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Credito e proprietà: tappe nei percorsi di integrazione in città (Torino, XVIII secolo)

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Academic year: 2021

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Comitato scientifico Gian Giacomo Fissore Jean-Louis Gaulin

Maria Giuseppina Muzzarelli Luciano Palermo

Giovanna Petti Balbi Giuseppe Sergi Giacomo Todeschini

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Credito e cittadinanza nell’Europa mediterranea

dal Medioevo all’Età Moderna

Atti del convegno internazionale di studi Asti, 8-10 ottobre 2009

Asti 2014 a cura di Ezio Claudio Pia

CENTRO STUDI RENATO BORDONE

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Volume pubblicato con il contributo della “Fondazione Cassa di Risparmio di Asti” Il volume è stato realizzato da Astigrafica s.n.c.

Progetto grafico e impaginazione Astigrafica – Asti

In copertina:

Sec. XIV. Ufficio di un banchiere italiano, miniatura. Londra, British Museum. © 2014 Centro studi Renato Bordone sui Lombardi, sul credito e sulla banca

Credito e cittadinanza nell’Europa mediterranea dal Medioevo all’Età Moderna a cura di Ezio Claudio Pia

Asti, Centro studi Renato Bordone sui Lombardi, sul credito e sulla banca, 2014, pp. 176 (Atti di convegno, 8)

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INDICE

Giacomo Todeschini 9

Credito e cittadinanza nell’Europa mediterranea dal Medioevo all’Età Moderna

François Menant 17

Accesso al credito e ceto sociale nelle città lombarde in età comunale: riflessioni sul caso di Bergamo

Giuliano Pinto 25

Attività creditizia, mobilità sociale e cittadinanza nella Firenze del Tre e Quattrocento

Massimo Vallerani 39

«Ursus in hoc disco te coget solvere fisco». Evasione fiscale, giustizia e cittadinanza a Bologna fra Due e Trecento

Anna Esposito 51

Minoranze e credito: il caso di Roma tra Medioevo e Rinascimento

Myriam Greilsammer 59

Les frères Porquin, usuriers lombards dans les Pays-Bas au début des Temps modernes: trois archétypes d’identité civique

Patrizia Mainoni 81

Denaro senza frontiere? Il finanziamento ai regnanti nell’Italia tra Due e Trecento

Manuel Sánchez-Martínez 107

Finanze statali e debito pubblico: il caso della Catalogna nella seconda metà del XIV secolo

Gabriella Piccinni 119

Antichi e nuovi prestatori in Siena negli anni trenta del Trecento. Una battaglia per il potere tra economia e politica

Michele Cassandro 135

Credito, banca privata e banca pubblica tra Medioevo ed Età Moderna. L’esempio toscano

Simona Cerutti 149

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Credito e proprietà:

tappe nei percorsi di integrazione in città (Torino, XVIII secolo)

Simona Cerutti

(École des hautes études en sciences sociales, Parigi)

1. Il problema

Nelle società di Ancien Régime, proprietà e credito condividono uno stesso carattere parados-sale: entrambi compaiono come condizioni per avere accesso a una completa cittadinanza e, nello stesso tempo, entrambi vengono spesso portati come autentiche prove della riconosciuta appartenenza al corpo cittadino.

Sappiamo che gli statuti delle città comunali fanno spesso menzione della proprietà; e le grandi sintesi sul tema, ancora in Età Moderna, tracciano a partire dalla richiesta di questo requisito una classificazione dei diritti di cittadinanza che si modula intorno a criteri di appartenenza o a criteri cetuali1. La proprietà è letta come espressione concreta della volontà di fare della città

il luogo di residenza stabile e, al tempo stesso, come il simbolo evidente delle qualità con cui si presenta l’aspirante nuovo cittadino. Quest’ultimo aspetto legittima quella identificazione tra proprietà e ricchezza che oggi, ad esempio, ci viene immediata, ma che invece non è sempre per-tinente per analizzare le società di cui ci occupiamo, nelle quali il nesso più forte è invece quello tra proprietà e diritti. Ma come si articola questo rapporto?2

La situazione, infatti, sembra complicata, e il ruolo assegnato alla proprietà è spesso meno tra-sparente di come ci appare. Intanto, non sempre essa è presentata come requisito essenziale per avere accesso alla cittadinanza. Non è per esempio il caso di Torino, dove il godimento di questi diritti è condizionato essenzialmente – come nel caso parigino, ad esempio – alla residenza sta-bile e al pagamento dei carichi3. E tuttavia di proprietà è ben questione, dal momento che essa

è menzionata nei iuramenta habitacoli, prestati davanti ai membri del consiglio municipale tra XIII e XIV secolo, nei quali il contraente prometteva di abitare in modo stabile e continuativo la città – «servare viciniscum, citayniscum et habitaculum ad modum aliorum civium Taurini» – o di fare di Torino «perpetuale habitaculum cum foco catena et massericio et familia»; queste 1 M. Berengo, l’Europa delle città. Il volto della società urbana europea tra Medioevo e Età Moderna,

To-rino 1999, pp. 118 sgg. P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa. 1. Dalla civiltà comunale al Settecento, Bologna 1999.

2 Sul nesso tra proprietà e ricchezza nella tradizione repubblicana, cfr. ibidem e Id., Proprietà e cittadinanza

nell’Europa moderna: una mappa tematica, in «Parolechiave», 30, 2003, pp. 31-60.

3 Cfr. J. Di Corcia, ‘Bourg, bourgeois, bourgeois de Paris’ from the eleventh to the eighteenth century, in

«Journal of Modern History», 50, 1978, pp. 207-233; R. Descimon, ‘Bourgeois de Paris’. Les migrations so-ciales, in Histoire sociale, histoire globale?, a cura di C. Charle, Parigi 1993, pp. 173-182.

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dichiarazioni vengono spesso accompagnate dall’atto di acquisto (redatto in loco) di un bene immobile che il convenuto si impegnava a non alienare mai a uno straniero4.

La formulazione è apparentemente paradossale, perché fa della proprietà ad un tempo una via di accesso alla cittadinanza e un obiettivo impossibile da attendere per chi non ne faccia già parte. Lo stesso per il credito, che è al tempo stesso condizione e prova di un inserimento in una rete sociale. Sottolineiamo intanto che queste clausole non erano affatto circoscritte alla città di To-rino, ma si trovavano spesso nelle disposizioni riguardanti l’accesso alla cittadinanza anche in altre realtà urbane5.

