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LA RIGENERAZIONE URBANA. L'ESPERIENZA DEL PIUSS DI LUCCA: POTENZIALITA' E LIMITI.

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LA RIGENERAZIONE URBANA.

L'ESPERIENZA DEL PIUSS DI LUCCA:

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INDICE

- Capitolo 1: Profili generali della pianificazione

urbanistica. ………pag. 6

- Capitolo 2: Rigenerazione urbana, la frontiera di una nuova politica urbanistica. ……….pag. 23

- Capitolo 3: La pianificazione attuativa e gli strumenti urbanistici per la rigenerazione urbana. …………..pag. 34

o 3.1: Il piano particolareggiato d’esecuzione e i principi generali della pianificazione attuativa; o 3.2: Gli interventi sul patrimonio edilizio esistente; o 3.3: I piani di recupero del patrimonio edilizio

esistente;

o 3.4: I programmi integrati d’intervento; o 3.5: I programmi di riqualificazione urbana;

o 3.6: I programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio;

o 3.7: I programmi di recupero urbano e i contratti di quartiere;

o 3.8: I programmi di riabilitazione urbana; o 3.9: La società di trasformazione urbana; - Capitolo 4: La rigenerazione urbana in Toscana e

l’esperienza dei Piani Integrati di Sviluppo Urbano

Sostenibile (PIUSS). ………pag. 82 o 4.1: Il quadro normativo regionale;

o 4.2: I PIUSS in Toscana;

- Capitolo 5: PIUSS “Lucca dentro”. La rigenerazione

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o 5.1: Cenni sulla situazione urbanistica di Lucca; o 5.2: L’avvio del procedimento che ha portato alla

candidatura del PIUSS “Lucca dentro”; o 5.3: I progetti del PIUSS “Lucca dentro”;

o 5.4: La fase attuativa del PIUSS “Lucca dentro”; o 5.5: La revisione del PIUSS “Lucca dentro”.

- Conclusioni. ………...pag. 184

- Bibliografia. ………..….pag. 188

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CAPITOLO I

Profili generali della pianificazione urbanistica

La pianificazione urbanistica è un’attività complessa che, come sostiene Giovanni Astengo nella sua celebre definizione, «ha come caratteristica peculiare quella di proporre in una visione globale, rapportata a un arco di tempo definito – breve o lungo che sia – quelle soluzioni di distribuzione spaziale degli interventi sul territorio e di organizzazione dei relativi strumenti strutturali che non solo risponda ai bisogni degli utenti per i quali il piano è predisposto, ma che si dimostri compatibile con lo sviluppo economico, tanto esistente che potenziale»1. La complessità sta nella molteplicità di interessi giuridicamente rilevanti che convergono sul territorio: la differenziazione funzionale delle zone, la realizzazione di vie di comunicazione dentro e fuori l’area urbana, la tutela e la conservazione di siti d’interesse, la progettazione dello sviluppo urbano, l’armonia architettonica, l’igiene, la sicurezza, il paesaggio e altri ancora. In tale panorama che descrive l’attività composita e complessa del governo del territorio è evidente che non può essere tutto demandato alla pianificazione urbanistica che da sola non può rispondere a così tante e diverse finalità che saranno perseguite con una molteplicità di norme e provvedimenti adottati da amministrazioni diverse2.

Il diritto urbanistico è, comunque, nonostante le numerose peculiarità, una partizione del diritto amministrativo e la pianificazione urbanistica è un’attività amministrativa che soggiace, a tutti gli effetti, ai principi e alle norme del diritto amministrativo sostanziale e procedurale. Sono principi fondamentali che valgono anche per lo svolgimento delle funzioni urbanistiche, tra cui quella di

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A. Fiale, Diritto Urbanistico, Napoli, Edizioni Giuridiche Simone, 2008, p. 57.

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G. Morbidelli, Pianificazione territoriale ed urbanistica, Roma, in Enc. Giur. Treccani, vol. XXIII, 1990.

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pianificazione, il principio di legalità, il principio di imparzialità e quello di buon andamento della pubblica amministrazione3. Con i principi del buon andamento e dell’imparzialità il legislatore costituzionale ha voluto descrivere, all’art. 97 Cost., un modello di amministrazione, da cui la dottrina ha ricavato una serie di requisiti e di caratteri imprescindibili che l’attività amministrativa deve avere: deve agire analizzando i risultati raggiunti valutati in base all’economicità e alla efficacia dell’azione amministrativa nel suo complesso; deve essere un’attività sottoposta a pubblicità e trasparenza; deve garantire una serie di istituti che circoscrivono la “libertà” delle amministrazioni (obbligo di motivazione dei provvedimenti, partecipazione dei privati al procedimento amministrativo, invalidità del provvedimento per eccesso di potere) . Altro principio fondamentale del diritto amministrativo è il principio di legalità, fondamento ideale e politico dello Stato di diritto, secondo cui il primato è del Parlamento, ogni “potere” deve essere subordinato alla legge e, in ogni caso, l’attività amministrativa deve perseguire le finalità e gli obbiettivi ispirati dalle leggi e dalle norme costituzionali4.

Come affermato anche in alcune pronunce del Consiglio di Stato (C. Stato, sez. II, 26 ottobre 1994, n. 883/93) sono appendici del più generale principio di legalità il principio di nominatività e quello di tipicità dei provvedimenti amministrativi: secondo il principio di nominatività, la pubblica amministrazione ha possibilità di emanare soltanto provvedimenti “nominati” dalla legge con cui il legislatore delimita un “numero chiuso” di atti; il principio di tipicità, invece, comporta che ogni provvedimento di un’amministrazione sia fondato sulla base di una funzione tipica, ovvero una finalità determinata da

3 P. Urbani – S. Civitarese Matteucci, Diritto Urbanistico, Torino, G. Giappichelli

Editore, 2010, pp. 15-16.

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P. Urbani – S. Civitarese Matteucci, Diritto Urbanistico, Torino, G. Giappichelli Editore, 2010, pp. 16-17.

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un’apposita norma, per cui non è consentito creare nuovi strumenti e nuove tipologie di atto, se non mediante legge. A questo proposito la giurisprudenza, riferendosi direttamente agli strumenti urbanistici, non ha mancato di specificare che questi «sono retti dai principi di nominatività e tipicità secondo cui un’amministrazione locale non può adottare od approvare una figura di piano di organizzazione del territorio medesimo, che non corrisponda, per presupposti, competenze, oggetto, funzione ed effetti, ad uno schema già predeterminato, in via generale ed astratta, da una norma primaria dell’ordinamento statale o regionale» e poi ha immediatamente precisato che «gli unici strumenti urbanistici legittimamente applicabili sono quelli previsti – per nome, causa e contenuto – dalla legge; ne deriva che, al di fuori di tale numero chiuso, l’amministrazione non può legittimamente introdurre qualsivoglia nuova categoria di strumento di pianificazione dell’assetto del territorio» (C. Stato, sez II, 10 dicembre 2003, n. 454/99).

