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Apologia del male umano. Un'interpretazione dell'opera di Paul Ricœur

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ISA

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IVILTÀ E

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ORME DEL

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APERE

C

ORSO DI

L

AUREA

FILOSOFIA E FORME DEL SAPERE

Tesi di laurea magistrale

Apologia del male umano

Un’interpretazione dell’opera di Paul Ricœur

Relatore

Candidato

Prof. Adriano Fabris

Stefania Vannucci

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INDICE

Prefazione ... pag. 4

Breviario ... pag. 8

Capitolo primo

Paul Ricœur in dialogo con la fenomenologia e la psicoanalisi. Il primato dell’io voglio e l’avventura del cogito spezzato ... pag. 11

1. Paul Ricœur. L’uomo e il filosofo tra debiti intellettuali e peculiarità teoriche .... pag. 12 2. Filosofia della volontà e ontologia della sproporzione. Per una fenomenologia

al riparo dall’idealismo nell’indagine del livello intenzionale delle volizioni

umane ... pag. 28 3. Ontologia della sproporzione. L’uomo fallibile e il male umano che si esplica

nell’essenza di intermediario tra finito e infinito a lui intrinsechi ... pag. 44 4. Freud e l’inconscio. La caduta del Cogito nell’abisso dell’involontario e la

centralità dell’”io sono” sull’”io penso” ... pag. 67

Capitolo secondo

Una fenomenologia ermeneutica. Il sé narrativo come esito della mimesis creatrice e la sua funzione di svelamento dell’altro che è in noi ... pag. 81

1. Il simbolo dà a pensare. La via lunga e l’innesto dell’ermeneutica. Il linguaggio come prolungamento semantico del possibile, della finitudine

umana e la funzione creatrice di senso del simbolo, della metafora e del mito ... pag. 83 2. L’aporia del tempo e la temporalità dell’esistenza umana. Il racconto come

modalità privilegiata di esistenza e l’edificazione dell’identità narrativa, che

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3. Lo spodestamento dell’io in favore del sé. L’ipseità e la medesimezza del sé come cura alla nevrosi tirannica dell’io. Il sé in quanto attestazione, ovvero fondamento fenomenologico/ontologico della credenza dell’esistere come

ipseità ... pag. 134

Capitolo terzo

Risemantizzazione del concetto di male umano, che diviene la traccia da seguire nel cammino verso l’autocoscienza. L’incontro tra la giustizia e l’amore nel dono simbolico per l’etica del riconoscimento ... pag. 147

1. Sé in quanto altro: confronto con la dialettica hegeliana, sbocco ad una autocoscienza narrativa. La chiamata della coscienza heideggeriana come fondamento dell’autorelazione e la chiamata ad essere del sé ad opera dell’altro

come attestazione del primato dell’etero-relazione... pag. 148 2. L’homme capable come fulcro della filosofia dell’azione sullo sfondo della

finitudine umana. L’etica in situazione che fa da perno alla morale e all’etica. Dal rapporto faccia a faccia del sé con l’altro e la relazione di amicizia al

rapporto tra il sé ed il ciascuno dell’istituzione ... pag. 160 3. La necessità di giungere all’etica del riconoscimento. La giustizia ricostruttiva

in quanto sintesi della giustizia distributiva e del principio di sovrabbondanza

proprio dell’amore come dono ... pag. 173 4. La memoria come dovere e la storia come suo correttivo. Il perdono proprio

della forza del ricordo per poter acconsentire alla vita e vivere fino alla morte, non come essere per la morte. Edificazione di un’apologia del male umano per aver compreso la funzionalità del non essere che è insito nell’uomo e che si

mostra nell’oblio ... pag. 202

Conclusione ... pag. 220

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Prefazione

Il protagonista del mio lavoro è Paul Ricœur, filosofo francese del ‘900, che ha avuto il merito di mettere la firma su una copiosa serie di testi, i quali sono il risultato della connessione di scuole di pensiero apparentemente contrastanti, come la fenomenologia, la psicanalisi e l’ermeneutica. Nell’apertura alle pagine che seguiranno deve essere enunciata una dichiarazione degli intenti che mi hanno spinto ad intraprendere questo lavoro, le motivazioni quindi e le modalità tramite cui ho scelto di procedere perché fosse raggiunto il fine di cui mi sono fatta portavoce. All’interno dell’opera del pensatore di cui ho tratteggiato i contorni, gli spunti e le argomentazioni sono molteplici e ciò è chiaro fin da subito, nello scorrere i titoli dei testi di cui è autore. In virtù della sua ricca produzione ho scelto di seguire in maniera cronologica lo sviluppo delle tematiche principali e nel far questo ho sottolineato ciò che, al loro interno, è stata per me la guida nel progettare la mia lettura critica. Quello che ho voluto portare alla luce è una reinterpretazione dell’opera ricoeuriana, proponendo un ulteriore spunto di riflessione. Questa traccia, questo filo conduttore è il concetto di “male”, pensato in tutte le sue sfumature e scandagliato in ogni sua versione, tanto che, come vedremo diviene il motivo propulsore di ogni svolta nel pensiero del nostro autore. All’inizio di ogni capitolo saranno presenti alcune righe dove verranno ripercorse in sintesi le tematiche del capitolo precedente, connettendole in anticipo alle argomentazioni che seguiranno.

Vedremo come sullo sfondo delle sue trattazioni sia sempre leggibile una traduzione esplicita ma più spesso implicita del male come male umano, giungendo fino alla sua riedizione in un male apparente, fino a consacrare la sua essenziale apologia, che è più di una accettazione e volge invece maggiormente verso un annullamento del sentimento di colpevolezza presente nell’animo umano. Queste pagine ci porteranno per gradi lungo la scoperta di un nuovo varco nel pensiero di Ricœur al termine del quale guarderemo con uno sguardo diverso alla presenza del male nell’uomo. Non saranno dimenticate naturalmente le caratterizzazioni della filosofia del nostro autore, la tradizione da cui il suo pensiero si è formato e le colonne portanti che hanno dato vita alla sua produzione; ed anzi proprio queste concatenazioni saranno le fondamenta sulle cui orme indicheremo il ruolo principale che il male umano avrà per loro. Nel primo capitolo verrà enunciata la formazione personale e professionale del nostro autore, gli incontri che lo segneranno e che daranno linfa alle sue future questioni. Sarà il capitolo nel quale verrà esposto il fruttuoso confronto con la fenomenologia e la psicoanalisi, quindi Edmund Husserl e Sigmund Freud. Paul Ricœur è il filosofo che porta avanti l’idea di una

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filosofia riflessiva, per questo non verrà mai meno per lui il bisogno di riscoprire il passato e la tradizione, riformularla quindi e sedimentarne gli insegnamenti nel futuro. Si faranno spazio nel primo capitolo le significazioni iniziali nelle quali è leggibile la tematica del male, un male come l’involontario, come l’inconscio; sarà ben presto evidente quanto questo non sia un impedimento, ma piuttosto la spinta verso la più piena autocoscienza. Verrà criticata l’onnipresenza del Cogito cartesiano che ha messo a tacere tutto ciò che nell’uomo non può essere definito unilateralmente, ciò che va al di là del razionale. L’uomo che avremo modo di mostrare è un uomo finito, intriso di involontario, di limiti, di pulsioni e di inconscio, le cui istanze non sono altro che la base sicura sulle quali l’umanità si salda. Un male che non è un male, un male apparente, il nostro negativo, la nostra finitezza, il nostro livello inconscio, niente che possa esistere senza di noi, e viceversa. Una ontologia sproporzionata, come lo è l’uomo, che viene inserito in una posizione mediana di difficile comprensione e accettazione, tanto da giungere, nello smarrimento, a sentirsi privo di un luogo di origine. Ma l’essere apolide dell’umano, è il suo andare oltre la soggettività ed il suo essere persona, (termine che riprende da Emmanuel Mounier, per lui maestro e amico) è il suo farsi spazio da una difficile ma naturale coesistenza tra la finitezza e la trascendenza, tra la razionalità e la pulsione, tra il conscio e l’inconscio; con la sostanziale consapevolezza che solo da questo connubio potrà mai avere luogo il sé di ognuno.