Ma come spiegare questo paradosso? Come si traduceva l’ambiguità di queste disposizioni nelle pratiche sociali? Nelle pagine che seguono vorrei provare a riflettere intorno a questo legame tra proprietà, credito e cittadinanza. Mi pare che qui siano racchiusi dei nodi importanti che riguardano le condizioni e le modalità di costruzione di quelle reti sociali cementate da rapporti di fiducia, che costituiscono la cittadinanza.

Cercheremo di rispondere a queste domande adottando la particolare prospettiva di analisi del percorso biografico; cioè la ricostruzione, per quanto possibile minuziosa, del percorso condotto in città da un personaggio che visse a Torino tra Sei e Settecento. La scelta di questa scala di ana-lisi è dettata da più considerazioni: intanto dalla constatazione che nessun documento, da solo, può dare risposte soddisfacenti, e che è necessario interrogare in modo più largo le modalità di integrazione in città, a partire da un pluralità di fonti. Inoltre, dalla convinzione che sia proprio la scala biografica a consentire di mettere in luce l’articolazione dei diversi sistemi di norme e di diritti che si incrociano in uno stesso luogo e in uno stesso tempo, richiedendo l’elaborazione di competenze e saperi “urbani”.

L’incontro con il personaggio di cui seguiremo le vicende si è realizzato in modo fortuito. Il nome di Gerolamo Motta figurava all’inizio del Settecento alla testa della prestigiosa corpora-zione dei sarti di Torino; in tutte le fonti in cui veniva nominato, si designava o veniva designato con il proprio nome, accompagnato dalla menzione «Turco di Anatolia». Chiunque fosse, Gero-lamo Motta incarnava molte delle accezioni tradizionali ed estreme dello “straniero”; da quella 4 Cfr. D. Bizzarri, Gli statuti del Comune di Torino nel 1360, Torino 1933, p. XXVI; cfr. A. Presbitero,

Ricerche sulla disciplina di cittadino e straniero negli Statuti Piemontesi, Università di Torino, Facoltà di Giurisprudenza, a.a. 1984-85. L. Fasolo, Ricerche sulla disciplina statutaria circa lo straniero in Piemonte, Università di Torino, Facoltà di Giurisprudenza, a.a. 1987-88. Gli statuti del 1360 non hanno una divisione in parti ma il testo è costituito da un tutto unico di 331 articoli; cfr. inoltre L. Morpurgo, Sulla condizione giuridica dei forestieri in Italia nei secoli di mezzo, in «Archivio Giuridico», IX, s.l. 1872; M. Ascheri, Lo straniero nella legislazione e nella letteratura giuridica del tre-quattrocento, in Storia del Diritto Italiano, vol. LX, Roma 1987; C. Storti Storchi, Ricerche sulla condizione giuridica dello straniero in Italia dal tardo diritto comune all’età preunitaria, Milano 1990. Più in generale: D. Bizzarri, Ricerche sul diritto di cittadinanza nelle costituzioni comunali, in «Studi Senesi», XXXII, 1916, pp. 19-136 (poi ristampato in Ead., Studi di Storia del diritto italiano, Torino 1937, pp. 61-158); E. Cortese, Cittadinanza. Diritto intermedio, in Enciclopedia del diritto, VII, Milano 1960, pp. 132-140.

5 Esse erano per esempio presenti negli statuti milanesi, come mostra C. Maifreda, I beni dello staniero.

Al-binaggio, cittadinanza e diritti di proprietà nel Ducato di Milano (1535-1796), in «Società e Storia», XXXIII, 129, 2010, pp. 489-530.

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geografica a quella religiosa (il dato andava verificato); e interrogava anche le ragioni e i modi di una presentazione di per sé così connotata6. La sua presenza a capo della prestigiosa

corporazio-ne dei sarti poteva essere intesa come il simbolo di una integraziocorporazio-ne in città, e se sì, come si era realizzata? Infine e soprattutto, quale spazio era assegnato al credito e alla proprietà in questo processo di integrazione?

Quella che segue è quindi la ricostruzione del percorso biografico di questo personaggio attra-verso le fonti in cui ha lasciato delle tracce. Come vedremo, si tratta per lo più di fonti notarili – l’esistenza dell’Insinuazione, cioè della registrazione centralizzata degli atti rogati dai notai si è rivelata ancora preziosa – ma anche, largamente, di fonti riguardanti l’Ospedale di Carità di Torino a cui, come vedremo, Motta fu molto vicino.

2. Un turco a Torino tra Sei e Settecento

La prima traccia che ho potuto trovare di Gerolamo Motta a Torino risale al 1689. Il suo nome figura tra i 30 individui che in quel decennio prestano un giuramento di fedeltà al Duca di Savo-ia, Vittorio Amedeo II. «Gerolamo Motta di Natoglia in Turchia» presta giuramento con «Carlo Domerval del luogo di Quervel Provincia di Picardia, diocesi di Bové sarto»; dichiarano di ri-siedere da più di 20 anni a Torino, «e aver sempre vissuto da veri e fedeli sudditi di SAR, e non haver mai commesso alcun delitto, né fatto altra cosa contrariamene agli ordini di SA». Chiedo-no quindi di poter disporre dei propri beni, senza pregiudizio «quantunque pensiChiedo-no nel caso di Francia e Turchia non vi sia alcune legge né statuto che impedisca la successione di qualunque eredità ai forestieri»; sia di quelli in Piemonte, sia di quelli dei paesi di origine. Infine, «genuflessi avanti detto Ecc.mo Marchese e governatore tenendo ambe le mani sopra li Sacri Evangeli pro-6 Sull’immagine del turco come straniero per eccellenza: R. Schwoebel, The Shadow of the Crescent: the

Renaissance Image of the Turk (1453-1517), Nieuwkoop 1967; O.H. Bonnerot, L’Oriental “détestable” au siècle des Lumières, in Cosmopolitisme, Patriotisme et Xénophobie en Europe au Siècle des Lumières, Atti del convegno Internazionale organizzato dal Centro di Ricerche «Images de l’etranger», Strasburgo 1986, pp. 19-27; D.J. Vitkus, Early Modern Orientalism: Representations of Islam in Sixteenth and Seventeeth Century Europe, in Western Views of Islam in Medieval and Early Modern Europe Perception of Other, a cura di D.R. Blanks, M. Frassetto, Londra 1999; M. Soykut, Image of the “Turk” in Italy. A History of the “Other” in Early Modern Europe (1453-1683), Berlino 2001; A. Cirakman, From the “Terror of the World” to the “Sick Man of Europe”. European Images of Ottoman Empire and Society from the Sixteenth Century to the Nineteenth, New York 2002; N. Kuran- Burçoglu, The Evolution of the Image of the Turk in Europe, in Historical image of the Turk in Europe: 15th century to the present. Political and civilisational aspects, a cura di M. Soykut, Istambul 2003; M. Formica, Giochi di specchi. Dinamiche identitarie e rappresentazioni del turco nella cultura italiana del Cinquecento, in «Rivista Storica Italiana», CXX, 2008, pp. 5-51, che cita l’Oratione della pace e guerra contra Turchi, ai Principi cristiani. Con alcune stanze del Medesimo nel matri-monio del Serenissimo Emanuele Filiberto principe di Piemonte e Duca di Savoia, e di madama Margherita di Francia duchessa di Berri, 1559, opera di Agostino Bucci, professore di filosofia all’Università di Torino, e Ead., Viaggiatori italiani nell’Impero Ottomano tra Rinascimento e crisi della coscienza europea, in «Rivista Storica Italiana», CXXII, III, 2010, pp. 951-1019.