Il Consiglio di Stato, quindi, esclude che singole amministrazioni possano autonomamente introdurre ed adottare nuove tipologie di piano o nuove procedure di pianificazione, se queste sono fuori da uno schema predeterminato dalla legge nell’oggetto, nel contenuto e nell’iter procedurale5 e, vista la vasta e articolata gamma di piani urbanistici esistenti nell’ordinamento, con parere espresso in data 21.11.1991 dall’Adunanza plenaria, sempre il Consiglio di Stato ha individuato una serie di aspetti rispetto ai quali possono essere differenziate le diverse tipologie di piano.

a) L’estensione del territorio pianificato dal piano: nell’ordinamento esistono tipologie di piano che mirano ad un ambito di pianificazione molto ampio come l’ambito regionale, provinciale o inter-comunale, ma esistono piani che, prendendo le mosse dalla pianificazione

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C. Stato, sez V, Sent. 12 dicembre 2003, n. 8198, in www.giustizia-amministrativa.it

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comunale, scendono nello specifico di una singola zona, di un singolo quartiere, di un comparto o di una lottizzazione.

b) I rapporti di gerarchia giuridica che esistono fra le diverse tipologie di piano: alcuni strumenti urbanistici, perché regolatori di un ambito territoriale più esteso o perché funzionali alla tutela di

particolari interessi, hanno ex lege forza prescrittiva rispetto agli altri. c) I differenti effetti giuridici che si producono a seguito

dell’approvazione del piano: nell’ordinamento vi sono piani che producono effetti esclusivamente verso quelle amministrazioni che sono chiamate ad un’ulteriore attività di pianificazione; altre tipologie di piano incidono direttamente sull’attività dei privati e sui loro interessi; esistono poi dei piani la cui approvazione determina, come presupposto di espropriazione, una dichiarazione di pubblica utilità per le opere pubbliche previste nel piano stesso.

d) I soggetti che assumono l’iniziativa e, di conseguenza, la natura giuridica che può assumere il piano: è riservata ad autorità pubbliche l’iniziativa e la formazione della gran maggioranza dei piani territoriali e urbanistici, che hanno la natura di atti amministrativi autoritativi, ma esistono casi in cui anche il privato può assumere l’iniziativa e concludere con l’amministrazione pubblica competente un atto negoziale a contenuto urbanistico, denominato “convenzione”6.

I piani urbanistici, rispetto ad altri atti amministrativi, hanno una particolare complessità dovuta all’elevato numero di precetti, all’indefinito numero di soggetti destinatari e anche alla loro struttura formale che costituisce un unicum nel panorama giuridico: i precetti contenuti nei piani sono impressi, in modo tra loro complementare,

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sia in forma letterale, con le norme tecniche, sia in forma grafica, attraverso le mappe cartografiche.

Nel modello delineato nel 1942 dalla legge urbanistica n. 1150 (L.U.) il legislatore descrive uno schema base con cui è possibile focalizzare i confini e la struttura della disciplina urbanistica che, dice l’art.4 della L.U., si ottiene a mezzo dei piani regolatori territoriali, dei piani regolatori comunali e delle norme sull’attività costruttiva edilizia fissate dagli strumenti urbanistici normativi quali le leggi speciali e urbanistiche (statali o regionali), i regolamenti edilizi e le norme regolamentari di attuazione contenute nei piani regolatori generali. La disciplina urbanistica è quindi regolata in astratto dalla L.U. e dalle altre leggi, mentre i piani regolatori urbanistici sono strumenti di attuazione che non hanno quindi carattere astratto ma che sono concreti, in quanto contengono disposizioni con oggetto ben determinato che incidono direttamente su singoli beni immobili determinati; hanno, altresì, la caratteristica di essere strumenti generali, in quanto non sono atti indirizzati a singoli soggetti o singole categorie, bensì ad un totalità di riferimento7. Questa peculiarità di atto generale ma concreto, con forza prescrittiva e conformativa del territorio, ha alimentato per lungo tempo un dibattito dottrinale in merito alla natura giuridica dei piani regolatori urbanistici e alla possibilità di considerarli come vere e proprie fonti di produzione normativa di tipo regolamentare. Il dibattito sembra oggi superato in quanto giurisprudenza e dottrina maggioritarie hanno convenuto che i piani regolatori urbanistici debbano essere considerati come atti amministrativi generali che non rientrano nella categoria delle fonti del diritto: mancando il requisito di astrattezza, a proposito di pianificazione, non si può parlare di attività normativa vera e propria quanto piuttosto di potere conformativo. Fu Massimo Saverio Giannini a proporre nel 1981 una

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possibile definizione di potere conformativo come «potere che le norme attribuiscono a talune amministrazioni di stabilire discrezionalmente, nei limiti delle norme di legge, caratteri di persone […] di beni e di cose, di rapporti giuridici o di fatto»; il medesimo autore ricondusse quindi gli strumenti urbanistici a questa definizione in quanto essi disciplinano l’uso del suolo, stabiliscono destinazioni d’uso o tipologie di edifici da costruire8. E’ comunque da sottolineare che considerare i piani urbanistici come atti amministrativi generali, anziché fonti del diritto, non determina in concreto conseguenze sostanziali sull’efficacia delle prescrizioni del piano che sarebbe la medesima a prescindere dalla forma dell’atto. Il sistema urbanistico della pianificazione è concepito come una “piramide rovesciata” che, sulla base di una concezione gerarchica tra i piani, contiene una «sequenza gradualistica di comandi»9 enunciati in diverse tipologie di piano che da indicazioni meramente programmatiche ed indicative arrivano a disporre prescrizioni cogenti e immediatamente operative. I piani urbanistici possono, dunque, essere ulteriormente classificati in base alla loro funzione e alla loro collocazione gerarchica: possono quindi essere definiti come “generali” i piani regolatori comunali e i piani territorialmente sovra-ordinati, in quanto disciplinano la totalità del territorio comunale (o comunque del territorio di riferimento) e si trovano al vertice gerarchico della pianificazione; sono, invece, detti “attuativi” quei piani che hanno funzione esecutiva delle previsioni urbanistiche generali come i piani regolatori particolareggiati, i piani di lottizzazione, i piani per l’edilizia economica e popolare, i piani per gli insediamenti produttivi, i piani di recupero, i programmi integrati

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Definizione di potere conformativo tratto da M. S. Giannini, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 1981, pp. 352-353.

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M.T. Di Majo, Incidenza della pianificazione urbanistica nell’assetto proprietario dei suoli, in «Aspetti privatistici della programmazione economica», Milano, 1971, I, p. 231.

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e altri istituti simili. A proposito di quest’ultimo insieme di piani, il Consiglio di Stato, in Adunanza plenaria con il parere espresso il 21.11.1991 precedentemente richiamato, ha precisato che la nozione di “piano attuativo” risulta imprecisa e, in parte, fuorviante, in quanto la disciplina di questi piani non può essere definita come meramente attuativa dei piani regolatori generali. Infatti questi piani possono, in casi eccezionali, essere approvati anche in assenza di un PRG; è inoltre consentito che con questi strumenti si possa apportare direttamente varianti al PRG stesso; ai piani speciali di zona (piani di edilizia economica e popolare, piani per gli insediamenti produttivi o gli strumenti tipicamente impiegati per la rigenerazione urbana come i piani di recupero o i programmi complessi) che rientrano nella categoria dei piani attuativi, il quadro normativo attribuisce funzioni ed effetti che vanno ben oltre il concetto di mera attuazione e che, talvolta, esulano anche dalla disciplina dell’uso del territorio, poiché contengono rilevanti programmi di espropriazione con cui gli Enti locali realizzano veri e propri interventi pubblici nell’iniziativa economica.

Proprio alla luce delle precisazioni del Consiglio di Stato e delle evoluzioni normative regionali che hanno permesso ai piani attuativi di prevedere varianti alle prescrizioni generali al fine di superare le rigidità conseguenti ad un rapporto di gerarchia inteso in termini assoluti, è opportuno chiarire che immaginare il principio gerarchico come unico valore assoluto del sistema di pianificazione urbanistica sarebbe inesatto. Parte della dottrina e, in particolare, il prof. Paolo Stella Richter si è spinto a definire il rapporto gerarchico fra piani come un «vero e proprio idolo teorico» che ha prodotto influenze negative e storture nella legislazione, dovute soprattutto alle ingessature e ai ritardi legati alle frequenti incongruenze fra le misure di intervento operativo e le prescrizioni generali di cui è affermata la prevalenza. Ecco che, forse, la gerarchia è stata confusa con il più

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dinamico criterio della gradualità delle scelte, di cui i diversi piani intendono progressivamente specificare i contenuti. La specificazione delle scelte generali e più generiche del PRG è necessariamente compiuta attraverso piani esecutivi che, non avendo mere finalità attuative, svolgono e proseguono anche l’esercizio della funzione urbanistica principale, ovvero quella di conformazione del territorio10.

