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In search of a new genre: Ernest Hemingway, George Orwell e il giornalismo letterario

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Academic year: 2021

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INDICE

Premessa pag. 1 Introduzione pag. 2 Capitolo 1 pag. 17 Capitolo 2 pag. 72 Conclusioni pag. 117 Bibliografia pag. 120

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Premessa

In questo mio lavoro ho scelto di trattare un esempio di genere ibrido che, in questi anni, si è ritagliato un ruolo importante nel panorama della scrittura internazionale, ovvero il giornalismo letterario (literary journalism).

Il principale fattore che mi ha spinto a compiere questa scelta è la mia grande passione per il giornalismo: da sempre, infatti, uno dei miei sogni è quello di diventare un giornalista e questo elaborato mi ha permesso di cominciare a comprendere meglio le regole e le tecniche che stanno alla base di una disciplina per me così affascinante. Naturalmente anche la letteratura ha sempre attirato il mio interesse; dunque, questo argomento mi ha consentito di esplorare entrambi i campi, analizzando analogie e differenze ma soprattutto appuntando l’attenzione sulle zone di convergenza. Dopo l’introduzione, in cui si parla della nascita e dello sviluppo del literary journalism, l’attenzione si focalizza su due delle figure più significative non solo della letteratura ma anche del giornalismo letterario: Ernest Hemingway e George Orwell. Ho scelto questi due autori per vari motivi, in primo luogo per comprendere con esattezza il loro ruolo di scrittori-giornalisti e giornalisti-scrittori: Hemingway e Orwell sono famosi per il loro straordinario talento letterario, ma non minore è la loro abilità giornalistica per cui mi sono da subito sembrati paradigmi ideali per la presentazione del giornalismo letterario.

Inoltre, il fatto che appartengano a due tradizioni diverse, seppur contigue, quella americana e quella britannica, offre la possibilità di mettere in parallelo le loro esperienze, accomunate tra l’altro dalla partecipazione di entrambi alla guerra civile spagnola.

Hemingway e Orwell rappresentano senza ombra di dubbio le figure più rappresentative del

literary journalism novecentesco, due modelli di riferimento per chiunque voglia cimentarsi nella

non facilissima impresa di fondere due discipline le quali, all’apparenza, sembrano molto diverse tra loro – da un lato il giornalismo, basato sull’aderenza ai fatti e sul principio di oggettività, dall’altro la letteratura che è, per antonomasia, il regno dell’immaginazione e dell’invenzione ma che, a ben vedere, possono unirsi dando vita a opere di grande suggestione.

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Introduzione

In questa introduzione analizzerò il fenomeno del giornalismo letterario, cercando di darne una definizione che sia il più precisa e coerente possibile e lo farò dapprima tracciando le coordinate storiche e geografiche della sua nascita e del suo sviluppo e successivamente mettendolo a confronto con il suo naturale alter ego, ovvero il giornalismo tradizionale, per comprendere dove si trovi il sottile confine che separa i due generi.

Cominciamo il nostro viaggio con il dire che fornire una definizione di giornalismo letterario è impresa molto più ardua di quanto si potrebbe pensare. Infatti, esso è per alcuni soltanto una tecnica narrativa, mentre per altri è un vero e proprio genere a sé stante ed è difficilissimo capire chi abbia effettivamente ragione. Ciò che è certo è che la definizione di giornalismo letterario risulta essere talmente labile, ma allo stesso tempo potenzialmente così ampia, da rischiare di divenire priva di significato, come spiega lo studioso Thomas Connery: “I very much believe that literary journalism

is a big umbrella with room under it for many approaches, styles and types, which implies a rather broad definition”1.

Il giornalismo letterario (definito anche con l’espressione “New Journalism” ovvero nuovo giornalismo) è un movimento letterario nato nella seconda metà del Novecento ed in particolare a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Nonostante la sua nascita sia abbastanza recente, si è subito fatto notare per la sua grande intensità e ha finito per influenzare in modo molto sostanzioso il panorama del giornalismo e della letteratura tradizionali.

Il giornalismo letterario è nato negli Stati Uniti, concentrandosi soprattutto nello stato di New York e in California, ma ha poi finito per diffondersi in tutto il mondo, convincendo molti letterati a tentare di scrivere un romanzo che appartenesse a questo genere e altrettanti giornalisti a cimentarsi nel tentativo di creare una propria opera letteraria. Visto e considerato che è in quella nazione che il genere ha visto la luce, non è un caso che sia proprio negli Stati Uniti che ha sede la IALJS, la

International Association for Literary Journalism Studies, un’associazione multidisciplinare che ha

come obbiettivo la diffusione e l’incoraggiamento del giornalismo letterario. Questa associazione è nata da un’idea di John S. Bak ed è attualmente presieduta da Norman Sims, docente della materia

1Thomas Connery, Review of Susan Greenberg & Julie Wheelwright (eds), Literary Journalism: Ethics in Three

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nell’università del Massachussets; la sua diffusione in Europa deve molto agli sforzi profusi dalla portoghese Isabel Soares, dell’Università di scienze sociali di Lisbona.

Per definire il fenomeno del giornalismo letterario, l’associazione usa una frase che, a mio avviso, potrebbe essere utilizzata come punto di partenza per l’analisi di questo genere ibrido: “Literary

Journalism is not journalism about literature but is Journalism as literature”.

Infatti il giornalismo letterario riesce ad inserire strutture tipiche della narrativa all’interno del genere giornalistico, dando vita ad un prodotto che si colloca perfettamente a metà tra i due poli e che non si può ridurre ad un giornalismo che parla di letteratura oppure ad una letteratura che parla di giornalismo. Lo spiega molto bene l’americano Tom Wolfe, considerato non a caso uno dei padri fondatori del genere, nella sua antologia dal titolo The New Journalism, in cui realizza una sorta di vademecum di questa disciplina. Infatti, in questa antologia, si possono trovare, tra le altre cose, le cinque regole fondamentali per costruire un’opera che possa essere considerata appartenente al giornalismo letterario:

1) Il primato della notizia rispetto alla narrativa non va mai messo in discussione: infatti, spesso e volentieri il giornalismo letterario viene considerato più come una tecnica che come un genere a sé stante. Tom Wolfe sottolinea questo aspetto a più riprese nella sua antologia (“I am talking about

technique”2);

2) La storia che si vuole raccontare va costruita in maniera rigorosamente cronologica, ed è necessario ricorrere il meno possibile alla voce del cronista che, al fine di realizzare un’opera perfetta in questo senso, sarebbe opportuno nonché raccomandabile che non comparisse proprio; 3) Necessario è tentare di registrare all’interno della storia tutti i dettagli possibili ed immaginabili, perfino quelli apparentemente non rilevanti: pertanto si deve inserire tutto ciò che può rivelarsi utile al fine di rappresentare tutti i possibili aspetti dei personaggi del racconto (gestualità, abitudini, modi di pensare ed agire, etc.);

4) Al fine di ottenere il maggior coinvolgimento possibile da parte dei lettori, è estremamente raccomandabile l’utilizzo di dialoghi e conversazioni dirette, piuttosto che usare una narrazione tradizionale composta da dati di pura e semplice cronaca;

5) Riallacciandosi a quanto affermato nel punto precedente, i lettori del romanzo non devono solamente essere coinvolti, ma dovrebbero avere quantomeno l’impressione di vivere quella storia in maniera profonda e il più possibile realistica, al fine di immedesimarsi al meglio con ciascuno dei

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protagonisti. È pertanto opportuno che l’autore presenti quante più scene possibile (e se riesce addirittura tutte) dal punto di vista interiore di ciascun personaggio piuttosto che dal punto di vista di un narratore eterodiegetico, coincidente o no con l’autore implicito.

Il rispetto di questi cinque punti garantisce all’opera l’equilibrio tra giornalismo e letteratura. Infatti, questo genere letterario è costantemente sospeso tra i due poli e ciò significa trovare un bilanciamento, ad esempio tra etica ed estetica, tra verità e bellezza, ma soprattutto tra cronaca e racconto. Il rischio è, per chi si cimenta nel realizzare un romanzo di questo tipo, di non riconoscere e quindi di travalicare il confine tra giornalismo e letteratura realizzando opere non perfettamente equilibrate. Il giornalismo letterario risulta quindi essere una vera e propria sfida per lo scrittore, difficile certo ma anche ricca di soddisfazioni e ricompense, economiche grazie ai molti premi in palio per scrittori di questo genere, ma soprattutto intellettuali, poiché la fusione dei due elementi può dar vita ad opere straordinariamente dense di significato.