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testano e giurano voler vivere cattolicamente, osservare gli ordini regi e delli Ecc.mi magistrati e sigg. Ufficiali e di voler essere come si confessano e dichiarano veri e fedeli sudditi di SAR e tener la medesima per loro Principe e Signore»7.

La fonte è una testimonianza dei tempi di guerra: il giuramento è prestato essenzialmente da mercanti originari dei paesi nemici (il milanese a inizio Seicento, la Francia dalla fine del secolo). È un atto mediante il quale, in tempi di guerra, gli stranieri intendono cautelare se stessi e le loro proprietà da procedure di ritorsione. Stando a questo documento, Motta sarebbe quindi giunto a Torino intorno agli anni 1660; era allora in tenerissima età, sosterrà in un documento molto più tardo, ma il riferimento a proprietà in Turchia deve farci pensare che conservasse legami nel paese di origine. È sarto personale del Principe Eugenio; ed è questo elemento, cruciale, che può dar ragione della presenza di un Turco di Anatolia a Torino nel corso di questi anni.

Non mi è possibile, in questa sede, soffermarmi sul legame tra Motta e Eugenio, che ho avuto modo di indagare altrove8. Dovrò accontentarmi solo di evocare l’interesse dell’ambito che ruota

intorno a quest’ultimo, grande campione della battaglia contro i Turchi, riconosciuto e osannato salvatore di Vienna dall’assedio dei nemici dell’est (oltreché colto collezionista di libri e oggetti che costruiranno, raccolti nel Belvedere di Vienna, un modello unico e incontrastato di raccolta di saperi nell’Europa settecentesca). È una figura interessante e controversa, su cui la storiografia purtroppo non è abbondante9. I suoi stretti rapporti con il Piemonte sono legati intanto al fatto

che in questo luogo si trovano le sue principali fonti di reddito. Nel 1687, per ricompensarlo del suo valore militare, il Papa stesso gli attribuisce i redditi di due grandi e ricchissime abbazie pie-montesi, San Michele della Chiusa e Santa Maria di Casanova, che lo legano così a doppio filo al Piemonte. A Torino poi risiede Luisa, sua sorella con cui conserva costanti rapporti, e qui incon-tra con regolarità suo cugino Vittorio Amedeo, non solo per organizzare sincon-trategie militari, ma

7 Archivio di Stato di Torino (in seguito AST), Sez. Riunite, Camerale, art. 835, Testimoniali di giuramento

di fedeltà prestato da esteri venuti ad abitare in questi Stati, 1637-1698. La fonte è così distribuita: 1600-1630, 3 casi; 1631-1640, 13 casi; 1641-1650, 5 casi; 1651-1660, 3 casi; 1661-1670, 6 casi; 1671-1680, 2 casi; 1681-1690, 30 casi; 1691-1698, 19 casi. Dei 30 individui che prestano giuramento nel decennio 1681-1690, 21 sono mer-canti francesi, per lo più provenzali (il peso della guerra è evidente); oltre a Motta i restanti sono monferrini e milanesi.

8 S. Cerutti, Parcours karstiques. Gerolamo Motta, turc d’Anatolie à Turin au XVIIIe siècle, in Musulmans

en Europe, I, Une intégration invisible, a cura di J. Dakhlia, B. Vincent, Paris 2011.

9 D. McKay, Eugenio di Savoia. Ritratto di un condottiero 1663-1736, Torino 1989 (ed. or. Prince Eugene

of Savoy, London 1977). Quasi contemporaneo di Eugenio è E. Mauvillon, Histoire du Prince François Eugène de Savoye, 5 voll., Amsterdam 1740. Cfr. inoltre D’Artanville, Mémoires pour servir à l’histoire du prince Eugène de Savoie, maréchal de camp général des armées de l’Empereur, etc., La Haye 1710, e J. Dumont, J. Rousset de Missy, Histoire militaire du prince Eugène de Savoie, du prince et duc de Marl-borough, et du prince de Nassau-Frise, La Haye 1729-1747. Biografie classiche sono quelle di H. Benedikt e di M. Braubach, Prinz Eugen von Savoyen, 5 voll., Munchen 1963-1965. Si veda ancora il più recente H. Pigaillem, Le Prince Eugène: 1663-1736, Parigi 2005, e V.G. Cardinali, La straordinaria avventura del Principe Eugenio, Milano 2012. Vorrei ringraziare Chiara Gauna per avere messo a mia disposizione le sue molte conoscenze riguardo la figura di Eugenio e soprattutto la sua collezione.

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per chiedere – con successo – prestiti e aiuti in denaro10. Che Motta fosse già a Torino da decenni,

come sostiene nel suo giuramento, oppure che, trovandosi a Vienna come altri compatrioti, abbia accompagnato Eugenio nei suoi spostamenti (come pare più probabile), di fatto la carica di suo sarto personale lo lega a doppio filo alla figura del Principe, e spiega una presenza che pare così eccentrica. Molti indizi ci spingono a pensare in effetti che Motta fosse musulmano11; non ultimi

(seppure i più indiretti), sono proprio la circolazione, intorno a Eugenio di Savoia, di un mon-do variegato dal punto di vista etnico e confessionale e l’effettiva apertura di questo entourage a individui professanti la religione musulmana12. Ma vediamo ora Motta muoversi all’interno

dell’ambito torinese e cerchiamo di capire quale percorso disegnino le sue scelte.