Eppure, a Ricœur l’aver sondato i limiti della fenomenologia, astraendo quindi dalle sue derive idealistiche e l’essersi confrontato con la psicoanalisi, non basta. Il nostro autore, per porsi maggiormente in ascolto della plurivocità del reale e della persona, deve allargare la sua trattazione verso nuove possibilità, che sono rese vitali dall’ermeneutica. Nel secondo capitolo infatti verrà edificata la fenomenologia ermeneutica, un’unione che mantiene dell’una l’idea di intenzionalità della coscienza e dell’altra invece è esaltata la funzione disvelatrice di senso e di significato, che altrimenti rimarrebbe nel reale solo in potenza. L’ermeneutica è la materia che ci permette di sciogliere la significatività dei simboli del reale, simboli che non si risolvono in un’interpretazione che si possa dire finale, ma che mantengono un sempiterno bacino di senso. Ricoeur avrà modo di confrontarsi in questo caso con gli autori che hanno dato vita alla funzione euristica dell’ermeneutica, tra tutti Martin Heidegger e Hans Georg Gadamer ed il dialogo con queste illustri personalità sarà ambivalente, a volte critico e altre volte debitore, ma sempre con l’intento di ridonare voce a chi prima di lui o insieme a lui ha reso la disciplina di cui si fa portavoce, grande. Verrà chiarito il ruolo dell’ermeneutica biblica che ci apre alla lettura della simbolica del male e che ci distoglie dall’idea di una vita custode della colpa, e che ci rende invece finalmente consapevoli di essere i portatori della

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libertà, mascherata da peccato. I simboli, la metafora ed i miti saranno gli strumenti per giungere ad evidenziare la polivalenza di senso che nell’uomo è connaturata. L’ambiguità dell’umano, il suo essere catalizzatore di differenze e della compresenza di poli estremi e di primo acchito inconciliabili, finisce di essere causa di timore, di paura e la persona comprende come ingiustificata la lotta contro il sé molteplice di cui è composto. L’uomo ricoeuriano è un

uomo capace di, che non si blocca alla sua inevitabile fallibilità e che non desidera aggirarla,

ma comprendendola riesce comunque a delineare se stesso come un uomo capace di volere, di essere e di fallire anche, un uomo capace di scegliere di acconsentire alla vita, conscio che in essa dovrà muoversi sempre su di un confine, mai completo e spesso estraneo a se stesso. Ma nell’acconsentire alla vita, l’uomo sceglie se stesso, rimuovendo dalle sue speranze l’ideale di perfezione che in definitiva lo priverebbe allo stesso tempo della sua umanità. Ecco di nuovo quindi formarsi un aspetto del male che è solo apparente: la dualità del sé, il suo essere un

idem, riconoscibile quindi nel mutare del tempo, ma il suo essere anche un ipse,

contraddistinto quindi dall’innata mutevolezza, dal suo essere come un altro, sempre pronto a trasformarsi in ciò che ora non è, perché la sua temporalità è una commistione di passato, presente e futuro, una temporalità che si fa nel racconto, perché è l’esistenza stessa che si forma nel racconto. Avremo infatti modo di chiarire come l’identità a cui Ricœur vuol far riferimento sia un’identità narrativa, che custodisce un tempo umano nel racconto, portatore di una mimesis creativa di senso che media dal confronto con Aristotele, che traduce in narrazione l’esistenza e la mima creativamente, ovvero presenta scenari possibili che altrimenti rimarrebbero muti. Ed è grazie a questi possibili che l’uomo riesce a ripensare a se stesso e ad estendere le sue facoltà di azione sul reale, sul suo presente e sul suo futuro, che lo rendono un uomo capace di.

Il terzo capitolo trarrà le fila del mio lavoro e giungerà a parlare dell’etica del riconoscimento, grazie anche al confronto con la dialettica hegeliana e con la chiamata della coscienza heideggeriana e al ruolo che in queste differenti concezioni riveste per la coscienza, l’altro. Il sé per Ricœur è come un altro, non lo fagocita in se stesso, ma esiste in quanto è sempre anche a contatto con il suo essere altro, con il suo divenire costantemente altro oltre a se stesso. L’altro quindi è il motivo dell’esistenza del sé. L’etica è un’etica in situazione che la congiunge ai precetti della morale, i quali altrimenti rimarrebbero avulsi dal contesto di riferimento e non sarebbero che la speculare attuazione di regole in maniera pedissequa e inconsistente, dove non rimarrebbe spazio per l’interpretazione. L’etica del riconoscimento ci mostra come riconoscerci altro, come essere coscienti di rappresentare per noi stessi sempre un altro potenziale, e quindi ci porta a rispettarlo e in questo modo a rispettare il nostro sé

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attuale, passato e futuro. L’altro è l’altra faccia del sé e per questo non viene lasciato nessun posto per la chiusura e il rigetto. Guardare a me stesso significa guardare sempre anche all’altro che io posso essere, proprio perché unione di un idem e di un ipse. L’altro non è il nemico, non è il male, il suo essere un ostacolo viene compreso come fittizio, perché piuttosto si ravvisa in una spinta, in una motivazione. Verrà inoltre indagata la teorizzazione di una differente idea di giustizia, a cui mira Ricœur, che non è una giustizia fondata sull’equità o su di un principio distributivo, quanto piuttosto su di un paradigma di ricostruzione. Ricostruire i legami, ricongiungere i ruoli sociali e non distribuire le pene su di una forma di equità puramente teorica e stantia. Sarà ripensata la possibilità di aver memoria ed in essa sarà evidenziata la presenza del ricordo, che fa da correttivo della storia e dell’oblio, il quale è la condizione di esistenza per il ricordo stesso. Ricordare infatti è trasmutare un evento che aveva fino a quel momento abitato l’oblio. Questo rende quindi evidente come sia sempre possibile percorrere la via che porta dalla coscienza all’inconscio e che l’accesso all’oblio non sia mai definitivamente chiuso e che proprio grazie a questo spiraglio il conscio riesca a mantenersi in vigore. Nella memoria dell’umano niente si cancella, ma è solo il negativo da cui il positivo può avere luogo.

E allora quindi perché volgersi verso la lettura di questo testo su Paul Ricœur, perché ripensare a questo autore? Perché il suo insegnamento non ha smesso per noi di avere valore e perché nella sua filosofia che inneggia alla vita e alla pratica, all’azione, all’uomo capace di, alla riscoperta del possibile, che deve essere mantenuto aperto ed incentivato; quello che inizialmente può sembrare un paradosso si dimostra invece traboccante di senso e l’unica via percorribile per giungere alla certificazione della persona e del suo sé dinamico: la via del negativo e la consapevolezza della sua presenza necessaria per la risemantizzazione del male umano e la sua apologia.

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Breviario

- A= P. Ricœur, L’attestazione, tra fenomenologia e ontologia, B. Bonanno (a cura di),

Biblioteca dell’immagine, Pordenone, 1993

- AG= P. Ricœur, Amore e giustizia, I. Bertoletti (a cura di), Morcelliana, Brescia, 2000 - CC= P. Ricœur, La critica e la convinzione, A colloquio con François Azouvi e Marc de

Launay, Jaca book, Milano, 1997

- CI= P. Ricœur, Il conflitto delle interpretazioni, Jaca book, Milano, 2007

- CL= P. Ricœur, Cinque lezioni dal linguaggio all’immagine, R. Messori (a cura di),

Centro internazionale studi di estetica, Palermo, 2002

- DC= P. Ricœur, Discours et communication, L’Herne, Parigi, 2015

- DI= Dell’interpretazione saggio su Freud, E. Renzi (trad. a cura di), Il saggiatore,

Milano, 1967

- Efb= P. Ricœur, Ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica, Paideia, Brescia, 1977 - EM= P. Ricœur, Etica e morale, D. Jervolino (a cura di), Morcelliana, 2007, Brescia - EP= P. Ricœur, A l’école de la phénoménologie, Libraire philosophique J. Vrin, Paris,

1986

- ES= P. Ricœur, L’ermeneutica del sublime, M. Cristaldi (intro. a cura di), La nuova

italia, Messina, 1972

- FCS= P. Ricœur, Filosofie critiche della storia, (L. M. Possati a cura di), Clueb,

Bologna, 2010

- FL= P. Ricœur, Filosofia e linguaggio, (D. Jervolino a cura di), Guerini e associati,

Milano, 1994

- FV1= P. Ricœur, Filosofia della volontà, vol. 1 il volontario e l’involontario, M. Bonato

(a cura di), Marietti, Genova, 1990

- FV2= P. Ricœur, Filosofia della volontà, vol. 2 Finitudine e colpa, V. Melchiorre (a

cura di), Il mulino, Bologna, 1970

- G1= P. Ricœur, Il giusto vol.1, D. Iannotta (a cura di), Effatà, Torino, 2005 - G2= P. Ricœur, Il giusto vol. 2, D. Iannotta (a cura di), Effatà, Torino, 2007 - IN=P. Ricœur, L’Identité narrative, in La narration, quand le récit devient