La sfida del giornalismo letterario risulta essere tale anche per il lettore, che deve avvicinarsi a questo genere con molta attenzione: dovendosi muovere all’interno di un genere ibrido, il lettore rischia infatti sempre di cadere nell’incertezza di dove finisca la cronaca e dove inizi l’interpretazione personale. Questo è ciò che gli esperti definiscono come “uncanny effect”, un effetto che lo scrittore deve essere in grado di ridurre al minimo. Le coordinate necessarie alla sparizione di questo effetto e dunque alla realizzazione di un’opera giornalistico-letteraria che sia allo stesso tempo corretta ed efficace, viene, a mio modesto avviso, magistralmente riassunta dal già citato Tom Wolfe nel suo libro “The New Journalism”, dove egli sottolinea come la sfida più difficile per chi si cimenta nel realizzare un’opera appartenente a questo genere ibrido sia quella del “centrare la prospettiva”: “When one moves from newspaper reporting to this new form of

journalism,(…) one discovers that the basic reporting unit is no longer the datum, the piece of information, but the scene (…). Therefore, your main problem as a reporter is, simply, managing to stay with whomever you are writing about long enough for the scenes to take place before your own eyes”3. Di certo, il fenomeno del giornalismo letterario ha goduto di uno sviluppo molto rapido se non addirittura improvviso, che si può comprendere davvero a fondo soltanto soffermandosi ad analizzare il contesto storico, geografico e sociale nel quale esso ha trovato un terreno fertile per potersi sviluppare e le ragioni che stanno alla base di tale fortuna.

Il genere, come detto, nasce negli Stati Uniti intorno agli anni ’60; nasce e si sviluppa in quel contesto per alcuni motivi ben precisi. Il primo è certamente collegabile a ciò che gli Stati Uniti hanno rappresentato e rappresentano ancora oggi per gran parte del mondo: gli USA sono infatti il

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paese che lancia le mode, il paese dove l’immagine e la comunicazione contano più di qualsiasi altra cosa, un paese dove il come si presenta qualcosa conta di più di cosa si presenta. Ma gli USA sono anche il paese dove, per abitudine culturale, si cerca sempre di arrivare subito al dunque, di risparmiare tempo poiché “time is money” e tutto ciò si ripercuote in tutti gli aspetti della vita a stelle e strisce, inclusa la sfera dell’informazione, dove si cerca di condensare moltissimi avvenimenti in poco tempo. Per questa ragione, ad esempio, la forma del giornalismo televisivo ha sempre avuto un grande successo negli States, un successo maggiore rispetto a quello del giornalismo tradizionale. È per questo motivo che, ad un certo punto, si è deciso di prendere in considerazione l’idea di rinnovare e vivacizzare quest’ultimo con la creazione e l’inserimento delle cosiddette “features”. Le “features” sono quelli che noi definiamo “articoli di approfondimento”, ovvero articoli che si differenziano dai tradizionali per vari motivi, il primo e probabilmente più ovvio dei quali è la lunghezza, che risulta essere sensibilmente maggiore. Questa però non è l’unica differenza: molte altre si possono trovare osservando attentamente la struttura di una “feature”, che presenta una suddivisione in paragrafi, nel primo dei quali troviamo generalmente un aneddoto di un evento o un episodio curioso (“anectodal lead”), che ha la funzione non solo di far iniziare l’articolo ma anche di introdurre il personaggio principale dell’articolo, partendo dai dettagli riguardanti il soggetto per poi arrivare alle sue caratteristiche più generali. In un altro paragrafo, che solitamente è uno compreso tra il terzo ed il sesto, viene inserita la cosiddetta essenza dell’articolo e a quel particolare paragrafo che la contiene viene dato il nome di “billboard”. L’ultima differenza sulla quale sembra opportuno spendere qualche parola è lo stile con cui viene scritto questo tipo di articolo: innanzitutto con una prevalenza di verbi in forma attiva (mentre sappiamo che il passivo è la forma dominante nel giornalismo tradizionale), poi con un grande numero di esempi volti a spiegare meglio e a dimostrare le idee dell’autore, la cui personalità all’interno del pezzo è certamente molto evidente, ed infine il finale, che si caratterizza sempre per avere una struttura ben definita.

Ho scelto di parlare in maniera abbastanza approfondita di queste “features” perché è proprio dalla loro invenzione che hanno preso le mosse i giornalisti-letterati per creare il nuovo stile: si può tranquillamente affermare che il giornalismo letterario sia “figlio” di queste “features”. L’altra grande ragione che ha portato alla ribalta il genere proprio negli USA è indissolubilmente connessa al contesto storico che il paese stava vivendo in quegli anni: siamo infatti negli anni ’60, periodo di grandi cambiamenti, a cominciare dall’elezione del presidente Kennedy, personaggio giovane e carismatico, per continuare con tutte le lotte per l’uguaglianza, soprattutto ad opera di neri e donne, proseguendo con le rivolte giovanili e contro culturali (su tutte quelle degli Hippies o figli dei fiori) per concludere con la nascita della “affluent society”, ovvero la società dei consumi e delle mode,

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dove i comportamenti e, più in generale, gli stili di vita di ciascuna persona, vennero condizionati come mai prima. Pertanto, in una società caratterizzata da tutti questi cambiamenti, le forme del giornalismo tradizionale che si erano affermate fino a quel momento si mostrarono ben presto inadatte a descrivere in maniera esaustiva la realtà. Serviva un nuovo stile giornalistico, fatto di nuove idee, di un nuovo linguaggio, ma soprattutto di un nuovo modo di raccontare tutto ciò che stava accadendo; insomma doveva nascere e nacque il nuovo giornalismo.

Sebbene la nascita di questo fenomeno sia, come detto, da collocarsi negli Stati Uniti, il primissimo esempio di romanzo-reportage o romanzo-verità uscì in America Latina ed in particolare in Argentina, dove lo scrittore e giornalista Rodolfo Walsh pubblicò nel 1956 il libro dal titolo Operaciòn Masacre (Operazione Massacro). Quest’opera nacque da un’idea dello stesso autore che, dopo essere venuto a conoscenza che talune persone erano riuscite a sfuggire all’esecuzione capitale a cui erano state condannate dalla dittatura militare che vigeva in quegli anni in Argentina, fece di tutto per rintracciarle al fine di poter raccontare al mondo intero la loro storia. Dopo esservi riuscito, egli pubblicò il suo libro e ben presto tutti, nel panorama letterario internazionale, si resero conto che l’opera di Walsh era il primo esempio di qualcosa che non si era mai visto fino ad allora, ovvero un libro che si configurava non come la pura e semplice narrazione di un avvenimento, bensì come un romanzo costruito sulle veritiere testimonianze di chi aveva vissuto in prima persona un determinato avvenimento. Se le “features” si possono considerare come le fonti di ispirazione maggiori del giornalismo letterario, Operaciòn Masacre è certamente da individuare come pietra miliare del genere.

Ad ogni modo, gli autori che più di tutti hanno contribuito alla nascita e alla diffusione del giornalismo letterario provengono dagli USA: oltre al già citato Tom Wolfe, occorre, a mio avviso, sottolineare altri due nomi fondamentali, ovvero quelli di Truman Capote e Hunter Stockton Thompson. Capote, originario di New Orleans, era un giornalista di una nota rivista della grande mela, il New Yorker, quando, nel novembre del 1959, fu inviato dai direttori di quella rivista assieme alla sua collega Harper Lee (futuro premio Pulitzer per il romanzo To Kill a Mockingbird, a noi italiani noto con il titolo Il buio oltre la siepe) in Kansas, al fine di indagare su un efferato omicidio di quattro contadini ad opera di due criminali pregiudicati, Perry Smith e Dick Hickock. Vista la meticolosità con cui Capote indagò sul delitto, grazie alla quale emersero tantissimi nuovi particolari riguardanti ogni aspetto dei criminali, delle vittime e della vicenda, la stesura di un semplice articolo si trasformò molto presto nell’idea di scrivere un romanzo-reportage. In Cold

Blood uscì dapprima a puntate sul New Yorker durante il 1965 e poi, un anno dopo, divenne un

romanzo a sé stante e, sebbene la sua pubblicazione suscitò non poche polemiche soprattutto per via della presunta morbosità con la quale l’autore aveva descritto tutti i possibili particolari di quella

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macabra ed agghiacciante vicenda, finì col diventare uno degli esempi più nitidi e meglio riusciti di giornalismo letterario, oltre ovviamente ad essere un libro molto coraggioso per la forza, ma allo stesso tempo anche l’estrema delicatezza, dei temi affrontati.

