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L’Agordino dal 1900 ai giorni nostri: un’economia in evoluzione

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Academic year: 2021

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(1)

Corso di Laurea magistrale (ordinamento ex

D.M. 270/2004)

in Amministrazione, Finanza e Controllo

Tesi di Laurea

L’Agordino dal 1900 ai giorni

nostri:

un’economia in evoluzione

Relatore

Ch. Prof. Giovanni Favero

Laureanda

Anna Maria Valt

Matricola 808724

Anno Accademico

2013 / 2014

(2)

L’Agordino dal 1900 ai giorni nostri:

un’economia in evoluzione

(3)

Agli amici che non ci sono più

ma che porterò

sempre nel mio cuore.

Non passa un solo giorno

(4)

Sommario

Premessa ... 1 Introduzione ... 2 Capitolo 1 ... 7 I 16 Comuni dell’Agordino ... 7 Agordo ... 7 Alleghe ... 8 Canale d’Agordo ... 10 Cencenighe ... 11

Colle Santa Lucia... 12

Falcade ... 13

Gosaldo ... 14

La Valle Agordina ... 15

Livinallongo del Col di Lana ... 15

Rivamonte Agordino ... 17

Rocca Pietore... 18

San Tomaso Agordino ... 19

Selva di Cadore ... 20

Taibon Agordino ... 21

Vallada Agordina ... 22

Voltago Agordino ... 23

Capitolo 2 ... 25

Le vecchie attività economiche in Agordino. ... 25

La coltivazione ... 25 L’apicoltura ... 31 La produzione di birra ... 32 La fienagione ... 32 I fienili ... 35 Le abitazioni ... 38 L’allevamento e le malghe ... 40

Lo sfruttamento del legname ... 50

(5)

I seggiolai ... 69

Le serve ... 73

I carbonai ... 74

I preparatori di calce viva ... 75

La produzione di posate ... 76

Alcune simpatiche figure ormai scomparse ... 76

Le cooperative di consumo. ... 78 L’abbigliamento ... 80 Le centrali idroelettriche ... 82 Le vie di comunicazione ... 83 L’emigrazione ... 90 Capitolo 3 ... 91 Il turismo ... 91 Gli alberghi ... 93 I rifugi ... 97 L’alpinismo ... 101

Una seconda “conquista delle cime” ... 107

Il turismo invernale ... 110

Il turismo estivo e in generale ... 113

Capitolo 4 ... 123

Luxottica ... 123

Perché proprio ad Agordo? ... 123

Un’azienda in continua evoluzione ... 126

One sight: non solo profitti ... 129

Focus sugli assunti in Agordino ... 129

L’influenza di Luxottica sul territorio ... 132

Capitolo 5 ... 135

Dati statistici e relativo commento ... 135

L’andamento della popolazione dal 1901 al 2011 ... 136

Movimento migratorio ... 150

Popolazione e occupazione ... 155

Popolazione e cultura ... 181

(6)

Capitolo 6 ... 220

Conclusioni ... 220

Gli anni 2000 e il futuro ... 220

Ringraziamenti ... 225

Bibliografia ... 226

(7)

1

Premessa

E’ il 12 giugno del 2014 e parto da casa presto: alle otto e trenta devo essere a Belluno presso la Camera di Commercio e precisamente nell’Ufficio di Statistica. Mi offrono gentilmente la possibilità di consultare il loro archivio che contiene i vecchi censimenti e i Registri delle Imprese di inizio secolo scorso. Abito in una piccola frazione del Comune di Canale d’Agordo e per arrivare a Belluno devo percorrere buona parte dell’Agordino.

Ma questo viaggio è diverso dagli altri… mi sono accorta che sto imparando alcuni aspetti dell’Agordino che prima non avrei nemmeno immaginato.

Attraversato Cencenighe e la galleria, arrivo a Listolade e penso tra me e me: ecco questa strada l’hanno costruita nel 1934, prima passava più vicina al Cordevole e per ragioni di sicurezza ne avevano costruita una più a sinistra. Qui c’era anche il “confine” tra i Comuni di Soprachiusa e quelli di Sottochiusa.

Dopo Agordo, l’ex strada statale passa vicino alla Val Imperina, dove fino a qualche decennio fa estraevano il rame.

Poi raggiungo La Muda, una località del Comune di La Valle Agordina. Un tempo, fino al 1955, c’era una fermata del treno e diversi abitanti. Ora rimane solo qualche casa abitata.

L’ex strada statale 203 Agordina, che ho percorso tantissime volte, è l’alternativa più diretta per arrivare a Belluno dall’Agordino. Se devo essere sincera, l’ho sempre considerata un po’ caotica, ma oggi l’ho vista sotto un’altra luce.

Finalmente ho avuto l’opportunità di conoscere come si sia evoluta la viabilità per raggiungere quest’angolo di Dolomiti nel XX secolo e di come gli Agordini abbiano duramente lavorato per migliorarla.

Il tempo passa, sicuramente ora la vita è più semplice e non è così faticosa come un tempo ma credo sia fondamentale conoscere il passato per comprendere meglio il presente e impegnarsi affinché il futuro sia florido. Avere dimestichezza con il proprio territorio è imprescindibile per poter tramandare le origini alle future generazioni e permettere anche ai molti turisti che giungono nei Comuni agordini di cogliere non

(8)

2

solo l’evidente e maestosa bellezza delle Dolomiti ma sapere che dietro a tutto ciò vi è molto di più. Io stessa mi sono stupita di quanto fossero intraprendenti gli Agordini, di come riuscissero a sfruttare le poche risorse che un territorio di montagna impervio come questo può offrire. Non siamo nella rigogliosa Pianura Padana e il clima è rigido con inverni lunghi. Non c’era l’abbondanza dei prodotti della pianura intesa sia come quantità di derrate che come tipologia. Però, come si comprenderà nei prossimi capitoli, la gente fu sempre in grado di adattarsi a ogni situazione e di rimboccarsi le maniche.

Introduzione

L’Agordino è una zona della Provincia di Belluno che comprende 16 comuni, si estende per 66.020 ettari1, che corrispondono al 18% della superficie della Provincia di Belluno. L’Agordino è costituito dalla Valle del Cordevole (torrente che nasce sul Passo Pordoi a quota 2237 metri e che si immette nel Piave a Pagogna2) con le valli laterali dei suoi affluenti:

 il Pettorina che nasce dal Passo di Forca Rossa;

 il torrente Fiorentina che nasce sul Pelmo;

 il Biois che nasce a Malga Col di Mezzo nei pressi del Passo San Pellegrino;

 il Corpassa che si immette nel Cordevole a Listolade;

 il Tegnàs che nasce nella Valle di San Lucano;

 il Sarzana che nasce dal gruppo della Croda Grande;

 il Rova, il Missiaga e il Bordina che nascono nel territorio di La Valle Agordina;

1

V. Ferrario (a cura di), Tabià: recupero dell’edilizia rurale alpina nel Veneto, San Vendemiano, Grafiche Scarpis, 2006, p. 49

2

M. J. Gaiardo, L’Agordino e la sua storia attraverso le carte geografiche, Belluno, Tipografia Piave, 1997, p. 13

(9)

3

 l’Imperina che nasce nell’omonima valle dove sono ancora presenti i resti delle miniere;

 il Clusa che corrisponde al confine tra Agordino e Bellunese.

Un tempo tali territori erano divisi in Soprachiusa e Sottochiusa. La chiusa si trovava a Listolade, dove era stato costruito un forte3 presso il quale veniva controllata la merce e, quando c’erano epidemie, lo stato di salute4 delle persone che transitavano, oltre ad essere un presidio militare nei momenti di tensione.

Il territorio di Soprachiusa5 comprendeva le seguenti regole:

 Cencenighe;

 San Tomaso;

 Alleghe (ai tempi non comprendeva anche il paese di Caprile come oggi);

 Calloneghe (attuale frazione di Rocca Pietore);

 Vallada;

 Pettigogno;

 Forno;

 Fregona (questi tre territori ora ricompresi nel Comune di Canale d’Agordo);

 Falcade;

 Sappade (ora frazione del Comune di Falcade). Mentre il Sottochiusa comprendeva:

 Agordo;

 Paré;

 Tóccolo (queste prime tre regole ora sono comprese nel Comune di Agordo);

 La Valle;

 Riva;

 Gosaldo;

 Tisèr (ora Comune di Gosaldo); 3

G. Fontanive, L. Cadorin, Taibon, Belluno, Nuovi Sentieri Editore, 1990, p. 23

4

G. Fontanive, Alla ricerca di un antico paesaggio: il lago di Listolade, Belluno, Tipografia Piave, 2013, p. 10

5

(10)

4

 Voltago;

 Frassenè (attualmente Comune di Voltago);

 Taibon;

 Pèden;

 Valle;

 Listolade (ora queste ultime tre regole fanno parte del Comune di Taibon Agordino).

