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Il Natale di Roma nelle scuole di Salerno : (21 aprile 1917)

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UNIONE G EN ERA LE DEGLI INSE GN ANT I ITALIANI Com itato Provinciale e Sezione di S alerno

IL N A T A L E DI R O M A

NELLE SCUOLE DI SALERNO

(21 a p rile 1017)

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI S A L E R N O

BIBLIOTECA

SA LERNO S ta b . T i p . M at te o S p a d a ì o r a

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REGISTRÒ

UNIONE G EN ERA LE DEGLI I NSEGNANTI ITALIANI

Com itato Provinciale e Sezione di Salerno

---IL N A T A L E DI ROMA

NELLE SCUOLE DI SALERNO

(21 a p rile 1917)

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ALLA FAMIGLIA SCOLASTICA DELLA PROVINCIA DI SALERNO

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Il giorno 21 aprile tutte le scuole di Salerno, a iniziativa della •Unione Generale degli Insegnanti Italiani per la guerra,, conven­ nero in pubblico teatro per celebrare il Natale di Roma.

U n ’ ottima musica militare, gentilmente concessa dal Generale P orpora com andante la Divisione, intonava inni patriottici.

Il Presidente del Comitato Provinciale Sezione di Salerno della " Unione „ Dr. Vittorio Graziadei R. Provveditore agli studi presentò l’oratore prof. Giuseppe Zito del R. Liceo con le parole che seguono :

L’ Unione generale degli Insegnanti italiani per la guerra, che raccoglie sotto u n ’ unica insegna, quella della Patria, quanti sono che professano il magistero della scuola, dagli universitari alle maestre dei giardini d ’ infanzia, si afferma oggi per la prima volta in Salerno col N atale di Rom a.

Quale occasione più d egna ?

Nel nome di Roma si esalta il pensiero e la coscienza di ogni Italiano da essa traggono i titoli di lor nobiltà insuperata le nazioni che si chiamali latine — e primissima l’ Italia.

Il nostro Carducci, p ur negli anni grigi d ’Italia e della latinità, securo nella sua fede, nutrita di sapienza e di amore, proclamava:

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.... tutto ch e al m o n d o è c iv ile

gra n d e, a u g u sto , e g li è rom an o an cora. S a lv e , D e a R om a! Chi d is c o n o s c e ti c er ch ia to à il s e n n o di fred da ten eb ra , e a lui n el r e o cu o re g e rm o g lia to r p id a la s e lv a di barbarie. S o n citta d in o p er te d ’ Italia, p er te p o e ta , m adre d e i p o p o li, ch e d e sti il tu o sp ir ito al m o n d o , ch e Italia im p ron tasti di tua g lo ria .

P e r ogni gente non b arb ara il nome di Roma significa la più alta meta di virtù guerriera, di sapienza civile, di potenza a cui possa a ssu rg e re un popolo. Q u a n d o noi vogliamo, con breve p a ­ rola, magnificare la rinascita, la rivelazione di virtù nazionale ita­ liana che ci inorgoglisce in questi anni di storia tragica, quali e- spressioni sappiam trovare più adeguate al concetto nostro, alla nostra esultanza, che quelle di virtù romana, di Italia nuovamente

romana ?

Ma della Città massima del mondo, de’ suoi principii, della sua ascensione, della poesia che irradiò su di lei 1’ alto e soave Virgilio, del retaggio che essa à lasciato all’Umanità, di Dante, che accolse e sublimò nel suo gran cuore, nel pensiero eccelso Roma imperante, e Roma cristiana vi dirà 1’ ottimo vostro maestro G iu ­ seppe Zito, che invitato dall’ "Unione., intratterrà oggi tutte le scuole di Salerno sul nobilissimo tema, lo lo ringrazio a no ,e vo­ stro e mio e sono, come tutti, impaziente di ascoltarlo.

Ma consentitemi prima, Signore e Signori, mi consenta, Egregio Amico, c h ’io ringrazi anche queste buone giovinette, questi cari giovani qui raccolti al nostro appello — non del tutto disinteres­ sato. Io sento di dovere oggi a q u e s 'a nostra gioventù parole di lode sincera: e — poiché il suono della lode meritata è la più dolce musica agli orecchi degli uomini, e q u a n d o è rivolta ai figli, ai discepoli, suona di tutta dolcezza anche nei genitori, nei maestri —

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questa e non altra sia l’espressione della mia riconoscenza a voi tutti.

P er verità, la terza Italia è stata prodiga più di censure che di lodi alle nostre scuole, alle nostre scolaresche — e segnata- mente in questi ultimi lustri. Non ricerco il come e il perchè, il prò e il contro, chè non è il momento. Certamente è sem pre più facile dir male che dir bene di ogni cosa. Rilevo il fatto che il più delle volte i biasimi più severi alla scuola secondaria, alla primaria, son venuti appunto da professori, maestri, funzionari della scuola. E taluna volta toccarono a tal segno di acerbità da doversi qualificare non ingiusti soltanto ma calunniosi. Come quando, testé, in pubblico congresso, si parlò di fallim ento della nostra scuola media: come quandD si stampava, mesi fa, che la Scuola italiana dal 1850 ai giorni nostri poco o nulla à fatto per creare la nuova coscienza nazionale — e la sentenza era avvalorata con parole di uomini insigni.

Egregi Colleghi, questi io chiamo delirii... amorosi; chè spesso i giudizi più arcigni sono appunto di quelli che più amano, a sca­ pito di quelli che essi più amano, per un sentimento ombroso, esclusivo, eccessivo, geloso — per effetto di una specie di contor­ sione psichica, che fu pure studiata, se ben ricordo, da un so­ lenne filosofo, lo Spencer. Ma io mi arrovello che siffatti spro­ positi scoppin fuori proprio ora, dopo quindici o venti mesi della nostra g u erra — nella quale la gioventù nostra, uscita da queste nostre scuole bes'emmiate, ha fatto e fa cosi mirabili prove.

Voi tutti, miei Colleghi e Signori che mi ascoltate, tutti po­ treste raccontare qui, con ammirazione, con orgoglio, ahimè, ta­ luni con lagrime, dell’entusiasmo, della fede, della costanza di no­ stri scolari, di nostri figli, che son partiti, che partono, o volon­ tari o chiamati, improvvisandosi soldati e ufficiali, e scrivono dalla guerra a voi, a me, e di quelli che son tornati e ripartiti e di quelli che non torneranno più. Danni, disagi, travagli, ferite, morte serenamente incontrati, per il dovere, per la patria ! Maestri, scolari hanno scritto, scrivono col proprio sangue la pagina del dovere.

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E voi, Capi di Istituti, vi accingete a registrare in sacro volume i nom i- di quanti — ahi son molti e saran n o ! — usciti dalle vostre aule, àn conquistato onore di medaglie e di morte gloriosa. Ma c’è invece forse chi preferisce guardare solo alle brutte eccezioni — se ce n ’ è: io, non ne conosco fra i nostri ragazzi — alle ombre fosche in tanta luce, alle macchie nel sole !

È difficile esagerare la virtù effettiva delia scuola, e anzitutto della scuola elementare, a preparare e a sostenere la nazione nel lungo durissimo cimento. I maestri e le maestre delle scuole elementari àn conservato in sè e diffuso, alimentato fra i piccini, nelle campagne, fin nei più perduti villaggi, l’antico ingenuo sen­ timento della patria, così malamente, impunemente dileggiato, per tant’anni, da sofi e da demagoghi, che tentavano sed u rre ai propri fini la scuola del popolo con allettamenti e vitupèri. I maestri delle scuole primarie ànno insegnato, dalla Sicilia fino a Sondrio, a c a n ­ tare “ Fratelli d ’Italia„ ai bambini, che ora sono i nostri contadini saldi nelle trincee e fra le nevi e il fuoco, anelanti all’assalto.

Merito di programmi e anche più di maestri — per quelle tante e facili vie che son dischiuse a chi maneggia i cuori e le menti degli uomini ancor piccini, dei figli di genti semplici e ignare.

Voglio dirvi cosa minuscola, che vi farà sorridere e pur significa tanto.

Giorni fa un piccino, a tavola, tutt’a un tratto lascia i suoi maccheroni. “ Oh perchè ? Ti senti male ? Sai che non c’ è altro. „ “ P erchè „ risponde confusetto e contrito ".perchè la mae­ stra ci ha detto che dobbiamo m angiare tutti un po’ meno, per i nostri soldati che sono al fronte.

Ai giovinetti nostri s’ è insegnata dalle cattedre in tutte le scuole la patria con Dante, Petrarca, Machiavelli, Manzoni, Berchet, Mazzini, Garibaldi, Carducci... Ed io vi dico che si mostrano non indegni del carme di Simonide....

N e ll’armi e n e ’ p erig li

Q ual tan to am or le g io v in e tte m enti Qual n e ll’a c e r b o fato am or vi tr a sse ?