3. In città

La cinquantina di documenti che abbiamo potuto rintracciare – tra atti di notai e atti redatti presso differenti istituzioni urbane – mostrano un Motta impegnato, solo un anno dopo il suo giuramento di fedeltà, in un certo numero di prestiti, di cui alcuni ingenti: per esempio 135 doppie a favore di Carlo Francesco e Giò Matteo Gay, padre e figlio, che dovevano servire loro ad acquistare droghe per il negozio di fondighiere; e poi, sempre ai Gay, 33 doppie per infeudare una cascina; la somma versata al signor De Abbate per consentirgli l’acquisto di una piazza di speziale; o ancora 5.200 lire versate al Signor Gio Giuseppe Berruto, mercante torinese13. Motta

10 Mc Kay, Prince Eugene cit., ricorda, opportunamente, che i colonnelli avevano la proprietà dei

reggi-menti, che rendevano 10.000-12.000 gulden l’anno; un colonnello vendeva brevetti da ufficiale, deduceva una percentuale dalla paga dei suoi uomini, esigeva una tassa dagli ufficiali al momento della promozione e soprattutto teneva per sé una notevole porzione di qualunque bottino.

11 Rimando ancora a Parcours karstiques cit., per un’analisi dell’identità religiosa di Motta.

12 Dobbiamo a Giuseppe Ricuperati il primo studio che ha segnalato l’esistenza, intorno a Eugenio, di una

fitta rete di intellettuali che fece della Vienna di inizio secolo un luogo centrale «per la crisi religiosa delle coscienze europee»: Libertinismo e deismo a Vienna: Spinosa, Toland e il “Triregno”, in «Rivista Storica Italiana», LXXIX, 3, 1967, pp. 628-695. Pochi anni più tardi, Margaret C. Jacob, ricostruisce «un complesso rapporto tra Inghilterra, Olanda, spazi tedeschi e infine la Vienna del Principe Eugenio; cultura che miscela polemica anticristiana, repubblicanesimo, panteismo»: The radical Enlightenment. Pantheist, Freemasons and Republicans, Londra 1981 (trad. it. 1983); cfr inoltre Ead., The Newtonian and the English Revolution, 1689-1720, Sussex 1976; le citazioni sono tratte dall’introduzione di G. Ricuperati al libro di Mc Kay cit. Cfr. in tempi più recenti una autorevole ripresa del dibattito sull’Illuminismo radicale in J.I. Israel, Radical enlightemnment. Philosophy and the Making of Moderity 1650-1750, Oxford 2001.

13 AST, Insinuazione Torino, 1690, l. 3, c. 189, Obbligo delli Sigg.ri Procuratore e Figliolo Gays verso il signor

Motta; questi il 30 agosto 1690, come si deduce da doc. successivo, aveva prestato ai Gais 135 doppie d’oro; ibidem, 1691, l. 7, c. 221, Obbligo per l’Ill.mo Signor Gerolamo Motta verso li Sigg.ri Gais; ibidem, 1693, l. 11, c. 777, Quittanza fatta dall’Ill.mo Molto Rev. Signor Canonico nella Metropolitana di questa città Giò Michele Giacobbi come procuratore dei Sigg. Giò Francesco Giacobbi a favore del Signor Francesco Bernardino De Abbate con l’obbligo dell’Ill.mo Signor De Abbate a favore del Signor Gerolamo Motta sarto in Torino; ibidem, 1698, l. 7, c. 595, Obbligo per il Signor Gerolamo Motta verso li Ill.mi padre e figlio Berruti.

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possiede quindi molto denaro liquido; non ha proprietà in città a quel momento, ma attraverso alcuni di questi prestiti acquisisce diritti su beni immobili. La bottega da speziale di De Abbate viene infatti ipotecata a suo nome, come garanzia del prestito delle 11.500 lire versate; mentre i Berruto offrono a Motta qualcosa che immaginiamo importante: «l’annuo provento con la gol-dita degli infrascritti membri di sua casa dove già Motta abita» per ben dieci anni. Secondo le formule consacrate, i Berruto si impegnano ad effettuare le riparazioni cui sono dovuti i padroni di casa; mentre Motta «si impegna a mantener esso piano e stanza da buon padre di famiglia e come deve ogni onorevole e legittimo affittevole». Trascorso questo tempo, pure avendolo rim-borsato, se vogliono rientrare in possesso delle stanze, i Berruto dovranno avvertire Motta con 6 mesi di anticipo.

I mercanti con cui stipula questi contratti e di cui si fa prestatore, devono essere persone a lui vi-cine, o con cui intende stringere relazioni, perché il tasso a cui presta – il 4% – è inferiore a quello che Motta può chiedere e non esiterà a chiedere in altre occasioni (nel 1702, l’interesse del 5%, più alto quindi, è richiesto a suoi parenti e sarà motivato dal fatto che «detto signor Motta ha conti-nue occasioni di impiegar il suo denaro a detta rata, etiandio commerciarlo nella sua professione di sarto con etiandio maggior utile»14). Oppure, possiamo pensare, garanzie così importanti su

beni mobili possono aver calmierato le sue pretese.

È un buon momento, questo inizio secolo, per un mercante straniero: nel 1702, una contingenza economica favorevole ha promosso traffici e circolazione di merci e persone in Piemonte15.

Mot-ta, d’altra parte, nel 1699 aveva ottenuto la naturalizzazione che gli consentiva di poter disporre in tutta libertà dei propri beni16.

A quella data Motta non ha figli, ma è sposato da quattordici anni con Maria Maddalena, di cui non conosciamo il cognome, ma sappiamo essere figlia di un mercante di Chieri17.

Attraver-so questa parentela è entrato in una rete Attraver-sociale fitta: molti degli atti redatti in questo periodo riguardano prestiti che elargisce a nipoti – figli delle sorelle della moglie – sposate a loro volta a sarti e mercanti di tessuti. Nel 1702, Francesco e Giacomo fratelli Grassoni, sarti, ottengono 500 lire che vanno ad aggiungersi a prestiti precedenti molto più ingenti, motivati dall’acquisto di una vigna18. Ancora una volta la contropartita per Motta, oltre a un interesse del 5%, è

l’in-testazione di un’ipoteca su quello stesso bene. Ma di prestiti ai nipoti Motta ne farà ancora, e molti negli anni, a prova dell’esistenza di un legame molto forte con la famiglia della moglie19. A

14 Ibidem, 1702, l. 11, c. 501, Obbligo per il Signor Gerolamo Motta sarto, verso il Signor Francesco Grassone. 15 La sospensione decisa dal duca della legge ubena «a favore dei mercanti venuti ad abitare nei nostri stati»

aveva sancito la buona accoglienza fatta agli stranieri: AST, Sez. I, Materie economiche, Ubena, m. 1, n. 9.