Per secoli la vita delle comunità agordine fece capo alle Regole6. Le Regole avevano importanti funzioni sociali in caso di difficoltà nelle famiglie. Ogni Regola aveva un “capo vila”, il quale non aveva poteri maggiori rispetto agli altri ma aveva semplicemente il compito di coordinare il tutto. In ogni Regola si eleggevano quattro deputati7: due per le scelte interne, uno come rappresentante nelle riunioni della Comunità e uno che doveva partecipare alle riunioni del Capitanato di Agordo.

La Regola era un esempio di democrazia, in quanto il popolo veniva coinvolto e non era considerato in base ai possedimenti.

Le riunioni di Soprachiusa avvenivano presso la Casa delle Regole a Canale d’Agordo, la quale è ancora presente in Piazzetta Tancon. A volte però le riunioni venivano indette a Cencenighe, paese più vicino alle Regole della Val Cordevole.

Il sistema delle Regole fu vigente fino al 1797, quando la Repubblica di Venezia cadde e la zona passò nelle mani della Repubblica Cisalpina.

Si tratta di comuni di montagna, che hanno visto mutare incredibilmente l’economia nel XX secolo: sono passati da un’economia di sopravvivenza al benessere economico in pochi decenni, anche se attualmente l’economia va un po’ a rilento a causa della più generale crisi economica italiana.

Ho pensato che fosse interessante analizzare come si sia evoluta l’economia, trattando sia quelle attività che hanno caratterizzato l’inizio del XX secolo e che poi un po’ alla volta per vari motivi sono state abbandonate, sia le due principali attività di questi

6

L. Dell’Andrea, Selva di Cadore come era: Selva da nosakàn, Belluno, Tipografia Piave, 1993, p. 213

7

G. Tancon, Noi da Canal: storie di Canale d’Agordo e vicende paesane, Belluno, Nuovi Sentieri Editore, 2011, p. 56

(11)

5

ultimi decenni: il turismo e Luxottica. Il mio elaborato si svilupperà soprattutto attorno a questi due ambiti e alla loro convivenza.

Nel primo capitolo illustrerò brevemente i comuni agordini, sottolineando le peculiarità di ciascuno e permettendo così al lettore di calarsi nel contesto agordino. Nel secondo capitolo parlerò delle attività economiche che hanno caratterizzato il XX secolo, di come si sono evolute e in molti casi eclissate. Inoltre, affronterò il tema della viabilità poiché anche lo sviluppo delle vie di comunicazione influenza la vita della gente, la loro facilità a spostarsi da e per altre zone e il commercio. Infine, tratterò brevemente l’emigrazione, fenomeno che ha caratterizzato l’Agordino di fine Ottocento ed inizio Novecento e che è cambiato in base alla mutevole situazione economica locale.

Nel terzo capitolo introdurrò una delle due attività vitali per l’Agordino in questi ultimi anni, ossia il turismo. In particolare, parlerò delle sue origini, di come e in quali forme si sia evoluto e dell’attuale offerta turistica agordina.

Nel quarto capitolo affronterò l’altro volano dell’economia agordina: Luxottica, un’azienda che ha influenzato fortemente gli ultimi 50 anni. Cercherò di evidenziarne sia gli aspetti negativi che positivi e di trovare una risposta alle seguenti domande: il turismo e l’occhialeria, due attività così diverse, possono coesistere e come si sono influenzate in questi decenni? La presenza in valle di Luxottica ha determinato cambiamenti nelle scelte lavorative e di vita della popolazione e nell’interesse verso il territorio?

Nel quinto capitolo, attraverso un’approfondita analisi dei censimenti, prenderò in considerazione l’evoluzione della popolazione e come si è modificata la composizione dei tre settori occupazionali: sarà una sorta di proseguimento del quarto capitolo, in quanto emergeranno altri aspetti interessanti sul binomio turismo-occhialeria.

La decisione di analizzare i dati Istat della popolazione agordina non è casuale ma nasce dalla convinzione che i due aspetti citati poc’anzi siano stati influenzati dalla presenza di un’impresa come Luxottica. Si vedrà come abbia contribuito allo spopolamento di alcuni comuni a favore di altri comuni più vicini agli stabilimenti.

(12)

6

Trattandosi di una comunità piuttosto piccola, emergeranno interdipendenze fra aspetti ritenuti distanti a un primo sguardo.

Ho analizzato inoltre come si è evoluto il livello d’istruzione della gente agordina poiché ritengo che la cultura sia una delle risorse principali che può consentire alle persone di puntare ad un futuro migliore. Forse questa scelta può sembrare singolare e non avere nessun legame apparente con il tema principale della mia tesi, ossia l’economia. Ma credo che la cultura, l’intuito e lo spirito imprenditoriale siano i tre elementi che fanno la differenza nell’evitare che una comunità possa andare verso il declino. Infine, partendo da alcuni dati sul turismo, purtroppo non completi, cercherò di analizzarne il trend.

Nell’ultimo capitolo, trarrò le mie conclusioni in base a quanto scoperto nell’approfondimento delle varie tematiche.

(13)

7

Capitolo 1

I 16 Comuni dell’Agordino

Agordo

Agordo rappresenta sicuramente il centro principale dell’Agordino. Si estende per 2367 ettari8. Riguardo all’origine del nome si pensa che derivi dal nome di persona longobardo9 “Agardis” o “Agihard”, perché si ritiene che l’area sia stata popolata da un gruppo di longobardi. Tra gli aspetti più caratteristici di Agordo c’è sicuramente l’area verde chiamata “Il Broi”10, a ricordo della Signora che donò tale prato alla sua morte, affinché rimanesse un posto dove i bimbi potessero giocare tranquillamente, in mezzo al verde. Inoltre ricordiamo Palazzo Crotta, poi de’ Manzoni11. Si tratta della Villa Veneta posta più a settentrione12 e soggetta a molteplici interventi nel corso degli anni. Nel XIV secolo al suo posto c’erano abitazioni, stalle e magazzini di due ricche famiglie: i Pietroboni e i Paragatti. In seguito dovettero cedere tutto a un commerciante venuto dalla Lombardia di nome Francesco Crotta, il quale decise di costruire la villa.

8 G. Dal Mas, La conca agordina, Belluno, Tipografia Piave, 2007, p. 221 9

A. Angelini, E. Cason, Oronimi bellunesi, Belluno, Fondazione G. Angelini Editore, 1992, p. 3

10

B. Pellegrinon, Un ricordo dall’Agordino, Belluno, Nuovi Sentieri Editore, 1982, p.27

11

Ivi, p. 31

12

Dal Mas, La conca agordina, p. 125

(14)

8

Alla fine del XVIII secolo, il potere della famiglia Crotta era decisamente in declino e ad Agordo arrivò Giuseppe Manzoni, il quale era amministratore delle proprietà dei Crotta nel Vittoriese. Ben presto, Manzoni entrò in possesso di tutti i beni dei Crotta e nel 1820 ottenne addirittura il titolo nobiliare dall’imperatore d’Austria per l’aiuto conferito durante le guerre. Il cognome venne trasformato così in de’ Manzoni.

Ad Agordo, il 17 dicembre del 186813, venne fondata anche la prima Sezione del CAI nelle Alpi Orientali, la quarta in Italia dopo Torino, Aosta e Varallo. A prendere l’iniziativa fu l’ingegnere Nicolò Pellati, direttore della Miniera di Valle Imperina. Dal 2002 la Sezione è intitolata ad Armando “Tama” Da Roit.

Alleghe

Il territorio del Comune di Alleghe si estende per 2985 ettari14 ed è caratterizzato dall’omonimo Lago e dalla

visuale sulla stupenda parete Nord-Ovest del Civetta, una delle cime dolomitiche più famose tra gli alpinisti.

Il lago si formò in seguito alla caduta15 di una parte del Monte Piz nel 1771. La frana distrusse i paesini di Riete, Marin, Fusine, Peron, Torre, Costa, Sopracordevole e Sommariva16.

13

C. Avoscan, F. Francescon, Dolomiti e dintorni, Belluno, Camera di Commercio, 2011, p. 173

14

D. Fontanive, Alleghe e il Civetta, Mestre, Edizioni Turismo Veneto, 1994, p. 5

15

Gaiardo, L’Agordino e la sua storia attraverso le carte geografiche, p. 57

16

Pellegrinon, Un ricordo dall’Agordino, p. 86

(15)

9

Dal Senato di Venezia arrivarono aiuti economici17 per la ricostruzione e la gente fu esente18 da pagare le tasse per 5 anni.