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- IU=P. Ricœur, Conferenze su ideologia e utopia, G. Grampa e C. Ferrari (a cura di),

Jaka Book, Milano, 1994

- JP= AAVV, La jeunesse d’une pensée, D. Frey (a cura di), Presses universitaires de

Strasbourg, Strasbourg, 2015

- Kfe= P. Ricœur, Kierkegaard, la filosofia e l’eccezione, I. Bertoletti (a cura di),

Morcelliana, Brescia, 1995

- L1=P. Ricœur, Lectures 1, autour du politique, Édition du Seuil, 1991

- L2= P. Ricœur, Lectures 2, la contrée des philosophes, Édition du Seuil, 1994 - L3=P. Ricœur, Lectures 3, aux frontières de l a philosophie, Éditions du Seuil, 1994 - LE=P. Ricœur, Logica ermeneutica?, in Aut Aut, La nuova Italia, Firenze, numero

217-218, 1987

- M=P. Ricœur, Il male, una sfida alla filosofia e alla teologia, I. Bertoletti (trad. a cura

di), Morcelliana, Brescia, 1993

- MSB=P. Ricœur, La memoria, la storia, l’oblio, D. Iannotta (a cura di), Cortina,

Milano, 2003

- MV=P. Ricœur, La metafora viva, G. Grampa (trad. a cura di), Jaka book, Milano, 1981 - P= P. Ricœur, La persona, I. Bertoletti (a cura di), Morcelliana, Brescia

- PA= P. Ricœur, Il pensiero dell’altro, F. Riva (a cura di), Lavoro, Roma, 2008

- PR=P. Ricœur, Percorsi del riconoscimento, F. Polidori (a cura di), Raffaello Cortina,

Milano, 2005

- PU= P. Ricœur, I. Drèze, J. Debelle, Progetto di università, Queriniana, Brescia

- QP=P. Ricœur, La questione del potere, A. Rosselli (trad. a cura di), R. De Benedetti

(introd. a cura di), Marco editore, Cosenza, 1991

- RDP=P. Ricœur, Ricordare, dimenticare, perdonare, R. Bodei (introd. a cura di), Il

Mulino, Bologna, 2004

- RF= P. Ricœur, Riflession fatta, autobiografia intellettuale, D. Iannotta (a cura di), Jaka

Book, Milano, 1998

- SC= AAVV, Saggi sulla creatività, G. Rossi (a cura di), Il pensiero scientifico, Roma,

1977

- SdA=P. Ricœur, La semantica dell’azione, A. Pieretti (a cura di), Jaka book, Milano,

1986

- SS= P. Ricœur, La sfida semiologica, M. Cristaldi (a cura di), Armando editore, Roma,

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- SV= P. Ricœur, Storia e verità, C. Marco e A. Rosselli (trad. a cura di), Marco editore,

Cosenza, 1994

- T= P. Ricœur, La traduzione, una sfida etica, D. Jervolino (a cura di), Morcelliana,

Brescia, 2001

- TA= P. Ricœur, Dal testo all’azione, G. Grampa (trad. a cura di), Jaka book, Milano,

1989

- TSE= P. Ricœur, Tra semiotica ed ermeneutica, F. Malsciami (a cura di), Meltemi,

Roma, 2002

- TR1=P. Ricœur, Tempo e racconto vol.1, G. Grampa (trad. a cura di), Jaka book,

Milano, 1986

- TR2=P. Ricœur, Tempo e racconto vol. 2, La configurazione del racconto di finzione, G.

Grampa (trad. a cura di), Jaka book, Milano, 1985

- TR3= P. Ricœur, Tempo e racconto vol. 3, Il tempo raccontato, G. Grampa (trad. a cura

di), Jaka book, Milano, 1988

- US= P. Ricœur, E. Blattchen, L’unico e il singolare, Servitium, Bergamo, 2000

- VdM = P. Ricœur, Proménade au fil d’un chemin, in F. Turoldo, Verità del metodo,

Indagini su Paul Ricœur, Il poligrafo, Padova, 2000

- VM=P. Ricœur, Vivo fino alla morte, D. Iannotta (introd. a cura di), Effatà, Torino,

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Capitolo primo

Paul Ricœur in dialogo con la fenomenologia e la psicoanalisi. Il primato dell’io voglio e l’avventura del cogito spezzato

In questo primo capitolo varranno esposti i tratti primari dell’opera dell’autore di cui ci occupiamo: Paul Ricœur. Nel percorso che ci porterà di fronte alle tematiche che rappresentano il motivo propulsore per l’inizio del suo pensiero filosofico, saranno toccati anche gli avvenimenti principali riguardanti la biografia di Ricœur. Sarà inoltre specificato il fine del mio lavoro coerentemente con gli sviluppi che saranno evidenziati all’interno della produzione filosofica del nostro autore. Verranno chiarite le radici del pensiero ricoeuriano, la tradizione a cui Ricœur si ispira ed il modo in cui la reinterpreta. Incontreremo in questo cammino quindi la fenomenologia e la psicoanalisi che rappresenteranno due poli indistricabili alla formazione della teoria dell’autore. Entreremo in contatto con le critiche all’idealismo fenomenologico e al Cogito integrale, per la strutturazione di un’ontologia della sproporzione fondata su di un soggetto che rimane legato a doppio filo al suo essere connesso sia alla trascendenza a cui tende che al limite finito di cui è protagonista in quanto uomo. L’individuo che ci mostra Ricœur è indiviso ma solo nella tensione del suo essere da venire, che si concretizzerà nella sempiterna possibilità dell’uomo capace di; il suo unicum è attratto da due lati che apparentemente si contrappongono, ma che, scopriremo, riescono ad essere il monito per l’uomo a divenire cosciente della sua natura doppia.

Avremo di fronte quindi un individuo indivisibile nell’ambivalenza, nella polisemia e che diviene per questo più propriamente una persona. I poli che fanno permanere in tensione la persona si identificano nella prima parte del mio lavoro, che segue il procedere dello sviluppo bibliografico dell’autore, nel binomio dell’involontario e del volontario, della finitudine e della trascendenza, del coscio e dell’inconscio. La traccia che evidenzieremo per la rilettura del lavoro ricoeuriano si ritrova all’interno del concetto di male, il quale, mostreremo, prevarica tutta l’opera dell’autore e come è stato detto nella prefazione finisce con il divenire matrice dello sviluppo dell’umano.

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1. Paul Ricœur. L’uomo e il filosofo tra debiti intellettuali e peculiarità teoriche

Paul Ricœur, è un filosofo francese nato agli inizi del 900’, che ha coniugato all’interno della sua opera l’approccio ermeneutico con quello fenomenologico, confrontandosi con la psicoanalisi, l’antropologia, la letteratura e consegnando ai posteri l’eredità di una teoria dell’identità narrativa che supera le dicotomie e lima i contrasti semantici e di metodo, per edificare la concezione di filosofia globale. Di seguito al nome dell’autore protagonista del mio lavoro è ingrato porre una singola definizione o una serie di epiteti per render conto dell’ampiezza del panorama dei suoi pensieri, poiché si tratta di un personaggio quanto mai poliedrico ed eclettico. Oltretutto, anche il suo stesso approccio filosofico è sistematicamente aperto e conciliante delle opposte vedute e teorie, di cui sempre ci parla prima di introdurre la sua interpretazione. Sarebbe andar contro la sua impostazione di pensiero, quindi, cercare di chiuderlo in categorie preconfezionate e asfissianti. Assumerò per questo il compito di mostrare le peculiarità della sua personalità di uomo e filosofo, senza aspirare a conformarlo in una definizione compiuta. Come vedremo la compiutezza è ciò che lui stesso vuol evitare, nella convinzione che non sia per il pensiero il traguardo auspicato, bensì la misera fine. Nell’affrontare i suoi scritti si rimane colpiti dalla capacità di illustrare al pubblico una grande complessità di temi; per questo possono essere formulate svariate letture dei suoi numerosi capolavori, i quali hanno il pregio di esporre argomenti con modalità e spunti sempre nuovi. L’impossibilità di concludere una claustrofobica codifica, rimane fedele ad una delle colonne portanti della sua filosofia, ovvero l’ermeneutica. Quello che verrà portato avanti in questo mio lavoro sarà per l’appunto un tentativo di trovare una ulteriore chiave di lettura e di riuscir a toccare una nuova corda nella sua produzione, delineando i contorni dell’opera di Ricœur. Nel far questo è proprio lo stesso Ricœur a dare a me che scrivo e a voi lettori la libertà di azione e di interpretazione ammettendo come anche la sua revisione di sé stesso derivi da una lettura posteriore delle sue opere, che lo hanno portato a formulare l’ipotesi di un filo conduttore sullo sfondo del quale i suoi testi possono essere analizzati.