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Ma a me, che, purtroppo, son dovuto tim aner qui, a pre­ dicare, compete meglio dire di quelli che l’età o il sesso esclude dalla guerra e rimangono nelle scuole e studiano, ahimè, forse, taluni, anche un pò meno di quanto han studiato prima e studie- ra nno poi — e me ne dolgo sinceramente; ma ho detto di dover oggi alle nostre scolaresche parole di lode meritata e non voglio intorbidare l’aria. Certo essi imparano, in questi anni, tante altre cose che importano — a farli uomini e valentuomini - non meno di qualche aoristo o teorema o filosofema o pedagogismo. Ed io ammiro e amo più che mai questa nostra gioventù, poiché la veggo sem pre alacre, pronta, volenterosa ad ogni appello che le vien fatto in nome della Patria, della carità, della umanità — ai continui appelli, per esempio, che si son fatti e si fanno e si fa­ ranno ai loro borsellini magri.

I maestri, che anzitutto predicano con l’esempio, dicono loro: • Date, e fate che gli altri diano senza esitazione e senza misura. Date al Governo, all’ Assistenza civile, alle opere sussidiarie della guerra. Raccogliete i vostri piccoli risparmi nei libretti di credito per il prestito: rinunziate a qualche vano spasso, privatevi di un cibo superfluo, per tramutarli in una buona azione. E ’ denaro messo a frutto. E se solleverà chi soffre, se conforterà chi com­ batte, se risparmierà vite preziose, se affretterà la vittoria, avrà reso il cento per uno. Passata la tempesta, rim arrà in voi l’abito della economia e della sobrietà, antiche virtù di nostra stirpe, onde potemmo resistere ai cimenti passati, e sapremo domani sanare rapidam ente le piaghe della guerra. ..

E i ragazzi danno e dàn n o e dànno, per l’Assistenza civile, per ja Croce Rossa, per il prestito della vittoria, per gli scaldaranci, per la lana, per gli orfani, per i ciechi, per la C asa del soldato, e recite, spettacoli, discorsi, conferenze, decaloghi, cartoline, e il Natale di Roma....; dàn n o i loro quattrinelli e il lavoro delle loro mani e i loro ninnoli d ’oro — e ne san qualche cosa questa Scuola normale femminile e la Scuola tecnica e la Scuola classica.

E dicono loro i maestri “ Non lamentatevi mai, non tollerate che altri si lamenti. Q ua n d o dovrete rinunciare a qualche dolce

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consuetudine, imporvi qualche disagio,- pensate: “ Altri, in questo stesso istante, dà la vita per la causa comune. ,, E la rinuncia, la pena vi p arrà leggera, vi p a r rà ancor poca. Le andrete incontro lietamente, vorremmo dire, con gratitudine, perchè con essa avrete pagato un poco del debito vostro alla Patria; perchè per essa vi sentirete partecipi degli eventi grandiosi che vi rom bano intorno. ..

E i ragazzi così sentono e non si lamentano, sono anzi allegri, come sempre, e tuttalpiù invidiano i loro compagni più grandi, che vanno alle armi — e intanto si inscrivono fra i Giovani Esploratori.

Ma mi si dice che si lamentino invece un pò, qualche volta, i papà e le mamme — chè, insomma, son essi che dàn n o e dànno e dànno. E qualcuno brontola corrucciato: “ pensassero piuttosto a studiare... e a far studiare !! E per verità brontolo a n c h ’ io, taluna volta, anche per debito d ’ufficio. E ci sono degli insegnanti e dei dirigenti che vengono a dirmi: “ È troppo, troppo quello che si pretende da questi ragazzi. E anche da noi, che siam ridotti a fare i questuanti... Non se ne può più ! H anno ragione anche essi : ed io non gli do torto. Ma poi ci mettiamo d ’ accordo per ricominciare qualche nuova azione buona. E ci incoriamo ricor­ da n d o insieme il P a d re Dante e certo episodio del Purgatorio, del quale voglio dirvi brevissimamente, o Giovinetti, — per quelli che non lo sapeste già.

Provenzan Saivani fu un signore di Siena, capo di G hi­ bellini, assai valente e potente in Toscana, ma sup erb o oltre ogni dire, che avrebbe voluto porre il piede sul collo a tutti. Or q uando si credeva più vicino a toccare la cima fu vinto e ucciso in battaglia dai Fiorentini — d e ’ quali altra volta egli aveva voluto la rovina — e il suo capo fitto in su d ’ una lancia fu portato intorno dai vincitori e così e non altrimenti, secondo dice il cronista, si adempiè la profezia, che gli aveva fatta il demonio, che la sua tèsta starebbe sopra a tutte. Dante perciò si meraviglia di trovarlo già sù nel Purgatorio -• a ber lo dolce assenzio dei martìri .. mentre dovrebbe star più sotto, nell’antipurgatorio, se non anche nell’ inferno di Lucifero.

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Ma vien subito la spiegazione.

Q uando Provenzano vivea più glorioso avvenne che un a- mico suo carissimo fosse fatto prigioniero da re Carlo d ’Angiò nella battaglia di Tagliacozzo. Provenzano voleva riscattare 1’ amico, ma non possedeva la somma enorme che si richiedeva. Ma era tanto il suo amore, che non esitò, quel superbissimo, di andare pitoccando fra i suoi concittadini per completare la cifra di fio­ rini d ’ oro che il re voleva; anzi, scrive un commentatore fece ponere uno banco con uno tappeto sulla piazza di Siena, e puosevisi a seder suso e dom andava ai Senesi vergogno­ samente c h ’elli lo dovessino aiutare, in questa sua bisogna, di alcuna moneta, non sforzando persona, ma umilemente dom andando aiuto: e vedendo li Senesi il signore loro, che solea esser superbo, dim andare cosi graziosamente, si commossero a pietade e ciascuno, secondo il suo potere, gli dava aiuto „.

Dante, che di superbia se ne intendeva e che aveva pur dovuto a n d a re ramingo per le terre d ’ Italia, quasi mendico, mostrando la piaga della fortuna „ Dante com prende il gran merito deH’umiliazione volontaria di quel gran signore, che seppe quella volta rivelarsi “ pensoso più d ’altrui che di se stesso e ammira la giustizia misericorde di Dio che per questo gli ha perdonato tanto.

Amici Colleghi, così sia a noi perdonato, a noi questuanti postulanti petulanti, non per noi stessi, non per un amico nostro, ma per la patria di tutti, a tutti cara, per i nostri prodi, per i martiri della nostra guerra.

Dopo la vittoria, q u an d o 1’ Unione generale degli Insegnanti d ’Italia non sarà più per la guerra, ma per la pace, per lo studio, per la Scuola, allora comporremo tutti insieme un a novissima a n ­ tologia, che se non sarà tutta di esempi di bello scrivere, sarà di opere e parole belle, magnanime, eroiche dei nostri giovinetti g u e r­ rieri, di azioni gentili, pietose, generose delle giovinette, dei ragazzi delle nostre scuole — tutta per essi, per la Scuola italiana.

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Ancora u n ’altra p ri ma ve ra di s an g ue !

Nella letizia del sole, mentre la na tura esult a e crea, gli uomini si s tra zia no e si u c c id o no fra loro, con rinnovato furore, sulla terra, p er i mari e nel cielo.

Altri sacrifici ci chiede, e non invano, la Pa tri a. Ma il trionfo della s an ta c a u s a è oramai sicuro, e forse a n c h e vicino; già il terribile d ra mma , che ha pe r attori i popoli e pe r s c e n a il mon do , a cc el er a il ritmo e volge alla catastrofe.

Nella gravità de ll ’ora, è stato o pp or tu no c o n si gl i o di un e d uc a t o r e savio e vigile, c o m ’ è il cav. G ra zi ad ei , riunire la famiglia s col as t ic a p e r c o mm e m o r a r e il n a­ tale di Roma. P o i c h é il natale di Ro ma oggi significa una festa della religione della Patria, ed ha un alto e c o m p le s s o valore morale, civile e politico: è c el e br az io ne delle origini della ge nt e nostra, dei fasti degli avi, del diritto e della civiltà: è de vozi on e di nepoti alla ma d re gloriosa, a ug ur io fervido di mille fratelli ai fratelli lon­ tani, che a t t e n d o n o in armi le ultime prove.

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culmini della g r a n d e z z a u ma na, nella r egione d el l’eroico e d e l l’eterno, dove tutto è fuori della mi sura c omune: uomini, idee, sentimenti, o pe re e linguaggio. Vi a s c e n ­ di amo s e g u e n d o la storia e la le ggen da : una storia, che p ar e le gg en d a, e una l e gg e n d a che, sotto un certo ri­ spetto, è verità a n c h ’ essa, anzi verità più profonda, p er chè ci rivela in forma i m m ag in o sa il mistero e il divino che s ono nella vita di Roma. Q u e s t a è co me un fiume, di cui s ’ ignori la s or ge n te e la foce: è quasi la vita s t e s s a del g e n e r e umano.