E’ quindi proprio Paolo Stella Richter che, partendo dalle suddette considerazioni, contrappone alla concezione gerarchica dei piani una diversificazione delle tipologie di piano con riferimento alla loro natura e, più precisamente, in base alle diverse possibili funzioni che lo strumento urbanistico svolge. In riferimento alla pianificazione l’autore, data per appurata la funzione sostanziale e unitaria del diritto urbanistico, ossia quella di produrre una regolamentazione per un uso ottimale del territorio, individua una funzione principale, ovvero la vera e propria attività con cui si realizza la conformazione del suolo, e una funzione ordinale di gestione con cui certe tipologie di piano intendono assicurare l’attuazione delle previsioni generali, regolando i tempi e prevedendo incentivazioni alla realizzazione di quanto prescritto. Svolgono una chiara funzione di gestione i piani attuativi - compresi i diversi strumenti per la rigenerazione urbana, che in seguito saranno analizzati singolarmente - con i quali, oltre a attuare le previsioni generali, si prevedono dei crono programmi di realizzazione degli interventi e si disciplinano le forme di incentivazione che mirano a favorire investimenti per usi del territorio che i proprietari privati non hanno interesse ad attuare perché economicamente non vantaggiosi. Attuando la funzione di gestione, dunque, i piani urbanistici varcano i confini dell’urbanistica

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intesa in senso tradizionale, diventando concreti strumenti di politica economica e di sviluppo11.

Nella pianificazione urbanistica ruolo strategico è assegnato agli Enti locali, in particolare ai Comuni, anche se gli attori nelle decisioni sono molteplici sia per la maggior complessità del sistema economico e sociale in cui si muove l’urbanistica sia per il concentramento di nuovi e diversi interessi da contemperare al momento della pianificazione. Un ruolo rilevante dei Comuni nel campo dell’urbanistica non è mai stato messo in discussione ed è stato semmai confermato dalla riforma costituzionale approvata con la L. Cost. n. 3/2001 che ha introdotto nuovi criteri per l’allocazione di funzioni amministrative che hanno sostituito la precedente impostazione del parallelismo tra potestà legislativa e funzioni amministrative. Il nuovo articolo 118 introduce in Costituzione il principio di sussidiarietà, quello di adeguatezza e di differenziazione, per cui tutti i compiti amministrativi spettano ai Comuni, salvo che sia necessario attribuirli a enti di dimensioni maggiori o di diversa natura. Visto anche il chiaro riconoscimento costituzionale sulle competenze amministrative, ai Comuni deve essere riservato anche un margine di autonomia nelle decisioni che riguardano la trasformazione e la gestione del proprio territorio. La tutela di questa autonomia per gli Enti locali nel governo del territorio è assicurata dagli artt. 5 e 128 della Carta Costituzionale che si possono ritenere rispettati quando il procedimento di approvazione dei piani urbanistici assicura agli enti una sostanziale partecipazione alle decisioni che riguardano il loro assetto territoriale. Le modalità con cui questa partecipazione sostanziale si concretizza è rimessa alla discrezionalità del legislatore statale e di quello regionale, che hanno competenza concorrente ai sensi dell’art. 117 comma 3 Cost.; tale

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Ricostruzione delle funzioni urbanistiche tratta da P. Stella Richter, Profili funzionali dell’urbanistica, Milano, Giuffrè, 1984, pp. 119-127.

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discrezionalità, specifica inoltre la suprema Corte, è sindacabile soltanto sotto il profilo della ragionevolezza12. Come brevemente si accennerà successivamente, nel “concerto” della pianificazione sono diversi gli enti che concorrono alle decisioni riguardanti un territorio, ma le fondamentali scelte urbanistico-edilizie sono riservate al consiglio comunale che è l’organo fondamentale di indirizzo politico-amministrativo, rappresentativo della “volontà comunale” in quanto viene eletto in modo diretto dai cittadini; ai sensi dell’art. 42 comma 2 lett. b) del Testo Unico degli enti locali (D.lgs. 267/2000), il consiglio comunale decide in merito ai programmi di opere pubbliche, ai piani territoriali ed urbanistici, ai programmi annuali e pluriennali per la loro attuazione, alle eventuali deroghe mentre la Giunta è chiamata all’approvazione di particolari piani di lottizzazione che possono essere definiti come semplici progetti edilizi che non incidono sugli assetti territoriali. Ai dirigenti e ai responsabili degli uffici sono invece attribuite competenze per il controllo sull’uso dei suoli, dovendo rilasciare i provvedimenti di assenso alle trasformazioni urbanistico-edilizie, e responsabilità per l’esercizio della funzione di vigilanza sul territorio, che è strumentale a quella sanzionatoria.

Non trascurabile è il ruolo delle Regioni che, oltre ad avere competenza legislativa concorrente in materia di governo del territorio, svolgono anche importanti funzioni amministrative. Si occupano di programmazione e di indirizzo della pianificazione, avendo il compito di approvare i piani territoriali di coordinamento, adottati dalle Province, con cui si viene a delineare il piano territoriale regionale; dispone di poteri sostitutivi e di controllo sugli obblighi che interessano il Comune come approvare un PRG e rilasciare permessi a costruire; infine, la Regione, pur non avendo poteri di pianificazione in senso stretto, esercita funzioni di diretta

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conformazione del territorio, in quanto pone delle prescrizioni urbanistiche attraverso atti, che possono avere anche forme diverse dal piano, che hanno finalità ben precise, legate alla tutela di interessi specifici, come i piani paesaggistici, i programmi di opere pubbliche, i piani di bacino o i piani dei parchi naturali13.

Il grande numero di interessi, pubblici e privati, coinvolti nelle scelte di pianificazione hanno reso necessaria l’apertura del procedimento alla partecipazione di una vasta gamma di soggetti: altre amministrazioni, associazioni e enti collettivi, proprietari, singoli cittadini; la legittimazione alla partecipazione è molto ampia perché non necessariamente deve scaturire da una situazione giuridica soggettiva di vantaggio (diritto soggettivo o interesse legittimo) ma, come ormai affermato in giurisprudenza, per essere legittimato a partecipare al procedimento di pianificazione, è sufficiente che la sfera di interessi del soggetto sia apprezzabilmente legata al territorio oggetto della prescrizione urbanistica. Gli interesse coinvolti possono essere individuali oppure interessi corporativi di una categoria di soggetti o, ancora, interessi diffusi di natura collettiva che fanno riferimento alla tutela di diritti di rilevanza costituzionale come la salute, la difesa dell’ambiente o del patrimonio paesaggistico-culturale. Alcune normative regionali, fra cui quella toscana (art. 17 L.R. n. 65/2014), aprono alla partecipazione già nella fase antecedente all’adozione del piano al fine di consultare e raccogliere proposte e suggerimenti dai diversi soggetti sociali in una fase preliminare; altrimenti gli interventi dei privati sono concentrati nella fase successiva all’adozione, con cui si apre un sub-procedimento istruttorio funzionale alla approvazione definitiva. Gli interventi dei privati possono assumere due diverse forme in base alla loro finalità: 1) la forma di opposizione, quando il privato vuole tutelare la sua

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P. Urbani – S. Civitarese Matteucci, Diritto Urbanistico, Torino, G. Giappichelli Editore, 2010, pp. 71-77.

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sfera giuridica, un proprio interesse individuale da effetti ritenuti pregiudizievoli del provvedimento; in dottrina, alcuni considerano le opposizioni alla stregua di un mezzo di impugnazione che impone all’autorità comunale l’obbligo di esaminare specificatamente quelle presentate; 2) la forma di osservazione quando l’obiettivo è collaborare con l’amministrazione a ricercare migliori soluzioni al soddisfacimento di un interesse pubblico. Rispetto ad altri ordinamenti, le amministrazioni procedenti non hanno particolari obblighi rispetto ai contributi dei privati, a cui non è riconosciuta un’effettiva capacità di incidere nel procedimento, essendo prescritto il solo obbligo di esaminare gli interventi e di motivare in forma sintetica e cumulativa le ragioni di un mancato accoglimento (non è richiesta nessuna confutazione specifica) da parte dell’amministrazione procedente. Infatti, per esplicita volontà dell’art. 13 della L. n. 241/1990, l’attività di pianificazione viene esclusa dalla disciplina generale sulla partecipazione al procedimento amministrativo, rimandando alle norme di settore che possono tener conto delle particolarità dell’urbanistica. Per questi motivi, viene negata al soggetto privato la qualità di “parte” nel processo di formazione del provvedimento e, dunque, la partecipazione ha una diversa e comunque fondamentale funzione di “controllo sociale” sulle scelte di pianificazione del territorio14.