“Io non giudico l’atto filosofico per il suo metodo o la sua struttura dottrinale, ma per la messa a punto di una propria problematica completamente inglobante e articolata. Questo modo di affrontare l’atto filosofico è per me talmente rigoroso che gli scritti a prima vista appaiono slegati; questo perché ogni testo si esprime su una singola questione: il volontario e l’involontario, la finitudine e il male, le implicazioni filosofiche della psicoanalisi, l’innovazione semantica e il lavoro all’interno della metafora viva, la struttura linguistica del racconto, la riflessione e i suoi stadi. Solo negli ultimi anni ho pensato di poter riordinare la

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varietà di queste prospettive sotto il titolo di una problematica dominante; che ho definito come l’uomo agente o l’uomo capace di” (VdM pag. 15 trad. mia). L’uomo capace di, l’uomo che agisce, che diventa consapevole di sé stesso e non è bloccato nella scelta e nell’azione. Un uomo che come vedremo pur conoscendo i suoi limiti e la sua stessa costituzione finita, in perenne ritardo e a volte avvilente, riesce ad acconsentire alla vita nell’azione, nel perpetuare il suo essere, nello schierarsi, nel decidere, nel perdono di sé stesso e degli altri e nella conseguente apologia del male scopertosi poi edificante e che non solo è nell’uomo ma che è l’uomo stesso. Una teoria che congiunge attività e passività e che mostra un’idea di uomo differente. L’autointerpretazione riportata qui tramite il riferimento alle parole dell’autore, sottolinea come sia solo una delle possibili letture della sua opera, pensata inoltre a posteriori. Riproporne una nuova con la necessaria attenzione e cura ai testi e alle sue indicazioni, non sarà quindi fare un torto all’autore, bensì ripercorrere le linee guida da lui stesso tracciate, dando voce alla sua teoria, evidenziando una nuova dotazione di senso e sfruttando una possibilità interpretativa ulteriore per creare o per meglio dire rivelare, un orizzonte di vita nascosto.

Mi riserverò la possibilità in questo primo capitolo di alternare alla trattazione della vita dell’autore e delle esperienze che più lo hanno segnato ed hanno influenzato per questo il suo pensiero, approfondimenti e riferimenti ai testi, perché sia così più evidente la contemporanea evoluzione del suo lavoro. Consapevole anche io dei limiti che mi si pongono di necessità nel ricostruire la vita dell’autore e con la consapevolezza di dover abbandonare temi che si toccheranno solo marginalmente per dedicarmi così a ciò che più ritengo significativo ai fini del mio ragionamento. Anche nell’ottica di non avere come obbiettivo la proposta di una biografia ma di un’interpretazione critica dell’autore. Tutto questo non può che essere un artificio, una trama modellata e un intrigo artefatto. Ma il valore edificante del racconto di finzione non potrà più esserci oscuro alla conclusione di questo lavoro. Quindi chiedo ai miei lettori un atto di fiducia che mi auguro di ripagare e che ora supporto con le parole dell’autore: “Una autobiografia è, innanzitutto, il racconto di una vita; come una qualsiasi opera narrativa, essa è selettiva e pertanto, inevitabilmente angolata. (…) Conscio di questi limiti ammetto di buon grado che la ricostruzione del mio sviluppo intellettuale, che sto per intraprendere, non è più autorevole rispetto a quella effettuata da un biografo diverso da me” (RF pagg. 21/22).

Paul Ricœur nasce il 27 febbraio del 1913 a Valence, nella Francia sud-orientale. La sua vita fin dai primi anni è purtroppo segnata dall’esperienza della morte. Come vedremo la tematica

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della morte sarà centrale per la messa a punto della critica a Heidegger e alla sua impostazione etica. La madre di Ricœur morirà poco dopo la sua nascita e il padre rimarrà vittima della prima guerra mondiale quando lui aveva appena due anni. Ben presto sarà perciò affidato alle cure dei nonni paterni con cui vivrà a Rennes, insieme alla sorella più piccola, la quale morirà anch’essa giovane per tubercolosi. Risaltano quindi fin da subito due concetti opposti che fanno la loro comparsa nella biografia dell’autore. La nascita e la morte. In uno dei suoi primi testi che avremo modo di inquadrare, Filosofia della volontà, vol. 1 il

volontario e l’involontario, ci parla del concetto di “nascita”, termine ripreso poi insieme a

quello di morte da Olivier Abel, che ha dato vita al Fondo Ricœur, e Jérôme Porée nel testo che descrive e chiarisce i termini ricorrenti nella filosofia ricoeuriana (Le vocabulaire de Paul

Ricœur).

La nascita si chiede il nostro autore se possa essere equiparata ad un cominciamento dell’esperienza, visto che pur essendo il primo attimo della vita non fa parte dei nostri ricordi e della nostra coscienza. “Come, in mancanza di un ricordo della mia nascita, suscitare il presentimento dell’inizio come limite all’interno stesso della coscienza?” (FV1 pag. 432). Diventa difficile vedere la nascita come ciò di cui ci si può appropriare come punto di inizio, come attestazione di un cominciamento, del mio stesso cominciamento, poiché deriva a noi in quanto donata dall’eredità incarnata nei genitori. Siamo noi a prenderne parte ma non per nostro volere, non c’è scelta nella nascita, non c’è libertà. Ma esiste un rapporto proficuo tra la nascita e la libertà, seppure l’una esista quando l’altra non c’è e viceversa. La nascita, questo limite necessario, ma impalpabile, anche se estremo cominciamento, ha in sé stessa i segni e le tracce pesanti e profonde del passato, (come ogni esperienza umana, dirà Ricœur), e non permette per questo alla libertà di ergersi sino alla facoltà creatrice. Non è la libertà a creare, ma viene essa stessa limitata sia dalla necessità della nascita, che ci è allo stesso tempo esterna e interna, sia dall’eredità del passato di ciò da cui si dipanano le nostre radici. Qui si nota il doppio senso della nascita: mi appartiene, ma non potrò mai sentirla davvero come mia. Come sapremo più avanti sono proprio tutti quei concetti doppi per significato, con un senso duplice o molteplice i più efficaci e proficui per la filosofia, che li scioglie e li lascia esprimere in ogni sfaccettatura grazie all’apporto ermeneutico. “Tale è, giustamente, il doppio senso della nascita: per lei la vita comincia; e per lei la vita è ricevuta. Per lei di conseguenza mi trovo generato da altri. Che si esprima nel linguaggio del dono o in quello della necessità – di una necessità che, del resto, non annulla la libertà, ma il peso del passato che la fonda e la

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dissuade dal porsi come una libertà creatrice”1

. Così si legge nel testo di Abel e Porée. È il nostro passato che ci lascia in eredità il limite positivo della nostra origine, la quale pur rimanendo alle nostre spalle è presente, ci indirizza e ci impedisce di aspirare all’onnipotenza, inserendoci in una rete di legami che ci contiene e che è esistita prima di noi e continuerà ad esistere senza di noi. Sono queste le tracce del passato su cui dobbiamo camminare ed è questa la prospettiva filosofica che chiameremo riflessiva. Vedremo più avanti la funzione del passato in relazione alla memoria e al racconto e parleremo dell’enigma della presenza del passato. La nascita è il vero assurdo, che l’uomo è chiamato ad accettare. Non tanto la morte ci caratterizza come uomini, ma la nascita, che nella sua presenza, porta con sé di necessità anche la morte. Se la libertà per essere deve riconoscersi non creatrice, allo stesso modo la volontà, che sarà il tema prescelto da Ricœur come principale nel suo primo testo Filosofia

della volontà vol. 1 Il volontario e l’involontario, si scoprirà incapace di creare. Si parlerà di

una volontà che comprendendosi reciproca dell’involontario saprà limitarsi, e limitandosi saprà mantenere la sua identità.