16 AST, Sez. Riunite, Patenti Controllo Finanze, 1300 in 1717, R. 1698 in 1699, f. 182, 10 giugno 1699 Patenti

di naturalizzazione di Gerolamo Motta, e anche ibidem, Patenti Piemonte, vol. 130, c. 45v. idem.

17 Lo si deduce dal testamento cit. alla nota 26, in cui si fa menzione del contratto dotale – «instrumento

dotale del 24 settembre 1682 rogato Genotto» –, di cui però non ho trovato traccia né nell’Insinuazione, né nei minutami del notaio Genotto.

18 AST, Sez. Riunite, Insinuazione Torino, 1702, l. 11, c. 501, Obbligo per il Signor Gerolamo Motta sarto,

verso il Signor Francesco Grassone.

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questi stessi primi anni del Settecento datano la sua presenza costante e il ruolo di rilievo nella corporazione dei sarti20.

Matrimonio, naturalizzazione, cariche, ricchezza (da dove venga, apparirà più chiaro nelle righe seguenti): nessuna di queste variabili, che siamo abituati a considerare come fondamentali nei percorsi di integrazione, costituisce una svolta nelle scelte economiche di Motta. Maneggia dena-ro, e lo fa circolare; mentre il suo rapporto con i beni immobili è indiretto: possiede diritti su case e terreni – una bottega, le stanze dove abita e alcune adiacenti, una vigna – ma non possiede beni a titolo di proprietà, e tanto meno quella abitazione che dovrebbe costituire la condizione della vera appartenenza urbana cui pure Motta sembra ben interessato. Nel 1703 potrebbe presentarsi una occasione d’oro. I suoi padroni di casa, Berruto, cui aveva concesso un forte prestito che gli era valso la «goldita» di alcune stanze, «per la calamità dei tempi» si trovano nella necessità di vendere la propria casa. Motta, tuttavia, non si fa avanti, anche se sarebbe evidentemente per lui l’occasione di entrare in possesso di un immobile urbano situato in un quartiere prestigioso. È però presente all’atto notarile perché diventa il garante di un prestito con cui una parente dei Berruto viene loro in soccorso; 1.600 crosassi, una somma ingente che però non viene investita in beni immobili21.

La scelta di Motta è chiara; il denaro viene utilizzato in relazioni di credito. Attraverso di esse non viene ricercato un avvicinamento progressivo alla proprietà, ma piuttosto la creazione di un legame di prossimità con il nuovo debitore. E infatti, quando Motta acquisterà una casa non lo farà rivendicando i vari diritti già accesi su beni immobili, che gli avrebbero fatto risparmiare nuovi esborsi. La logica delle relazioni di credito si trova piuttosto considerando la composizio-ne della sua rete sociale: infatti tra i debitori di Motta, alcuni almeno li ritroveremo come testi in molti dei suoi atti notarili. In altri termini, nelle scelte finanziarie di Motta, ciò che sembra importare non è tanto la solvibilità del creditore, quanto la possibilità, offerta dal credito, di aprire reti e creare relazioni. E non sempre e non solo ristrette ai due contraenti. Motta investe in imprese nelle quali si trova iscritto in comunità sociali di “aventi diritto” su un bene; in reti di relazioni tessute dal credito, i cui membri si trovano in rapporti reciproci, se non di parità, almeno di compatibilità.

Di queste scelte sono esempi spettacolari le tappe successive del percorso di Motta.

Nell’estate del 1703 avviene qualcosa di certamente molto importante: insieme con il Conte Ale-ramo Del Carretto e il signor Giovanni Battista Borello, controllore di cucina di Madama Reale, Gerolamo Motta prende in affitto dal Principe Eugenio (che, come sappiamo, in ricompensa per aver contribuito alla salvezza di Vienna dai Turchi, era stato nominato, dal papa, abate com-mendatore dell’abbazia di Santa Maria di Casanova e San Michele della Chiusa) tutti i beni e i redditi di queste abbazie. Ciascuno di loro anticipa, alla stesura dell’atto, 50.000 lire (ma l’affitto cui si può ricostruire la serie dei prestiti elargita nel periodo.

20 AST, I Sez. Materie economiche, Commercio, cat. IV, m. 1/2.

21 AST, Sez. Riunite, Insinuazione Torino, 1703, l. 9, c. 449, Accompra di censo per la Signora vedova Graglia

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annuo è fissato a 41.000)22. Sono cifre che danno la misura dell’affare intrapreso. Si tratta di

ma-neggiare somme molto ingenti; di gestire rapporti con i contadini, con i salariati; di subaffittare parte dei beni e reinvestire il ricavato23. Anche i rapporti con i soci nell’affare sono significativi

dell’importanza dell’evento. Mi pare plausibile ipotizzare che Motta debba essersi guadagnato la riconoscenza del Conte Aleramo Del Carretto, perché, nonostante gli accordi scritti, su richiesta di quest’ultimo accetta di buon grado di anticipare la sua parte dell’affitto24.

L’affitto dei beni e redditi dell’abbazia sancisce formalmente un rapporto di fiducia con il Prin-cipe Eugenio, di cui, a partire all’incirca da queste date, Motta è detto non solo più “sarto” ma “agente”, di fatto amministratore dei beni piemontesi (cioè, come sappiamo, dei maggiori cespiti di guadagno del Principe)25.

In questo stesso anno, Gerolamo Motta redige il primo dei due testamenti che stenderà nel corso della sua vita. «…sarto nella presente città residente, della Natolia in Turchia gratiato da SAR felicemente regnante di patenti di naturalizzazione in data 10 giugno 1699», a quel momento si dice sano di corpo, mente e intelletto. Chiede di essere seppellito «con onori e esequie propor-zionate e convenienti alla qualità d’esso testatore», in una parrocchia della città, legando ad essa, ai Padri di San Carlo, alla Confraternita dello Spirito Santo ben 150 lire per cadauna, per 750 messe. Riconosce le doti di sua moglie Maria Maddalena e le lega il necessario ad arredare, «se-condo sua qualità et a suo arbitrio», una stanza a sua scelta, di cui avrà l’uso vita natural durante. Condizioni dettagliate e non molto frequenti nei testamenti, segni probabilmente di particolare affetto. Anche alla nipote Anna Francesca, ancora nubile, lascia 150 lire. A un ultimo legato par-ticolare il testamento dedica molto spazio. Dall’eredità dovranno essere prelevate 5.000 lire con cui acquistare titoli della città di Torino il cui provento sarà destinato a «mantenere per sempre nell’Ospedale di carità un povero incurabile con prellatione a ogni altro alli parenti della moglie e con obbligo al povero di pregare per l’anima del testatore». Motta specifica poi che «nella parte superiore dell’infermeria dove starà il letto, l’erede deve far mettere un busto del testatore con iscrittione nel quale venghi espresso avere il predetto testatore del suddetto luogo di Nattolia in Turchia lasciato il fondo per detto letto di incurabile». Infine istituisce il suo erede universale: «Gesù Cristo nella persona dei suoi poveri radunati nell’Ospedale di Carità» di Torino; o, in caso di rifiuto, l’Ospedale di San Giovanni26.