Strumenti dinamici ed efficaci di pianificazione che consentono un lavoro coordinato di diversi soggetti pubblici e di soggetti privati, coinvolti direttamente nell’attività pianificatoria, sono gli istituti della programmazione negoziata, con cui vengono regolati i rapporti e gli impegni, anche finanziari, dei singoli soggetti partecipanti agli accordi. Questa gamma articolata di strumenti di intesa fra soggetti pubblici o fra essi e i privati, disciplinata dall’art. 2, punto 203, della

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P. Urbani – S. Civitarese Matteucci, Diritto Urbanistico, Torino, G. Giappichelli Editore, 2010, pp 115-120.

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L. n. 662/1996, è funzionale soprattutto per la pianificazione attuativa e, in particolare, per quella destinata a realizzare riconversioni e riqualificazioni urbane visto che con tali strumenti è possibile compiere varianti alla pianificazione urbanistica generale quando si rendono necessarie alla luce delle concrete possibilità di intervento. Sono istituti riconducibili alla programmazione negoziata: 1) l’intesa istituzionale di programma; è un accordo fra amministrazioni centrali e regionali (sono esclusi Enti locali e privati), con cui si realizza una ricognizione programmatica a proposito di risorse finanziarie, di soggetti coinvolti e di procedure amministrative per realizzare un piano pluriennale di interventi d’interesse comune;

2) l’accordo di programma quadro, è un atto vincolante con cui, oltre alle amministrazioni centrali e regionali, vengono coinvolti gli enti locali e i soggetti privati interessati e viene definito un programma esecutivo di interventi in attuazione di un’intesa istituzionale di programma; i contenuti sono molto precisi e toccano aspetti molto dettagliati come attività e interventi da realizzare, tempistiche, individuazione dei soggetti responsabili, ripartizione degli impegni e eventuali poteri sostitutivi, risorse finanziarie occorrenti, soggetti incaricati della verifica dei risultati;

3) il patto territoriale, è un accordo promosso a livello locale fra amministrazioni locali, parti sociali e altri soggetti pubblici o privati con i contenuti propri di un accordo di programma quadro.

La L. n. 662/96, infine, prevede due strumenti di programmazione negoziata volti più specificatamente alla promozione dell’occupazione e dello sviluppo economico come il contratto di programma, con cui, attraverso un coinvolgimento diretto delle grandi imprese e dei consorzi di piccole e medie imprese, l’amministrazione statale intende realizzare particolari interventi

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concordati; o come il contratto di area, strumento operativo preordinato per particolari aree di crisi, indicate dal Governo, con cui diverse amministrazioni, organizzazioni di categoria e tutti i soggetti interessati realizzano azioni finalizzate allo sviluppo e al rilancio dell’occupazione15.

Considerando la complessità e le peculiarità, il processo di formazione di un piano urbanistico non poteva che essere un procedimento composito e articolato in diverse fasi. L’iniziativa è spesso presa d’ufficio dalle amministrazioni procedenti, ma in determinati casi è ammessa l’iniziativa di parte attraverso la presentazione di un progetto urbanistico che sia o un piano di lottizzazione o un piano di recupero. Segue una fase istruttoria di redazione del piano, in cui deve essere svolta una preliminare valutazione degli interessi da bilanciare sulla base dei principi e dei criteri di indirizzo generale. A tale scopo, in questa fase procedimentale, deve essere compiuto un attento studio del territorio e delle sue vocazioni e devono essere acquisiti i pareri necessari o facoltativi di altre amministrazioni. Dopo l’adozione del piano, prima di arrivare alla fase decisoria e deliberativa secondo il modello bifasico dell’adozione-approvazione, si apre un momento intermedio in cui, come abbiamo visto, la pianificazione si apre all’intervento di altre pubbliche amministrazioni, di enti collettivi, organizzazioni di categoria e singoli privati, attraverso il quale è modificabile l’atto preliminare adottato, fatti salvi i contenuti qualificanti dell’intero procedimento. Il momento decisorio si concretizza quando le determinazioni delle diverse amministrazioni coinvolte convergono in un unico provvedimento, per sua natura definito come “atto complesso”, e si manifestano le diverse volontà necessarie al perfezionamento del procedimento, in quanto sono volontà in riferimento ai diversi e particolari interessi pubblici bilanciati in sede

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di pianificazione. Proprio per la frequente necessità di trovare intese fra più amministrazioni in sede di pianificazione, si è diffusa la tendenza a ricorrere allo strumento della conferenza dei servizi, un istituto di semplificazione procedurale nato con la L. 241/1990, che impone un metodo di lavoro concertato e improntato al confronto contestuale fra gli interessi e il rispetto di determinate tempistiche. Necessario, comunque, precisare che una conferenza dei servizi chiamata a decidere su un progetto urbanistico che disciplina l’uso di un territorio più o meno ampio impone un lavoro istruttorio specifico e approfondito, che inevitabilmente richiede dei tempi difficilmente comprimibili. D’altronde, fin dagli anni ’80, si è sentita l’esigenza e si è affermata, nella legislazione regionale e statale, la tendenza a ricorrere a meccanismi di semplificazione del procedimento di approvazione degli strumenti urbanistici. Infatti, se negli anni precedenti l’obiettivo era stato quello di estendere la pianificazione a tutto il territorio nazionale, successivamente ci si rese conto di tutti i limiti che la pianificazione tradizionale comportava: tempi molto lunghi di approvazione (aggravati dalle disfunzioni e dalle inefficienze delle amministrazioni pubbliche) e rigidità delle prescrizioni urbanistiche tali da impedire una dinamica risposta alle esigenze sopravvenute di sviluppo di una città16. Queste spinte verso una riduzione della complessità del procedimento di pianificazione, trovano origine nelle legislazioni regionali che, soprattutto in riferimento alla pianificazione attuativa, iniziarono a prevedere casi di silenzio-assenso per l’approvazione degli strumenti urbanistici da parte delle Regioni e introdussero termini perentori per tale approvazione. Fu con la L. n.47/1985 che il legislatore statale inaugurò il processo di semplificazione urbanistica: in particolare, con l’art. 24 si escluse l’approvazione regionale per gli strumenti urbanistici attuativi di interesse meramente locale, mentre con l’art.

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E. Follieri, Rigidità e elasticità degli strumenti di pianificazione generale, in «Urbanistica e Appalti», 1999, 1, 20.