Riguardo all’origine etimologica del nome non c’è niente di sicuro19. Alcuni studiosi hanno collegato il nome Alleghe alla parola friulana “àlighe” che significa alga, anche se attualmente non sono presenti alghe. Mentre secondo altre correnti di pensiero potrebbe derivare dal verbo latino “àlligo”, che significa legare sia in senso fisico che metaforico.

Lo sport più importante ad Alleghe è sicuramente l’hockey su ghiaccio20. Un tempo la prima pista usata fu sicuramente il lago ghiacciato e già nel 1932 il lago ospitava importanti partite.

La frazione principale di Alleghe è Caprile la quale, negli anni in cui erano attivi i forni fusori (1530-1778) che lavoravano il ferro ottenuto dal Fursìl, raggiunse una notevole ricchezza21, visse alcuni decenni di difficoltà e declino per poi riprendersi negli anni in cui il turismo iniziò ad affermarsi nella zona.

17G. A. Del Negro, Il lago di Alleghe: tragedia e fascino, Belluno, Tipografia Piave, 2007, p. 77 18

Ivi, p. 86

19

A. Case De Toni, Alleghe: antico avamposto bellunese, una scelta di difesa confinaria, Belluno, Tipografia Piave, 1993, pp. 53-56

20

Fontanive, Alleghe e il Civetta, p. 26

21

P. Suzzi Valli, Tra Civetta e Marmolada: Caprile e l’Alto Agordino negli scritti e nelle immagini di

(16)

10

Canale d’Agordo

Canale d’Agordo si trova alla confluenza della Valle di Gares con la Valle del Biois. Il territorio di Canale, 4612 ettari22, è circondato da splendide montagne23: l’Altopiano delle Pale di San Martino, la Cima Pape e le Cime dell’Auta.

Fino al 1964 si chiamava Forno di Canale24, in relazione ai forni fusori presenti fino al 1748, anno in cui l’alluvione li distrusse, quando ancora si estraeva rame e mercurio dalla Valle di Gares. Mentre il nome Canale è legato alla morfologia del tratto dove scorre il torrente Biois tra Caviola e Cencenighe. Canale d’Agordo è noto per essere il paese natale di Albino Luciani, ossia Papa Giovanni Paolo I.

Prima dello sviluppo turistico della Valle del Biois, Canale d’Agordo era il centro economico25, culturale e religioso della valle. A conferma di questo c’è il fatto che nel XV secolo venne costruito sulla piazza di Canale, di fronte alla chiesa, un ospizio-ospedale26. L’edificio era a due piani e dava ospitalità ai mendicanti ma anche ai valligiani che si recavano a Canale per le più disparate faccende ma non riuscivano a tornare nei rispettivi villaggi in quanto sopraggiungeva la notte. Inoltre, fungeva anche da ospedale, ospitando quei malati che non avevano nessuno che li accudisse. La

22

Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Belluno, Compendio statistico della

Provincia di Belluno, Belluno, C.C.I.A.A., 2001, p. 25

23

B. Pellegrinon (a cura di), Canale d’Agordo: memorandum per una storia, Belluno, Nuovi Sentieri Editore, 1979, p. 13

24

S. Pellegrini, I nomi locali della Valle del Biois, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1977, p. 82

25G. Migliardi O’Riordan, D. Testa Benzoni (a cura di), Archivi nella Provincia di Belluno, Rasai di Seren

del Grappa, Tipolitografia Editoria DBS, 2003, p. 69

26

Tancon, Noi da Canal, p. 103

(17)

11

struttura era gestita da una persona chiamata “Priore” che veniva scelta ogni nove anni.

Cencenighe

Il Comune di Cencenighe è attorniato dalle cime Sanson27, Pelsa, Anime e Spiz de Medodì ed è esteso 1800

ettari28.

Cencenighe deriva probabilmente dal nome personale Cincinus29, che significa riccio.

Tale comune si trova alla confluenza delle valli del Biois e del Cordevole e per tale motivo dal punto di vista commerciale30 ha avuto un notevole sviluppo

negli anni, essendo un nodo strategico. Ma allo stesso tempo, il fatto di avere un territorio su cui scorrono due torrenti che durante la stagione delle piogge e durante i disgeli primaverili sono impetuosi, ha causato non pochi problemi agli abitanti di Cencenighe. In particolare, si ricordano le alluvioni del 1748, 1757, e 188231 e la più recente del 196632 che causò innumerevoli danni.

Il nucleo originale era costituito da alcune case vicino alla chiesa.

27

D. Fontanive, Cencenighe Agordino, Mestre, Edizioni Turismo Veneto, 1993, p. 5

28 Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Belluno, Compendio statistico della

Provincia di Belluno, p. 25

29

Angelini, Cason, Oronimi bellunesi, p. 13

30

Ibidem

31

P. Doriguzzi Bozzo, Guida economico turistica della Provincia di Belluno, Treviso, Arti Grafiche Longo & Zoppelli, 1958, p. 124

32

http://www.comune.cencenigheagordino.bl.it/, data di consultazione 8 agosto 2014

(18)

12

Una delle più importanti strutture presenti è senza dubbio il Circolo Culturale “Nof Filò”, dal 1981 luogo di ritrovo per feste, mostre d’arte, convegni e rappresentazioni teatrali.

Colle Santa Lucia

Il più antico nome del paese di cui si ha testimonianza fu Puchberg33 (monte dei faggi). In seguito la prima parte del nome fu unita a Stein che in tedesco significa pietra, ottenendo così Puchenstein, con riferimento al castello di Andràz.

Lo stesso nome si trova in alcuni testi con riferimento a un altro comune confinante, ossia Livinallongo. Fu usato anche il nome Fursìl nel periodo medievale, in riferimento al monte dove furono scavate le miniere. Infine, il nome attuale fu utilizzato da quando venne costruita la chiesa nel XIV secolo.

Il Comune di Colle Santa Lucia si estende per 1524 ettari34. A lungo fu collegato al Comune di Livinallongo sia a livello ecclesiastico che amministrativo, anche se ottenne col tempo una certa autonomia. Questo perché era distante da Pieve di Livinallongo. Inoltre le miniere modificarono col tempo il profilo economico e Colle subì influenze dai territori vicini del Cadore e dell’Agordino.

33

V. Pallabazzer, F. Chizzali, Colle Santa Lucia: vita e costume, Mestre, Edizioni Turismo Veneto, 1994, p. 51-52

34

Ivi, pp. 17

(19)

13

Il centro amministrativo rimase il castello di Andràz fino al 1801. In seguito costituì con Livinallongo un “Landgericht III Klasse”35 con sede a Pieve. Dal 1868 entrambi i Comuni furono uniti al capitanato distrettuale d’Ampezzo.

Colle entrò a far parte dell’Italia solo dal 1923, a seguito del I Conflitto Mondiale. Per quanto riguarda le vie di comunicazione, Colle fu dai tempi remoti collegato sia a Selva di Cadore che a Caprile tramite carrarecce. Per avere strade più moderne verso i paesi limitrofi si dovette aspettare l’intervento del Genio Militare durante la Prima Guerra Mondiale. Da Colle si può raggiungere il Passo Giau36, un punto panoramico da cui si possono ammirare alcune imponenti cime: Pore, Averau, Nuvolau, Gusela, Lastoni di Formin con Cima de Lastoni e Cernera.

Falcade

L’origine del suo nome è molto probabilmente legata al concetto di ampio terreno falciativo37, come del resto una delle sue innumerevoli frazioni, Sappade, significa terreno da zappare.

Falcade si estende per 5314 ettari38.

A fare da sfondo a tale Comune

ci sono favolose cime: a Sud le cime del Focobón e del Mulaz, verso Nord Col Bechèr e le Cime dell’Auta e a Est il Gruppo del Civetta e il Pelmo.

35

Corte distrettuale III Classe

36

D. Fontanive, Colle Santa Lucia e il Passo Giau, Mestre, Edizioni Turismo Veneto, 1994, p. 8

37

Pellegrini, I nomi locali della Valle del Biois, p. 131

38

Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Belluno, Compendio statistico della

Provincia di Belluno, p. 25

(20)

14

Tra i tre comuni della Valle del Biois, Falcade è quello più sviluppato a livello turistico, anche se negli ultimi anni c’è una certa stasi, dovuta a diverse cause di cui parlerò nel capitolo sul turismo. Oltre agli impianti di risalita che fanno parte del Comprensorio Trevalli e che permettono di sciare vedendo un panorama mozzafiato, sulla splendida piana di Falcade è possibile praticare lo sci nordico. Mentre d’estate, la piana è il posto perfetto per i grandi che vogliono passeggiare e i bimbi che possono giocare immersi nel verde.

Gosaldo

Il Comune di Gosaldo si estende per 4885 ettari39.

