesso articolo 4 del TU. La ragione per cui tale formulazione originaria presente nello schema di decreto non è poi stata trasposta nel testo definitivo, andrebbe ricercata nella difficoltà di ammettere questo tipo di poteri della Corte dei Conti senza che vi sia il rischio di violare il principio in base al quale sono insindacabili nel merito le scelte discrezionali dell’amministrazione.

Tuttavia, già da molti anni30 la giurisprudenza è concorde nell’affermare che il limite dell’insindacabilità degli atti amministrativi venga meno quando le scelte discrezionali siano avvenute non

30 Si vedano, a tale proposito, Corte dei Conti, sezioni riunite, delibera n. 27 del

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37 rispettando i principi di ragionevolezza, proporzionalità, efficacia, che caratterizzano l’agire pubblico.

La Corte di Cassazione ha confermato tale orientamento giurisprudenziale con la sentenza n.4283/2013 in tema di responsabilità degli amministratori nelle società partecipate dalle amministrazioni: in questa sentenza la Cassazione ha specificato che sono sindacabili nel merito le scelte elettive degli amministratori, poiché assumono rilievo sul piano della legittimità e non della mera opportunità dell’azione amministrativa, e perciò l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali dell’amministrazione non comporta che essa sia sottratta al sindacato giurisdizionale di conformità alla legge formale e sostanziale che regola l’attività e l’organizzazione amministrativa, e ai principi consacrati nell’articolo 97 Cost. e nell’articolo 1 della legge generale in tema di procedimento amministrativo, la legge n. 241/1990.

Questo primo limite teleologico o di scopo, come detto, vale non solo per la costituzione di società ma anche per l’acquisto o il mantenimento delle partecipazioni. Con riferimento, in particolare, al mantenimento delle partecipazioni e alla correlazione con il perseguimento delle finalità istituzionali dell’ente, è importante ricordare una pronuncia della Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, la numero 7 del 2016, in cui la stessa, richiamando un’altra pronuncia della medesima Corte (la deliberazione n. 124/2011) ha affermato che il mantenimento della partecipazione è interdetto laddove la partecipazione non sia strettamente necessaria per il perseguimento delle finalità istituzionali dell’ente, e che in tal caso vi sarà un obbligo di alienazione della partecipazione a terzi mediante procedure di evidenza pubblica.

Ciò detto, deve comunque ammettersi che in realtà tale vincolo di scopo non sia insormontabile, perché per dimostrare la stretta necessarietà in

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