E se la vita del g e ne r e uma n o non è in balia del caso, se non è un a tr a ge d ia p e r e n n e e s e nz a s copo, il vano lavoro delle Danaidi, ma è, invece, m a lg ra d o i p a r ­ ziali regressi, uno s volgimento c ontinuo verso destini s em p r e più alti, s e c o n d o un d i s e gn o prestabil ito dalla P r o v vi de nz a o insito allo spirito del mondo, se, come pare, q ue st o s volgimento esiste, n e s s u n ’ altra città o p o po lo del m o n d o lo ri sp ecc hi a, attraver so i secoli, meglio di Roma.

* * *

11 21 di aprile di una pr imave ra lontana d a q u e st a 27 secoli s orse R oma sul colle Palatino, d en tr o il solco s ac r o che Romolo le apri intorno con l’a ratro tirato da un toro r os so e u na v a c c a bianca. Un g e r me di virtù p o rt e nt os a dovette gettare il mitico aratore (era figlio di Marte) sul colle selvoso, in quel giorno: un g e r me d esti nato ad affondare b e n e a d d e n t r o nella terra le ra ­ dici, e a s t e n de r e molto in alto e in largo i rami nel

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cielo, sì d a coprire con la s ua o m br a gran parte della terra; come il frassino Yggrasil, l’ a lber o de ll ’e sistenza nella mitologia s ca nd ina va, che colma tutto l’universo e si s p rof onda nel regno dei morti, dove ha intorno tre n o m e (1’ età pa ss at a, la pre s en te e la futura) che ne annaffiano le radici e filano i fili dei fati umani,

Roma, detta Q u ad ra t a, s orse in quel giorno, ma già era nella volontà del fato fin da q u a n d o Enea, fug­ g e n d o d a Tr oi a, ven ne alle rive del T e v e r e , patria del s uo p r og e n i to r e Da rdan o.

So rs e come asilo ai banditi dei dintorni, patria ai s enza patria: era il s uo destino, e tutti i popoli un giorno d o ve va no trovare in e s s a la patria comune.

La g u a r d a r o n o benigni tutti gli Dei e c ia sc u no le fece d o n o di una g r a n d e prerogativa, s e c o n d o la sua natura. O n d e qui fiorirono q ua n te virtù furono o rna ­ mento degli antichi: s a g g e z z a di governanti, santità di costumi, operosità, giustizia, arti e valore; massima- mente valore.

Solo il Dio T e r m i n e nulla volle d o n a re ma lgra do le mi na cce di Giove, e così la città non e b b e limiti di s pazio e di tempo.

Con Ro ma s o rs er o a n c h e il senato e la legione, le du e meravigliose istituzioni che furono il suo c e r ­ vello e il s u o braccio.

La legione fu s enz a dub bi o, dice Vegezio, l’ ispi­ razione di un Dio. El astica e compat ta, pronta ad ogni sorta di manovra, b u o n a al piano e al monte, contro i fatiti e i cavalli, irruente all’ assalto come il flutto, s a l d a alla difesa c o m e una rocca, c o m p os t a di soldati

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e h ’ e rano cittadini, cittadini c h ’erano, a loro volta, agri­ coltori e pastori, uomini sani e saldi di m e m b r a come di animo, e s s a mo s s e ai quattro venti, alla c o n q u i st a del mondo, lenta e sicura, c ome il volo d e l l’,aquila, che con le ali s p i eg a te e i fulmini di Giove negli ar- tigtf?;- ' p os at a sulla cima di u n ’asta, sarà poi la sua in­ segna.

Roma Q u a d r a t a sotto i suoi re s ’ è g ià e s t e s a sulle alture vicine, è d ive nut a la

Città dei sette colli,

d o ­ mina nel Lazio, ed ha già inalzato al g r a d o di Quiriti, cioè di suoi cittadini, i plebei, e h ’ e rano i vinti e gli stranieri venuti ad a bita re entro le sue mura. È il primo p a s s o della s ua mis si one mondiale.

*

* * »

L ’ Italia a n co r a non era.

La na tu ra aveva con immortali caratteri di monti e di marine c reato la patria nostra c o m e unità fisica; ma non v ’ era unità di popolo; v ’ e rano genti varie di s an gu e e di favella, di costumi e di religione, v e n u t e dalle Alpi e dal mare, c o me ne v enner o a n ch e dopo, s empr e, a fondersi in q ue st o crogiuolo, p o r t a n d o s eco le loro speciali attitudini, onde risulta la mirabile ve r­ satilità di nostra gente. V’ erano Liguri, Galli, Veneti, Umbri, Piceni, Etruschi, Sanniti, Lucani, Bruzi, Iapigi e Greci.

La P eni so la non aveva n e p p u r e un n ome unico: la c h i am av a no Esperia, Enotria, Ausonia, Ca me se na ; e solo un breve tratto a mezzogiorno, molto probabil.

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mente quello che fu detto Lucania, a veva il fatidico nome d ’ Italia.

Le legioni, sotto il c o m a n d o dei consoli, si s p a r ­ sero intorno, oltre il Lazio, p re c e d u t e dalla Vittoria. Ogni gue rr a un trionfo, ogni trionfo una conquist a; il c a m m i n o p er co rs o s e g n a v a s p e s s o una strada, l’a c c a m ­ pa me nt o s p e s s o una colonia; e dietro le legioni veniva il s en no del senato che i vinti univa all’Urbe con in di s­ solubili legami.

Ad una ad una, d o p o lotte lunghe e tremende, c ed o n o alle legioni tutte le genti della Penisola, e il n ome d ’ Italia, o s c u r a n d o gli altri nomi, si e st ende insieme col dominio romano, e via via raggi un ge i tre mari e il b al uar do delle Alpi. A tutte q ue st e genti Roma infuse il s uo spirito, e poi le alzò fino a sè s t e ss a facendole partecipi di tutti i suoi diritti. Come era già s c o m p a r s a ogni differenza in Roma tra patrizi e plebei, così s c om pa r e, ora, la differenza tra Quiriti e Italici. Cittadino r oma no è ora ogni uomo libero nato in Italia. Uno il diritto, una la lingua, uno il destino. E d a quel te mp o noi fummo e siamo s empr e stati, consci o inconsci, pur nella più che millenaria divi­ sione, tra le lotte fraterne e nella servitù, un popolo solo, una nazione.

Le legioni che già e rano a nd at e oltre le Alpi e i mari tr ae n do s ec o co me alleati gl’ Italici, ora, d i v e n ­ tate e ss e s t es se italiche, a cc o l g o n o sotto le ali de ll ’ a­ quila d ’a rge nt o tutti i figli della Penisola. E continuano la loro marcia fatale ai quattro venti, s eg n a n d o a ncor a con strade il loro c ammi no attraverso monti, fiumi e

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, foreste, e s p a r g e n d o lungo le s tra de e nei loro campi i germi di città future. Innanzi a loro fu vano il genio di Annibaie e s par ve la s u p e r b a e ricca Cartagine; si franse la ferrea c o mp a g i n e della falange ma ce d o n e , altera delle vittorie di Alessandro; c ed et te l’a stuzia dei Numidi, l’ eroismo degli Sp agnuoli, s ’ inchinò la G r e ­ cia con la s u a gloria intellettuale, 1’ Egitto con i suoi misteri, il furore bellico della Gallia e 1’ orgogli o dei monarchi asiatici.

Q u e s t a è l’o pe ra di Roma re pu bb li c an a . Roma s ’è fusa nell’ Italia e l’ Italia in Roma, e ai loro piedi sono i popoli del Medit err aneo.

* * *

L’ ultim’ ora della r e p u b b l i c a era intanto s o n at a : la vastità del dominio, la c orruz ione dei costumi e la s frenatezza delle fazioni a veva no reso n e c e s sa r io il ri­ torno della monarchia.

D a lungo t e m p o Roma era dive nut a il teatro di un terribile d r a m m a sociale e politico, in cui, fra le moltitudini brutali dei nobili e dei d emocr ati ci, citta­ dini v er amen te grandi, quali i Gra cc hi, Sc ipione E m i ­ liano, Mario e Siila a vev ano p e r d u t a la vita o si e rano macchiati or r e n da m e n t e di s angu e, ' q u a n d o a p ­ parve sulla s c e n a un u omo straordinario, che pare lo spirito s te ss o di Ro ma fatto pe rs on a, il tipo più g enuino e c omple to del genio universale di nos tra gente: scrit­ tore, stratega, legislatore, fascinatore d ’anime, politico c a p a c e d ’intendere con la vastità de ll ’intelletto i destini del m o n d o romano, e di tradurli in atto con la s ua

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volontà di acciaio. Egli é Cesare, nome che in varie lingue significa a n c o r a imperatore.