Il 1966 è anche l’anno di pubblicazione del romanzo-reportage Hell’s Angels ad opera di Hunter Stockton Thompson. Nativo del Kentucky, egli era un giornalista sportivo che aveva lavorato non solo negli USA, ma anche a Porto Rico e in Sud America. Nonostante la sua passione per lo sport e per la cronaca sportiva, decise di realizzare un romanzo-verità di altro argomento ed ebbe la geniale intuizione di scriverlo a proposito di una setta di motociclisti californiani (chiamata per l’appunto “Hell’s Angels”), che nel 1965 avevano terrorizzato lo stato della California con le loro azioni illegali e le abitudini brutali e violente. Quest’opera diventò in men che non si dica così famosa non solo perchè creò uno stereotipo, quello della banda di motociclisti ribelli, sfruttato poi dalle industrie cinematografiche, televisive e videoludiche per creare film, serie tv e videogiochi liberamente ispirati a quella storia, ma addirittura perchè iniziò un sottogenere del giornalismo letterario che venne successivamente definito con il termine “Gonzo Journalism”. Questa definizione fu coniata da Bill Cardoso, giornalista del Boston Globe e amico di Thompson, nel 1970. Secondo il reporter Cardoso, l’opera dell’amico Thompson aveva creato un sottogenere perché, oltre ad essere un romanzo-reportage e ad avere tutte le caratteristiche del New Journalism, aveva in più una spiccata predilezione per le impressioni soggettive e le sensazioni personali, elementi che erano fondamentali per la riuscita di un buon romanzo-verità e che erano state portate ad un livello più profondo e forte dallo stesso Thompson, il quale aveva creato, forse involontariamente o forse perché alla ricerca del concetto di verità assoluta, un nuovo sottogenere, o comunque un’evoluzione del semplice giornalismo letterario.

Giunti a questo punto pare opportuno tracciare alcune coordinate storiche fondamentali per la nascita del giornalismo. Il giornalismo nasce nella seconda metà del XVI secolo, momento fino al quale l’idea stessa di giornalismo non esisteva ancora: erano presenti ovviamente le notizie, ma non c’era una disciplina specializzata nella loro trattazione e diffusione; esistevano soltanto monaci che inserivano le notizie all’interno del loro incessante lavoro di scrittura. La prima idea di un lavoro che fosse incentrato sull’informazione è da ricercarsi in Italia, precisamente a Venezia, dove nel 1563 apparve per la prima volta un foglio di notizie. Era un foglio redatto dal governo e aveva cadenza mensile. Al suo interno si potevano trovare notizie di carattere generale sull’andamento del governo e delle guerre e le notizie venivano classificate per data e per luogo. Una volta redatto, il foglio veniva distribuito nella città di Venezia e nelle zone circostanti; il prezzo era decisamente

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basso, difatti bastavano due soldi per avere una copia e, siccome la moneta da due soldi in dialetto veneziano veniva chiamata “gaxeta”, ben presto il foglio venne ribattezzato “gazzetta”, termine che ancora oggi è molto utilizzato nella nomenclatura di quotidiani e riviste in tutto il mondo.

Il secolo successivo (ovvero il XVII) segna un vero e proprio punto di svolta nella storia del giornalismo: iniziano infatti ad essere pubblicate le prime gazzette settimanali e nel 1660 a Lipsia compare il primo quotidiano, la Einkommende Zeitung. Non è certamente frutto di un caso se proprio in questo secolo nascono e trovano realizzazione queste idee, frutto di due fattori fondamentali tipici del ‘600: il primo è la maggiore dinamicità di cui godevano le società in quel secolo e le necessità che questo nuovo dinamismo portava con sé (ad esempio la necessità di conoscere con una cadenza di tempo piuttosto regolare come cambiavano i prezzi delle varie merci) e il secondo furono le sempre maggiori divergenze politiche che portarono alla nascita di fogli volti a sostenere le varie fazioni.

Il Seicento fu inoltre un secolo fondamentale per il nostro argomento, poiché è in questo periodo che nasce il primissimo esempio di pubblicazioni a scopo letterario-culturale e non informativo: mi sto riferendo al settimanale francese Journal des sçavans, pubblicato per la prima volta a Parigi il 5 gennaio del 1665. Questo settimanale costituisce il primo esempio di incrocio tra giornalismo e letteratura da cui nasce l’idea dell’intreccio tra le due discipline che ha poi portato, come già detto, alla nascita del giornalismo letterario. L’idea di creare pubblicazioni volte all’aspetto letterario e culturale fu poi ripresa da tanti paesi europei, primo fra tutti l’Italia: a questo proposito pare opportuno citare Il Caffè di Pietro Verri, che dal 1764 in avanti divenne la “casa” degli illuministi italiani.

Ad ogni modo il vero e proprio “boom” dei quotidiani e del giornalismo in generale arrivò nel secolo XVIII: fu in quel periodo che nacquero la maggior parte dei quotidiani e delle riviste, sia informativi sia politici, passando per quelli letterario-culturali. In questo secolo non si può non citare l’importanza che ebbe l’Inghilterra: fu qui che nacquero il maggior numero di riviste. I principali fogli nati in quegli anni sono il Daily Courant del 1702, il Daily Post del 1719 e il Daily Journal del 1720. Nel 1731 esistevano già circa quattrocento giornali. Sempre in Inghilterra nascono i primi giornali della sera, pubblicazioni dedicate alle zone lontane dalla capitale inglese, e le prime forme di giornalismo “leggero”, con i periodici The Tatler e The Spectator, che certamente vanno ricordati come i forse i più importanti. Inoltre, l’Inghilterra ha anche il merito di aver coniato il termine magazine per indicare i giornali di informazione leggera, a partire da The Gentlemen’s

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Il secolo XIX segna l’inizio di una vera e propria rivoluzione in campo giornalistico, che però non riguarda tanto la qualità del materiale quanto la quantità e soprattutto la diffusione. Infatti, è questo il secolo della rivoluzione industriale, che porta in dote l’avvento di nuovi strumenti che permettono una produzione ed una diffusione davvero massiccia dei quotidiani e delle riviste: invenzioni come la rotativa, la macchina da stampa a vapore, la fabbricazione meccanica della carta e la fusione meccanica dei caratteri da stampa, contribuiscono in maniera fondamentale all’aumento della produzione giornalistica e di conseguenza alla divulgazione di un numero sempre maggiore di notizie di tutti i generi. Inoltre l’Ottocento segna un punto di svolta anche nella velocità della diffusione delle notizie; aquesto proposito,non si può non sottolineare l’invenzione del telegrafo da partedi Samuel Morse (inventore anche di un codice di comunicazione che prenderà appunto il suo nome), che permise di abbattere le barriere legate alla distanza e fece compiere al giornalismo il primo passo verso la nuova era della comunicazione globale e veloce, realizzatasi poi tramite l’invenzione di altri strumenti come la macchina da scrivere, il dattilografo, lo stenografo ed anche il telefono. Tutto questo, unito al sempre più impellente bisogno di notizie precise ed aggiornate, ha portato, dapprima in Francia e poi in tutti gli altri paesi d’Europa e del mondo, a teorizzare di avere un ammontare quotidiano fisso di notizie, in modo da riempire sempre le pagine e non perdere nessuna notizia importante: proprio a questo scopo nascono le agenzie di notizie, che attualmente sono ancora una realtà concreta e fondamentale all’interno del mondo giornalistico.