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25 venne assoggettata al sistema di silenzio-assenso il procedimento di approvazione dei piani attuativi in variante allo strumento urbanistico generale e delle varianti agli strumenti generali per l’adeguamento agli standards urbanistici posti dalla normativa statale o regionale. Successivamente in talune Regioni si è arrivati ad estendere i casi di variante allo strumento generale non soggette ad approvazione regionale e si è introdotta la regola del silenzio assenso per tutti gli strumenti urbanistici. Tale processo di semplificazione ha progressivamente modificato la natura della fase di approvazione regionale che, divenendo solo eventuale, può essere ricondotta ad un mero atto di controllo della legittimità del piano e della sua conformità alla pianificazione sovra-comunale. Si è infatti attenuato il principio, risalente alla L. n. 764/1967, figlio di una diffusa sfiducia negli enti locali e di una carente pianificazione territoriale sovra-comunale, secondo cui gli strumenti urbanistici dovessero avere una doppia imputazione che comportava che alla discrezionalità pianificatoria del Comune si sovrapponesse una discrezionalità della Regione la quale poteva apportare modifiche d’ufficio al piano in sede di approvazione. Tale principio, oggi, può essere ritenuto superato o, quantomeno, attenuato alla luce di una legislazione regionale che ha interpretato l’esigenza pratica di avere tempi più brevi per l’approvazione degli strumenti urbanistici e che ha maturato una nuova consapevolezza per cui gli interessi territoriali sovra-comunali debbano e possano essere tutelati in momenti e con modalità diverse dalla mera approvazione degli strumenti urbanistici comunali. Bisogna comunque precisare che, anche in rifermento alla semplificazione dei procedimenti urbanistici, si sente la mancanza di una normativa statale capace di fare ordine e di esplicitare i principi della materia, che oggi sono rimessi alle autorevoli pronunce della Corte Costituzionale che comunque enuncia rationes decidendi riferite a casi determinati: ne consegue che i principi desumibili dalle

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sentenze non possono prescindere dagli elementi caratteristici del caso preso in esame17. In questo senso vedremo come alcune sentenze della Consulta, riferite proprio a strumenti urbanistici attuativi funzionali alla rigenerazione urbana come la sent. 393/1992 o la sent. 408/1995, siano diventate per la dottrina fonte di elaborazione di importanti principi riguardanti anche i confini costituzionali della normativa per la semplificazione urbanistica. Come ultimo aspetto di questo paragrafo, che introduce sommariamente alcuni profili generali riguardo la pianificazione urbanistica, si deve prendere in esame il momento di integrazione dell’efficacia di un piano, ossia il momento in cui inizia a produrre effetti nei rapporti giuridici. Attraverso le misure di pubblicità, il provvedimento diventa conoscibile per qualunque soggetto interessato e, quindi, si integra l’efficacia del piano. Le modalità, gli strumenti e i tempi per la pubblicità dei piani urbanistici variano in base alle previsioni di legge di ciascuna Regione o in base alla tipologia di piano. Da precisare, con particolare riferimento ai piani attuativi, che per la giurisprudenza, a seguito dell’emissione di un piano attuativo, la notifica del provvedimento ai proprietari delle aree interessate non è un atto che integra l’efficacia ma semplicemente un atto che permette il decorrere del termine per l’impugnazione del piano stesso davanti il giudice amministrativo da parte dei privati: la mancata notifica, dunque, comporta soltanto la non opponibilità ai privati del termine18.

17 B. Tonoletti, Corte Costituzionale, semplificazione in materia urbanistica e tutela

dell’ambiente, in “Urbanistica e Appalti”, 1998, 5, 493.

18

P. Urbani – S. Civitarese Matteucci, Diritto Urbanistico, Torino, G. Giappichelli Editore, 2010, pp. 127-128.

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23

CAPITOLO 2

Rigenerazione urbana, la frontiera di una nuova politica urbanistica

Nel concetto di “rigenerazione urbana” si fanno rientrare diverse tipologie di intervento che possono essere riconducibili soprattutto alla definizione di ristrutturazione urbanistica ex art. 3 c.1 lett.f) del TU per l’edilizia ma, in parte, anche a quella di ristrutturazione edilizia, contenuta invece alla lett.d). Ciò che caratterizza gli interventi di rigenerazione è il contesto in cui si svolgono e le finalità che perseguono: l’intervento, che ha come oggetto una porzione di territorio in tutto o in parte urbanizzato, mira a una riqualificazione e/o a una riconversione di un’area più o meno estesa che comprende un complesso urbanistico-edilizio esistente che necessita di una trasformazione urbanistica ed edilizia che non solo ne migliori la qualità estetica ed ambientale ma che ne consenta anche un suo rilancio sul piano economico, sociale e culturale. La rigenerazione di una parte di città, infatti, spesso comporta un mutamento delle destinazioni d’uso precedentemente previste dagli strumenti urbanistici al fine di individuare nuove e diverse funzioni da attribuire a quella porzione di città per connetterla meglio con il resto del tessuto urbano, per dotarla di nuovi spazi e di nuovi servizi o per renderla più attrattiva e appetibile agli investimenti pubblici e privati. La rigenerazione urbana, quindi, può essere motore di importanti cambiamenti nell’ambito di un territorio e uno strumento di raccordo di diverse politiche pubbliche che hanno come obbiettivo comune un miglioramento complessivo della qualità della vita. La normativa urbanistica dunque mette a disposizione delle istituzioni e dei privati una serie di piani e programmi complessi - in seguito saranno analizzati singolarmente - che diventano veicolo di politiche fiscali, finanziamenti pubblici per favorire l’iniziativa economica privata e

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lo sviluppo, il risanamento ambientale, il miglioramento della quantità e della qualità dei servizi, la promozione turistico-culturale della città.

L’urbanistica non scopre oggi una legislazione orientata alla riconversione di parti di città attraverso piani e programmi mirati, infatti, in particolare negli Stati Uniti, si è consolidata nel tempo una normativa in grado di rispondere alle esigenze dei centri urbani che si erano espansi e avevano inglobato quelle che prima erano delle periferie che dovevano essere ripensate e organizzate con una nuova vocazione. Tali trasformazioni, realizzate con piani di riconversione, non hanno determinato soltanto la posizione e la funzione di quei quartieri all’interno del tessuto urbano ma hanno interessato anche il suo tessuto sociale, economico e culturale che è mutato radicalmente, avendo favorito l’insediamento di classi sociali più agiate in vecchi quartieri popolari. Questo fenomeno dell’espansione della città e della conseguente trasformazione dei quartieri periferici, nei paesi anglosassoni, è stato anche definito come gentrification, un nuovo vocabolo coniato per descrivere «il processo attraverso il quale la middle class si installa in zone di residenza proletaria, determinando una modificazione della composizione sociale dell’area interessata da tale fenomeno» (Collins, Dizionario Inglese, Londra, 1984, 607) 19.

In questo senso, i piani e i programmi di rigenerazione urbana sono stati anche duramente criticati con l’accusa di diventare causa di diseguaglianze e strumento di emarginazione sociale. Il processo di

gentrification, che ha interessato molte città post-industriali europee

e americane, infatti, è stato anche fortemente criticato da quella dottrina che, soprattutto in anni recenti, sta promuovendo una campagna per codificare e garantire l’accesso di tutti ai “beni

19

P. Urbani – S. Civitarese Matteucci, Diritto Urbanistico, Torino, G. Giappichelli Editore, 2010, p. 183.

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comuni” - categoria non rientrante nella distinzione classica fra bene pubblico e bene privato - che sono caratterizzati da una impossibile o difficile escludibilità nel consumo e dal rischio di esauribilità; sono stati definiti come quelle «cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona […]devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future» (dall’art.1 c.3 lett.c) del disegno di legge delega elaborato dalla Commissione ministeriale istituita con decreto del Ministro della giustizia 21 giugno 2007, cosiddetta “Commissione Rodotà”). La critica, contestualizzata in una più ampia e generale analisi del fenomeno delle privatizzazioni figlie del modello politico-economico neoliberista, parte dall’assunto che la gentrification, accompagnata da una riduzione drastica degli investimenti e degli interventi di edilizia popolare pubblica, costituisca l’esempio principale di spossessamento, a danno dei ceti più poveri della popolazione, dell’urban commons, ossia di un bene comune quale lo spazio urbano e il diritto all’abitare: infatti i progetti di riqualificazione dei centri urbani, attraendo investimenti privati, se da una parte attraggono nuovi facoltosi residenti e pongono rimedio al degrado urbano, che gli enti pubblici non hanno saputo evitare, dall’altra tendono ad escludere interi ceti sociali che non sono nella condizione di preservare il proprio diritto alla casa e, più in generale, il diritto a vivere lo spazio urbano a causa, per esempio, di un aumento del valore degli immobili e conseguentemente dei canoni locatizi. L’analisi di questa parte della dottrina, riguardo le conseguenze sociali negative che un piano o un programma di rigenerazione possono determinare in una città, si spinge a teorizzare come la possibilità di sottoporre una determinata area urbana ad un intervento di riqualificazione possa incentivare i grandi proprietari immobiliari a favorire il degrado e la compromissione degli immobili concessi da

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decenni in locazione a conduttori appartenenti a ceti sociali svantaggiati e contrattualmente troppo deboli per imporre il rispetto delle norme contrattuali che impongono al locatore l’obbligo di garantire l’abitabilità e la manutenzione delle strutture. Tale pratica, denominata milking, determinerebbe una situazione per cui, dopo un certo periodo di tempo, si renderebbe necessaria l’approvazione di un piano di riqualificazione con cui si giustifica l’allontanamento dei ceti popolari alloggiati negli immobili oggetto dell’intervento e che ha come presupposto un intento speculativo di grandi gruppi immobiliari interessati al conseguente incremento di valore di mercato del patrimonio riqualificato20.