Anche nel caso del Comune di Gosaldo, come per Agordo, sembra che il nome abbia origine da “Gausoald”40, nome proprio longobardo.

In passato Gosaldo è stato il comune degli emigranti per eccellenza, perché le miniere di Vallalta non furono sufficienti per offrire il lavoro a tutti gli uomini.

Il Comune di Gosaldo è formato da quattro frazioni: Don (sede comunale), Tiser, Sarasin e Villa Sant’Andrea, anche se le borgate sono molte di più.

Gosaldo è circondato dalla Croda Grande (Pale di San Martino) e dai Monti del Sole e il suo territorio è compreso nel Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi.

39

Ibidem

40

Angelini, Cason, Oronimi bellunesi, p. 20

(21)

15

La Valle Agordina

Comune situato in un’insenatura orientale della conca di Agordo41, sul quale scorrono due torrenti: il Missiaga e il Bordina. Si estende per 4870 ettari42 ed è attorniato da imponenti cime: la Moiazza a Nord, la Catena del San Sebastiano a Nord-Est (formata da Moschesin, Tamer e Cima Nord di San Sebastiano), il Talvena ad Est e il Celo a Sud. Un tempo il paese si chiamava San Michele in Valle43.

La Valle Agordina fa parte del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi.

A La Muda, una delle frazioni di La Valle, passò per la prima volta il treno44 l’11 gennaio del 1925. La tratta collegava Agordo con Bribano. Tale mezzo di trasporto sarà attivo solo fino al 24 novembre del 195545.

Livinallongo del Col di Lana

Il nome deriva dalla parola lavinale46, ossia terreno soggetto a frane e in effetti la conformazione del terreno, estremamente ripida, corrisponde a tale espressione. Si estende per 9978 ettari47.

41C. Da Roit, Un viaggio nel passato: vecchie immagini di La Valle e lavallesi, Belluno, Nuovi Sentieri

Editore, 1984, p. 5

42C. Da Roit, Casère e pascoli, vittime del lavoro e altre “storie” della montagna lavallese, Longarone,

Grafiche Longaronesi, 2006, p. 101

43

Gaiardo, L’Agordino e la sua storia attraverso le carte geografiche, p. 75

44

Da Roit, Un viaggio nel passato, p. 22

45

W. Capraro (a cura di), La lunga sfida: imprese artigiane, vicende storiche e attività di un’associazione

nel suo territorio, Santa Giustina, Dolomiti Stampa S.r.l., 2005, p. 35

46

Angelini, Cason, Oronimi bellunesi, p. 21

Figura 9 La Valle Agordina fotografata da Rivamonte

(22)

16

Il Comune di Livinallongo ha come confini naturali splendide e famosissime cime: il Nuvolao48 lo divide dall’Ampezzo, il Settsass e il Prelongié dalla Valle di San Cassiano, Sommamont e Forcelle dalla Val Badia, il

gruppo del Sella e il Sass Piccié da Gardena e Fassa, la catena del Padon dalla Valle di Penia e dalla Val Pettorina.

Sono ancora presenti i resti del Castello di Andràz49, costruito sopra una pietra enorme.

Per molti secoli raggiungere Livinallongo fu una vera e propria impresa50 attraverso i valichi o da Caprile. Nel 1906 venne ultimata la famosa “Strada nuova delle Dolomiti”51 che passava, attraverso il Passo Pordoi, anche per Arabba e Pieve e poi

verso il passo Falzarego e congiungeva la Valle dell’Adige con la Val Pusteria.

Livinallongo fu annesso al Regno d’Italia nel 192352. Fino a quel momento gli abitanti di Livinallongo avevano sempre avuto rapporti con i tirolesi, dai quali erano amministrati ma dai quali godevano comunque di ampia autonomia. L’annessione all’Italia non fu affatto semplice in quanto erano ben poche le affinità con gli Italiani. Non furono rispettate le diversità culturali, religiose, sociali ed economiche. E così per anni Livinallongo, insieme a Colle Santa Lucia e Cortina d’Ampezzo, sperarono di poter essere annesse alla provincia di Bolzano. Soprattutto nei primi anni tutto ciò era 47

Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Belluno, Compendio statistico della

Provincia di Belluno, p. 25

48

I. Vallazza, Livinallongo: memorie storiche e geografiche, Belluno, Nuovi Sentieri Editore, 1984, p. 17

49

A.Agostinelli, La Rocca di Pietore, Cortina, Tipografia Ghedina, 1999, p. 9

50

G. Loss, Livinallongo e il castello di Andraz, Belluno, Nuovi Sentieri Editore, 1991, p. 12

51

Vallazza, Livinallongo, pp. 24-26

52

L. Palla (a cura di), Le minoranze del Veneto: ladini, cimbri e germanofoni di Sappada, Cortina, Tipografia Ghedina, 1998, p. 76

(23)

17

considerato dalla politica corale bellunese53 come una pressione separatistica filotedesca rifiutata a priori. Le ferite della guerra conclusa da pochi anni erano ancora aperte. Negli anni ’7054 il contesto cambiò e le autorità politiche divennero maggiormente sensibili alla questione ladina. Ci si rese conto che ottenere un’autonomia per l’intera Provincia avrebbe significato essere più competitivi rispetto alle due Regioni autonome confinanti e inoltre emerse l’interesse a valorizzare le tradizioni locali e non dimenticare il passato.

Rivamonte Agordino

Il territorio di Rivamonte è esteso 2321 ettari55, su un versante ripido di montagna, con a valle il torrente Imperina e a monte il Colle Armarolo56. Nei documenti più antichi in cui compare (XIII secolo) viene menzionato come Riva57 e Ripa. Con Decreto del Re Vittorio Emanuele II del 20 aprile del 186758 il nome passò da Riva a Rivamonte, per poi aggiungere “Agordino” solo nel 1964.

La storia di Rivamonte fu legata in particolare alle vicissitudini delle miniere di Val Imperina, situate proprio in tale Comune: da esse dipesero l’evoluzione della popolazione e l’impatto sull’ambiente

53 Ivi, p. 81

54

Ivi, p. 84

55

AA. VV., Rivamonte, Belluno, Tipografia Piave, 1972, p. 25

56

E. Giorgis, Il minatore agordino: l’epopea dei minatori e seggiolai di Rivamonte Agordino nel

Novecento, Verona, Cierre Edizioni, 2012, p. 13

57

Ivi, p. 31

58

Ivi, p. 28

(24)

18 circostante.

Il Comune era attraversato da un certo numero di mulattiere ma nel biennio 1919-2059 venne costruita una strada più ampia tra Ponte Alto, Rivamonte e Forcella Franche.

Rocca Pietore

Si tratta di uno dei comuni più vasti dell’Agordino: ben 7603 ettari60. Il suo nome più antico è Roccabruna61 (nel 1290). Tale nome scomparve e probabilmente non fu mai diffuso tra la popolazione, come avvenne con Fursìl nel caso di Colle Santa Lucia. Per quanto riguarda il nome

attuale, di più antiche origini è Pietore con un evidente nesso con la Val Pettorina, anche se non è mai comparso nell’uso popolare, a differenza di Rocca. Rocca deriva da un fortilizio62 costruito attorno al 950 durante le invasioni barbariche, presso il Sass de la Murada63, un

enorme macigno. Già dal 1420 fece parte della Repubblica di Venezia64, anche se godette sempre di una certa autonomia, distinguendosi così dagli altri comuni. Il Comune di Rocca Pietore è ricco di bellezze naturali come la Marmolada65, la cui cima

59

Ivi, p.35

60D. Fontanive, Rocca Pietore, Mestre, Edizioni Turismo Veneto, 1994, p. 5 61

V. Pallabazzer, La ladinità di Rocca Pietore dalle origini ai giorni nostri, Belluno, Tipografia Piave, 1995, pp. 13-21

62

Agostinelli, La Rocca di Pietore, p. 38

63

F. Tamis, Storia breve dell’Agordino, Belluno, Tipografia Piave, 1989, p. 117

64

Ivi, p. 61

65

Fontanive, Rocca Pietore, p. 21

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19

si può raggiungere grazie alla funivia che parte da Malga Ciapela e i Serrai di Sottoguda, una gola profonda lunga un paio di chilometri e larga 8-10 metri tra Malga Ciapela e Sottoguda che si può percorrere grazie alla vecchia strada. L’origine di tale gola66 potrebbe derivare o da un movimento sismico o dalla continua erosione causata dalle acque.

San Tomaso Agordino

San Tomaso si estende per 1915 ettari67.