I secoli XX e XXI segnano l’inizio di una nuova era della comunicazione, che ancora adesso stiamo vivendo con i suoi pro e i suoi contro: l’invenzione del computer e soprattutto di internet ha permesso alle notizie di raggiungere la praticità e la velocità di diffusione massima immaginabile in questo momento. Grazie al web, ai blog, ai social network ed agli smartphone, si può essere costantemente informati in ogni angolo del mondo, in tempo reale, su quanto è successo e sta succedendo da qualunque altra parte del globo, anche se si deve prendere coscienza del fatto che tutti questi strumenti che permettono la lettura e la divulgazione delle notizie in modo digitale sta portando alla crisi del settore giornalistico dei quotidiani e delle riviste, che possono aggiornare le notizie soltanto con cadenza giornaliera, settimanale, mensile. Ormai la stragrande maggioranza delle persone si tiene informata sfruttando i vantaggi del web sebbene, come avremo modo di sottolineare ulteriormente, i pericoli della disinformazione su internet siano sempre dietro l’angolo.

Il giornalismo letterario ha, nel corso di questi ultimi anni, decisamente dilagato nel panorama letterario internazionale e ciò ha significato che in tantissimi paesi del mondo, moltissimi giornalisti si sono cimentati nell’impresa di scrivere romanzi-reportage (proprio come avevano fatto Capote e

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Thompson). D’altro canto, è spesso accaduto anche l’esatto opposto, ovvero che scrittori affermati abbiano iniziato a collaborare con vari quotidiani, quasi sempre per volontà dei direttori di quei quotidiani, che vedono la collaborazione con i letterati come un modo veloce e affidabile di dare maggior credito al loro giornale, sebbene gli scrittori non sempre accettino questi inviti (per qualcuno di loro, infatti, scrivere su un giornale risultauna fatica quotidiana o addirittura una vera e propria umiliazione). Tutto ciò è accaduto anche in Italia, dove possiamo trovare tanti esempi dell’uno o dell’altro caso. Per quanto riguarda il primo tipo, su tutti viene da citare il caso di Oriana Fallaci, giornalista divenuta scrittrice, che deve la sua fama attuale, che per inciso ha raggiunto livelli altissimi, ai suoi romanzi-verità sull’Islam, oggi più che mai attuali.

Per quanto concerne, invece, il secondo tipo, tantissimi sono gli autori del passato e del presente (per citare solo i più famosi D’Annunzio, Pirandello, Carducci, Collodi, De Amicis, Montale, Calvino, Eco) che hanno iniziato una fruttuosa collaborazione con alcuni quotidiani italiani (su tutti il Corriere della Sera), arricchendo, in taluni casi, i giornali con veri e propri pezzi di letteratura, all’interno della cosiddetta “terza pagina” (termine coniato da Luigi Albertini, giornalista e direttore del Corriere della Sera, nel 1905), ovvero la pagina degli approfondimenti che funzionava con un sistema analogo a quello delle “features” americane sopra citate.

Come ho avuto modo di sottolineare durante questo excursus storico sul giornalismo, quest’ultimo e la letteratura sono entrati in contatto sin dalla seconda metà del XVII secolo e, mano a mano che il tempo passava, l’intreccio è diventato sempre più frequente. A questo proposito vale la pena di citare nuovamente riviste come il Tatler e lo Spectator, poiché hanno contribuito in maniera molto sostanziosa al fenomeno noto in Inghilterra come “rise of the novel” e cioè quel fenomeno iniziato nel diciottesimo secolo, che ha portato all’affermazione di un nuovo genere nel panorama letterario prima inglese e poi internazionale, ovvero il romanzo realista borghese. Queste riviste, avendo come loro impostazione un giornalismo leggero e meno oppresso dalla necessità di disporre sempre di notizie fresche, hanno deciso di sfruttare i loro spazi per dare la possibilità a un determinato numero di autori di scrivere lì le loro novelle o parte dei loro romanzi, aiutandoli ad ottenere spazio e visibilità per affermarsi all’interno del panorama letterario.

Altro fenomeno sul quale, a mio modesto avviso, vale la pena soffermarsi è quello della cosiddetta “terza pagina” dei quotidiani, che nasce in Italia e prende il nome dal fatto che i primi quotidiani italiani erano composti da quattro pagine, la terza delle quali era dedicata alla cultura. Il primo e certamente più famoso giornale italiano a dotarsi di questa pagina fu Il corriere della sera, la cui terza pagina rimase a lungo la più famosa ed ambita dove poter far comparire i propri spunti culturali e letterari: infatti, la terza pagina contribuì a far conoscere al grande pubblico gli scrittori.

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Un autore che scriveva lì era accolto più favorevolmente rispetto a uno che non la frequentava e a dimostrarlo c’erano i dati statistici relativi alla tiratura ed al numero di copie vendute delle varie opere. La terza pagina ha contribuito alla divulgazionedi lavori di alcuni autori già molto autorevoli come Pirandello, D’Annunzio e Verga, ma anche all’affermazione di Grazia Deledda, Emilio Cecchi e Giovanni Papini. Attualmente la terza pagina è stata definita morta da alcuni giornalisti, poiché dal 1976 in avanti è scomparsa progressivamente da tutti i quotidiani italiani. Il giornalista Franco Abruzzo ha però fatto notare che la cosiddetta morte della terza pagina è in realtà solo apparente perché “la sua originaria funzione si è semplicemente trasferita in altre parti del

giornale”.4

Pare ormai abbastanza chiaro come il giornalismo letterario sia un genere ibrido creato sulla base di un ipotetico punto di contatto tra giornalismo e letteratura, ma è tutt’altro che facile identificare se questo punto di contatto esista e dove eventualmente lo si possa collocare. Giornalismo e letteratura vivono da sempre un rapporto molto stretto e complesso e questo essenzialmente perché entrambi condividono l’obiettivo di raccontare e lo strumento per farlo, cioè la lingua. Accanto a queste similitudini si pone però il punto di separazione più evidente, inerente allo scopo per il quale nascono le due discipline: il giornalismo ha come obbiettivo l’informazione; il giornalista, quando scrive un articolo o realizza un reportage, deve essere imparziale, onesto e soprattutto veritiero (“Journalism’s first obligation is to the truth”5), mentre la letteratura può permettersi vari artifizi e costituisce un campo decisamente più grande dove muoversi, un campo nel quale un autore può scegliere liberamente cosa, quando, come, dove e perché raccontare una storia piuttosto che un’altra, richiamando a sé lo schema delle 5 W (where, when, why, what, who), utilizzato anche dai giornalisti ma in maniera ovviamente diversa. Il giornalismo deve informare e talvolta anche raccontare, ma deve farlo tenendo ben presente il concetto di attualità e cioè si deve parlare di fatti attuali che le persone hanno diritto di sapere. La letteratura, invece, può permettersi qualunque excursus temporale desideri a discrezione dell’autore, che può personalizzare ogni aspetto del suo romanzo. Il giornalista deve inoltre tenere bene a mente di essere dipendente di un’azienda: le redazioni dei quotidiani sono ormai divenute luoghi dove la politicizzazione e la quadratura del

4Franco Abruzzo, Codice dell'informazione e della comunicazione, ed. Centro di documentazione giornalistica, Roma

2006, p. 78.

5Miles Maguire, “Richard Critchfield: Genius Journalism and the Fallacy of Verification”, Literary Journalism Studies,

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bilancio finanziario sono problemi da affrontare quotidianamente. Inoltre, il giornalista, che ha il dovere di scoprire e raccontare, deve anche fare i conti con la possibilità che i suoi scritti tocchino temi scottanti, che certe inchieste dispiacciano a qualcuno; e se questo qualcuno è potente, allora il giornalista può trovarsi in una posizione scomoda, se non addirittura pericolosa. Lo scrittore, dal canto suo, sembra essere molto meno toccato da questo genere di problemi e, in generale, il motivo della sua maggiore tranquillità è legato al fatto che gli scritti letterari sono fiction, cioè finzione, e fanno per lo più riferimento a personaggi e situazioni di fantasia.