Tuttavia, sempre in tema di beni comuni (commons), oggi, gli strumenti urbanistici e gli investimenti pubblici e privati per finanziare piani o programmi di riqualificazione urbana sono considerati una vera e propria frontiera delle politiche di governo del territorio: la rigenerazione urbana, infatti, rappresenta una delle principali direttrici di innovazione nell’ambito del diritto urbanistico e identifica la progressiva affermazione di un nuovo modello di pianificazione che trasforma il piano in uno strumento di preservazione del suolo, inteso come bene ambientale non riducibile da salvaguardare. Questo nuovo modello di pianificazione pone attenzione agli spazi periurbani; distingue le prescrizioni urbanistiche riferibili ad un tessuto urbano rispetto a quelle destinate agli spazi areali agro-naturali; mette in primo piano il tema del recupero e del riuso del patrimonio esistente poiché parte dal presupposto che si debba necessariamente attribuire alla pianificazione una nuova funzione di tutela del suolo. La naturale conseguenza di questo nuovo approccio al diritto urbanistico è il superamento dei confini tradizionali della pianificazione e la sostanziale estensione dei

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M. R. Marella, Oltre il pubblico e il privato, Verona, ombre corte, 2013, pp. 197-200.

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contenuti dei piani che devono sempre più tener conto della dimensione ambientale del suolo su cui operano. Naturalmente, un modello pianificatorio, così inteso, si pone in netta contrapposizione con la pianificazione tradizionale, basata sul concetto di trasformazione e di crescita urbana che non teneva conto né dell’andamento demografico né, tanto meno, dell’abuso nel consumo di territorio. Negli anni, nonostante già la legge urbanistica avesse messo in guardia rispetto ai rischi legati all’urbanesimo (art. 1 c.2 L. n. 1150/1942), si era affermato un modello urbanistico-insediativo a bassa densità che ha determinato il formarsi di conurbazioni disordinate che andavano oltre i confini amministrativi dei singoli Comuni titolari della potestà pianificatoria. E così Massimo Cacciari descrive la “città infinita”21che non ha più confini: «la città è ovunque: dunque, non vi è più città (?). Non abitiamo più città, ma territori (territori da terreo, aver paura, provare terrore!?). La possibilità stessa di fissare confini alla città appare oggi inconcepibile, o, meglio, si è ridotta ad un affare puramente tecnico-amministrativo. Chiamiamo città questa "area" per ragioni assolutamente occasionali […] I suoi confini non sono che un mero artificio». I dati statistici acquisiti dicono che ogni giorno in Italia si cementificano 100 ettari di superficie libera e che, dal 1956 al 2010, il territorio nazionale edificato è aumentato del 166 per cento22. Tale fenomeno, che ha permesso un ingente perdita di suolo, viene definito sprawl (dal verbo inglese to sprawl: sdraiarsi) ed è stato favorito e aggravato da fattori prettamente giuridici: piani comunali di scarsa qualità; incapacità di incentivare gli operatori economici ad investire nella direzione della riqualificazione dell’esistente; e, infine, norme che consentivano ai Comuni il finanziamento di spese

21A cura di A. Bonomi e A. Abruzzese, La città infinita, Milano, Mondadori, 2004,

p. 52.

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Atto Camera 2039, DDL su “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato”.

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correnti con i contributi di costruzione e che, dunque, mettevano in grave difficoltà i bilanci degli enti che erano orientati al contenimento del consumo di suolo23.

Il processo di trasformazione del modello di pianificazione, non ancora completamente compiuto, è uno degli elementi che aiuta a comprendere perché il legislatore costituzionale abbia deciso di rinominare la materia “urbanistica” con la formula più ampia di “governo del territorio”, onnicomprensiva di tutte le funzioni a cui rispondono i piani urbanistici. Questa evoluzione che impone alla disciplina urbanistica di interiorizzare la tutela di una serie di interessi differenziati, in particolare quelli ambientali, è stata anche la conseguenza di un preciso indirizzo che il Consiglio e il Parlamento europeo hanno dato ai Paesi membri adottando la Direttiva 2001/42/CE con cui, dopo un lungo e difficile confronto, è stata introdotta nel diritto comunitario la valutazione ambientale strategica (V.A.S.). La VAS è un istituto fondamentale con cui si dà concreta applicazione al principio comunitario dell’integrazione delle politiche ambientali nelle singole politiche settoriali e che, come afferma la Direttiva, persegue l’obiettivo di «garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente e di contribuire all’integrazione di considerazioni ambientali all’atto dell’elaborazione e dell’adozione dei piani e programmi, al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile». La VAS consente infatti un’analisi preventiva di tutti i possibili effetti sull’ambiente che possono conseguire alle scelte operate con un piano o un programma24.

Si ritiene che questo sviluppo della materia rappresenti una vera e propria responsabilizzazione di tutti gli enti deputati alla pianificazione i quali debbono avere chiaro che le scelte urbanistiche

23

E. Boscolo, Oltre il territorio: il suolo quale matrice ambientale e bene comune, in «Urbanistica e appalti», 2014, 2, 129.

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di oggi incidono su un beni ambientali a cui le future generazioni non potranno rinunciare; fra questi beni c’è il suolo che per sua natura è una risorsa limitata, scarsa, non rinnovabile, non estendibile e vulnerabile visto che la sua edificazione comporta una perdita irreversibile delle sue proprietà ambientali. Queste caratteristiche, riconducibili a molte risorse ambientali come l’aria, l’acqua, le foreste etc, hanno imposto nel dibattito dottrinario il tema dei beni comuni e, recentemente, anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno preso una chiara posizione, esplicitando il concetto giuridico di “bene comune”, fondandolo su valori di rilevanza costituzionale. Si deve precisare, tuttavia, che il suolo, oggetto fisico della pianificazione, ha sì la qualificazione di commons per le ragioni sopra illustrate ma è anche un bene giuridico ai sensi dell’art. 810 c.c. che può essere oggetto di proprietà privata. Per questi motivi è più appropriato parlare di semicommons, secondo la definizione del giurista H. E. Smith: la medesima cosa (il suolo) vede concorrere due diversi beni giuridici (bene patrimoniale e bene ambientale) che comportano una coesistenza fra due diversi statuti giuridici che il diritto deve garantire per scongiurare quella che il biologo G. Hardin chiama “tragedia dei beni comuni”. Per sottrarre il bene suolo alle condotte dei singoli proprietari, determinati legittimamente ad ottenere la massima utilità del proprio fondo, mettendo a rischio l’interesse generale – ossia per evitare la “tragedia” – è necessario il piano, come direbbe Smith una governance, vale a dire una serie di comandi che possano difendere il bene ambientale da condotte private incompatibili ma che comunque, nel rispetto del principio di proporzionalità, lascino ai proprietari il diritto di trarre da quel bene patrimoniale le utilità compatibili alla preservazione degli interessi generali25.

25

G. Dallera, La teoria economica oltre la tragedia dei beni comuni, in Oltre il pubblico e il privato a cura di M. R. Marella, Verona, ombre corte, 2013, pp.