Il comune di San Tomaso è prevalentemente montuoso68 e solo una piccola parte delle case si trova a valle, dove scorre il torrente Cordevole. La maggior parte delle frazioni si trovano ad altitudini variabili sulle pendici del Sasso Bianco. Questa conformazione ha fatto sì che in passato le vie di comunicazione siano state difficili. In sostanza le frazioni alte erano collegate alla strada comunale attraverso delle mulattiere. La strada comunale ai tempi partiva da Avoscan, arrivava a Celat per poi proseguire fino a Cencenighe.

Solo nel 1945, grazie all’impegno e all’idea di un abitante di nome Sebastiano Piaia69 che si recò in bicicletta dal Prefetto a Belluno per proporre il suo progetto, venne

66

G. Mieville, Brevi cenni storici su Rocca Pietore: antichissima magnifica comunità bellunese, Feltre, Castaldi, 1939, pp. 6-7

67

Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Belluno, Compendio statistico della

Provincia di Belluno, p. 25

68

L. Sirena, San Tomaso Agordino: balcone sulle Dolomiti, Agordo, Castaldi, 2007, pp. 11

69

Ivi, p. 12

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20

costruita una strada più ampia. Anche se il momento non era dei migliori perché stava terminando la Guerra, i lavori iniziarono di lì a poco e furono coinvolti molti abitanti della zona. Le paghe non erano sicuramente alte ma era sempre un aiuto alle ristrette economie familiari del tempo e in pochi mesi la strada venne aperta.

Si tratta di un comune sparso e la sede comunale si trova nella frazione di Celat.

Selva di Cadore

Il Comune è situato nella Valle Fiorentina70, zona compresa tra le montagne Formin, Rocchetta, Becco del Mezzodì, Pelmo e Fernazza e si estende per 3321 ettari71.

Il nome ha un chiaro legame con la parola selvatico.

Per secoli questa zona appartenne al Cadore72, nonostante la vicinanza geografica alla Val Cordevole e tale legame rimase stretto per secoli. E’ importante porre l’accento su questo se si pensa al fatto che le comunicazioni tra Selva di Cadore e il resto del Cadore avvenissero attraverso il valico della Forada73, il quale era pericoloso e per nulla agevole. In estate la difficoltà maggiore era la durata della camminata: 4 ore e mezza all’andata e idem al ritorno. Mentre d’inverno, freddo e valanghe facevano diventare quel tragitto una sfida con la morte. La Val Fiorentina si poteva

70

V. Pallabazzer, I nomi di luogo dell’Alto Cordevole, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1971, p. 122

71

AA. VV., Storia, archeologia e geologia della Val Fiorentina, Cortina, Edizioni Printhouse, 2000, p. 101

72

Ivi, p. 123

73

L. Dell’Andrea, La ladinità di Selva di Cadore e gli Statuti comunali, Belluno, Tipografia Piave, 1996, p. 29

Figura 13 Selva di Cadore e la Val Fiorentina con l'imponente Pelmo sullo sfondo

(27)

21

considerare isolata prima della costruzione di diverse strade74: il collegamento tra Selva e Caprile, poi il Passo Staulanza che permetteva di spostarsi verso lo Zoldano e Longarone, il collegamento a Colle, attraverso il quale si poteva proseguire per Livinallongo, infine il Passo Giau che permetteva scambi tra Selva e Cortina.

Solo nel XX secolo75, con la creazione delle Comunità Montane, Selva si integrò con i vicini Comuni agordini.

Nel corso degli ultimi decenni anche Selva di Cadore ha raggiunto un notevole sviluppo turistico grazie soprattutto agli impianti di risalita che permettono di far vivere al turista la montagna sia d’estate che d’inverno.

Taibon Agordino

Taibon si trova alla confluenza del torrente Tegnàs col Cordevole76, all’imbocco della Valle di San Lucano, valle chiusa tra le pendici delle omonime Pale e la parete settentrionale del Monte Agnèr. Tale territorio è vasto (9020 ettari77) e comprende oltre alla Valle di San Lucano anche la Val Corpassa, vicina al Gruppo della Civetta. Dal 1994, ogni anno d’estate viene attribuito il

74

Dell’Andrea, Selva di Cadore come era, p. 79

75

Ibidem

76

Fontanive, Cadorin, Taibon, p. 7

77

Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Belluno, Compendio statistico della

Provincia di Belluno, p. 25

(28)

22

Premio Corpassa78 a persone che si sono distinte per il loro amore e impegno verso la montagna.

L’origine del nome Taibon79 è considerata collegata a una parola di origine latina da cui derivò “Tabullo” e poi Taibon.

Taibon è uno dei pochi comuni che ha visto la propria popolazione crescere, grazie alla vicinanza con Agordo e lo stabilimento Luxottica.

Vallada Agordina

Vallada, uno dei tre comuni della Valle del Biois, corrisponde al termine italiano vallata80 e il suo territorio si estende per 1319 ettari tra il Col di Frena81 a Ovest, le Cime di Pezza e Pianezza a Nord, il

Celentone a Est e a Sud il Monte Celat. Vallada è un comune sparso che comprende sette frazioni: Mas, Celat, Sachet, Andrich, Toffol, Cogul e Piaz.

Caratteristica è la Chiesa di San Simon82, attestata già nel 1185. Da alcuni anni è riconosciuta come monumento nazionale perché al suo interno vi sono molti affreschi dell’artista Paris Bordone, allievo di Tiziano Vecellio.

Anche tra le antiche case e gli splendidi

78 G. Dal Mas, B. Pellegrinon, L. Santomaso (a cura di), Corpassa: una valle, un premio, Belluno,

Tipografia Piave, 2003

79

Fontanive, Cadorin, Taibon, p. 7

80

Pellegrini, I nomi locali della Valle del Biois, p. 247

81

Pellegrinon, Un ricordo dall’Agordino, p. 60

82

D. Fontanive, Guida turistica della Valle del Biois, San Vito di Cadore, Grafica Sanvitese, 2005, pp. 30-31

(29)

23 fienili si trovano molti pregiati dipinti.

Voltago Agordino

La storia di Voltago Agordino è strettamente legata alla maestosa cima dell’Agnèr, di cui parlerò diffusamente nel capitolo sul turismo.

Una leggenda narra che il nome Voltago83 derivi dall’ampia volta fatta in quella zona da un lago che un tempo occupava l’Agordino.

Il Comune di Voltago Agordino è formato da 2303 ettari84.

A Vich85, località di Voltago, nel 1824 nacque Don Antonio Della Lucia, arciprete per anni a Canale e fondatore delle prime cooperative di consumo e delle latterie sociali.

Fu sempre impegnato nel sociale, fondando il primo asilo rurale86 per i bimbi dai 4 agli 8 anni nel 1868, affinché potessero imparare a leggere e scrivere prima di iniziare a dare una mano alla famiglia nei lavori. Inoltre creò delle biblioteche circolanti.

Amelia Edwards Blanford nel suo celebre libro definì Voltago “il paese dei ciliegi”87.

83

Pellegrinon, Un ricordo dall’Agordino, p. 51

84 Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Belluno, Compendio statistico della

Provincia di Belluno, p. 25

85

P. Conte, M. Perale, 90 profili di personaggi poco noti di una provincia da scoprire, Belluno, L’amico del Popolo S.r.l., 1999, p. 83

86

F.Tamis, Don Antonio Della Lucia: il sacerdote del cooperativismo, Belluno, Tipografia Piave, 1972, p. 24

87

D. Bridda, C’era una volta…Voltago il paese dei ciliegi, Belluno, Nuovi Sentieri Editore, 1990, p. 8

(30)

24

La principale frazione di Voltago è Frassenè, la quale nei primi decenni del XX secolo raggiunse un notevole sviluppo turistico. Oltre alla costruzione di parecchi alberghi e pensioni, vennero potenziati i servizi offerti, il centro del paese venne abbellito, i sentieri vennero ripristinati e venne aperto anche un ufficio informazioni.

Ciò fu possibile anche grazie al sostegno88 della Sezione Agordina del CAI, in quanto la vicinanza di Frassené al Monte Agnér rendeva tale località un punto strategico di partenza delle ascensioni a tale cima.

88

G. Fontanive, P. Mosca, L. Mosca, Frassené Agordino: un paese, tante storie, Belluno, Tipografia Piave, 2008, p. 16

(31)

25

Capitolo 2

Le vecchie attività economiche in Agordino.

La coltivazione

Fino a un paio di decenni fa, ogni nucleo familiare aveva un seppur piccolo orto, che veniva recintato con il legno. In primavera si preparava la terra concimandola con il letame e vangandola. Molte erano le piante seminate89: la lattuga, la cicoria, l’assenzio, l’erba cipollina, lo scalogno, le bietole rosse, le zucche, l’aglio, i fagiolini, il sedano, la santoreggia, le patate, il granturco, il frumento, la segale, la canapa e l’orzo.