Q u es t o patrizio che aveva il c uore dei Gracchi, e d era or gogl i oso della s u a d i s c e n d e n z a da E ne a non me n o che della pa rentela con Mario e Cinna, capi del partito demo cr at i co; que st o amb iz io so che non ve dev a e non voleva n es su n altro al di s op ra di sé, preferendo di e s s er e primo in una b orga ta delle Alpi che s ec o n d o in Roma, e a t re nt ad ue anni si r a mma ri cava di non a- vere a n co r a co mpi ut o nulla di grande, mentre a q u e l­ l’età A le ss andro aveva c on qui st at o il mondo; q ue st o ti­ tano stretto nei vincoli di un privato cittadino che s e p p e g l ’intrighi e le miserie della vita ro ma n a c o nt empor ane a, e f at ic osa me nt e giuns e ad e s s er e il terzo nel triumvi­ rato con P o m p e o e Crasso, più potenti di lui; que st o e s s e r e privilegiato, q u a n d o alla fine, nella maturità, po tè l iberamente mettere in azione tutte le s ue energie, illuminò il cielo di Roma di una luce di gloria non mai vista, e, i ndic ata ai posteri la via che d ove va no seguire, d is par ve r a p id a m e n t e co me una meteora. Già i geni, c o m e d is se Na p ol eo ne , s ono meteore de sti nate a c o n ­ s uma r si pe r illuminare il mondo.

P e r tredici anni cors e da trionfatore dal Ta mi gi al Ponto, dalla S p a g n a all’Egitto, dai Reno all’Africa, c o n q u i s t a n d o la Gallia, v in ce nd o i Britanni e i Germani, d e b e l l a n d o i re T o l o m e o , F ar na ce e Giuba, a n ni ent and o a llerda, a Farsagiia, a T a p s o , a M u n d a i suoi nemici; d ive nuto arbitro di Roma, fra le fatiche e le cure della guerra, nei quindici mesi che potè trattenersi nella capit ale attese a fondare l’impero, che dove va s ai­

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vare e re s ta ur a re il ro ma n es im o, conciliare le fazioni, po rr e fine all’anarchia; e c o me con le s ue vittorie ne i ndic ò i confini futuri, così con le s ue leggi ne d is e g n ò il p r o g r a m m a g ra n d i o s o per l’avvenire.

Egli s e mb r a un ministro del Fato. L’uomo s c o m ­ p arve a c in qu an t as et t e anni (era g ià vissuto a b b a s t a n z a , c o me egli s te ss o soleva dire), a s s a s s i n a t o in nome di un fantasma di libertà; ma il s u o c o n ce t to rimase, e l’ impero fu, p er o p e ra di August o.

Il simbolico ge r me di Romolo ha s t es o l’a mp ia c o r o na dei suoi rami sul m o n d o m e d i t e rr a ne o e a que l­ l’o m br a i popoli rip os a no ne ll ’ i m m en s a p a c e roma na . “ Gli uomini h an no a b b a n d o n a t o le loro a rma t ur e di ferro „ scr iss e più tardi il retore Aristide “ pe r gli a- biti di festa, e la terra non è più che un vasto g iardino

L ’ impero si cinse di un i mme ns o vallo formato d a l l’o c ea no , dalle are ne ardenti dei deserti, da m o n ­ ta gn e inaccessibili e nevose, dalle larghe correnti del- l’ Eufrate, del D a n u b i o e del Reno. Oltre i confini s ono solitudini, selve e barbari.

In mezzo, co me un lago, è il M ed i t e r r a n e o ( Mare Nost rum) l’a m pi a via, a cui da cento porti s b o c c a n o c en to altre vie, che s ol ca no p er ogni ve rs o le terre c o me una trama di vene, e tutte p r e n d o n o origine e misura dal

miliarum sacrum,

il pilastrino d ora to po s to a piè del Campidoglio.

P e r q ue st e vie p a s s a n o le legioni, le merci, la c ultura e la civiltà. I cento popoli c he vivono all’in­ terno, riuniti insieme con la forza, s o no ora go ve r­ nati col Diritto e for mano uno Stato, q u e l l ’o r g a ni s m o

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politico non mai visto fino allora, e s ognat o solo dal g en io di Ale ss andro. S e m b r a v a n o destinati a lavorare e servire in eterno, e furono invece parificati nei diritti ai dominatori. Ogni uomo libero d e l l ’impe ro potè dire allora con orgoglio insuper ato: “ Ci vis r o m a n u s sum „. L ’Italia s ’è fusa nell’impero: è un altro p a s s o del fatale a n d a r e d e l l ’ Urbe.

R o ma non è più signora, ma madre. — Immensa, rilucente de ll ’oro e dei marmi dei tempii, dei fori, degli archi e delle c o l o n n e , fra il verde di vasti ombrosi giardini e il mormorio delle a c q u e che si ver­ s a n o a torrenti dalle fontane, e ss a o s c u r a gli splendori ' favolosi di Babilonia, e pa re un nuovo Olimpo. L’im­

p e ra t o r e è un Giove terreno.

11 potere e norme e s en za limiti in q u a l cu no d e g l ’ im­ peratori g e n er ò la follia, in altri s c a t e nò g l ’ istinti b e ­ stiali; ma, nella lunga serie, molti furono ve ra mente grandi, e parecchi o n or ano il g en er e umano, e paiono personificazioni del valore, della s api e nz a e della g i u s t i ­ zia chiamati a g ov e rn a re il m o n d o dal più alto dei troni.

T r a i a n o p er le s ue g e st a militari e b b e il titolo di

massimo

e, pe r il governo, quello di

ottimo

( a p pe l l a ­ tivi di Giove); e colpi p er mo do la fantasia degli u o ­ mini che, q u a n t u n q u e pa ga no , fu da una l e gg en da cristiana collocato nel Pa r a d i s o , e vive tuttavia nelle tradizioni e nelle l e gg e n d e della Romenia, dove la via lattea è detta il suo cammino, 1’ ura ga no la s ua voce, la p ia n u r a il s uo c ampo, la m o n t a g n a la s ua torre.

Con M ar c o Aurelio salì sul trono lo stoicismo, il culto della p ur a virtù, della virtù fine a sè stessa,

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s c o p o unico della vita. L’I mpe ra to re il giorno c o m b a t ­ teva da v aloros o c ontro i ba rbari, e la sera, nella t e nda , r i pr e nd e va a scrivere, s ol am en te p e r propr io uso, s e n za volere altri testimoni che Dio, l’a u r e o libro dei

Pensieri

, in cui la s ua me nt e si sollevò a d u n ’ altezza mor al e ins up er ata , e che vive tuttora di u n ’ e ter na giovinezza.

* * *

Q u es t o impero, o p e ra titanica di molte g e ner az io ni che g ig a nt e gg ia solitaria nella storia, ha d e st a t o e d e ­ sta la meraviglia degli uomini, ma merita a n c he la loro riverenza e la loro g ra ti tudi ne ?

Non fu e ss o fon da to con la violenza, in mezzo a torrenti di sang ue , sulla libertà e l’ i n d i p e n d e n z a di tanti popoli ? Il manto imperiale di R o m a non fu t e s ­ suto c on le spoglie del m o n d o ? I cortei trionfali, che pe r la Via S a c r a sali vano al C a m p i d o g l i o coi re vinti carichi di catene, non p a i o no immani sacrifizi di genti lontane che R oma offre all’ insaziabile s uo G i o v e ? G l o ­ ria immortale fu la sua; ma fu vera glori a ?

La s ent e nz a è già data da secoli, e non v a ls er o e non v algono a mutarla le voci di scor di dei s o g n a ­ tori di u n ’ età de ll ’ oro del g e n e r e umano, degli a p o ­ stoli di un pacifico p rogr es so , che g u a r d a n o il p a s s a t o attraverso i nobili ideali d e l l’avvenire.

Il vero è che la nos tra s p e c ie è uscit a dalle selve ed è gi unta alla civiltà p r e s en t e con i mme ns o travaglio, b a g n a n d o s e mp r e il s uo c amm in o di s a n g u e e di lagrime.

Q ue st o, p u rt r op po, è stato finora il s uo de st i no ! 1 popoli antichi si d il aniavano l’ un l’ altro con

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g ue rr e continue, e l’i n di pe n de n za e la libertà loro erano s e mp r e precarie. Erano quasi tutti barbari, e la parola straniero per essi aveva p r e s s ’a poc o il significato di nemico. La G re ci a s tessa, con la sua scienza, la sua letteratura e la s u a arte, non era riuscita a s u p er a re le barriere che dividevano una città da ll ’ altra, l’ indi­ vidu o della s ua razza d a quello di u n ’ altra, e ad at­ t uare una larga forma t l i a ss o ci az i on e umana.

R oma p o s e la s u a terribile s p a d a fra gli eterni rissanti, e li c ostrinse a d e p o r r e le armi. Il s an g ue c he e ss a versò fu, p er dir così, una g r a n de e conomi a di s a n g u e per il g e ne re umano.