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100-30

E’ in corso, dunque, una rifondazione della disciplina urbanistica, sta infatti cambiando sia la mission del diritto urbanistico sia l’impostazione della tecnica pianificatoria. Governare il territorio, oggi, non significa più soltanto rispondere alle esigenze insediative e infrastrutturali di una comunità ma anche tutelare e preservare le risorse ambientali dell’ecosistema per il sacrosanto principio di equità intergenerazionale, per cui alle generazioni future deve essere lasciato un pianeta in condizioni non peggiori di quelle attuali. Al diritto amministrativo-urbanistico viene quindi riconosciuto il compito di bilanciare, da una parte, l’interesse a che si verifichino le condizioni per favorire lo sviluppo economico, restando il piano uno strumento di conformazione dei beni privati, e, dall’altra, siano assicurati e conservati i valori territoriali e i beni comuni in generale. Tutto questo comporta il necessario superamento e il rovesciamento della tecnica e del metodo di pianificazione tradizionale che si approcciava al piano con le modalità sopradescritte e impostava la disciplina delle aree agro-naturali (zone E) considerandole una parte residuale di un territorio al cui interno venivano prima soddisfatte tutte le altre aspettative di trasformazione. La pianificazione mantiene una funzione unificante che è quella conformativa, ossia produce effetti sui diritti di proprietà, ma deve fare i conti con una oggettiva differenziazione fra due macro-categorie di situazioni territoriali, le aree urbane o già edificate e le aree agro-naturali, in riferimento alle quali cambiano le finalità che il piano persegue. Nelle aree urbane un piano deve armonizzare gli spazi per trovare un equilibrio che possa massimizzare le utilità in alcuni casi a vantaggio di singoli soggetti privati, riconoscendogli lo ius escludendi alios, e in altri a favore dell’intera comunità, rimuovendo il carattere escludibile di un bene, prescrivendo una fruizione da parte della generalità dei soggetti. La pianificazione nei tessuti urbani deve,

103.

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quindi, fissare le condizioni per definire i valori d’uso dei beni (beni privati/beni aperti al pubblico), allocando le utilità in base a diversificati tassi di escludibilità dell’insieme di beni rientranti in quel lotto urbano. Negli spazi agro-naturali, invece, il piano assume finalità custodiali e funge da strumento di preservazione del valore di esistenza di quegli spazi che devono continuare a garantire dei servizi ambientali non escludibili che forniscono utilità ad un insieme di soggetti indefinito. Ciò non esclude che anche negli spazi non urbani il piano definisca il valore d’uso dei beni che possono comunque garantire ai proprietari talune utilità compatibili con la funzione ambientale che quei suoli svolgono26.

La particolare attenzione e l’indirizzo politico-culturale rivolto al tema della riqualificazione del patrimonio edilizio esistente, da una parte, e all’importanza di una regolamentazione a tutela delle aree agricole, per circoscrivere la discrezionalità delle amministrazioni pianificatrici, dall’altra, è un fenomeno che, per quanto riguarda l’ordinamento italiano, risale alla fine degli anni ’70, quando il legislatore statale, con L. 457/1978, introdusse il piano di recupero, il primo importante istituto volto a disciplinare gli interventi urbanistico-edilizi su un tessuto urbano degradato e i diversi legislatori regionali adottarono le prime misure per regolamentare l’attività edilizia nelle aree agro-naturali, al fine di preservare il valore della produttività agricola. In seguito, a partire dagli anni ‘90 ci sono state altre innovazioni legislative importanti che hanno introdotto istituti strategici per consentire attività di riqualificazione nei tessuti urbani come il programma integrato d’intervento (art. 16 L. n. 179/1992) o la società di trasformazione urbana (art. 120 D.lgs 267/2000), ma è mancato un intervento legislativo organico che fissasse, una volta per tutte, i principi e gli indirizzi strategici della

26

E. Boscolo, Oltre il territorio: il suolo quale matrice ambientale e bene comune, in «Urbanistica e appalti», 2014, 2, 129.

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materia come prescritto dall’art. 117 Cost. Nel frattempo alcune Regioni si sono fatte pioniere di questo processo evolutivo del governo del territorio come la recente L.R. n. 65/2014 della Toscana che, partendo dalla distinzione territoriale fra aree urbanizzate e aree non urbanizzate in cui è fatto divieto di nuova edificazione a scopo residenziale, orienta l’intera disciplina verso una pianificazione di area vasta e afferma tre principi cardine della politica urbanistica regionale: contrasto al consumo di suolo, riqualificazione dell’esistente, tutela del territorio agricolo. A questi principi si ispirano anche numerose iniziative di legge approdate in Parlamento negli ultimi anni, spinte da una sempre maggiore sensibilità e consapevolezza dell’opinione pubblica sul tema, ma che ancora non hanno visto l’approvazione; alla Camera dei Deputati è attualmente in esame delle Commissioni parlamentari riunite VIII Ambiente e XIII Agricoltura il disegno di legge denominato "Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato" (Atto Camera 2039), presentato il 3 febbraio 2014 dal Governo Letta e concordato con la Conferenza Unificata Stato Regioni. Il testo, che ripropone i contenuti del disegno di legge presentato nella scorsa legislatura dal Ministro per le Politiche Agricole Mario Catania, individua le sue finalità «in primo luogo, nel contenimento di consumo di suolo, quale bene comune e risorsa non rinnovabile; in secondo luogo e conseguentemente, nella protezione degli spazi dedicati all’attività agricola, degli spazi naturali e del paesaggio […] viene inoltre introdotto, quale principio fondamentale della materia del governo del territorio, quello della priorità del riuso del suolo edificato esistente e della rigenerazione urbana rispetto all’ulteriore consumo di suolo inedificato». Il Governo con questo progetto di legge, attingendo dalle esperienze normative regionali, intende anche delineare una specificazione del concetto di “rigenerazione urbana” che viene così definita: «comprende gli interventi volti alla

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riqualificazione, riorganizzazione e risanamento dell’assetto urbano anche mediante la previsione di infrastrutture ecologiche finalizzate all’incremento della biodiversità nell’ambiente urbano».

Nella recente proposta di revisione costituzionale che avrebbe dovuto interessare anche il Titolo V e il rapporto fra Stato e Regioni nelle competenze legislative, il legislatore intendeva modificare anche l’art. 117, attribuendo la competenza esclusiva allo Stato per quanto riguarda «le disposizioni generali e comuni sul governo del territorio». Se la riforma fosse andata in porto, in questa materia alle Regioni sarebbe rimasta una competenza limitata alle sole norme di dettaglio e, quindi, una norma statale di soli principi sarebbe divenuta insufficiente e inutile. Tuttavia, dopo il Referendum Costituzionale del 2016 con cui è stata bocciata la riforma, oggi non viene assolutamente meno l’esigenza, che si protrae negli anni, di avere una legge quadro sulla materia del “governo del territorio” e sul consumo di suolo; si tratta di una mancanza che non solo ha rappresentato un impedimento reale a un’organica e uniforme evoluzione normativa nelle singole Regioni, ma ha anche favorito fenomeni sregolati di cementificazione e sfruttamento del territorio.

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CAPITOLO 3

La pianificazione attuativa e gli strumenti urbanistici per la rigenerazione urbana

1. Il piano particolareggiato d’esecuzione e i principi generali della pianificazione attuativa

Secondo la struttura della pianificazione sopra descritta, le scelte generali del PRG devono essere “attuate” attraverso appositi strumenti urbanistici che devono dare esecuzione alle prescrizioni, rispettando il principio di conformità alle disposizioni generali, implementandole di contenuti per realizzare la trasformazione del territorio. Come già detto, la funzione urbanistica di gestione integra e completa la funzione principale di conformazione del territorio, grazie al carattere flessibile di talune prescrizioni che consentono la puntuale e specifica determinazione di modalità e tempi degli interventi da parte dei piani attuativi, sulla base delle necessità degli interessati e delle disponibilità economico-finanziarie.