Ma forse, la maggiore differenza tra letteratura e giornalismo va ricercata nel livello di necessità che le due discipline possiedono ed è qui che il giornalista si prende una sorta di rivincita nei confronti dello scrittore: il giornalismo è una necessità sociale, poiché se non esistesse non ci sarebbe la possibilità di conoscere elementi fondamentali per capire l’identità e il senso di molte cose, tra cui le leggi di convivenza del genere umano e l’organizzazione basilare di ogni società civile e democratica. A questo proposito, mi sembra opportuno citare la teoria di H.G.Wells, secondo il quale la principale causa della caduta del più grande impero della storia, quello romano, sarebbe da ricercare non tanto nelle invasioni dei popoli barbarici o nella crisi economica di Roma, bensì nella mancanza di un canale che permettesse la comunicazione e la divulgazione delle informazioni e delle notizie tra la metropoli e le varie periferie di cui era composto l’impero.

La letteratura invece, nonostante l’indubbio contributo che ha dato in tutto il mondo alla storia e all’uomo, risulta per alcuni essere quasi un “lusso”: essa può allontanarsi più liberamente dalla realtà rispetto al giornalismo e soprattutto porta con sé idee e pensieri di un autore o di un’autrice che possono essere più o meno condivisibili da chi legge l’opera e ne dà la sua personalissima interpretazione (la questione dell’intentio auctoris e dell’intentio lectoris), mentre le notizie sono, o almeno dovrebbero essere, fatti oggettivi, non interpretabili soggettivamente ( “La fruizione

dell’opera letteraria è una possibilità virtuale, quella del giornalismo è una probabilità incombente”6).

Ovviamente giornalismo e letteratura (in particolare la narrativa) differiscono molto da un punto di vista tecnico, aspetto che ha reso per certi versi ancora più sorprendente la fruttuosa collaborazione delle due discipline. La considerazione preliminare e forse più importante è che le due sfere differiscono, tecnicamente parlando, per una diversa disponibilità e possibilità di varietà strumentale, ovvero la letteratura può effettuare, a discrezione del singolo autore, qualsiasi scelta tecnica al fine di ottenere il risultato prefissato, mentre il giornalismo risulta estremamente più vincolato tecnicamente poiché deve prima di tutto informare obbiettivamente e puntualmente. A tal

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proposito, ho già esposto la regola delle 5W che sta alla base di qualsiasi articolo o pezzo giornalistico, ma ciò non basta a completare le considerazioni tecniche su questa disciplina. L'organizzazione o struttura di un articolo viene spesso definita dagli esperti del settore come una piramide invertita. Per realizzare questo tipo di struttura, un giornalista deve disporre gli elementi più rilevanti ed essenziali a partire dall'inizio dell'articolo stesso, secondo il principio denominato “top loading” e successivamente far seguire a ciò l'informazione di supporto in ordine decrescente di importanza.

L'elemento strutturale di maggiore rilevanza in assoluto è senza dubbio l'attacco (intro in Gran Bretagna, news lead negli Stati Uniti), poiché è proprio al suo interno che il giornalista colloca tutta l'informazione che la maggioranza dei lettori leggerà. L'attacco coincide generalmente con il primo periodo e, solamente in casi particolari, con i primi due. Il principio della piramide invertita,

dunque, si riferisce soprattutto a questo aspetto, ma esiste anche il problema relativo al fatto che c’è una sorta di riluttanza da parte del lettore nei confronti della lettura di periodi molto lunghi e quindi il giornalista deve necessariamente dare un limite all’estensione dell’attacco. Ciò rende la preparazione di un buon attacco una vera e propria sfida; per vincerla, il giornalista è chiamato a realizzare, con il materiale disponibile, la singola frase più accurata, completa ed interessante possibile. Sebbene la regola generale dica che si dovrebbero rispettare tutte le 5 W e cioè bisognerebbe rispondere a tutti quei punti, pochi news lead hanno questa caratteristica. D'altra parte, se tale regola fosse sempre rispettata, il conseguente news lead risulterebbe con ogni probabilità troppo scolastico, pesante e prevedibile.

Dopo l’attacco, un articolo generalmente è composto da un secondo paragrafo, in cui tendenzialmente si collocano altre informazioni rilevanti che non compaiono nel primo e da una coda dove troviamo tutto il materiale di non vitale importanza.

Questo genere di impianto è ormai considerato come il migliore o quantomeno il più raccomandabile, anche perché consente l'interruzione della lettura senza rinunciare all'essenza della notizia e perché offre ai lettori la possibilità di immergersi in un determinato argomento al livello di profondità desiderato, dettato dalla loro curiosità e senza l'imposizione di dettagli che poi si rivelerebbero poco significativi. Altre caratteristiche tecniche sulle quali vale la pena spendere due parole sono: il setting, cioè l’ambientazione che, nel caso di un articolo di giornale, è molto rigido, poiché il giornalista è costretto ad ambientare il suo pezzo laddove ha raccolto le informazioni per realizzarlo; i personaggi, anch’essi aspetto rigido nel giornalismo, che deve informare solo sulle persone coinvolte nella notizia in questione; la dimensione temporale, in cui è necessario per un giornalista fornire la ricostruzione logico-causale degli eventi e la ricostruzione cronologica delle

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azioni con pochissimi spazi ed eccezioni; ed infine la modalità narrativa, che varia soltanto a seconda del tipo di articolo scelto (ad esempio, se si tratta di un classico articolo d’informazione, dovrà prevalere un’impostazione narrativa con un’impronta di tipo extradiegetico, mentre se si tratta di un’intervista, l’articolo dovrà presentarsi sotto forma dialogica). Da questo quadro emerge abbastanza chiaramente come il giornalista si trovi quasi bloccato in una struttura decisamentepoco flessibile e con limiti ben definiti.

Questa considerazione non vale per uno scrittore che ha a sua disposizione uno strumento (la letteratura) che gode di un ventaglio di possibilità tecniche e argomentative praticamente sconfinato. Il termine letteraturacopre un’area vastissima, comprendenteun numero impressionante di sottogeneri. La divisione fondamentale è comunque quella che intercorre tra prosa e poesia, ed è la prima ad essere oggetto della mia attenzione. All’interno della prosa si distingue il sottogenere della narrazione: per definizione "narrare" significa raccontare quei fatti che hanno come protagonisti uomini, animali, esseri non animati. Da questa ampia definizione si comprende come la narrativa inglobi al suo interno testi molto differenti tra di loro, che però possono per comodità essere ricondotti a due principali categorie e cioè, da un lato, itesti che hanno come oggetto la realtà e, dall’altro, quelli che vivono esclusivamente dell'invenzione dell'autore. Nella prima categoria si possono raggruppare tutti quei testi in cui la funzione del narrare è secondaria rispetto all'informare o descrivere ciò che è realmente accaduto o che può essere verificato attraverso un confronto con altri testi; non è un caso che le opere di giornalismo letterario si ispirino a questo tipo di opere. La seconda categoria riguardai testi i cui eventi e personaggi nascono dalla fantasia del singolo autore e qui a prevalere è ovviamente l’aspetto narrativo.

Un altro punto importante che ha creato affinità ma anche divergenze tra le due discipline oggetto della mia analisi è il rapporto che esse hanno con la moderna tecnologia.

Iniziamo col dire che l’importanza della tecnologia per la divulgazione e la fruizione del giornalismo, della letteratura e quindi anche del giornalismo letterario è assolutamente fuori discussione: l’avvento di internet, dei computer, degli smartphone e, più in generale, di tutti gli strumenti comunicativi di ultima generazione ha facilitato non solo la diffusione, ma anche l’utilizzo di queste discipline da parte di un numero elevatissimo di persone, da chi scrive a chi legge, passando per chi pubblica e controlla. Tuttavia la “digital era” ha creato anche alcuni problemi, soprattutto nella sfera più squisitamente giornalistica. Questo fondamentalmente perché il giornalismo classico ha potuto e per certi versi dovuto sfruttare maggiormente questi nuovi mezzi, ma più un mezzo viene sfruttato e più si corre il rischio di utilizzarlo male. Senza dubbio alcuno si

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può affermare che il giornalismo può facilmente essere messo “in rete” e consultato a piacimento da chiunque disponga di un mezzo tecnologico per poterlo fare, mentre la letteratura è nettamente più difficile da collocare all’interno del mondo virtuale, sebbene ormai i libri in formato digitale siano sempre più diffusi per via del loro prezzo generalmente più accessibile rispetto alla versione cartacea. Ad ogni modo, mettere in rete un’opera letteraria, ad esempio un romanzo, non è affatto impresa facile, molto più semplice è inserire una notizia, perché più breve, più immediata. Utilizzare internet per la diffusione delle notizie è semplice e veloce: nella nostra società è facile essere informati in tempo reale su qualsiasi argomento e sembra ormai il modo migliore per conoscere e affrontare il mondo odierno.