Impose la pace; e la pace, se non ai confini, sulle rive d e l l’Eufrate, de! Reno e del D an ub io, almeno nelle regioni intorno al Medi t er r an eo, regnò, ma lg ra d o le lotte civili, meglio e per più lungo tempo che non mai prima e non mai do po , q u a n t u n q u e s emp r e invocata, ora in nome della religione, ora de ll ’ umanità, e ora delle industrie, dei c omme rci e del b e ne s s e r e sociale.

Roma rispettò lingua, costumi e religione dei vinti; r a cco ls e d ’ogni parte, e s p ec i al me n te dalla Greci a, gli elementi d e l l’ antica coltura, li trasformò in propria s o ­ stanza e li diffuse da un c a p o all’ altro d e l l ’ impero.

E s s a inoltre non s ’ i mp os e e domi nò soltanto con la forza delle legioni, ma a n che con la ma es tà che s pirava d a tutte le manifestazioni della s ua vita.

La letteratura, pur nelle forme elleniche, ha un c ont en ut o suo propr io che è costituito di idee e s enti­ menti eroici e universali.

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emù-lare la natura e sfidare i secoli, e inalza moli in cui la gran di os it à egizi ana si s p o s a aH’a rmo nia e alla b e l ­ lezza dei Greci.

La lingua, che ha su tutte le lingue della famiglia i n d o - e u r o p e a il va ntaggi o di una ma ggi ore brevità, forza, a rmonia e solennità, è u na lingua v e r a me nt e im­ peratoria: fece a mmu tire in tutto l’ O c ci d e n t e una mol­ titudine di altre favelle, e rivive nelle favelle dei m o ­ derni popoli latini, ed è la lingua della religione c at ­ tolica.

Ma il m on u m e n t o più g r a nd e , che Ro ma inalzò, e in cui manifest ò la s ua originalità e p o te n z a c r e a ­ trice, è quello del Diritto, delle leggi e s pec ia lme nt e dello Stato, il quale, t r a d u c e n d o in atto il co nce tto de ll ’ unità morale dei popoli, fece di essi ne ll ’ a mbito d e l l ’ impe ro altrettanti rami di una sola e g r a n d e fa­ miglia.

Certo Roma nella s ua storia fu guidata, c ome ogni altro popol o d ’ogni tempo, da motivi egoistici, che vanno, dalle s u p r e me ne ce s si tà della p ropr ia e s i ­ stenza e della propr ia sicurezza, fino al nobile orgoglio di de tta r legge al mondo; ma il risultato a cui g iuns e fu il be ne de ll ’umanità.

“ Fu o pe ra della P r o vv id en z a „, d ic o no i credenti; e i filosofi dicono che fu effetto di quella legge detta e ter ogenia dei fini, p er la quale l’attività u m a n a si p r op on e uno s copo, e ne r a gg i u n g e un altro affatto diverso.

C o m u n q u e sia, la C onquist atr ice , per e s s er e uni­ versale, d is c e s e al livello dei conquist ati ; poi i suoi

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imperatori, al pari dei senatori, furono uomini di tutte le provincie; infine e ss a c e s s ò a n ch e di ess ere la c ap i­ tale effettiva deH’impero, e così il sacrificio suo ( c h e fu pure quello d e l i’Italia) fu p ieno ed intero. \ V >

L’impero romano, d un q u e , non fu Quello di Attila o di G e n g i s Kan o di tanti altri c o n q u i s t a t o c e l e d i s t r u s ­ sero s e nz a nulla creare ; esso fu la p a c e / ^ a ~ € f v i l t à , l’unità del mo nd o antico.

A ragione quindi Roma fu divinizzata, e a lei i popoli d e l l ’impero, consci dei benefizi che aveva lar­ giti, s ’i nchinarono reverenti e devoti.

“ Odimi, o re gi na magnifica dell’ universo, „ dice un po eta della Gallia, Rutilio N ama zi a no “ io p re n do a celebrarti, o Roma, e ti c el ebr er ò sinché il destino me lo pe rme tte rà: cancellerei dalla mia memoria il Sole piuttosto che s p e g n e r e nella mia anima il culto del tuo sp len do re; chè tu di spens i doni simili a quelli del Sole, e gli effondi o v u n q u e o nd e g g i a la cintura de ll ’Oc ea no.

P e r te gira F e b o , che a b b r a c c i a ogni c osa : entro i confini del tuo impero si levano e tuffano i suoi corsieri. Ogni regione, cui la natura fece abitabile a ll’uomo, diventò tua c o n q u i s t a : desti ai vari popoli una patria c o mu ne , e fu gran ventura per essi venir domati dalle tue armi: pe rc iocc hé , con a cc o r d a r e ai vinti la c o m p a r t e c i p a z i o n e dei tuoi diritti, de ll ’universo face­ sti una città.

Ti godi c o m ba t t er e i temuti e p e rd o na r e i domati ; e, poiché abbra cc ia st i la terra coi trionfi, le largisti le tue leggi, e c o nce de st i ai suoi abitatori di vivere sotto un patto c omune: la terra diventata r oma n a celebra le

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tue lodi, ed eleva una testa libera sotto il tuo giog o pacifico.

I secoli che ti r e st an o a vivere non' c o n o s c e r a n n o numero: s ussisterai finché il firmamento si a d o r n e r à di astri: ciò che s c o s s e gli altri imperii rafforza il t uo ; egli è un nuovo m o d o di r i na sce re ritrarre g r a n d e z z a dai guai. „

* * *

Q u a n d o Namaz ia no, ai principio del s ec olo V., sciogl ieva a Roma q u e s t ’ inno di gloria e vittoria p e ­ renne sugli uomfni e sul tempo, l’ impero era pros si mo alla rovina.

L’impero era stato la sintesi delle civiltà antiche, ed aveva s e gn a t o uno dei mome nti più grandi dello s p i ­ rito umano.

Ma lo spirito u m a n o non si arresta.

Già prima che Augusto, il f onda tore de ll ’ impero, s c e n d e s s e nella tomba, era nato ai confini orientali del dominio roma no Ge sù , e ai confini settentrionali, nella selva di T e u t o b u r g o , Arminio aveva distrutto le le­ gioni di Varo. Er ano la nuova idea e la n uova forza che d ove v an o trasformare il mo ndo, mentre nell’ im­ pero, sotto l’atmosfera dorata, fe r me nt a va no i germi della sua dissoluzione. Le virtù antiche c a d e v a n o in oblio e gli Dei esu la va no dai cuori; nei cuori si faceva il vuoto, e s c o p o unico della vita d iventava il piacere.

Ma nei più bassi strati sociali, dov e d o lor a va no milioni di schiavi, come nei più alti, dove vivevano

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le intelligenze elette e le anime nobili s d e g n o s e della corruttela dilagante, era il desi de ri o, la sper anz a, 1’ a- s pe tt a zi on e di u n ’era nuova, di una r ed en zi one sociale e morale.

E G e s ù venne a portare la b u o n a nove ll a: “ Non più schiavi e liberi, romani e barbari, ma tutti fratelli, figli tutti di un solo Dio fattosi uo mo per salvare il g e ne r e u ma n o col s uo sacrifizio. Vanità e p e cc a t o le gioie della vita; la beat it ud in e è nella morte; la terra un esilio, patria e ter na il Cielo,,.

L ’anima, r iscatt ata dal s an g u e di un Dio, a c q u i ­ stava un valore infinito, e si s ciogl ievano co me c er a i legami che univano l’ individuo allo Stato e alla patria terrena; più alta del cittadino r oma no s ’ inalzava la p e r s o n a umana, e oltre l’ impero era l’ umanità.

La pa rol a di G e s ù era la negazione dei principii religiosi, politici e sociali su cui l’ impero si fondava, e perciò Roma, che a c c ol s e tutte le religioni ed e bb e altari p er tutti gli Dei, r e sp i n s e il mite Nazareno, morto sulla croce, e con ripetute o r r en d e persecuzi oni cercò di s ter mi na rn e i s eguaci.

Gia mma i forza più g r a n de fu in lotta con più gra n de idea; e l’idea, c o me s empr e, trionfò, d o p o tre secoli, della forza.

L’i mperatore C os ta nt in o s ’inchinò alla Croce, e la n uova religione uscì dalle c a t a c o m b e , si piegò alle e si ge nz e della vita, si organizzò sul modello dello Stato, d ive nne la s u a alleata, e si c h i am ò cattolica e r o­ mana.

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tradotta in dottrina dal genio ellenico, divenne, per o p e ra del genio latino, un fatto: la C h i e sa universale.

Una n uova mis si one inco mi nc ia pe r Roma, una missi one a n c o r a più g r a n d e , della qu ale l’ impero non era stato che una pre pa r az i nn e . “ 0 r o m a n o „ e sc l ama P r u d e n z i o “ vuoi tu s a p e r e la vera c a u s a dei tuoi trionfi, il focolare a s c o s o della tua gloria, il b r a c c i o che per te i nc at ena il m o n d o ? Dio ! „

E della n uova religione Roma si fa s c u d o c ontro i barbari.