“L’esperienza del morire è come una parola che ho sulla punta della lingua: sono sul punto di scoprirla, e sempre essa mi sfugge; essa è per me al di là delle esperienze della sofferenza dell’invecchiamento, del sonno, dello svenimento, al di là anche di ogni eco in me della morte dell’altro, fosse anche la più preziosa metà della mia anima: è sempre la mia vita, la mia vita ferita ad offendere il mio sguardo. La morte dell’altro mi parla della mia morte, ma non per darmene l’esperienza anticipata, ma per ricordarmene la necessità empirica” (FV1 pag. 455). La morte resta sempre lontana ed estranea a noi, che abbiamo però in qualche modo l’obbligo di pensare alla sua incidenza nella vita per comprendere l’esigenza di vivere in modo onesto con noi stessi. La necessità della mia morte mi ammonisce richiamando alla mente il mio spazio di azione, che seppur finito, esiste, ed è in questo potere di agire, potere e coscienza di essere che dobbiamo riscoprire cosa significa essere uomini ed operare in continuità con le nostre potenzialità. Comprendersi come esseri finiti non significa arrendersi alla necessità della morte e predisporre ogni nostro progetto nell’ottica della sua fine, come avrebbe voluto Heidegger. Non si tratta tanto dell’esser coscienti di avere una fine, quanto dell’esser consapevoli di avere un inizio. È sull’inizio che si pone l’accento, sulla nascita. Ci rimane però, la scelta di acconsentire alla nascita, che in origine non abbiamo potuto volere. “Il compito di chi si interessa all’etica è di far apparire la scelta, cioè la responsabilità, là dove era il destino” (SC pag. 1). Si potrebbe dire che nel programma etico Ricœur si sia spinto più

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avanti di Heidegger, il quale non ha sostituito al destino, la scelta. ”L’esser-per-la-morte è l’anticipazione di un poter essere di quell’ente il cui modo di essere ha l’anticiparsi stesso. Nella scoperta anticipante di questo poter-essere, l’Esserci si apre a se stesso nei confronti della sua possibilità estrema. Ma progettarsi sul poter-essere più proprio significa: poter comprendere se stesso entro l’essere dell’ente così svelato: esistere. (…) La morte è la possibilità più propria dell’Esserci”2. Heidegger, parla dell’uomo come dell’Esserci che è l’essere-per-la-morte, come colui che vive e che progetta di sé stesso nel futuro con lo sguardo fisso verso la fine, verso la morte. L’uomo può vivere nella modalità inautentica che non struttura ogni atto nel rammentarsi il destino della morte e vivere quindi come se non fosse un uomo, nel disconoscimento della propria natura e in un grado di coscienza inferiore. Vivere invece come essere-per-la-morte, significa vivere nell’accettazione del proprio destino di essere finito e fare della morte il monito di ogni nostra azione, poiché la morte è per l’uomo la sua possibilità più autentica. Ricœur invece sostituisce come monito per la nostra vita al destino, alla morte; la nascita. Non si è uomini perché si è finiti e perché si è per la morte, ma si è per la nascita, per la vita. In Ricœur la scelta etica che l’uomo è chiamato a fare è marcata, e non si sviluppa nella pura accettazione di un destino che ci sovrasta. Anche se in Heidegger l’uomo sceglie di vivere nella modalità autentica, lo fa come essere-per-la-morte, come essere rivolto verso la morte, così che la vita diventa un passaggio ad essa. Per Ricœur invece, ciò che deve essere evidenziato è la vita e la scelta di vivere, nel dire sì alla nascita e acconsentendo ad essa, che ci ha portato nel mondo come uomini, e quindi non come esseri per la morte ma come esseri per la vita. Nell’acconsentire alla nascita si sceglie di essere quello che si è e si sceglie di dire di sì alla presa di coscienza del peso e del compito di divenire uomo. È alla nascita a cui dobbiamo dire di sì, alla nascita e alla vita quindi, che nel porci come esseri umani ci limita e ci circoscrive. Istituire la coscienza morale per l’uomo significa divenir consapevoli della inviolabilità della nascita, che segnando l’inizio segna anche la fine. Per Ricœur sarà fondamentale descrivere e scoprire quale siano le possibilità su cui la persona si apre nell’arco vitale e se sia possibile in questa porzione di tempo senza uscita, sviluppare quello slancio vitale, quello sforzo di vivere, tanto caro anche a Spinoza. La problematica su cui si sofferma Ricœur nell’ultima parte del primo volume di Filosofia

della volontà, testo fenomenologico uscito in Francia nel 1950, in cui ricerca la struttura del

volontario e dell’involontario e la loro essenza, mettendo tra parentesi con la riduzione

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M. Heidegger, Essere e tempo, P. Chiodi e F. Volpi (trad. a cura di), Longanesi, Milano, 2005, par. 53 pag. 314.

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fenomenologica la colpa e la trascendenza per poter accedere alle motivazioni ultime del nostro agire, è quella di porre un limite di partenza alla coscienza, vista non più come fondamento certo e indubitabile, ma di cui si ha la necessità di riappropriarci partendo dalla consapevolezza fenomenologica della sua intenzionalità. Ma per trovare questo limite dell’origine, si nota come l’esperienza della nascita non si inscrive nella memoria della vita, ma si pone prima e non gli fornisce aiuto in quanto si parla più di un’esperienza di un’assenza, di un vuoto, di una falla del ricordo. La memoria sarà uno dei temi principe dell’ultima parte del suo pensiero, ma è qui importante tenere presente come sia già inserito all’interno del primo tomo di Filosofia della volontà e sia un supporto per ricercare un punto di partenza per la coscienza. Si nota quindi come Ricœur sottolinei quanto la certezza della coscienza e la sua superpotenza siano ormai solo flatus voci. Le insidie della coscienza, tra cui ora vediamo appunto l’inconsapevolezza del suo punto di origine, mostrano come sia impossibile prenderla come punto di riferimento ultimo, per la certificazione della nostra vita. La coscienza non basta.

In queste prime righe si è venuti in contatto con temi e questioni che saranno le pietre miliari del pensiero ricoeuriano: il cogito, l’io, il consentimento, la libertà, la memoria, la morte, la possibilità, la coscienza, l’uomo capace di. Quello che si deve tenere presente su quanto abbiamo espresso è che non si ha modo di far esperienza della morte se non della morte altrui, che non si può avere ricordo o esperienza cosciente della nascita e che questo limite ci permette di circoscrivere l’orizzonte anteriore del cogito: la vita, a cui si deve però acconsentire. Acconsentire alla vita nell’azione, come già Ricœur ci ricordava. Per poter però dire di sì alla vita e a ciò che essa implica, si ha bisogno di percorrere un cammino che ci porterà a mettere alla prova le nostre possibilità, a limitarle e a comprenderle. La via che ho scelto all’interno dell’opera di Ricœur per percorrere il cammino verso il consenso alla vita porterà a indagare le modalità in cui si esplica il male umano. Capiremo come il male umano venga poi reinterpretato alla fine del lavoro ricoeuriano come la possibilità per l’uomo di comprendersi diviso seppur sempre ricollegato in un’unità identitaria e di perdonare se stesso come essere capace di agire male e di cambiare pur rimanendo lo stesso. Arriveremo a descrivere come grazie all’identità narrativa l’uomo ricolleghi ogni sfaccettatura di se stesso in una storia dotata di senso e in essa lasci spazio anche all’enigma del male, il quale non viene privato della sua enigmaticità, ma per divenire essenziale alla crescita umana ed interumana necessita solo che sia reintegrato nell’essenza naturale dell’uomo, anche se rimarrà non comprensibile fino in fondo.

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L’idea che Ricœur ha di filosofia è di un’analisi globale ed universale del sapere, in cui le materie differenti cooperano per il raggiungimento di uno scopo comune, ovvero la maggiore comprensione dell’esistenza umana e delle sue possibilità, l’autocomprensione della vita e dell’umano. Per questo nella sua opera non si farà scrupoli a confrontarsi con l’antropologia, la letteratura, la psicanalisi, il diritto. Anzi, farà riferimento ad un altro autore che prima di lui ha portato avanti la concezione onnicomprensiva e pura di pensiero filosofico: Kierkegaard. “Ognuno sente che Kierkegaard non è – o non è solo – il non filosofo. Kierkegaard ci imbarazza perché si trova, rispetto alla filosofia, al di dentro e al di fuori” (Kfe pag. 47). Ricœur dedica al filosofo danese vari saggi in cui sottolineerà come la sua idea per cui la filosofia e la vita sono strette in un rapporto di reciproca esegesi e codifica, non sia da considerarsi una eccezione, bensì la reale natura ed ispirazione di ogni filosofia. Connubio primordiale quello di filosofia e vita; dalla vita la filosofia trae le sue fonti e con andamento circolare e riflessivo torna alla vita con gli strumenti per comprenderla ed inscrivere il nostro apporto personale in questa rigogliosa avventura universale. Questa è la filosofia dell’esistenza per Ricœur, un ritorno consapevole alla vita, un ritorno in cui a farci da bussola è la libertà, che ci ha permesso di allontanarci da noi stessi con l’intento di farvi ritorno per poter in quel modo abbracciare la totalità del sé, che abbiamo toccato e capito. Una libertà mossa come dicevamo dalla vita, che la fa esistere grazie al dono della nascita, ma che alla vita deve restituire un nuovo dono, quello della coscienza, non più dell’io, ma del sé. La filosofia deve tornare alla vita. “La vocazione della filosofia è quella di chiarire attraverso nozioni l’esistenza umana” (FV1 pag. 20).