All’apparenza, quindi, la tecnologia sembra costituire un valido ausilio, ma a ben vedere, i problemi e gli ostacoli sono dietro l’angolo. Il maggiore, a mio avviso, è il fatto che il web e le tecnologie possono seriamente mettere in difficoltà il concetto di verità, concetto che pare necessario sottolineare e ribadire ogniqualvolta si parla di giornalismo.

Infatti l’avvento del web è coinciso con l’avvento dei social networks e dei siti internet, che possono essere creati e utilizzati da qualunque utente nel mondo senza alcun tipo di preparazione specifica; se a questo aggiungiamo il fatto che internet costituisce una sorta di “zona franca”, dove i controlli riescono difficilmente ad essere capillari, si capisce facilmente che chiunque può far circolare notizie ingigantite o, peggio ancora, assolutamente false o campate in aria, notizie che corrono il serio rischio di essere prese come veritiere dai navigatori meno esperti o da quelli più preparati, che cadono nelle trappole tese dai gestori di siti e social networks. Ecco dunque il pericolo maggiore che corre il giornalismo nella digital era: la diffusione di false notizie che truffano le persone, ma soprattutto stuprano il concetto di verità e realtà giornalistica. L’unico argine a questo fenomeno può essere costituito, da un lato, dall’abilità e dall’esperienza degli utenti di internet, che devono essere in grado di selezionare le fonti corrette a cui attingere le informazioni e di non fermarsi alla prima lettura delle notizie, bensì approfondire e accertarsi dell’attendibilità di ciò che reperiscono in rete; dall’altro, occorre che sia sempre più efficace l’azione di controllo da parte dell’autorità.

La letteratura ha con le nuove tecnologie un rapporto meno diretto rispetto al giornalismo ma, probabilmente proprio per questo motivo, di gran lunga meno rischioso; la letteratura, infatti, non potendo sfruttare a pieno la potenzialità del web per ovvie ragioni “logistiche”, risulta essere meno invischiata in questo fenomeno e riesce a sfruttarne quasi esclusivamente i lati positivi. Ad esempio, con internet e con le nuove tecnologie è possibile divulgare e confrontare informazioni e pareri sulla letteratura in maniera più semplice, più veloce e per molte persone più stimolante, mentre per

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quanto riguarda il problema della manipolazione e/o falsificazione, esso interessa molto meno l’ambito letterario.

Tirando le somme e riassumendo quanto affermato in questa introduzione, possiamo dire che il giornalismo letterario può essere definito un ibrido predestinato, nel senso che nasce dalla fusione di due discipline che lavorano sulla stessa materia e usano lo stesso strumento (la lingua) al fine di raccontare fatti, vicende, storie. La letteratura, potendo sfruttare un terreno decisamente più ampio ed avendo a disposizione sconfinate possibilità di creazione e di focalizzazione su idee e pensieri dell’autore, riesce ad estendersi in tre dimensioni (“La letteratura guarda al passato, descrive il

presente ed immagina il futuro”7) mentre il giornalismo, avendo il delicato e importantissimo compito di informare, deve guardare soprattutto al presente e deve farlo con grande chiarezza ed oggettività.

L’incontro di questi due poli è sempre stato dinamico, complesso, poiché legato indissolubilmente alle circostanze e alle situazioni presenti in ciascuna realtà e soprattutto lungo e segnato da moltissime tappe intermedie.

Stabilirne le precise coordinate e di conseguenza riuscire a tracciare una linea di confine precisa appare impresa estremamente ardua e forse persino poco utile. A mio avviso, è più importante sottolineare che questo incontro è stato estremamente prezioso, non solo perché ha dato origine al giornalismo letterario, ma anche perché ha portato benefici ad entrambe le discipline. Ad esempio, il giornalismo ha carpito alla letteratura elementi molto utili al proprio affinamento, come la creatività, lo stile e il modo di ripensare il concetto di parola e di lingua tipico della riflessione letteraria. La letteratura ha invece individuato nel giornalismo un enorme e preziosissimo strumento di diffusione per se stessa, visto e considerato che l’editoria ha un’utenza e una capacità di diffusione molto inferiore rispetto al giornalismo.

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Capitolo 1

In questo primo capitolo, analizzerò la figura di Ernest Hemingway. Dopo aver ripercorso la sua biografia e descritto il suo stile letterario, parlerò della sua esperienza di scrittore-giornalista e lo farò confrontando due opere appartenenti a questa sfera: una dallo stampo squisitamente giornalistico, ovvero i suoi dispacci per il famosissimo quotidiano americano New York Times a proposito della guerra civile spagnola, che Hemingway visse come inviato sul campo, l’altra di natura decisamente più romanzesca, ma ambientata nello stesso contesto storico, ovvero For Whom

The Bell Tolls (traduzione italiana Per chi suona la campana).

Ernest Miller Hemingway nacque ad Oak Park, in Illinois, il 21 luglio del 1899. La sua vita fu contraddistinta da moltissimi episodi di grande rilevanza e da varie relazioni sentimentali complesse, in alcuni casi deludenti, che ne fecero uno degli scrittori più tribolati del ventesimo secolo. Nonostante questo, durante la sua vita e la sua carriera riuscì a ritagliarsi un ruolo quasi mitico per le nuove generazioni di autori e lettori, e questa “aura” aumentò sensibilmente anche dopo la morte. Molti esperti di letteratura lo collocano nella così detta “generazione perduta” che è il nome con il quale si fa riferimento all’insieme di cittadini e artisti americani che, durante gli anni Venti del XX secolo, si erano trasferiti nelle principali città europee, ad esempio Parigi.

Hemingway nacque e crebbe in una famiglia benestante, che gli permise non solo di compiere un percorso formativo di grande qualità e rilevanza, ma anche di avviare la sua attività di letterato a tempo pieno, che ben presto Ernest trovò il modo di sostenere grazie al mestiere di giornalista. Il padre, Clarence Edmonds, era un medico naturista, appartenente ad una famiglia benestante, mentre la madre si chiamava Grace Hall ed aveva tentato, senza troppa fortuna, una carriera da cantante lirica. Entrambi riuscirono a far avvicinare il figlio alle loro passioni, la natura e la musica, a cui il giovane Hemingway unì un altro grande interesse, quello di ascoltare e rielaborare fatti e racconti, che lo spinse in modo decisivo verso la carriera letteraria.

Durante gli anni del liceo, trascorsi alla "Municipal High School" incontrò due insegnanti che, avendo notato la sua inclinazione alla letteratura e al giornalismo, lo incoraggiarono a scrivere. Nacquero così i primi racconti e i primi articoli di cronaca, pubblicati sui giornali scolastici Tabula e Trapeze. Nel 1917 ottenne il diploma, ma essendo reticente ai consigli dei genitori che gli

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proponevano un percorso universitario o musicale, si recò a Kansas City, dove iniziò a lavorare come cronista del quotidiano locale, il Kansas City Star, che si distingueva per il linguaggio moderno, rapido e oggettivo, grazie all’importante influenza del vice capocronista Peter Wellington, maestro di “objective writing”. Il 1917 fu anche l’anno in cui gli Stati Uniti decisero di entrare nella Prima guerra mondiale, una guerra che stava decidendo le sorti dell’Europa e del mondo.

Hemingway desiderava fortemente dare il proprio contributo come soldato alla causa americana, perciò decise di abbandonare momentaneamente le sue molteplici attività per arruolarsi nell’esercito, allora comandato dal generale John Pershing, e combattere. Sfortunatamente, soffriva di un evidente e squalificante difetto alla vista, cosa che lo costrinse ad accontentarsi, almeno inizialmente, di contribuire come autista nell’ARC, acronimo di American Red Cross, che corrisponde con buona approssimazione alla nostra Croce Rossa.

Il futuro scrittore insistette però per essere cambiato di ruolo e spostato laddove avrebbe potuto vivere la guerra più da vicino. Il suo desiderio venne esaudito quando fu inviato nella zona italiana di Fossalta di Piave, nel ruolo di assistente di trincea; riportò svariate ferite in seguito all’esplosione di un ordigno nemico e poi per i proiettili delle mitraglie avversarie. Tutto questo ad ogni modo, non gli impedì di tornare a casa sano e salvo e di ricevere un’accoglienza molto calorosa da parte dei suoi compatrioti.