*

* *

La vittoria di Arminio era stata a c c o m p a g n a t a da portenti terribili: c rollarono le cime delle Alpi, il t empio di JVlarte a Roma fu colpito da un fulmine, me t eo re infocate c a d d e r o in forma di lance negli a c c a m p a m e n t i romani, e una s tat ua della Vittoria, p os ta ai confini della G e r ma n i a e indicante la via che ad e s s a m e n av a , si volse d a sola dalla parte d e l l ’ Italia. Fu in realtà un fatto decis ivo nella storia del mondo: la G e r m a n i a era salva dalla r oma niz za zione , e con la forza della s ua ba rba rie d ov ev a poi a b b at t e r e l’ impero. Il due ll o durò c i nqu e secoli, e alla fine le o rde g e r m a n i c h e , c o m e un fiume che r o mp e le dighe, i rr upper o nelle provincie, e m o s s e r o contro Roma, spinte da una forza misteriosa.

“ Non è la mia volontà che mi g u i d a „, dice Ala­ rico al m o n a c o che lo s c o n g i u r a a fermarsi nella sua marcia, “ ma havvi a l cu no in me che s e m p r e mi

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cruc-eia, e mi caccia, e mi grida: innanzi, innanzi, distruggi Roma. „

Pa r ve avverarsi allora la c r e d en z a che i dodici avoltoi, visti d a Romolo sul Palatino, voless ero signi­ ficare dodici secoli di vita per Roma. E Sidoni o A po l­ linare esclamò: “ 11 d od i c e s i mo avoltoio ha finito il suo volo; o Roma, tu conosci il tuo destino. „ E un gra n de terrore si s p ar s e per i popoli d e l l ’ impero, p o i c h é . s e m ­ brava c he Roma, s o st e gn o del mond o, non pot es se p e ­ rire, s enz a che trt to c a d e s s e nel nulla.

No : Roma non p oteva perire.

Le o rde di Alarico s a c c h e g g i a r o n o la Città, ma non o s ar on o di struggerla. Le trattenne un timor panico, come quello che a rre st ò Attila sul Mincio, q u a n d o gli si p re s e n t ò il pontefice Leone, e che pres e i Vandali di G en se ri co.

Più tardi S. Benedetto, dinanzi *alla furia v e n d i c a ­ trice di Totila, profetava da ll ’e re mo di Monte Cassino: “ Ro ma non s ar à distrutta dai barbari ; ma travagliata da nembi e da folgori, da procelle e da terremoti, di per sé s t es sa d e c a d r à p utrefacendos i. „

E così fu: R o m a divenne un sepolcro. Ma la sim­ bolica pianta di Romolo, inaridita dagli anni, p er co ss a, s t ro n ca ta e a b b a t luta dal turbine della barbarie, ha nelle radici una n uo va linfa, e metterà nuovi rami che a n­ d r a n n o più in alto e più in largo di quelli caduti.

11 b ro nz o della s tat ua di Giove Capitolino fu fuso nella s tat ua di S. Pietr o della basilica vaticana, all’ a- quila imperiale s otte ntrò la Croce, e un angelo appar ve sulla cima della mole di Adriano.

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S o r g e v a R oma cristiana. La Chi e sa p ro te s se i vinti, m a ns ue f ec e i vincitori, r a c co ls e e s er b ò le reliquie della coltura, conciliò romani e barbari, e d i e d e inizio a una civiltà nuova.

Il p a p a di Ro ma a p oc o a p oc o a s s o g g e t t ò a sè tutti i vescovi e patriarchi cristiani, e div enne il c apo della C h i e sa universale.

L’ impero r o ma n o viveva a n co r a nella c os ci e nz a dei popoli, non solo c o me ricordo, ma a n c h e come d o g m a politico ed elemento n e c e s s a r i o d e l l’ordine del mondo; e Bisanzio ne u s u r p a v a il nome e i diritti.

E venn e un giorno in cui il p a p a Le on e III, c o m e , vicario di Cristo, tolse ai Cesari bizantini la c orona imperiale e la p o se sul c a p o di un g e r m a n o c o n q u i ­ statore : Carlo Magno. Poi un altro p ap a, G re g or io VII, vide g enufle ss o ai suoi piedi un re di Ge rma n ia , si p r o c la m ò signore *d’ imperatori, re e principi, e atterrì tutti coi fulmini della s co mu ni c a. Ro ma d omi na u n ’al­ tra volta il mondo.

Infine i papi p r e s er o essi stessi la corona, e fu­ rono re.

A q ue st a n u o v a mis si on e univers ale di Ro ma 1’ I- talia fece il sacrifizio della s u a unità e i n di pe nde nza . E non fu q ue st o 1’ unico s uo merito verso il m o n d o : e s s a con le sue r e p u b b l i c h e ma ri na re e i suoi Comuni riattivò c omme rci e industrie, ricreò lettere, scie nz e ed arti e le p r o p a g ò di nuovo a tutto l’Oc ci de nt e .

Il nuovo impero romano, detto s acro, finì, d o p o mille anni, nel 1806, e il re gn o dei papi nel 1870, q u a n d o l’ Italia, risorta ad unità nel p e ns ie r o e nel

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n ome di Roma, tornò alla ma d re che le s te nd e va le braccia.

* * *

Qu a le dovere i mpone all’.. Italia una capitale che fu d u e volte capitale del mondo, e do ve la civiltà a n ­ tica non perì che p er g e n er a r ne una n uova !

Oh, certo, noi non s ogni am o un rinnovato impero r oma no, e marce vittoriose di eserciti attraver so i p o ­ poli della terra, e re stranieri trascinati in c atene sul Camp id ogl io per ornare i nostri trionfi.

Niente torna di ciò che è stato; ma la storia non si può e non si d eve obliare.

Un p a ss a to di gloria c ’ incalza e ci grida: “ 0 p o ­ polo della terza Italia, Roma e l’ Italia h a n no vissuto d ue volte per il m o n d o ; a Roma F uomo ha avuto il potere di vincere il tempo, di elevarsi al di s opra di sé stesso, di ba ndi re e attuare i più nobili ideali ; il g e ne r e u m a n o ha a n co r a un lungo c ammino d a p e r ­ correre e nuove lotte d a s o s t e n e r e ; nuovi trionfi sono riserbati ai popoli forti e grandi „.

Q u e s t o grido e ch e gg iò più alto allo s co p pi o del pres ente conflitto fra le lusinghe e le mina cce t euto­ niche, fra gli ammon ime nt i della p ru d e n z a bottegaia, fra le utopie d e g l ’ internazionalisti e dei filantropi; e il p opolo d ’ Italia l’udì, e s c e s e g e n e r o s a m e n t e in campo, conscio di c omp ie re un dovere verso sé s te ss o e verso l’umanità.

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nostra g r a n d e impresa, la prima d e g n a di Roma. Noi c o m b at t ia m o non solo p er la nostra integrazi one n a ­ zionale, ma a n c he p er i destini del mondo. Abbiamo r ipr es o la nos tra tradizione. Nel cozzo delle armi è l’antitesi di d ue opposti e inconciliabili ideali di ci­ viltà e di vita ; antitesi s ec ol ar e che è riflessa nella storia e meglio a n c o r a nella p o e si a e pi ca del popolo nostro e del popo lo g e rma ni co, poiché i poeti, e m a s ­ sime gli epici, s ono gli interpreti ingenui dello spirito delle nazioni.

Interprete dello spirito de ll ’Italia antica fu Virgilio. Q u e st o figlio di un libero agricoltore ma ntova no, q u e ­ sto poeta che dal c a m p o avito salì all’ onore della corte imperiale di August o, nel t e mp o più glori oso di Roma, ha ascoltato le voci misteriose della

Terra di

Saturno, madre feconda di biade e d ’ eroi

, e le ha

raccolte nel s uo gran cuore.

Egli c anta nelle

Egloghe

la vita semp li ce dei p a ­ stori, nelle

Georgiche

le o p e re agricole, nell’

Eneide,

in tr ec ci ando storie e le gg en de , c ant a le g e st a di Roma, d ’ Italia e della ge nte Giulia. Imitatore di Omero, non ra g gi un s e l’e cc el lenz a estetica del modello, ma lo s u ­ p erò per la nobiltà dei sentimenti e per l’a m p ie z z a della visione storica.

Il c o nce tt o f onda me nt al e d e l

V Eneide

é che Roma fu dest i nat a a incivilire e g o ve rn a re il m o n d o con g i u ­ stizia, in eterno.