Nel testamento si realizza quindi un atto di beneficenza spettacolare.

22 AST, Sez. Riunite, Insinuazione Torino, 1703, l. 4, c. 525, Affittamento di Aleramo del Carretto dei

Marche-si di Gorzegno a Gio Batta Borello, Gerolamo Motta, con D. AlesMarche-sio Cerva (28 agosto 1702).

23 Ibidem, 1702, l. 11, c. 423, Affittamento dei redditi (1702, 1º settembre).

24 Ibidem, 1706, l. 4, c. 217 Quittanza a favore dei Sigg.ri Giò Batta Quarello e Francesco Valle fatta dal Signor

Conte Carretto con obbligo a favore del medesimo, (1706, 9 gennaio); Del Carretto aveva subaffittato a questi due mercanti la sua porzione.

25 Si veda supra, nota 24.

26 AST, Sez. Riunite, Insinuazione Torino, 1703, l. 9, c. 539, Testamento del Signor Gerolamo La Motta

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A riprova dell’importanza di questo atto, la sua stesura rappresenta una svolta nella documen-tazione lasciata da Gerolamo Motta. A partire da questo momento non è più l’Insinuazione di Torino il luogo in cui trovare la gran parte delle sue tracce, ma l’archivio dell’Ospedale di Carità. Motta registra ancora presso notai alcune transazioni; al solito, prestiti e passaggi di denaro27;

ma la gran parte della sua attività si svolge tra le mura dell’Ospedale, cui i lautissimi lasciti che ha destinato hanno aperto le porte. Dal 1706, il nome di Gerolamo Motta figura tra quello dei rettori dell’ospedale. Nella prima occasione (registrata) in cui partecipa a un’assemblea dei ret-tori dell’Ospedale, Motta si trova a fianco il nobile Francesco Antonio Cumiana, rettore per Sua Altezza Reale; Gaspare dei Conti di Morozzo anche lui in rappresentanza del Re; il Conte Palla-vicino e il Nobile Giacomo Bergera delegati dalla Compagnia di San Paolo; Giuseppe Gastaldo, Giuseppe Perrachio, Ludovico Del Piano, Michele Liberale, Giovanni Vaglia, Lorenzo Quaglia, Giò Collo, Giuseppe Clemente, Baldassarre Fabre, tutti mercanti tra i più ricchi della città28.

L’O-spedale di Carità è in quel momento una delle principali istituzioni torinesi. Fondato nel 1649 su iniziativa della Compagnia di San Paolo – organizzazione di laici, emanazione del municipio di Torino, che raggruppa elementi di spicco dell’élite urbana – aveva tra le sue funzioni originarie l’offerta di rifugio e lavoro per mendicanti e la distribuzione della carità per i malati29. Ma da

quando l’ospedale, abbandonata l’antica localizzazione fuori le mura, si impianta in città a inizio Settecento, diventa un luogo in cui si riversano investimenti economici e finanziari. Motta è ben lontano dall’essere il solo benefattore dell’Ospedale. Tra 1700 e 1710 esso è destinatario di un gran numero di donazioni. In un periodo di forti conflitti tra gruppi sociali e di forte competizio-ne, questo tipo di lascito è divenuto strumento di prestigio e mobilità sociale e la beneficenza un campo di costruzione delle gerarchie. Il lascito di Motta all’Ospedale può certo essere l’espres-sione di una volontà di affermazione sociale da parte di un ricco “straniero”.

Ma vale la pena di seguire da vicino la sua vicenda, perché può permetterci di qualificare con maggiore precisione il ruolo attribuito a queste istituzioni in un percorso di integrazione in città. Abbiamo detto che – come spesso avviene per le istituzioni caritative in questa parte del secolo30

27 Si veda in particolare la transazione in Insinuazione Torino 1704, l. 12, c. 51, in cui Motta è chiamato alla

restituzione di 100 doppie; inoltre, da documenti successivi sappiamo che il flusso di prestiti verso i nipoti Grassoni è continuato con regolarità nel primo decennio del secolo. Cfr. in particolare ibidem, l. 7, c. 537.

28 Archivio dell’Ospedale di Carità (in seguito AOC), cat. III, Ordinati, vol. 3, 18 luglio 1703 - 1º ottobre

1713, p. 116.

29 Il corpo degli amministratori doveva comprendere 17 persone in carica per 1 anno; mentre la direzione

dell’Ospedale doveva raggruppare membri della corte nominati dal duca, un membro del Senato e della Camera dei conti ad anni alterni, il sindaco della città e l’arcivescovo. Infine, i rettori, tra cui troviamo ora Motta: 12 persone, 4 nominate dal consiglio cittadino, 2 dalla Compagnia di San Paolo, 6 dalla corporazio-ne dei mercanti e corporazio-negozianti (di cui 2 banchieri o mercanti di sete e 4 mercanti di altri gecorporazio-neri). Sull’Ospedale di Carità cfr. le notizie raccolte in S. Cavallo, Charity and Power in Early Modern Italy. Benefactors and Their Motives in Turin, 1541-1789, Cambridge 1995, e E. Christillin, L’assistenza, in Storia di Torino, IV, La città tra crisi e ripresa (1630-1730), Torino 2002, pp. 871-894.