“Ma cosa significa per il filosofo continuare il compito con gli occhi fissi sull’eccezione? Io penso che si deve innanzitutto riscoprire la relazione intima di tutto il pensiero filosofico, di tutto il lavoro filosofico, insieme alla non filosofia. L’eccezione Kierkegaard, il genio retorico religioso, il martire dandy non è un caso unico. La filosofia ha sempre a che vedere con la non filosofia, perché la filosofia non ha un oggetto proprio. Essa riflette sull’esperienza, su tutta l’esperienza, sulla totalità dell’esperienza: scientifica, etica, estetica, religiosa. La filosofia ha le sue fonti fuori di sé. Dico le sue fonti, non il punto di partenza. La filosofia è responsabile del suo punto di partenza, del suo metodo, del suo compimento. La filosofia cerca il suo punto di partenza e va verso il suo punto di partenza (…). [qui si legge il riferimento sottinteso alla

sua filosofia della riflessione, che si riappropria dei punti di partenza dopo essersi persa e dopo aver fatto perdere la coscienza nel viaggio dell’autocomprensione solo per potersi poi ritrovare modificata e rinnovata]. La filosofia ha il suo punto di partenza davanti a sé. Ma se

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essa cerca il proprio punto di partenza, essa riceve le sue fonti” (L2 pag. 34 trad. e corsivo miei).

La filosofia non comincia mai da zero, non è mai avulsa dal mondo, dalla vita e ha le sue radici nell’attività creatrice di senso della vita stessa e dell’esperienza umana. “La filosofia è pensiero già presupposto. Il primo compito per lei non è quello di cominciare, ma, nel mezzo della parola, di ricordarsi: ricordarsi per poter cominciare” (FV2 pag. 625). Far filosofia significa ricordare l’origine al di là delle derive della modernità, che ha perso il contatto con il sacro. La filosofia è possibile solo a contatto con le fonti esterne che sono nell’azione dell’uomo, nelle sue attività e possibilità. L’autore ci illustra questo rapporto rivelatore di senso che ha la filosofia con la vita attraverso il riferimento ad un’opera pittorica, di Rembrandt: Aristotele che contempla il busto di Omero. Sottolinea che in questa rappresentazione Aristotele non solo guarda e cerca quindi ispirazione nella poesia impersonificata qui da Omero, ma tocca il suo busto enfatizzando in tal modo il legame indispensabile tra le due dottrine. Lo sguardo di Aristotele, che veste in abiti moderni per sottolineare come la filosofia sia sempre viva, nuova, attuale e debba continuare ad esserlo per non venir meno alla sua attitudine interpretativa e disvelatrice; è rivolto altrove a significare come le sue fonti siano sì quelle della poesia, ma che il punto di arrivo sia in altro, sia in tutto ciò che è vita e per questo è difficoltoso racchiuderlo in un approdo singolo, proprio perché nell’opera di esegesi si assiste ad una presa di coscienza della sovrabbondanza di senso del reale.

Questo senso si dischiude e si moltiplica grazie al metodo ermeneutico della filosofia, che ne riconosce i simboli e li scopre, perché a tutti siano visibili. E non per questo li demolisce una volta letti, una volta disvelati, perché è nella loro essenza permanente la naturale complessità semantica, che ad ogni voce filosofica suona diversamente. La filosofia critica e riflessiva porta le sue fonti ad aprirsi, a rivelarsi, a donare la loro capacità di senso all’uomo, che è chiamato ad interpretare i simboli che ravvede nella sua esperienza, per divenire capace di rivolgere il pensiero in un altrove carico di significato. È chiara qui l’estensione semantica del termine poesia. “Estendo il termine poetico al di là dell’accezione della rima e del ritmo, al senso di produzione di senso. Ciò significa che occorre avere innanzitutto una energia creatrice di innovazione, perché si abbia poi un discorso di secondo livello. Non pongo la filosofia al posto del poetico: essa è riflessiva. È sempre un lavoro di secondo grado, del resto, non soltanto sulla poesia, ma anche sul linguaggio ordinario, su quello delle scienze, della psicoanalisi e del discorso poetico” (US pag. 51). L’energia creatrice di innovazione è propria

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della vita, perché ricolma di simboli, che celano eventi diversi e infiniti. La traboccante significatività del reale è dispersa negli specifici avvenimenti, ma questo è tutt’altro che un ammutinamento per la vita e per l’uomo, è piuttosto la cifra imprescindibile allo scoperchiamento del mondo, allora non più muto.

Ma riprendiamo i tratti biografici dell’autore. Ricœur ricevette dai nonni una educazione rigida e a contatto con la religione protestante. Come vedremo infatti, la sua ricerca sarà da subito orientata dal desiderio di coniugare due modalità di esistenza e di ragionamento profondamente differenti, quella religiosa e quella intellettuale e poi filosofica. Il suo sguardo sarà sempre rivolto verso la possibilità di conciliare le due visioni e di inserire nel suo pensiero l’analisi del trascendente. “Ho appena detto ciò che ha nutrito e insieme aguzzato la mia curiosità fino alle soglie della classe di filosofia. Quanto all’inquietudine tendo oggi a connetterla con quella sorta di concorrenza che la mia educazione protestante e la mia formazione intellettuale si facevano in me. (…) Più profonda, più forte rispetto al sentimento di colpa, era la convinzione che la parola dell’uomo fosse preceduta dalla Parola di Dio” (RF pag. 24).

Questa reverenza che l’uomo deve a Dio e alla sua parola, si farà spazio nel pensiero del nostro autore, che non scriverà mai però un testo dedicato direttamente a Dio: anche il terzo testo della trilogia di Filosofia della volontà, che doveva parlare della poetica del trascendente, rimarrà solo un progetto inedito. Scriverà però sull’esegesi biblica e non mancherà di avvalorare i suoi studi con esempi di stampo religioso, prova ne sia la sua descrizione del male nella storia dell’uomo, che fa appiglio sui paradigmi della religione cristiana del peccato originario adamitico. Naturalmente non potevamo aspettarci niente di differente da un filosofo che ha come orizzonte quello della filosofia come discorso globale ed unificante sulla vita e l’esperienza dell’uomo. Non poteva essere per lui adeguato tralasciare un campo d’indagine così controverso, universale e stimolante per la filosofia, nonché presente fin dall’infanzia nella sua vita personale, come quello della religione. Dello stesso parere è anche Gilbert Vincent, filosofo studioso di ermeneutica e critico di Ricœur. “L’originalità dell’impresa filosofica di Paul Ricœur, a questo proposito, è d’interrogare i pregiudizi che sottostanno alla rappresentazione in vista di costruire un nuovo spazio di incontro per una ragione divenuta più modesta e per una religione divenuta più critica nei confronti delle sue affermazioni e metodologie. (…) La filosofia in quanto discorso autonomo, ma con l’obbiettivo di comprendere la totalità dell’esperienza umana, non può decidere di escludere la religione dal suo campo d’investigazione, senza pregiudicare il suo

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senso- o piuttosto, in questo caso, del suo non-senso”3. Escludere dalla ricerca filosofica il confronto con la religione e l’idea del trascendente sarebbe stato come pregiudicarne il senso appunto. Ricœur nel susseguirsi del suo lavoro filosofico si avvale come sarà esplicitato dell’apporto ermeneutico e nel far questo applica poi l’ermeneutica ai soggetti che il suo interesse di studioso poliedrico privilegia, come Dio e il racconto biblico che ne riporta le testimonianze. Ci dirà infatti che nel guardare i testi religiosi sotto la lente di ingrandimento dell’ermeneutica biblica si scopre come il suo rapporto con l’ermeneutica filosofica veda quest’ultima diventare il suo strumento, un arto di cui solo l’ermeneutica teologica diventata studio dei testi biblici è il motore propulsore. “Un rapporto del tutto opposto tra le due ermeneutiche appare invece proprio quando si considera l’ermeneutica teologica applicata ad un certo tipo di testi, quelli biblici: essa rivela caratteri così originali da provocare un progressivo capovolgimento di relazione, tanto che l’ermeneutica filosofica resta subordinata all’ermeneutica teologica e ne diventa organon” (Efb pagg. 79/80).