Il poeta, che ha scelto pe r p ro ta go ni s ta il pio Enea, d e te st a le gue rr e che non s o no de te rmi na t e d a u n ’alta ragione, sente pietà per tutti i dolori, ed ha

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un s e ns o su per io re della vita. Anche nello strepito delle armi, egli resta il poe ta pastor ale che annunzia il rinn ov ame nt o del mondo, il po eta delle

Georgiche

che e salta la santità del lavoro umano. È quindi poeta n a ­ zional e e universale, e la s ua p oe si a è viva oggi, c o ­ me d uemila anni fa, e vivrà fino a che d u re r à il nome di Roma, e gli uomini a vranno in pregio il lavoro e a s p i r er a nn o a un ordine di c ose migliore.

Mentre Virgilio s ’inalzava così alto nella visione del b ene e dei destini del mondo , la G er ma n ia era orrida di foreste e di paludi, e le sue popolazioni s e ­ minude, ignare quasi di agricoltura, vivevano dei p r o ­ dotti della pastorizia e della caccia, e trovavano la più g r a n de felicità nelle gue rre e nelle scorrerie: era la gue rr a per la guerra, la voluttà del pericolo e del s an g ue . 1 valorosi e rano esaltati con rozzi canti dai bardi, e d o p o morti erano da Odino, Dio feroce al par di loro, accolti nel Walhalla, dove ritrovavano gli stessi diletti della vita terrena: cacce, battaglie e b a n ­ chetti serviti dalle Walkirie.

A ppre se ro, poi, da Roma il Vangelo e la civiltà, furono avidi di coltura, e pa rt e ci pa r on o con ardore alle crociate; ma in fondo all’a nima s e r b ar o no s emp r e vivo P istinto della g ue rr a e della preda, e più che altrove, ne d ie d er o prova in Italia in ogni tempo.

Virgilio s t en de attraverso mille e trecento anni la ma no a Dante. Il poe ta cristiano sale a nco ra più in alto del s uo Maestro, sale a u n ’ altezza giammai r ag­ giunta, d o n d e a b b r a c c i a la terra e il cielo, l’uma no e il divino, il p a s s a t o e l’avvenire, il contingente e 1’ e­

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terno, e b a n d i s c e le più nobili verità della vita a p e r ­ p etuo a m m a e s t r a m e n t o delle genti.

Nel suo mistico viaggio attraver so l’ inferno, il purgatorio e il p ar ad iso , egli c anta il g en er e umano, che pe cc a, si purifica e sale alla beat it ud ine celeste. Ma al centro del m on do spirituale di Da nte come al centro della sua M o n ar c h ia t errena s o no Roma e 1’ 1- talia, o nd e la

Divina Commedia

è il p o e m a di tutti i popoli ed è insieme la

Bibbia

del po po lo italiano.

Circa un s ec ol o e mezzo prima di Dante, un poeta della T u r i n g i a o d e l l ’Austria a veva c o m p o s t o /

N ibe­

lunghi,

un truce p oema, che è dai t edes chi c hiamato

l ’epopea della patria.

Se, c ome è stato detto, la G e r m a n i a è “ il fiore prediletto del giardino mon di al e „ i Nibelunghi ne s ono il profumo acut o e caratteristico.

È o pp or tu no, o giovani, che voi lo c on osc ia te, q ue st o po ema, p er ch è così c o n o s c e r e t e meglio i nostri nemici.

Sigfrido è un giovane eroe, un dio in forma umana; ha c onqui st at o un immens o tesoro, ha uc cis o un terri­ bile dra go che col s uo s a n g u e lo ha reso invulnerabile; ha un elmo, col quale può divenire invisibile, ed una s p a d a a cui nulla resiste: la Bal mung. Dal s uo castello egli va a Worins, alla corte dei Burgundi, attratto dalla fama di una donzell a che ha nome Crimilde ; e si fa c o m p a g n o di g u e rr a di Gunter, re dei Burgu nd i e fra­ tello di Crimilde.

Al di là del mare è una regina c h iamat a Brunilde di mirabile forza e bellezza : chi vuol g u a d a g n a r n e

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l’a mo re deve battersi in duello con lei, e, se s o cc ombe , è ucciso.

G u n t e r è p re so dalla brama di farla s ua s posa, e i nvoca l’aiuto di Sigfrido, che lo promette, pu rc hé a lui sia c o n c e s s a Crimilde. E vanno fra i misteri delle n eb bi e nordiche. Reso invisibile d al l’ elmo, Sigfrido comba t te a fianco di Gunter, e vince Brunilde. A W o r m s si cel eb ra no le d o p pi e nozze. Ma alla sera Brunilde è ripresa dalla sua a rde nt e p a s s io n e per la lotta, e a doma rla è c hiamato u n ’altra volta, dal marito, Sigfrido invisibile. Ma egli ora le p r e n de l’anello e la cintura d ’oro, e ne fa d ono a Crimilde. D ono funesto ! Crimilde e Sigfrido vanno nel loro re gno dei N ib e ­ l u n g h i / d o n d e , d o p o dieci anni, tornano a W o r m s a visi­ tare i parenti. Una c on te sa s o r / e tra le d u e orgogliose regine mentre ass is ton o ad. un torneo, circa il valore dei loro mariti; e la c on tes a risorge il giorno s egue nte , dinanzi alla porta della chiesa. Brunilde vuole essere la prima ad entrare, p er ch è per lei Sigfrido non è che un vassallo di Gunter. Allora nella collera Crimilde le rivela il segreto c h ’ella conosce: “ È stato Sigfrido, non Gunter, che I’ ha d o ma t a due volte E in prova le mostra l’ anello e la cintura d ’ oro. La fiera Brunilde costringe il marito a far v en det t a d e l l’oltraggio e trova un ese cut ore in Hagen, valoroso cavaliere e parente del re. A Sigfrido non g iovano nè le s c u s e nè i servigi prestati ; e la s ua morte è decisa. Si finge una s p e d i ­ zione contro i Sassoni alla quale deve p re nde r parte a nche Sigfrido. Crimilde, a c c i o c ch é Ha gen lo protegga, gli svela un s egreto del marito. Questi, q u a nd o si

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immerse nel s an gu e del drago, divenne invulnerabile in tutto il corpo, eccetto in una spalla, là dove gli c a d d e una foglia di tiglio che impedì al s a n g u e di p r o du r re il suo m agi co effetto ; e q uella spall a quindi ha b is o gn o di e ss er e difesa. P e r consiglio di Hagen, Crimilde c u ce u na cro ce di s eta sulla sopravveste, proprio sul punt o vulnerabile. La s ped iz i on e c o mi nc ia, e poiché Hagen ha b ene o sse rv at o la croce, fa venire finti mess aggier i di p ace del re di Sa s so ni a , e la s p e ­ dizione allora si mu ta in una caccia. Sigfrido, mentre a ss et at o si china a be re a una fontana nella foresta, è trafitto da Hagen, e il suo c a d a ve r e è nella notte portato davanti alla c a m e r a di Crimilde, a c c i o c c h é ella stessa, nell’a n da r e a m e s sa la mattina p e r tempo, f accia la terribile scoperta. “Morte all’a s s a s s i n o , , , grida Crimilde. Ma chi fu ? 11 giorno dei funerali, q u a n d o Ha gen si avvicina alla bara, le p ia g he del morto si r i apr ono e g e m o n o san gu e. È lui dunque! Crimilde lascia che il figliuolo torni nel re gn o dei Nibelunghi, c d ella ri­ mane sul luogo del dolore, a t t e n d e n d o l’ora della v e n ­ detta.

Tr adit ori e ladri, i fratelli ed Ha gen le r a p i s c o n o il tesor o del marito, e lo n a s c o n d o n o in fondo al Reno.

Pa ssa ti invano 15 anni, ella a cc o ns en fe a divenire la moglie di Attila, e d o p o altri 13 anni invita i fr a­ telli a visitarla. Vanno i fratelli, e con loro è Hagen, che cinge sfa cc ia tame nt e la s p a d a di Sigfrido, la l eg­ g e n da r ia Bal mung.

L’ ora è giunta. Crimilde fa venire nella sala del b a n ch e tt o il piccol o figlio che ha avuto da Attila, p e r ­

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chè serva di pretesto alla strage dei Burgundi. Q u a n d o Hagen si accorge della rete in cui e ra no caduti, a u d a ­ c emente grida : “ Bevi amo alla memoria di Sigfrido, e paghiamo il vino del re „. E vibra un tal c olpo al fan­ ciullo che la s ua te st a balza nel g r e mb o della madre. Comincia una mis chia feroce. Migliaia di guerrieri sono scannati; i Bu rg undi si d if end on o di sp er at ame nt e, e per distruggerli s ’i n c e n d i a invano la sala. Alfine T e o d o r i c o di Verona ferisce Ha gen, lo i n c at e n a e lo porta a Crimilde. Costei vuole ora s a p e r e da lui dove ha na sc os to il te­ soro di Sigfrido. Ma egli ha giurato di non rivelarlo fino a tanto che viva uno dei suoi signori. Vive a ncor a Gunter; e Crimilde fa tagliare la testa al fratello, e la p re sen ta ad Hagen, che sata ni camen te imperturbabile d i c e : “ Ness un o, ora, a l l ' i nf uo ri di Dio e di me, sa d o v ’è n as cos t o il tesoro; e per te, d o n na d ’ inferno, re­ s ter à s e mp r e un mistero „. Crimilde, strappandogli la s p a d a di Sigfrido, gli taglia la testa ; ed ella stessa viene uc ci s a dal maestro d ’ armi di T e od o ri c o , Ilde­ bra nd o, inorridito a tanta ferocia.