30 Su Ospedali e investimenti finanziari cfr. i saggi raccolti in L’uso del denaro. Patrimoni e amministrazione

nei luoghi pii e negli enti ecclesiastici in Italia (secoli XV-XVIII), a cura di A. Pastore, M. Garbellotti, Bologna 2001; Ead., Le risorse dei poveri. Carità e tutela della salute nel principato vescovile di Trento in età

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– l’Ospedale risponde ad altre domande, oltre alla carità, e dall’inizio del secolo diventa un luogo importante di investimenti finanziari in un panorama che in questo campo offre risorse scar-se31. Sono molti i torinesi (e non solo) a destinare capitali all’Ospedale per riceverne in cambio

interessi al 4 o 5 % – quindi non molto alti, come abbiamo appena visto, ma evidentemente con-siderati sicuri –, o vitalizi e pensioni. Gli Ordinati dell’Ospedale si riempiono di queste richieste. Mentre la vedova Vaudagnotta nel 1702 propone un censo di 3.000 lire, i tesorieri avvertono «esser altre persone le quali offeriscono denari a titolo di impiego con interesse al 4% e perciò si deliberi»32. E infatti, pochi giorni dopo, «un personaggio di qualche qualità già avanzato all’età

di anni 70» fa richiesta di attribuire all’Ospedale alcuni suoi redditi «di tassi che tiene verso le comunità di San Damiano e Pivereux rilevanti a lire 1750 ogni anno e alcuni censi verso Torino e PP. di Sant’Antonio». Si tratta di un reddito annuo di lire 2350 su un capitale di lire 48.000. Inol-tre, si dichiara disposto a «impiegare appresso questo ospedale qualche somma considerevole mediante un interesse del 4%». Infine, propone di lasciare l’Ospedale erede di un quinto della sua fortuna – ma, in caso di morte dell’erede, la sua totalità – e questo a condizione che, dopo la sua scomparsa, l’istituzione si impegni ad esigere le somme dovute, versi con esse un vitalizio alla moglie e si impegni infine ad amministrare i beni del nipote fino a 16 anni di età. Pochi giorni dopo, la vedova Anna Caterina Lombarda, madre e tutrice del figlio Chiaffredo, decide di versare all’Ospedale la somma di 2.400 lire che ha ricevuto in pagamento dal negoziante Vernoni. La cifra spetta in parti eguali al figlio e al cognato, «absente da questi stati da anni 18 o 20 in qua»; l’Ospedale sarà quindi l’amministratore della somma, in cambio dell’interesse del 4%33. E via di

seguito, gli esempi sono numerosissimi34.

Essere rettore dell’ospedale di Carità significa quindi trovarsi ad amministrare molti denari; investire somme ingenti, saper ripartire e distribuire interessi; vegliare al pagamento di rendite e vitalizi. Sono operazioni in cui Motta sembra particolarmente abile, a giudicare dallo spazio

moderna, Bologna 2006; inoltre J. Henderson, The Renaissance Hospital. Healings the body and healing the soul, New Haven, London 2006; The impact of hospitals 300-2000, a cura di Id., A. Pastore, Oxford 2007; I. Krausman Ben-Amos, The Culture of giving. Informal Support and Gift-Exchange in Early Modern En-gland, Cambridge 2008; Gli spazi economici della Chiesa nell’Occidente mediterraneo (secc. XII - metà XIV), Atti del Sedicesimo Convegno Internazionale del Centro Italiano di Studi di Storia e d’Arte, Pistoia 1999.

31 La città ha pochi luoghi di investimento (i vari Monti conoscono vicende alterne in questo periodo); per

quanto riguarda le comunità rurali, l’indebitamento cui sono state costrette nel secolo precedente non le ha ancora del tutto affrancate.

32 AOC, cat. III, Ordinati, vol. 2, c. 519. 33 Ibidem, vol. 3, 1703 in 1713, c. 59.

34 Ibidem, c. 534, 30 luglio; c. 116, la suora Giovanna Festina vuole dare all’Ospedale 1500 lire in cambio di

un vitalizio di lire 75 annue che intende trasmettere in eredità a chi verrà e anche a una povera figlia che desideri farsi monaca. Per una misura dei lasciti all’Ospedale su un tempo lungo (1650-1780) cfr. Cavallo, Charity cit, p. 130, tab. 6; ancora per dati comparativi cfr. L’uso del denaro cit.

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che progressivamente riesce ad occupare nella gestione dell’Ospedale che in effetti ripaga la sua attenzione con prove di grande fiducia e riconoscimenti35.

I prestiti si susseguono in modo incalzante e solo tra il 1708 e il 1710 sono un decina circa. Ri-guardano sempre somme molto ingenti, anche sotto forma di acquisti dei luoghi di Monte, con la promessa di assicurare all’Ospedale un interesse maggiore di quello richiesto36, e di somme

provenienti dai capitali di Eugenio o di Luisa, che Motta investe nell’Ospedale37.

Finalmente, nel 1717, Motta effettua il primo investimento immobiliare a Torino. E lo realizza in modo un po’ contorto. L’atto ci dice che il Signor Gerolamo Motta, venuto a conoscenza del-la volontà dell’Ospedale di far costruire un nuovo forno per poter nutrire il numero crescente di malati, si è offerto di aiutarlo in quest’opera. Dispone 200 doppie per edificare due piani al di sopra del forno e del deposito «per servirsene per suo uso e abitazione e della signora sua consorte loro vita natural durante». Versa la somma, con soddisfazione degli altri rettori dell’O-spedale. E insiste, «protesta che ciò debbi servir di caparra di quel maggior bene che desidera di far ad un’opra cotanto degna»; in altre parole lascia intendere che nulla del suo testamento sarà cambiato, e l’Ospedale sarà suo erede universale. «Pertanto prega li rettori d’accordargli per via d’ordinato particolare l’habitazione e uso di detti 2 piani, crotta e solari morti», chiedendo solo di poter fare in modo che l’ingresso delle camere consenta di «andar alla chiesa senza necessità di uscire tanto pendente la di lui vita che della signora sua consorte». Specifica che ciò di cui si parla è riservato solo al proprio uso; la moglie «dovrà contentarsi dell’habitazione che li sarà ne-cessaria cioè di quei membri e stanze che li parerà eleggersi e le restanti saranno libere a servizio dell’Ospedale».38

Poco dopo, il secondo acquisto immobiliare. Si tratta di una vigna non lontana da Torino, a Ca-stiglione, per un totale di più di 100 tavole, dietro un pagamento di lire 32239.

Fermiamoci qui per ora, a considerare gli investimenti finanziari e immobiliari di Motta.

4. Case e diritti

Ci sono due aspetti del percorso in città di Gerolamo Motta che colpiscono in particolare, e per motivi opposti. Il primo è il ruolo così ridotto della proprietà immobiliare nelle scelte economi-che di un personaggio più economi-che facoltoso, del quale ogni azione dice il desiderio di radicarsi in 35 AOC, vol. 3, 1703 in 1713, c. 329, 1711, 17 gennaio.

36 Ibidem, 1708, l. 4, c. 283, Cessione fatta dal venerando Ospedale della Carità a favore del Signor Gerolamo

Motta (di quest’atto è fatta menzione anche in AOC, Ordinati c.s.p. 186, 28 dicembre 1707); AST, Sez. Riu-nite, Insinuazione Torino, 1708, l. 7, c. 527.