Il rientro in patria coincise con la ripresa dell’attività di scrittore alla quale egli seppe unire l’organizzazione di un considerevole numero di incontri e conferenze in cui raccontare la sua drammatica e difficile esperienza della guerra. Durante uno di questi incontri aperti conobbe Harriet Gridlay Connable, scrittrice-giornalista con la quale ben presto sviluppò un rapporto molto proficuo sia dal punto di vista professionale che dal punto di vista umano. La Connable decise di invitare Hemingway a trasferirsi nella città di Toronto, nella regione del lago Ontario in Canada, dove viveva col marito Ralph. Anche quest’ultimo, non appena ebbe modo di conoscere il nuovo arrivato, lo prese a ben volere e per aiutarlo, lo spronò a recarsi alla redazione del più famoso quotidiano della città, il Toronto Star, dove avrebbe potuto sfruttare appieno il suo talento giornalistico e narrativo. Hemingway riuscì a farsi assumere in quella redazione dando inizio ad una collaborazione che si sarebbe rivelata duratura e produttiva. Il giovane, che nel frattempo aveva rinunciato a farsi mantenere dalla famiglia ed era quindi rimasto senza casa e senza sostentamento, pensò che fosse opportuno, anche per non approfittare troppo della disponibilità mostrata dai due amici canadesi, trasferirsi a Chicago, nello stato dell’Illinois, dove viveva il fratello del suo carissimo amico Bill Smith. A casa di Smith conobbe la pianista Hadley Richardson, che sposò

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l'anno successivo, precisamente il 5 settembre. Circa tre mesi dopo, ad Hemingway venne assegnato dal Toronto Star il compito di realizzare un reportage in Europa. I novelli sposi partirono pertanto alla volta del vecchio continente e si stabilirono dapprima in Spagna, successivamente in Svizzera ed infine in Francia, luogo dal quale il giornalista inviava i suoi articoli. Parigi diventò un crocevia fondamentale per la carriera letteraria e giornalistica di Hemingway poiché l’amicizia con Gertrude Stein ed Ezra Pound gli permise di entrare in contatto con tanti artisti del suo calibro ed anche di disporre di figure che si sarebbero rivelate per lui delle vere e proprie guide.

Nel 1922 il Toronto Star lo inviò a Costantinopoli per seguire e raccontare le vicissitudini della guerra tra Grecia e Turchia. Questa esperienza gli lasciò in eredità molte idee per il suo futuro romanzo A Farewell to Arms, ma come vedremo fu proprio durante quei giorni che egli cominciò a pensare di essere diventato più uno scrittore che un giornalista e per molti la sua passione per il mondo giornalistico iniziò a scemare proprio in quella circostanza.

Dopo un’esperienza in terra spagnola, precisamente a Pamplona dove aveva partecipato alla festa di San Firmino, Hemingway diede le dimissioni dal Toronto Star e si trasferì in pianta stabile a Parigi con la moglie e il figlio, ma continuò a mantenere uno stretto legame con gli Stati Uniti, tant’è che ottenne un contratto dall’editore Liveright dal quale, ben presto, desiderò liberarsi per poter collaborare con un altro editore, ovvero Scribner. Per rescindere da questo contratto a cui Liveright non voleva rinunciare, Hemingway compì un gesto piuttosto opportunistico, che indignò i suoi amici: scrisse The Torrents of Spring con l'intenzione di farne una parodia dello stile affettato di Sherwood Anderson in Riso nero (Dark Laughter). In questo modo, Liveright non avrebbe potuto pubblicarlo e lo scrittore sarebbe stato libero di passare all'altro editore, piano che trovò il suo definitivo compimento nel febbraio del 1926. L'unica a difendere questa sua mossa fu Pauline Pfeiffer, una redattrice di moda di Vogue, che da quel momento fu presenza costante nel matrimonio di Ernest e Hadley, diventando nel giro di un paio d’anni la seconda moglie dello scrittore.

Nel febbraio del 1926, Hemingway si recò da solo a New York, dove potè incontrarsi con l’editore Scribner, che curò la pubblicazione di The Torrents of Spring e di The Sun Also Rises. Con questi due romanzi, soprattutto con The Sun Also Rises, poi ribattezzato Fiesta, la fama di Hemingway crebbe ma il suo matrimonio, già profondamente in crisi per la presenza di Pauline, si ruppe definitivamente.

Hemingway comunque non rimase celibe a lungo: infatti nel 1927 convolò a nozze con la Pfeiffer optando per un trasferimento a Key West, nell'arcipelago delle Keys in Florida. Nel 1928 nacque il secondo figlio, Patrick, ma il 6 dicembre di quell’anno il padre, in preda a un delirio

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dovuto alle pessime condizioni finanziarie in cui si trovava, si suicidò con la Smith & Wesson del nonno di Ernest, evento che provocò grande sconforto e sconvolgimento nel cuore e nella vita dell’autore.

Nel 1931, poco dopo il suo ritorno a Key West, venne a conoscenza del fatto che Pauline era ancora una volta in stato interessante: da quella gravidanza nacque il terzo figlio, a cui fu dato il nome di Gregory. Nel 1932 completò la stesura del saggio sulla tauromachia intitolato Death in the

Afternoon, ma la sua insofferenza nei confronti della vita familiare e il suo bisogno sempre più

impellente di nuove avventure lo portarono a compiere alcuni viaggi, tra cui uno a L’Avana per partecipare ad una spedizione di pesca dei marlin con Joe Russell, proprietario dello Sloppy Joe's Bar, locale in cui era solito andare. Quel viaggio si rivelò fondamentale per due ragioni: la prima è di carattere squisitamente letterario, dal momento che fu proprio da quella battuta di pesca che nacque l’idea per uno dei suoi capolavori, ovvero The Old Man and the Sea; la seconda è invece sentimentale, poiché fu proprio allo Sloppy Joe’s Bar che conobbe Martha Gellhorn, una giovane e ambiziosa scrittrice che diverrà la sua terza moglie nel 1940, dopo il divorzio da Pauline.

Nel 1936, mentre la sua carriera letteraria procedeva a gonfie vele, in Spagna scoppiò la guerra civile e la North American Newspaper Alliance (NANA) lo contattò, vista la sua profonda conoscenza del paese iberico, affinché inviasse servizi dalla Spagna sui suoi sessanta giornali, offerta che egli accettò nel 1937, riprendendo così, dopo molti anni, l'attività giornalistica; questo viaggio gli fu molto utile anche per stabilire il suo feeling con Martha Gellhorn.

Il 16 marzo fu il giorno della partenza di Hemingway verso la Spagna. Dopo essere stato a Barcellona prima e a Valencia poi, si stabilì a Madrid dove potè svolgere il suo lavoro di inviato speciale. Fu proprio da quella esperienza che nacquero il romanzo For Whom The Bell Tolls ed i dispacci per il New York Times che saranno oggetto della mia analisi nei paragrafi successivi.

Nel 1940 egli completò For Whom the Bell Tolls, che ebbe subito un ottimo successo tanto che già nello stesso anno ne venne realizzata una versione cinematografica. Il libro ottenne anche la prestigiosa candidatura al premio Pulitzer che, però, per via dello scoppio della Seconda guerra mondiale, quell’anno non fu assegnato.

Nel 1944, poco prima dello sbarco americano in Normandia, gli fu affidato dal Collier’s il compito di recarsi a Londra e lì conobbe Mary Welsh, giornalista di TIME e Life, che diventò la sua quarta moglie nel 1946. Questo periodo fu contraddistinto anche dal suo incontro, sfociato poi in una profonda amicizia, con il fotografo Robert Capa, che lo portò a partecipare a tante feste esclusive. Al ritorno di una di queste, il 25 maggio, Hemingway fu coinvolto in un brutto incidente

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automobilistico che, comunque, nonostante le indicazioni contrarie dell’equipe di dottori che lo stava curando, non gli impedì di partire il secondo giorno di giugno verso l’Europa, continente nel quale prese parte per circa sette mesi alla Seconda guerra mondiale.