Tra tutti questi sicuramente la patata era uno degli ortaggi più importanti ma anche uno degli ultimi a diffondersi, nel 1800. Coltivare la patata migliorò l’alimentazione in montagna, in particolare quando verso il 1860 fu importata dalla Germania90 una qualità di patate che dava un raccolto più abbondante e coltivabile a qualsiasi altitudine senza problemi.

La consuetudine di coltivare un piccolo orto è stata abbandonata da alcuni, soprattutto dalle generazioni più giovani che la ritengono quasi una perdita di tempo, trovando al supermercato ogni ben di dio a prezzi relativamente modici. Ma, allo stesso tempo, molte famiglie in Agordino non rinunciano ad ottenere dalla terra quanto possibile in base al clima e alle condizioni meteorologiche perché l’orto di casa dà la certezza di poter avere prodotti sani.

Qui di seguito parlerò di due delle coltivazioni principali: la canapa per ottenere tessuti e l’orzo per l’alimentazione.

89

E. Migliorini, Le dimore rurali del bellunese, Feltre, Libreria Pilotto Editrice, 1989, p. 165

90

(32)

26

La canapa

La coltivazione della canapa ha origini antiche. Proveniente dall’Asia centrale, si diffuse in Italia nel periodo delle Repubbliche Marinare (dal X al XIII secolo)91, quando erano necessari tessuti resistenti per costruire le corde e le vele delle flotte. Nel corso dei secoli la sua diffusione raggiunse anche la montagna bellunese. In Agordino la canapa92 veniva coltivata per ottenere tessuti necessari alla vita di tutti i giorni. Veniva seminata in primavera, possibilmente dove la terra era grassa ed abbondante. La pianta maschile veniva raccolta per prima, la si divideva in manne, le quali venivano portate in un prato e rimanevano lì sotto le intemperie per un paio di mesi. Quando anche la pianta femminile era matura, veniva raccolta.

Dopo avere tolto i semi, usati in cucina, le piante femminili venivano unite alle altre.

Dopodiché si procedeva a schiacciare i mannelli di canapa con un attrezzo apposito. Siccome si trattava di un lavoro faticoso erano più donne a svolgerlo consecutivamente. Finita questa fase, si doveva separare la stoppa grezza dalla fibra scelta. L’attrezzo apposito93 veniva tenuto fermo in basso con il piede e in alto con la mano. Si facevano passare le fibre tra le punte di ferro: la fibra scelta rimaneva in mano mentre gli scarti finivano a terra.

91

http://www.informagiovani-italia.com/repubbliche_marinare.htm, data di consultazione 19 settembre 2014

92

F. Deltedesco, L’artigianato della lana, della canapa e del cuoio a Fodóm, Cittadella, Bertoncello Artigrafiche, 1995, pp. 96-97

93

Ivi, p. 104

(33)

27

La parte scartata veniva arrotolata in un pennacchio e serviva a creare grembiuli da lavoro o lenzuola per trasportare il fieno. Con la parte migliore si ottenevano lenzuola, tovaglie, canovacci, asciugamani, camicie e sottovesti.

Nel II Dopoguerra94, la coltivazione della canapa venne progressivamente abbandonata.

L’orzo

L’orzo, la cui origine secondo alcune fonti è nel Vicino Oriente e per altre in Tibet95, è stato uno dei primi cereali ad essere coltivato.

La coltivazione dell’orzo in Agordino era estremamente diffusa poiché era il cereale che si adattava con più facilità96 alle varie condizioni ambientali ed era facile da conservare. Erano preferibili terreni fertili e ben drenati. Essendo un cereale che impoveriva la terra, esso veniva coltivato a rotazione dopo tutti gli altri prodotti.

Il terreno veniva arato a 30-40 cm di profondità, togliendo le erbacce e poi passando con l’erpice.

L’orzo veniva seminato in primavera97 e in agosto veniva raccolto. L’orzo era maturo quando i chicchi erano color oro e la spiga si frantumava. Veniva ammucchiato in covoni e lasciato sul campo ancora per 3-4 giorni. L’orzo veniva poi messo sui ballatoi dei fienili ad essiccare. In autunno si procedeva alla battitura. La paglia che rimaneva dopo la battitura veniva sfruttata come lettiera per le mucche. I chicchi di orzo rimasti sul pavimento dovevano essere ulteriormente puliti dalle impurità. L’orzo così ottenuto veniva portato nel mulino più vicino per togliere la gluma (orzo perlato). L’orzo aveva vari utilizzi sia per l’uomo che per gli esseri animali.

94

Gruppo Fibranova S.r.l., http://www.gruppofibranova.it/it/canapa2.htm, data di consultazione 19 settembre 2014

95

Wikimedia Foundation Inc, http://it.wikipedia.org/wiki/Hordeum_vulgare, data di consultazione 19 settembre 2014

96

C. Rova, L’orz inte Selva, Belluno, Tipografia Piave, 2005, p. 17

97

(34)

28

Nell’alimentazione umana98, l’orzo veniva utilizzato nei seguenti modi:

 per la minestra d’orzo (un piatto tipico agordino molto nutriente) e altri utilizzi in cucina;

 come surrogato del caffè, sia a colazione che a cena. L’orzo perlato veniva tostato sul fuoco con un attrezzo chiamato “bàla” in dialetto. Era necessario stare attenti che non si bruciasse e quando raggiungeva un colore marrone scuro era pronto. Si metteva a raffreddare e si macinava. La polvere veniva messa in un recipiente contenente acqua che

veniva portata ad ebollizione. Si aggiungeva poi mezzo bicchiere di acqua fredda99 per far depositare la polvere sul fondo: la stessa polvere veniva adoperata più volte;

 ridotto a farina poteva essere mescolata a quella

del frumento e usata per la panificazione. La sola farina di orzo rendeva il pane troppo duro e friabile;

 per il malto. Esso si otteneva dalla germinazione e successiva essicazione dei chicchi d’orzo da cui si sviluppano gli enzimi che trasformano l’amido in maltosio. Il malto si usa tuttora per produrre la birra e altri alcolici.

Come nel caso della canapa, anche la coltivazione dell’orzo venne progressivamente lasciata da parte negli anni ’50 e ’60.

98

Ivi, pp. 39-40

99

E. Bernard, I mestieri nella stalla d’inverno, Vittorio Veneto, Kellermann Editore, 2011, p. 64

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29

La trebbiatura

Le donne sul finire dell’estate raccoglievano le biade, le ammucchiavano in mezzo al campo e le lasciavano là per una giornata. Alla sera poi i covoni venivano portati sui poggioli dei fienili ed appoggiati sui bastoni per farli seccare per bene.

In autunno100, nei fienili si procedeva con la trebbiatura. I bambini iniziavano da piccoli ad imparare questa attività: addirittura già a 6-7 anni. La trebbiatura si effettuava al primo piano, nel locale chiamato aia, il quale era piuttosto grande. Per battere le biade si usava un bastone di legno duro leggermente incurvato. La battitura veniva ripetuta alcune volte e poi si raggruppava la paglia in fasci.

Ogni granello era importante e prima di iniziare tale lavoro, tramite una serie di cunei, si tappavano le feritoie tra una trave e l’altra del pavimento del fienile.

La molitura

Nel 1900 c’erano moltissimi mulini in Agordino, che sfruttavano l’energia dei torrenti. Si deviava parte dell’acqua del torrente con tronchi e pietre101, convogliandola nella gora e infine nel canale di legno fino alla ruota. Se il torrente era in piena si doveva rinforzare la paratoia e d’inverno era necessario togliere il ghiaccio che man mano si formava sulla ruota.

I mulini venivano adoperati per macinare il mais, la segale, l’orzo e il frumento. Anche i mulini nel XX secolo furono abbandonati progressivamente, sia perché dipendevano dai momenti di abbondanza102 delle acque sia perché si abbandonò un po’ alla volta l’agricoltura per altre attività più redditizie. I mulini si dividono in quelli con la ruota orizzontale103 e quelli con la ruota verticale. Quelli con la ruota orizzontale sono posti a cavallo della corrente in cui si pone sotto un asse un mozzo con pale. L’asse trascina in cima la macina mobile che frantuma il grano sulla mola fissa.

100

C. Vallazza, Corte: Livinallongo del Col di Lana, Belluno, Tipografia Piave, 1992, p. 67

101 G. B. Rossi, Civiltà agricola agordina, Belluno, Nuovi Sentieri Editore, 1982, p. 230 102

Gaiardo, L’Agordino e la sua storia attraverso le carte geografiche, p. 151

103

(36)

30

Invece il mulino con la ruota verticale ha la ruota mossa dal sotto (detta a pale) o dal sopra (a coppedello). La ruota a pale ha un diametro minore rispetto all’altra e in Agordino prevalse la ruota a coppedello, in quanto necessitava di meno acqua per muoversi. Le ruote venivano costruite con il legno di quercia, essendo molto resistente, mentre le pale erano ricavate da legno più leggero. Le ruote potevano essere poste sul corso principale o sul corso secondario dei torrenti.