Si riferisce qui a Gerhard von Rad, pastore luterano e professore universitario che scrive

Teologia dell’Antico Testamento; proprio in questo testo, secondo il nostro autore, si rende

chiara l’idea per cui esiste un legame necessario tra dimensione narrativa e dimensione cherigmatica. La teologia e nello specifico la teologia ebraica si confà alla struttura del racconto, e fa decadere la contrapposizione tra sincronia e diacronia. Già all’interno del

Conflitto delle interpretazioni Ricœur era ricorso alla citazione di von Rad, nel momento in

cui trattava del rapporto tra ermeneutica e strutturalismo. Nel dar prova di come l’esito strutturalista se reinterpretato riesca a dare un apporto benefico all’ermeneutica e se ridimensionato nella pretesa di assolutismo, fa appello all’ermeneutica biblica, la quale supera la necessità diacronica del tempo e del racconto nel suo messaggio cherigmatico. Come Ricœur stesso ammette, il punto di arrivo nel rapporto tra filosofia e religione non sarà tanto una alleanza, quanto piuttosto un armistizio (RF pag. 25). Un armistizio che vedrà nel linguaggio l’elemento in comune tra le due discipline, in quanto il testo biblico si riconosce nella manifestazione del linguaggio sotto forma di discorso scritto. Grazie alla chiave linguistica le opere filosofiche e religiose sono lette come modalità di comprensione e di costruzione dell’identità dell’uomo.

Al liceo Ricœur conosce e viene colpito dalla filosofia grazie al suo professore, Ronald Dalbiez, studioso neotomista e critico dell’idealismo. Niente ci dice sarà paragonabile all’interesse che suscitò in lui lo studio della filosofia, che eclissò presto le altre discipline e

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gli altri spunti intellettuali, per poi come abbiamo visto inglobarli in sé. Al suo professore deve molto, come l’avversione per la fiducia smisurata e sproporzionata nell’attualità della coscienza e il precetto, ripetutogli durante le lezioni, di arrivare fino in fondo a ciò che irrita il ragionamento nello sforzo di comprensione, senza averne timore. Proprio per questo dedicò la sua tesi di laurea, Le problème de Dieu chez Lachelier et Lagneau, nell’anno accademico 1933-1934 alla tematica della filosofia riflessiva francese a confronto con gli autori Lachelier e Lagneau. Nel testo si dice convinto che la coscienza sia il fine della ricerca filosofica, e non il punto di partenza incontrovertibile, andando contro l’onnipresenza del cogito cartesiano e dell’”io penso” di Kant. Anche in questo suo scritto è forte la volontà di ricercare una comunione tra fede e ragione, parlando di filosofi che hanno dato un ruolo nel loro pensiero a Dio. Nel 1933 divenne professore di liceo a Saint-Briec. Oltre che abile pensatore e fine filosofo, Ricœur è stato per i suoi allievi un punto di riferimento ed ha riscosso successo e consenso come insegnante. “Avevo due o tre anni più di loro [dei suoi allievi a Saint-Breic]. Fu per me decisivo il fatto di essere gettato tanto presto nell’insegnamento, e questa resterà una costante: il mio lavoro in filosofia è stato sempre legato all’insegnamento. Era necessario che io inquadrassi la mia riflessione personale - nella misura in cui ne avevo già una- in modo da renderla compatibile con un contenuto di insegnamento” (CC pag. 29). Nei due anni successivi conosce e viene colpito dalla fenomenologia husserliana, la quale rimarrà sempre un suo punto di riferimento, anche se scevra della sua deriva idealistica. La fenomenologia è la scienza che intuisce le essenze del reale. La realtà si dà alla coscienza ma è la coscienza e quindi il soggetto a dare senso al reale e alle cose che si aprono alla sua interpretazione, ma da cui la coscienza è inoltre intenzionata e senza le quali non potrebbe esistere. Ricœur terrà fede a questa impostazione fenomenologica, per cui il soggetto è posto al centro della ricerca, ed è il punto di partenza per costruire una comprensione del mondo, ma tenderà a far prevalere l’intenzionalità della coscienza che viene modellata da ciò di cui è il contenente, piuttosto che l’idea secondo cui è la coscienza a creare lo spazio di esistenza per le cose del mondo.

Per Ricœur quindi ciò a cui bisogna dare importanza però non è tanto la priorità della coscienza sulle cose, ma il suo essere intenzionata da esse, l’impossibilità per la coscienza di esistere senza un contenuto. “Definita dalla intenzionalità, la coscienza si rivela innanzitutto come rivolta all’esterno, dunque gettata fuori di sé, meglio definita dagli oggetti che essa intenziona piuttosto che dalla coscienza di intenzionarli” (RF pag. 28). La coscienza è rivolta a ciò che essa non è, si esprime ed opera perché piena di altro da sé, piena di ciò che non le è proprio e di cui si impossessa, donando loro senso. Ma senza questo basamento straniero, che ancora deve essere compreso e conosciuto, senza le cose che intenziona, l’attività della

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coscienza non si svilupperebbe. Senza ciò che non è, anche la coscienza perderebbe la ragione di esistere. È la coscienza a tratte una maggiore consapevolezza, un grado si autocomprensione più elevato proprio dagli oggetti di cui si fa custode.

Insieme all’incontro con la teoria di Husserl deve essere ricordata la nascita dell’amicizia con Gabriel Marcel, legame profondo che durò fino alla morte di Marcel nel 1973. Ricœur ne parla con grande affetto e dice che è stato proprio questo intellettuale a farlo sentire libero, nell’esprimersi, nel filosofare. Il nostro autore ha preso parte ai venerdì filosofici da Marcel organizzati e all’insegnamento socratico dell’amico più che maestro, traendo da egli l’attenzione verso l’esistenza nell’esperienza del corpo e delle sensazioni e la critica alla concezione idealistica della filosofia che antepone il cogito ad ogni esperienza umana e cerca di ridurre il vasto campo delle attività e vissuti dell’uomo all’azione del cogito. “Gabriel Marcel? Si mi recavo da lui ogni venerdì; il suo insegnamento socratico mi ha aiutato molto. Egli imponeva una sola regola: non citare mai gli autori, partire sempre da esempi e riflettere da sé stessi. Nel leggere due suoi articoli ebbi l’occasione, quello stesso anno, di scoprire Karl Jaspers. Inoltre, in quel periodo cominciai anche a leggere le Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica di Husserl in una traduzione inglese” (CC pag. 30). Ma riguardo al suo debito intellettuale nei confronti di Marcel è lui stesso a parlarci, dicendo che grazie a lui ha dischiuso i suoi interessi al soggetto, come soggetto incarnato, che si ritrova portatore di un corpo di cui è padrone solo in parte, dal quale trae desideri e tensioni che inevitabilmente lo orientano, spesso portandolo in contrasto con ciò che il cogito, che non è più il cogito con la c maiuscola di Cartesio o dell’idealismo, vuole. Si forma qui in germe ciò che diventerà poi la sua visione di cogito spezzato, ferito, mutilato. Una mutilazione ad opera del corpo, che diverrà però l’unica possibilità per l’uomo di scoprirsi cosciente di sé stesso e di capire come questa mutilazione faccia permanere nei suoi arti la funzionalità e la capacità di azione e che anzi le potenzi. “Il cogito comprende una certa esperienza del corpo che compare due volte, una volta dal lato del soggetto e una volta dal lato dell’oggetto. Da una parte, il mio corpo-mosso-da-me è inglobato in quanto organo nell’esperienza indivisibile volere-muovere; la docilità e la resistenza del mio corpo fanno parte dell’esperienza del mio volere come forza dispiegata; l’‘io voglio’ si dispiega efficacemente in movimento vissuto. Il cogito è l’intuizione stessa dell’anima congiunta al corpo, ora subendo il fatto del corpo, ora regnando su di lui” (FV1 pag. 214). Nel cogito rientra la persona come razionalità incarnata e quindi piena di involontario, che si esprime nel corpo, nelle passioni. L’anima è così riunita al corpo.