Nel 1977, con il preciso intento di raccordare la pianificazione generale con quella attuativa al fine di garantire un’attuazione programmata delle trasformazioni urbanistiche, la legge Buccalossi (L. 27 gennaio 1977, n. 10) ideò il programma pluriennale di attuazione (art. 13). Con tale strumento, si intendeva imporre una politica di sviluppo urbanistico che garantisse l’attuazione delle previsioni generali nella loro interezza, che si svincolasse dalla sola iniziativa economica privata, legata agli interventi maggiormente remunerativi, e che ponesse attenzione anche agli interessi pubblici da realizzare contestualmente alle trasformazioni urbanistiche. Il programma pluriennale, che non aveva poteri conformativi, non aveva le caratteristiche di un piano bensì di un crono-programma

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che, perimetrate le aree in cui intervenire, fissava i tempi di realizzazione in un periodo non inferiore a tre e non superiore a cinque anni. Il programma pluriennale produceva effetti nei confronti dei proprietari degli immobili inclusi nelle aree perimetrate, imponendo loro l’obbligo di richiedere i permessi a costruire nelle tempistiche prescritte, decorse le quali sarebbe stato disposto l’esproprio da parte del Comune; effetti indiretti si producevano, però, anche verso i proprietari delle aree escluse dal programma, per le quali si determinava un vincolo di inedificabilità, fatte salve talune fattispecie27. Ai fini del presente elaborato, tuttavia, non risulta necessario approfondire ulteriormente questo istituto a causa della sua scarsa diffusione, dovuta all’incapacità finanziaria dei Comuni di attuare i programmi pluriennali. Invece che ricorrere a questi ultimi, si è preferito intraprendere altre strade, garantendo l’attuazione delle prescrizioni generali o approvando direttamente PRG “auto-esecutivi” con contenuti di dettaglio tali da consentire direttamente la richiesta di permessi a costruire oppure ricorrendo alla pianificazione attuativa con cui è contemporaneamente possibile sia gestire l’attuazione delle previsioni generali, indicando tra l’altro dei tempi di realizzazione, sia imporre puntuali prescrizioni, anche di tipo prettamente progettuale, ai proprietari interessati.

Nell’impostazione tradizionale della pianificazione lo strumento di attuazione tipico del PRG, prototipo delle altre figure di piani attuativi introdotti a partire dagli anni ’60, è il piano particolareggiato d’esecuzione, previsto all’art. 13 della L. n. 1150/1942 (abrogato dal TU espr. limitatamente alle norme riguardanti l’espropriazione). E’ un piano di dettaglio che ha la funzione di specificare le indicazioni generali di PRG, senza possibilità di contraddirle a pena di illegittimità, per limitate porzioni di territorio comunale di cui deve

27

P. Urbani – S. Civitarese Matteucci, Diritto Urbanistico, Torino, G. Giappichelli Editore, 2010, pp. 143-145.

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stabilire l’assetto e le dotazioni urbanistiche. In particolare, dice la legge, i piani particolareggiati devono indicare le reti stradali e i principali dati altimetrici della zona pianificata; deve inoltre determinare: le masse e le altezze delle costruzioni lungo le principali strade e piazze, gli spazi da destinare ad opere e impianti di interesse pubblico, gli edifici da demolire, ricostruire o restaurare, la suddivisione degli isolati in lotti fabbricabili e, infine, la profondità delle zone laterali a opere pubbliche, la cui occupazione serva ad integrare le finalità delle opere stesse e a soddisfare prevedibili esigenze future. Il procedimento per l’approvazione dei piani particolareggiati segue lo schema bifasico dell’adozione-approvazione, precedentemente descritto, compresa la possibile presentazione di osservazioni e opposizioni nei trenta giorni successivi al deposito nella segreteria comunale della delibera di adozione. Questi piani possono interessare qualsiasi porzione del territorio comunale, comprese quelle già edificate, e devono garantire la copertura finanziaria delle spese necessarie a realizzare le opere pubbliche previste: per gli spazi e gli immobili da destinare a tale scopo l’approvazione del piano equivale ad una dichiarazione di pubblica utilità e, come effetto principale, viene imposto il vincolo di espropriazione su quelle aree. Un piano particolareggiato, proprio perché deve essere esecutivo, deve prevedere un termine di validità ed uno che indichi i termini entro cui devono essere eseguite le relative espropriazioni: entrambi non possono superare i dieci anni, poiché, una volta decorsi, il piano perde efficacia in relazione alle espropriazioni e alle trasformazioni non realizzate. Da precisare che, ai sensi dell’art. 17 resta comunque «fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso»28.

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Questa tipologia di piano attuativo, però, ha avuto poco utilizzo a causa soprattutto della prassi diffusa nei Comuni, avallata anche dalla giurisprudenza, di creare PRG autoesecutivi, ovvero molto dettagliati con prescrizioni conformative della proprietà, rendendo così i piani particolareggiati, che avevano anche un pesante procedimento di approvazione, praticamente inutili.

Pur mantenendo alcune caratteristiche comuni, non esiste un modello unico di piano attuativo, infatti gli istituti di esecuzione urbanistica che sono stati introdotti nel tempo da normative statali e, soprattutto, regionali hanno specificità legate alle esigenze e ai diversi interessi che intendono perseguire. Fin dall’introduzione di nuovi piani attuativi funzionali, come il piano di recupero, è apparso subito necessario allentare i vincoli gerarchici fra questi e il PRG anche perché i nuovi piani attuativi si sono caratterizzati per contenuti con una forte connotazione operativa e progettuale, non limitandosi a svolgere la funzione di conformazione della proprietà ma occupandosi direttamente anche della gestione delle trasformazioni.

A dare risposte normative ad una pianificazione attuativa che chiedeva procedure più snelle e normative più dinamiche, è intervenuta la Legge 28 febbraio 1985, n. 47, che, avendo le Regioni la competenza legislativa nel determinare procedure e contenuti della pianificazione attuativa, ha fissato alcuni importanti principi, trovando così un serie di elementi comuni a tutta la pianificazione attuativo/funzionale. In primo luogo il legislatore ha voluto superare le rigidità sopradescritte e ha eliminato il vincolo gerarchico tra piani attuativi e PRG, demandando alle Regioni il compito di individuare «procedure semplificate per l’approvazione degli strumenti attuativi in variante agli strumenti urbanistici generali» (art. 25). Anche sul

2010, pp.57-63.

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piano procedimentale, sebbene gli aspetti procedurali attengano maggiormente alla competenza regionale, la L. n. 47/1985 indica, all’art. 24, alcuni paletti di cui le Regioni hanno dovuto tener conto nella propria legislazione: la non assoggettabilità dei piani attuativi all’approvazione regionale, fatte salve le aree o gli ambiti territoriali appositamente individuati come di interesse regionale; la snellezza del procedimento da conciliare con forme di pubblicità e partecipazione dei soggetti interessati; infine, la facoltà per le Regioni di formulare osservazioni sulle quali i Comuni devono esprimersi con motivazioni puntuali.

Più recentemente, con l’art. 22 della Legge 30 aprile 1999, n. 136, il legislatore statale è tornato a disciplinare nuovamente aspetti procedimentali dei piani attuativi, scendendo in una normativa più di dettaglio che pone alcuni dubbi circa la sua costituzionalità in riferimento alla competenza regionale. Il comma 7 del medesimo articolo, però, facendo «salve le diverse scadenze e modalità previste dalle leggi regionali», lascia intendere che la disciplina è residuale, applicabile nella misura in cui le Regioni non abbiano legiferato. In questa dettagliata disciplina introdotta sono compresi i termini per l’approvazione degli strumenti attuativi d’iniziativa privata (90 giorni dalla data di presentazione dell’istanza o dalla data di acquisizione di pareri o nulla osta necessari), per la predisposizione dei piani (180 giorni dalla data in cui l’amministrazione ha con provvedimento assunto impegno di redigere detto strumento), per la loro adozione (entro i successivi 90 giorni), per l’approvazione definitiva (30 giorni a decorrere dalla scadenza del termine per presentare osservazioni o opposizioni) e anche per la pubblicazione (entro 30 giorni dalla loro adozione o approvazione). Il mancato rispetto di tali termini viene considerato presupposto per richiedere l’intervento sostitutivo della Regione con istanza al Presidente della Giunta regionale affinché nomini un commissario ad acta che provveda entro 15 giorni. Con

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