Il proprietario del mulino per la macinatura si faceva pagare in natura il più delle volte e in qualche caso in denaro, a seconda di come si accordava con il cliente che doveva macinare i propri cereali. La macinatura non era un lavoro facile: presentava pericoli104, se il cereale era troppo umido le ruote si inceppavano e all’opposto se c’era troppa poca umidità la crusca diventava polverosa.

In Valle del Biois, in località Tegosa nel Comune di Canale d’Agordo, una signora ha continuato a macinare cereali fino a pochi anni fa. Attilia Fabris105, nata nel 1921 a Canale d’Agordo, si sposò nel 1942 con un ragazzo di Tegosa e lì vissero la loro esistenza. Un bel giorno il marito ebbe l’occasione di recuperare la ruota di un mulino e, avendo la casa vicino a un torrente, i due coniugi pensarono di installarlo e sfruttarlo. Tale attività fu portata avanti per tanti anni da Attilia, poiché il marito era via per lavoro.

A La Valle Agordina invece è ancora attivo un mulino, appartenente alla famiglia Da Roit, azionato attualmente da un’erede: Mariarosa Da Roit106. Il mulino si trova nella frazione di Lantrago, vicino al ponte sul torrente Missiaga. Il canale che porta l’acqua al mulino è lungo 300 metri. In questo mulino è sempre stato macinato solamente il mais.

104 Vallazza, Corte, p. 69

105

D.Mazzoncini, C’era una volta, Rasai di Seren del Grappa, Tipolitografia Editoria DBS, 2013, p. 7

106

(37)

31

L’apicoltura

L’apicoltura era praticata in molti paesi agordini107. Il miele prodotto non era destinato alla vendita ma serviva al consumo familiare. Oltre al miele si utilizzava la cera108 con cui si realizzavano candele e anche un unguento per curare ferite e screpolature. A Cencenighe veniva adoperato in cucina insieme al papavero per cospargere le lasagne la vigilia di Natale. La cera si usava per far scorrere meglio il filo ottenuto dalla canapa, il quale serviva a costruire le pantofole. Alcuni creavano una pomata mescolando miele, resina di larice e burro che curava ferite ed infiammazioni.

Attualmente l’apicoltura è praticata a Colle Santa Lucia109, Rivamonte Agordino e Rocca Pietore.

In Agordino nel 1998 erano presenti 131 arnie110. La zona è ricca di fiori di ogni tipo e la qualità del miele è alta ma le quantità prodotte sono limitate. Dunque, il miele arriva al consumatore tramite una vendita diretta il più delle volte.

A Colle Santa Lucia è attiva la ditta Miele Agostini111, che si occupa di apicoltura dalla fine del XIX secolo ed è arrivata alla quinta generazione. Il Miele Agostini è considerato biologico secondo la legge del 2001.

La ditta produce e commercia ben 6 qualità di miele:

 millefiori di montagna: prodotto in Alto Agordino e in Val Fiorentina;

 miele di bosco: Alto Agordino, Val Fiorentina e Passo San Pellegrino;

 miele di rododendro: Monte Pore e Cherz;

 miele di tiglio: Dolomiti Bellunesi e Pedemontana Veneta;

 miele di acacia: Val Belluna, Montello e Novara;

 miele di fiori di melo: Trentino Alto Adige.

A Rivamonte c’è la ditta Apicoltura Michele Schena112, che produce miele biologico.

107

Rossi, Civiltà agricola agordina, p. 157

108

Pallabazzer, Chizzali, Colle Santa Lucia, p. 225

109

AA. VV., Api, apicoltori e apicoltura, Rasai di Seren del Grappa, Tipolitografia Editoria DBS, 2011, p. 9

110

Ivi, p. 11

111

(38)

32

Infine, a Rocca Pietore c’è l’Apicoltura “Due Valli”113 di Pezzè Francesco. Il padre di Francesco ha iniziato l’attività nel 1986.

In Provincia sono attive quattro associazioni: Apidolomiti, Apat – Apicoltori in Veneto, Apimarca e Associazione Regionale Apicoltori Veneto.

La produzione di birra

Nel 1847 a Canale d’Agordo venne costruita una fabbrica di birra114 dall’avvocato e pubblicista Giovanni Battista Zannini, la quale fu operante fino al 1930. L’avvio di tale fabbrica fu seguita all’inizio da alcuni maestri birrai giunti appositamente dalla Baviera. Nel 1908 una parte della famiglia proprietaria della fabbrica si spostò a Pedavena e aprì quella che divenne negli anni la famosa Birreria Pedavena.

La fienagione

Se al giorno d’oggi tagliare l’erba è un’attività svolta da pochi, solo vicino alle abitazioni e soprattutto per curare il territorio, fino agli anni ‘70 era un’attività fondamentale. Avere una grande scorta di fieno da dare da mangiare alle bestie durante l’inverno era basilare perché rappresentava la sopravvivenza anche della gente.

Fino a 50 anni fa l’area vicino ai paesi era completamente coltivata e i prati si trovavano ad altitudini maggiori. La gente tagliava il più possibile, spingendosi fin sotto le stupende pareti dolomitiche. Negli anni furono costruite moltissime teleferiche che permettevano di trasportare a valle il fieno con minore fatica. Le funi, probabilmente 112

Ente Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi,

http://www.dolomitipark.it/ar/produttori.php?id_produttori=10018, data di consultazione 10 giugno 2014

113Pezzè Francesco, http://www.apicolturaduevalli.it/, data di consultazione 10 giugno 2014 114

(39)

33

avanzate dalla produzione bellica, furono donate dallo Stato al termine del primo conflitto mondiale per aiutare la popolazione montana particolarmente provata dalle miserie della guerra. Era necessario rialzarsi e l’unica maniera era sfruttare le poche risorse ottenibili dalla terra.

Una cosa da sottolineare è il fatto che molti uomini erano all’estero a lavorare ed erano quindi soprattutto le donne ad occuparsi di tale lavoro, aiutate dalle persone anziane ancora in grado di lavorare e dai ragazzini. Mio papà si ricorda ancora le innumerevoli salite intraprese da bambino per aiutare la propria famiglia. La giornata iniziava la mattina presto perché l’erba bagnata di rugiada era più facile da tagliare con la falce. Il fieno era una merce talmente importante che i sentieri più trafficati venivano lastricati con delle lastre in pietra, conficcate nel terreno di taglio per facilitare la salita con i carri ed evitare che gli acquazzoni estivi potessero causare eccessivi danni. Questi lastricati sono stati predisposti così bene da resistere fino ai giorni nostri. Anche i muri a secco in pietra, eretti il più delle volte come confine tra un terreno e l’altro, si sono conservati perfettamente.

In primavera115 era necessario ripulire i prati poiché, a causa delle valanghe, erano pieni di fogliame, pietre e rami. Anche i prati, come i campi, venivano concimati con il letame. Prima di procedere al taglio era fondamentale preparare la falce116 (fauth) a dovere, battendola con martello e maglio (mai). Periodicamente la lama veniva ravvivata con un passaggio con la pietra molare (piera), la quale si teneva in un contenitore con dell’acqua (codèr).

115

Pallabazzer, Chizzali, Colle Santa Lucia, p. 179

116

P. Rosson, Rivamonte: kela de na òlta, Cittadella, Bertoncello Artigrafiche, 1991, p. 86

Figura 19 Sentiero lastricato che porta sulle pendici delle Cime d’Auta

(40)

34 Un primo fieno era il maggengo117, spesso detto anche semplicemente fieno ed era quello di qualità migliore, poi c’era il lugliengo (adòrc) e il terzo fieno infine, il quale veniva tagliato raramente, in particolare alle quote più alte. Quest’ultimo era usato per nutrire capre e conigli.

Il fieno veniva trasportato nei fienili o nelle gerle (darlìn) o con il metodo del “fas sulla testa”118: questo consisteva nel fare un gran mucchio di fieno bloccandolo bene con una corda e poi si infilava la testa in un piccolo buco creato in mezzo al fieno. Tra il fieno e

la testa si metteva un fazzoletto di stoffa per evitare il contatto diretto con il fieno. Il fieno per essere riposto nei fienili doveva essere perfettamente secco, altrimenti c’era il rischio che marcisse e fermentasse con il conseguente pericolo di incendi o la formazione di muffe e in tal caso sarebbe stato rifiutato dagli animali. Il fieno rifiutato dalle mucche veniva tolto dalla loro mangiatoia e dato alle pecore o alle capre. Quando era in arrivo un temporale si portava il fieno al riparo anche se non perfettamente asciutto perché si poteva mettere ad asciugare nei ballatoi. Nel Comune di La Valle119 era diffusa l’abitudine di lasciare il fieno in montagna al riparo dentro alle “scófe” (piccole costruzioni in legno) fino all’inverno. Quando arrivava la neve, il fieno veniva trasportato in paese con le slitte.