Q u e st o è il p o em a che i tedeschi stimano come il più g r a n d e d o p o i poemi di O me r o , come

l ’Iliade

del Germanesimo;

a cui a ttribuis cono una profonda

efficacia, non solo estetica, ma a nche morale; che incute l’i mpr es si on e s p a v e n t o s a e v e ne r a n d a del sublime; che descrive la vita u m a n a in ge ner e e la vita t e d es c a in ispecie; i cui eroi hanno per dote p r e c ip u a la fedeltà; il cui sostrato f on d ame n ta l e s ono l’a mo re e il dolore in tutta la loro forza.

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de sc a: il p op ol o eletto non p uò avere che un p o em a pari alla g ra n d e z z a della s u a mis si one sulla terra.

Se nz a d u b b i o /

Nibelunghi

h anno tali pregi c he a ragione la G e r m a n i a può a n d ar n e orgogliosa: il c o n ­ tenuto è originale e nazionale; i p ers o na gg i sono tita­ nici e scolpiti con arte m a gi s t r a l e; l’a z i o n e , una e varia, si svolge r a p i da e t r e me n d a nella s ua logica f a t a l e , sicché l’efficacia e s t e t i c a , pur s enz a essere quella che i T e d e s c h i pr et e nd on o, è ve r ame nt e grande.

Ma in q u a nt o all’efficacia morale, si p u ò dire che e ss a è affatto negativa.

11 vero s ostrato f onda me nt al e s on o l’odio e la ven­ d e t t a ; l’amore e il dolore sono quasi a ccess ori. Ad e ccezione di alcuni pe rs onaggi s ec on da ri che d i m o ­ strano sentimenti gener osi, tutti gli altri, e s pe ci a lme nt e i maggiori, sono al di là del be ne e del male.

Come si p uò parlare di fedeltà, se tutta l’azione s ’incar dina su d u e inganni e d ue orrendi tradimenti ?

Ammirevoli sono l’a more e la fedeltà di Crimilde verso Sigfrido, ma e ss a non r ag gi un ge la g ra n d e z z a morale, p t r c h è è insensibile ad un a mo re più santo, che è quello di madre. Si divide dal primo figlio pe r c ompi er e la vendett a, e p er la v end et t a sacrifica il s ec o nd o . E q u a n d o il s a n g u e è corso a rivi, ella si ricorda del tesoro, e pare che soltanto per e s s o ella u cc id a i d ue ultimi nemici superstiti: il fratello ed Hagen. Questi eroi ci p o s s o n o ispirare meraviglia per il loro coraggio, la loro imperturbabili tà, il loro valore, ma fanno ribrezzo per il d is p re g io in cui ha nno la

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p ropr ia e la vita altrui : eroi feroci, traditori e ladri, essi s ono degni di essere accolti nel W al h a l l a di Odino.

Il poema non è poi un q ua d r o della vita u- m a n a in genere; è quello di una tribù selvaggia, che r a p p r e s e n t a tutta la stirpe ge rma nica . Nel m o n d o dei

Nibelunghi

è del tutto s c o m p a r s a l’ u m a n i t à , tanto che non pare di trovarsi fra cristiani, in un tempo in cui la Cavalleria era nel suo ma ss i mo fiore. A che fine q u e st a lotta di prepotenti ambizioni, d ’ i ndo ­ mabili odi, d ’inestinguibili amori ? Che c os a vogliono questi eroi ? Ot te ner e l’o ggetto del loro amore, s p e ­ g nere quello del loro odio, o morire. Nulla è in loro che li sollevi e nobiliti; nulla che a bb ia valore per tutti gli uomini. Il po e ta non guarda, come Virgilio e Dante, il m on do da un punto di vista universale, con un s en so religioso, nell’armonia s u p r e ma delPeterne leggi.

I

Nibelunghi,

che sono o p e r a s ecolare della stirpe

e i cui germi r is algono forse fino al te mpo nel quale e ss a mo s s e dalle sedi originarie de ll ’ Asia, si può v e­ r amente dire il p o e m a della Germania. I figli di Odino vi si v e d on o riflessi nelle loro qualità essenziali e indistruttibili.

W a g n e r rivestì q u e s t e l e g g e n d e delle sue divine armonie, e F ede ri co Hebbel ne tra sse nel 1863 una trilogia drammatica, che fu pre mia ta dal Re di Pr u ss i a con mille talleri, e dive nn e un libro p opo la re e un libro classico a n che nelle scuole.

Un grande letterato t e d e s c o ha scritto non ha molto: “ Gli eroi dei Nibelunghi sono oramai divenuti

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gli eroi della vita g erma ni ca , g l ’ idoli venerati, a cui g u a r da fidente ed e nt usi as ta l’a d o l e s c e n t e s o g n a t o r e . „

E certo, fidenti ed entusiasti g u a r d a r on o, nei loro sogni giovanili, a questi eroi il Kaiser e il figlio, i suoi ministri, i suoi generali e i suoi soldati.

È l’antica b ar ba ri e dei Vandali di Ge nse ri co , la

tedesca rabbia

del me di oe vo , che r ug g e a nc or a sotto la vernice della cultura, e si vale dei più rapidi ed efficaci strumenti di s tra ge che la s ci e nz a prog red it a a b b i a p otuto fornire.

Dalla s tes sa fonte derivano le teorie di Stirner e di Nietzsche, di Von Bernhardi, di T r e i t s c h k e e di tanti altri storici e pensatori.

Qual meraviglia se in q u e s t a gue rr a i t edes chi h an no c al pe st at o ogni legge u m a n a e divina; se h an no violato i trattati, troncato le mani ai fanciulli, a s s a s s i ­ nato le donne, d e p r e d a t o e d e por ta to le popolazioni, se affondano navi alla c i ec a con malati, d o n n e e fan­ ciulli d ’ogni nazione ?

Dinanzi alla loro furia d evas ta tr ic e c a d o n o i m o n u ­ menti della religione e de ll ’ arte, le abitazioni u m a n e e perfino le piante; e la terra diventa un d es er to !

“ 0 l’impero del m o n d o o la rovina „ è stata la parola d ’ ordine ba ndi ta da Von Bernhardi e fatta sua da tutta la G e r m a n i a nell’e b b r e z z a della fortuna.

Ma d ’ imperi mondiali ce ne fu uno solo : quello di Roma, l’ impero d e g l ’ imperi; e fu legittimo, pe rc hè trovò la ragione del suo e ss er e nelle speciali c o n d i ­ zioni dei tempi e p er ch è fu o pe ra di p ro f o n d o al­ truismo.

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Or a n e s s u n a nazione può più arrogarsi il diritto di a s s o g g e t t a r e l’universo, di portare e ss a sola la fiac­ cola della civiltà, e farsi g u i d a del g e ne r e umano.

Le nazioni sono uscite di minorità, s d e g n a n o la tutela e ci as cuna di esse, c on sc i a di sè, vuole elevare la propr ia fiaccola per r is chiar ar e insieme con le altre il c omune cammino.

Non l’ impero mondiale, d u n q u e , ma la rovina. I Nibelunghi s o no al b a n d o de ll ’uma n it à e intorno a loro non ha nn o che i popoli che d ie d er o al mondo Attila, T a m e r l a n o ed O sm an o: i Mongoli s ono ben degni di stare a c ca n t o ai T e d e s c h i e di perire insieme con loro.

0 Roma, .il diritto e la civiltà, di cui tu fosti m a e ­ stra alle genti, s ta nn o pe r trionfare della forza e della barbarie.

II p op ol o della terza Italia è ora tutto in armi, c o me q u a n d o tu lo chiamavi a raccolta sotto le aquile dalle ali s piegate; i nepoti dei legionari h anno riscosso nei cuori 1’ antico valore, e, saldi, c oncor di e fidenti intorno al loro Re, c o me gli avi intorno ai consoli e agl’ imperatori, c o m b a t t o n o u n ’ altra volta, sulle Alpi, contro gli stessi nemici, in una g ue rr a giusta e santa.

La gloria tua, o Roma, sia loro di forza e di augurio ; arrida loro la vittoria nelle ultime prove, si che siano essi degni degli avi, ammirati e benedetti dai posteri, come tu lo sei oggi, e sarai sempre, nei secoli.

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S i vende beneficio delle opere

Riferimenti

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