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Nel 1935 sposa Simone Lejas conosciuta all’interno dei movimenti giovanili protestanti e sempre nello stesso anno vince una borsa di studio e frequenta la Sorbona. Importante è la sua attività di militanza nella sinistra socialista e pacifista seguendo André Philip che si ispirava a sua volta a Karl Barth. Nel 1939 venne arruolato e combatté nella seconda guerra mondiale, fino a quando nel 1940 venne fatto prigioniero a Marna, dove anche il padre morì quasi trent’anni prima. Passò i cinque anni successivi in un campo di lavoro in Pomerania. Periodo per lui fertile quello della prigionia, dal punto di vista affettivo ed intellettuale. È qui infatti che conobbe Mikel Dufrenne, con il quale scriverà al ritorno dalla guerra nel 1947 il testo dedicato a Karl Jaspers: Karl Jaspers et la philosophie de l’existence. Proprio grazie a Jaspers, filosofo e psichiatra, Ricœur riscoprirà la possibilità del confronto con la psicoanalisi di Freud e imposterà la sua visione filosofica verso la maggiore e più chiara comprensione dell’esistenza umana. Ricordiamo come ad esempio Jaspers nella sua teoria tratti del contributo fondamentale alla vita delle situazioni-limite, come la morte o il dolore per il raggiungimento della piena autocoscienza. Ricœur ci invita anzi a leggere Jaspers dopo Heidegger proprio per il ruolo che il primo attribuisce all’esistenza individuale, che in Heidegger viene sacrificata in virtù della prospettiva assoluta e trascendente, seppur solo agognata. Ricœur scrive infatti parlando della filosofia heideggeriana per confrontarla poi con l’apporto di Jaspers: “A che cosa può aspirare, in fin dei conti, una filosofia che non si confronta con la decisione morale e il giudizio politico? Una filosofia dove, dirà la traduttrice di Jaspers in un testo di cui sono impaziente di parlare, si individua ‘il dono della deriva metafisica, ma senza l’impegno esistenziale corrispondente?’ Una simile domanda può portare a rimettere in discussione quello che prima sembrò essere il giudizio della storia e invita a rileggere Jaspers dopo Heidegger” (L1 pagg. 156/157 trad. mia).

Sempre all’interno del campo di lavoro durante la guerra tradusse dal tedesco al francese le

Ideen I di Husserl, scrivendo ai margini della sua copia, non possedendo risorse migliori. È

interessante far cenno al racconto di Ricœur su come entrasse cultura, novità e quindi vita, sotto forma di testi anche all’interno dei campi di lavoro in guerra. Ricœur ne portò con sé due, uno di Valéry ed uno di Claudel, ma c’erano altri modi per avere accesso ai testi, che permettevano ai prigionieri di non perdere definitivamente i contatti con l’esterno e lasciar spazio alla normalità seppur in guerra. Ad esempio grazie all’aiuto di comandanti meno intransigenti, riuscirono a leggere testi della biblioteca universitaria4.

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Al suo rientro in patria dopo essere stato liberato dai canadesi, la sua notorietà di studioso e filosofo in Francia stava aumentando e grazie anche alla sua precedentemente citata pubblicazione a quattro mani, fu nominato nel 1948 professore all’università di Strasburgo fino al 1957, dopo essere stato professore di liceo al Collège Cenevol dal 1945. Ricœur parla dei suoi anni come professore all’università di Strasburgo come i più felici della sua vita, sia familiare che universitaria. In questo periodo porterà inoltre a termine la stesura dei due tomi di Filosofia della volontà. Si è detto come per Ricœur fosse importante l’ambiente universitario e la sua attività di professore. Infatti nel testo Progetto di università, parla della possibilità che l’idea di Università non sia più attuale e cita così Jaspers. “Anzitutto il postulato che Jaspers enuncia in questi termini: È un diritto dell’umanità, in quanto umanità,

che la ricerca della verità venga perseguita senza costrizione. Poi partendo da tale postulato,

la deduzione del fine dell’Università: Scopo dell’Università è quello di ricercare la verità in

comune, da parte dei ricercatori e degli studenti. Queste due tesi definiscono, insieme, il

fondo liberale di ogni università; l’una non può reggersi senza l’altra, se la prima cede, la seconda vien meno; se la seconda non si realizza, la prima è destinata a rimanere un pio desiderio per la mancanza di un luogo in cui la ricerca della verità possa continuare senza costrizioni; in breve, se non si riesce a cogliere il nesso originario tra verità, umanità, ricerca libera, sfuma anche l’idea dell’Università” (PU pag. 14). Se l’università esiste come luogo in cui ricercare la verità senza costrizioni, luogo in cui dare spazio e credito alla speculazione intellettuale e questo è un diritto dell’umanità stessa, e probabilmente parlando di crisi dell’università, a monte si ha una crisi dell’umanità intera, che non si riconosce più in questo valore di critica e di libertà.

Questa riflessione dell’autore ci fa ancora di più comprendere come sia fondamentale per lui l’impegno etico nell’insegnamento e all’interno della proposta universitaria, sentita appunto come diritto universale, ma che spesso finisce per essere privilegio per pochi, i quali oltretutto non onorano il motivo originario per cui si fa ricerca e si studia nell’ambito scolastico e universitario. Il valore della libertà e della ricerca scevra da pregiudizi e conformismi, viene fatto cadere, manca di vigore e luminosità. Se non ci si riappropria di questi principi, l’istituzione educativa mancherà dell’esigenza di perpetuare nel tempo la sua opera e scomparirà. Libera ricerca fatta poi in comune tra studenti e professori, comunione che però latitando ha portato l’insieme degli studenti a muoversi in sommossa, ad entrare in conflitto con i docenti. Il testo da cui ho ripreso un passo, è stato scritto proprio successivamente alle sommosse studentesche degli anni sessanta, che hanno toccato Ricœur in prima persona, dal momento in cui nel 1964 accettò la nomina di professore all’università di Nanterre, in cui

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divenne decano per la facoltà di lettere e scienze umane proprio durante il periodo di rivolta studentesca, di cui ci lascia un ricordo scansionato da episodi di molestie e scerno. Abbandonerà infatti la sua carica nel 1970, due anni dopo aver pubblicato le considerazioni delle quali ho dato un assaggio. Nel ripensare a quanto accaduto, l’autore rivede sé stesso spinto da un ideale di democrazia non violenta in cui vorrebbe far convergere il rapporto asimmetrico tra docenti e allievi insieme a quello di reciprocità e di scambio. Nel mettere insieme queste due tendenze, si rammenta della necessità di uno scacco di colui che ha in mano il potere, il quale non avrà mai modo di porsi in completo parallelismo verso chi con gradi differenti controlla. La sua prospettiva si è rivelata un’utopia, ma non per questo priva di aspetti positivi. “È stato, tuttavia, un grande apprendistato, quello di aver tentato una strada siffatta e di aver fallito. Cercando di comprendere le ragioni del mio scacco, precisando l’anatomia dell’istituzione, ho preso, in modo migliore, coscienza della quadratura del cerchio propria del politico: il sogno impossibile di combinare il gerarchico con il conviviale; è questo, per me, il labirinto del politico” (CC pag. 70).

Un’altra figura di spicco all’interno delle amicizie illustri di Ricœur è senz’altro l’esistenzialista Emmanuel Mounier. Dopo la guerra Ricœur entra in contatto con Mounier e collabora con la rivista l’Esprit da lui fondata. La collaborazione troverà purtroppo il termine nel 1950, alla morte di Mounier. Con l’amico sente una vicinanza di idee, anche lui infatti era un filosofo esistenzialista, che si ispirava a Jaspers e a Sartre. Da Mounier eredita un termine che sarà al centro della sua filosofia, quello di persona. La persona opposta alla concezione restrittiva dell’individuo, del soggetto, il quale nell’egoismo della sua autoposizione perdeva la pluralità delle sfere di influenza e di azione. Parlare di persona ci permette di non cedere alla tentazione dell’oggettivazione, e di andare oltre la riduzione dell’uomo all’io, nel quale non rientra l’istanza dell’inconscio, di cui presto Ricœur ci darà conto nel raffrontarsi con Freud. All’interno della persona rimane spazio per la negatività e l’altro, senza voler elevare l’umano ad uno sterile contenuto di coscienza. Mounier parlava di personalismo, e Ricœur ne decreta il termine, auspicando però ad un ritorno alla persona. Non c’è più posto per una rivoluzione del personalismo contro quella che fu la rivoluzione russa e quella invece del regime nazista. Il volgersi contro l’ideologia borghese, che ha dato l’impulso propulsore sia a comunismo che nazismo, non è più attuale. “Mi soffermo innanzitutto sul: muore il

personalismo, dando a questa formula all’indicativo il semplice valore di registrazione di un

fatto culturale. In generale deploro la scelta infelice, da parte del fondatore del movimento Esprit, di un termine in -ismo, messo per di più in competizione con altri -ismi che ci appaiono ormai, oggi, come semplici fantasmi concettuali” (P pag. 21).

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