117

G. Grava, G. Tomasi, La fienagione nelle Dolomiti venete, Vicenza, Angelo Colla Editore, 2012, pp. 37-38

118

Sirena, San Tomaso Agordino, p. 17

119

D. Perco, Malgari e pascoli: l’alpeggio nella provincia di Belluno, Feltre, Libreria Pilotto Editrice, 1991, p. 15

(41)

35

I fienili

I fienili erano le indispensabili strutture che servivano per conservare le granaglie e il fieno nei mesi in cui le bestie non potevano stare all’alpeggio. Secoli orsono, casa, fienile e stalla erano un tutt’uno ma dal XVI secolo120 si iniziò a costruire separatamente le abitazioni per motivi igienici. In Agordino sono ancora presenti diversi esempi di casa e fienile uno a fianco dell’altro in un corpo unico. I materiali usati per costruire i fienili erano semplicemente quanto si trovava in natura: legno e pietra121. Il ferro122 veniva usato raramente poiché era un materiale costoso.

Il fienile veniva costruito sopra la stalla che era di pietra. La stalla aveva una porta doppia in legno. All’interno, in un angolo, c’era il fieno e in un altro si ammucchiavano le foglie123, dette anche strame124, che venivano usate come lettiera per gli animali. Lungo le pareti c’erano le mangiatoie. Sul pavimento c’era la zanella dove confluiva lo stallatico: era leggermente inclinata verso l’esterno. Le finestre e le porte della stalla venivano spesso coperte con gli infissi125 per proteggere anche le bestie dal freddo. Gli attrezzi presenti erano il minimo indispensabile: una piccola seggiola usata mentre si mungeva, il badile, la vanga, la forca per spostare il fieno, le falci, i rastrelli e le gerle. La stalla era anche un luogo di ritrovo nelle lunghe sere invernali: era un ambiente mite grazie al tepore emanato dagli animali.

In passato i fienili venivano costruiti “a castello”126 (block bau) con l’uso di grossi tronchi sovrapposti di larice, incastrati negli angoli. Tale sistema di costruzione richiedeva quindi molto legname e nell’Ottocento si cambiò tecnica, creando costruzioni più leggere: prima di tutto si posavano montanti di legno, distanti qualche

120 Ivi, p. 75 121

D. Perco (a cura di), Uomini e pietre nella montagna bellunese, Belluno, Tipografia Nero su Bianco, 2002, p. 111

122

L. Dematteis, Case contadine nelle Valli Dolomitiche del Veneto, Ivrea, Priuli & Verlucca Editori, 1991, p. 40

123

Rossi, Civiltà agricola agordina, p. 96

124

Grava, G. Tomasi, La fienagione nelle Dolomiti venete, p. 84

125

C. Vallazza, R. De Toni, I nostri fienili, Belluno, Tipografia Piave, 2009, p. 28

126

(42)

36

metro l’uno dall’altro, poi si univano orizzontalmente con travi interpiano e controventati da travi messi in una determinata angolazione. Le pareti, infine, venivano chiuse con tavole di larice e traforate per arieggiare il fieno e allo stesso tempo decorare il fienile.

Il fienile poteva essere composto da uno o due piani127. Al primo piano (in dialetto èra) si poteva accedere dal ponte posteriore e si divideva in una parte chiamata aia dove si battevano i cereali e un’altra parte ad altezza doppia dove si conservava il fieno. La quantità di fieno128 raccolta durante l’estate doveva bastare per tutti i mesi invernali e all’incirca per ogni bestia servivano 50 metri cubi.

Sul pavimento del primo piano c’era una botola che serviva a far cadere il fieno necessario agli animali.

I ballatoi esterni potevano essere più o meno coperti e percorrevano il fienile su due o tre lati.

Il sottotetto era invece chiamato “archèr” e vi si accedeva il più delle volte grazie a una ripidissima scala. Vi si riponevano gli attrezzi e anche il fieno se ai piani inferiori non c’era più spazio.

Il tetto era a due falde e ricoperto di scandole129 in legno di larice. Le scandole erano delle tavolette130 dello spessore di due o tre cm e lunghe 60 cm. Venivano disposte sfalsate e sormontate per circa la metà della lunghezza. Poi si passò all’uso dei coppi, i quali venivano adagiati sul tetto in doppio strato: quello inferiore con la concavità verso l’alto e quello superiore con la convessità verso l’alto, entrambi gli strati sfalsati e sormontati.

127

Grava, Tomasi, La fienagione nelle Dolomiti venete, p. 79

128

Dematteis, Case contadine nelle Valli Dolomitiche del Veneto, p. 13

129

Vallazza, Toni, I nostri fienili, p. 10

130

(43)

37

Nel 1944, in piena guerra, molti fienili ed abitazioni in Agordino vennero bruciati dai tedeschi per rappresaglia. Quell’inverno per quella povera gente fu tremendo. Successe anche alla casa e al fienile di mio nonno Benedetto. Lui era prigioniero in guerra e a casa il capo famiglia presente era il bisnonno che, suo malgrado, non potè fare nulla in quanto si trovò davanti un tedesco armato di fucile. E così rimase lì ad assistere ad un vero e proprio inferno, che distrusse il sudore e le fatiche di anni. L’anno scorso, rovistando in alcune scatole conservate nel fienile, abbiamo trovato diversi documenti, tra cui un elenco compilato un paio d’anni dopo che riportava quanto andato perso. Sono fatti che toccano il cuore e mi ha colpito la precisione con cui il mio bisnonno, classe 1877, compilò quella lista, speranzoso di ottenere un qualche risarcimento.

Con il boom economico e l’abbandono di alcune attività come l’agricoltura e l’allevamento, la maggior parte dei fienili sono stati abbandonati e sfruttati come magazzino e legnaia.

Negli ultimi anni si è assistito alla ristrutturazione e al cambio d’uso di molti fienili, trasformati in splendide abitazioni. Se da un lato questo rappresenta un recupero e un modo per non abbandonare la montagna, dall’altro porta ad allontanare sempre più dagli occhi delle

nuove generazioni un passato lontano di pochi decenni.

Figura 21 Elenco originale scritto dal bisnonno Giusto

(44)

38

Le abitazioni

Dopo aver parlato dei fienili, il passaggio successivo e naturale è trattare le abitazioni. Sono giunti ai giorni nostri documenti che attestano con sicurezza la presenza stanziale in Agordino dalla metà del XII secolo.

Nel costruire una casa, la gente cercava posti il più possibile soleggiati131 e in effetti le prime case vennero costruite sulle pendici delle montagne. Le case venivano costruite le une vicine le altre per non togliere spazio prezioso per i campi. Non esistevano mattoni e le case venivano costruite con i sassi132 recuperati nei torrenti e la calce veniva prodotta artigianalmente come spiegherò più avanti: tutto questo fino a fine anni ’50, quando si iniziò ad utilizzare materiali industriali. Già allora avere una casa di proprietà era importantissimo, si poteva anche costruire un po’ alla volta mentre essere in affitto era una cosa percepita dalla gente di montagna come umiliante. Al piano terra c’erano le cantine e la cucina. Un tempo non venivano costruite le rotonde e si faceva fuoco sul pavimento, il quale era in terra battuta133: il fumo veniva fatto uscire dalla porta d’ingresso ma in questo modo c’era fuliggine ovunque. Ancora non esistevano i camini, che furono introdotti solo nel XIV secolo134.

Col tempo si diffuse l’usanza di costruire una rotonda (chiamata “caminatha” in dialetto) con un camino, esterna al corpo dell’abitazione per evitare che si formasse fumo. Solitamente era dotata di alcune finestre per avere maggiore luce all’interno della cucina e la sua forma135 poteva essere semicircolare, semiquadrata o semiottogonale.

Al centro, sul pavimento, c’era una grande pietra (larìn)136 dove veniva acceso il fuoco sia per la cucina che per riscaldare l’ambiente. Attorno al larìn c’era solitamente una panca dove sedersi e sopra, nella cappa vicino all’imbocco del camino, si appoggiavano

131

Ivi, p. 31

132

Dell’Andrea, Selva di Cadore come era, p. 47

133

Rossi, Civiltà agricola agordina, p. 30

134

Tancon, Noi da Canal, p. 69

135

Ivi, p. 72

136

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