Quella dell’autore fu una vita di emozioni forti, condizionata dal suo carattere sprezzante del pericolo, narcisista, ma soprattutto cocciuto nel non voler ascoltare i consigli delle persone che si preoccupavano per lui, suggerendogli, ad esempio, di smettere di bere. I numerosi incidenti occorsigli nell’arco della vita furono in buona misura conseguenze inevitabili della sua particolare personalità. Ne conseguirono squilibri psico-fisici che, con l’andare del tempo, si fecero sempre più evidenti, e lo condussero progressivamente nel baratro di una profonda e incurabile depressione, condita da numerose paranoie e infondate fissazioni, ad esempio quella di essere malato di cancro. Un altro aspetto importante nella vita di Hemingway è certamente dato dai suoi continui divorzi e dalla sua vita sentimentale sempre tribolata e spezzettata. Alla base di questo comportamento c’è per molti critici una ragione caratteriale: Hemingway infatti, avendo una personalità ribelle e fondamentalmente instabile, non era capace di mantenere dei rapporti duraturi con le donne che amava poiché il matrimonio è spesso e volentieri un patto che comporta sacrifici di ogni genere. Accanto a questa teoria se ne è affiancata un’altra iniziata durante gli anni ’60 da uno dei più famosi critici e studiosi della letteratura americana, ovvero Leslie Fiedler. Fiedler accusa Hemingway di una latente misoginia che sarebbe dimostrata dall’incertezza con cui Hemingway tratteggia i personaggi femminili delle sue opere: secondo Fiedler infatti la descrizione dei personaggi maschili era molto più completa ed attenta rispetto a quella delle donne, ridotte a stereotipi e quasi sempre incapaci di crescere caratterialmente all’interno delle pagine di un suo romanzo. A rincarare la dose ci ha pensato un altro studioso di Hemingway, autore tra l’altro di una delle biografie più complete e precise dello scrittore di Oak Park: Kenneth S. Lynn. Egli non solo conferma le considerazioni fatte da Fiedler ma aggiunge che la misoginia di Hemingway nasce dal rapporto conflittuale con la madre che da un lato soggiogava moralmente la figura del padre che lui amava immensamente e dall’altra aveva intrapreso una relazione molto intima (definita omosessuale) con una sua amica. Tutte queste considerazioni vengono riprese dal critico italiano Nicolò Menniti-Ippolito che nel suo saggio Conoscere i romanzi di Hemingway, edito Rusconi, riassume questa posizione: “Da qui potrebbero derivare sia l’archetipo della donna come castratrice, sia la frequente immagine dell’impotenza maschile di fronte alle donne, sia il sogno della moglie obbediente e sottomessa perseguito da Hemingway per tutta la sua vita, letteraria e non”8. A confermare ulteriormente questa tesi ci sarebbe anche lo scarso contributo della critica femminile che difficilmente si è soffermata su

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questo autore: “Contributions by women were scarce, with only seventeen women writing about Hemingway during the first decade after his death”9.

La mattina della domenica del 2 luglio 1961, la moglie Mary, dopo essersi svegliata per via di un forte colpo d’arma da fuoco che aveva sentito nella stanza adiacente, dovette constatare che suo marito si era ucciso sparandosi un colpo di fucile in bocca e morendo allo stesso modo del padre. Tre giorni dopo quell’evento scioccante, si tennero i funerali con una cerimonia molto modesta nella piccola chiesa di "Our Lady of the Snow", alla quale presero parte soltanto la moglie, i tre figli e il piccolo gruppo degli amici più stretti. Il suo corpo fu sepolto nel cimitero di Ketchum in Idaho, l’ultimo dei tanti luoghi dove aveva vissuto.

Come si può evincere dalla sua biografia, Hemingway ha spesso e volentieri intrecciato la carriera di scrittore a quella di giornalista, due grandi passioni e due professioni che gli hanno garantito fama internazionale.

Ciò che potrebbe sorprendere nel suo percorso è che egli cominciò come giornalista e divenne scrittore solo più avanti. Infatti, mosse i primi passi nel mondo giornalistico già ai tempi del liceo, grazie all’incoraggiamento di alcuni professori e in particolare di Miss Biggs, una insegnante severa, rigorosa ma anche molto affezionata ai suoi studenti e soprattutto in grado di riconoscerne le potenzialità. Ben presto, il giovane Ernest si appassionò alla scrittura giornalistica, che divenne la sua unica attività extra scolastica, un’attività molto importante negli USA perché permetteva agli studenti liceali, allora come ai nostri giorni, di costruirsi un curriculum più ricco e variegato nella speranza di essere poi accettati da qualche prestigioso college o università. Questo problema non riguardò lo scrittore di Oak Park il quale, come detto, terminò il suo percorso scolastico con il diploma.

Il primo articolo giornalistico di Hemingway risale al gennaio del 1916, anno che segna il suo debutto ufficiale nel mondo della carta stampata e che gli vale subito un ruolo importante: difatti, nonostante egli avesse scritto soltanto sette articoli per il giornalino durante tutto l’anno scolastico, i suoi pezzi erano talmente ben fatti che l’anno successivo divenne uno dei sei redattori e successivamente venne nominato redattore capo. Questa nuova posizione di responsabilità e

9 Susan Beegel, “Conclusion: The Critical Reputation of Ernest Hemingway” in The Cambridge Companion to

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prestigio aumentò la sua consapevolezza, il suo piacere, ma soprattutto la voglia di diventare un giornalista qualificato non appena ottenuto il diploma: infatti, il suo piano originale era quello di iscriversi alla facoltà di giornalismo dell’Università dell’Illinois, un piano poi stravolto dall’ingresso degli USA nella Prima guerra mondiale. In effetti, gli articoli scritti per il giornalino scolastico già mostravano la totale attitudine e la straordinaria abilità non solo nello scrivere in stile giornalistico classico ma anche nella capacità di inserire armoniosamente all’interno di un singolo articolo sensazioni ed opinioni personali, caratteristica certamente non consona alle regole del giornalismo tradizionale ma che lo caratterizzerà per tutto il resto della sua carriera, portandolo ad inventare una forma di giornalismo tutta sua: “The work Hemingway produced for The Trapeze, demonstrates that from the beginning he was capable of writing both conventional, factual journalistic articles and experimental pieces that comment on and challenge the limits of conventional journalism”10. Poco prima di partire per l’Europa, Hemingway si era trasferito a Kansas City, dove aveva accettato un posto di lavoro offertogli dal giornale locale, il Kansas City

Star. L’autore si trovò per la prima volta a lavorare nella redazione di un quotidiano letto da un

numero decisamente più nutrito di persone rispetto a quello dei giornalini scolastici e fu un’esperienza molto importante per la sua carriera di giornalista e anche per quella futura di scrittore, in quanto grazie alla politica redazionale, i nuovi reporter (categoria a cui apparteneva Hemingway) lavoravano a stretto contatto con i caporedattori e con i reporter più esperti, che potevano insegnare ai giovani i trucchi del mestiere. C’era soprattutto una frase che i più esperti dicevano ai novizi per riassumere i loro insegnamenti: “Use short sentences. Use short first paragraphs. Use vigorous English. Be positive, not negative”11: le regole basilari del buon giornalista. Hemingway le assimilò molto bene, tanto da farne tesoro anche quando divenne uno scrittore, come dimostra il suo stile informativo, asciutto, tagliente, semplice e conciso. Un altro aspetto che il giovane scrittore imparò dalla sua breve esperienza nel giornale di Kansas City fu l’uso dei dialoghi: infatti, egli lavorò principalmente come reporter che intervistava le persone in città riguardo agli argomenti più disparati e questo gli diede l’opportunità di imparare ad ascoltare e raccogliere le testimonianze, a riassumerle e infine a trascriverle, cercando sempre di preservare l’originale natura del dialogo e ovviamente le informazioni salienti. Tutto questo si rivedrà anche in Hemingway romanziere, che userà molto lo strumento del discorso diretto tra due o più personaggi (come appare chiarissimo nell’opera che analizzerò più avanti). Questa esperienza fu ovviamente fondamentale non solo per affinare la sua tecnica giornalistica ma anche per trovare elementi tecnici

10 Elizabeth Dewberry, “Hemingway’s Journalism and the Realist Dilemma”, in The Cambridge Companion to

Hemingway, cit., p.17.

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