37 AOC, cat. III, Ordinati, vol. 3, 1703-1713, c. 251, 1709, 3 marzo; AST, Sez. Riunite, Insinuazione Torino

1709, l. 6, cc. 569, 573, 576 e 577.

38 AOC, cat. III, Ordinati, vol. 3, 1703-1713, c. 232, 1708, 23 settembre. 39 Ibidem, 1712, l. 12, c. 505.

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città. Il secondo, è rappresentato dalla straordinaria importanza che in questo stesso percorso riveste l’istituzione caritativa, sia come luogo di investimento economico sia come ambito di re-lazione. Vale la pena di esaminare entrambi questi aspetti, cominciando dal primo, che non può non suscitare interrogativi, se si considera che, come abbiamo più volte ricordato, la storiografia delle città moderne ha visto nella proprietà una delle condizioni dell’attribuzione di diritti di appartenenza. Era davvero così? E Torino rientra in questo modello?

Chiediamoci intanto come era distribuita la proprietà immobiliare nel periodo in cui Motta ri-siedeva a Torino. A quella data, la città sta cambiando a grande velocità. Ha una popolazione che si aggira intorno alle quarantamila anime, ma, ciò che più conta, sta crescendo vistosamente in grandezza e in influenza, drenando risorse e persone dalla regione tutta intera40. Sono anni in cui

le industrie cittadine di tessuti si moltiplicano, ed è soprattutto la seta che conosce un successo larghissimo e fa del Piemonte un centro importante nella produzione del semilavorato41.

Nel 1705, la guerra contro i Francesi è l’occasione di un censimento dell’intera popolazione di Torino42. Si tratta di una fonte ricca, attraverso la quale potersi interrogare sullo stato della

pro-prietà a Torino43. Esso si svolge in questo modo: i deputati, accompagnati dai notai, si recano nei

quartieri loro assegnati dove convocano i cantonieri (126, uno per ogni cantone in cui era divisa la città). Questi devono indicare e “consegnare” tutte le case poste sotto la loro giurisdizione con il nome del proprietario e di tutte le famiglie che vi dimoravano. Nei 126 cantoni (o isole), 40 È quanto ha dimostrato G. Levi, Come Torino soffocò il Piemonte. Mobilità della popolazione e rete

ur-bana nel Piemonte del Sei-Settecento, in Id., Centro e periferia di uno stato assoluto. Tre saggi su Piemonte e Liguria in età moderna, Torino 1985, pp. 11-69; Id., Gli aritmetici politici e la demografia piemontese negli ultimi anni del Settecento, in «Rivista Storica Italiana», 86, 1974, pp. 201-265, fornisce i dati di crescita demografica della città nel corso del Settecento; riporto qui i dati del periodo che ci interessa: 1702: 43.866 abitanti; 1712: 49.102; 1722: 52.989; 1732: 59.558; 1742: 59.320; 1752: 62.356. Per i dati demografici tra 1714 e 1750 cfr. ibidem, pp. 35 sg.

41 Sullo sviluppo dell’industria della seta a Torino a partire dall’inizio del XVIII secolo cfr. in particolare

G. Chicco, La seta in Piemonte, 1650-1800. Un sistema industriale d’Ancien Régime, Milano 1995; Torino sul filo di seta, a cura di G. Bracco, Torino 1992.

42 Lo studio più completo del censimento rimane quello compiuto da E. Casanova, Censimento di Torino

alla vigilia dell’assedio (29 agosto-6 settembre 1705), in Le campagne di guerra in Piemonte (1703-1708) e l’assedio di Torino (1706), vol. 8, Torino 1909.

43 Viene realizzato tra fine agosto e inizio settembre, proprio nei giorni in cui il Duca di Feuillade, a capo

dell’esercito francese, si ferma a Venaria, alle porte di Torino, coll’intento di procedere all’assedio della città. Benché non siano pervenute le istruzioni date ai funzionari incaricati delle registrazioni, possiamo ragionevolmente supporre che il suo scopo principale fosse quello di valutare il numero di uomini abili alle armi. È perciò probabile che il numero di maschi adulti sia sottostimato, perché molti verosimilmente cercarono di sfuggire a una consegna che poteva prefigurare una precettazione. Ma sono anche molte altre le mancanze nel censimento. Intanto 15 cantoni, in cui la consegna fu effettuata, ma che andò perduta; e poi i membri degli ordini religiosi, i preti regolari, ma anche gli ebrei abitanti nel ghetto, che non furono affatto censiti. Forse ancora più importante è l’assenza di gran parte del personale che lavorava a corte, che fin dal mese di marzo aveva accompagnato fuori Torino – lontano dai Francesi – carrozze, cavalli, ma anche arredi, e quanto più stava a cuore a un Re previdente: ibidem, p. 12.

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si contano 1.366 case. Ogni cantone aveva in media 11 case, e ciò, suggerisce opportunamente Eugenio Casanova, ci dice che i «palazzi con larghi fronti prospicienti sulla via» erano rari, e che accanto a poche grandi case, il tessuto abitativo era composto essenzialmente da piccoli stabili, interni di cortile ecc.

Ma è il dato sulla proprietà che ci interessa in particolare. Essa è distribuita in modo molto sperequato, perché è concentrata in larga parte nelle mani di istituzioni, per lo più religiose. In pimo luogo i Gesuiti, seguiti dai Padri della Consolata, e poi, di misura, dall’Ospedale di San Giovanni, quindi i Padri del Sudario e di San Filippo Neri ecc.44 I privati posseggono meno del

40% degli immobili. La proprietà è dunque rara, mentre colpisce la diffusione dell’affitto. Esso è praticato anche da famiglie nobili proprietarie, che preferiscono andare in affitto e affittare a loro volta la propria casa, piuttosto che abitarla. Sono in tutto solo 3 o 4 le famiglie aristocratiche che occupano interamente il loro palazzo senza condividerlo con inquilini.

Il dato che più colpisce è comunque la rarità della condizione proprietaria che resta una costante per una gran parte del secolo. Negli anni intorno al 1720 neppure un terzo delle famiglie nobili residenti a Torino abitava in case di proprietà; e tra 1754 e 1793 si assiste ancora a una riduzione del 20% circa del numero dei proprietari privati per motivi che gli storici dell’architettura hanno ricondotto essenzialmente alla normativa sulle costruzioni; i piccoli proprietari non sarebbero stati in grado di far fronte alle ingenti spese di ristrutturazione45. A fine secolo la prima consegna

dei redditi delle case ci dice che solo il 5% delle abitazioni è destinato a uso privato; l’affitto è inve-ce sempre diffusissimo46. La proprietà dei privati è inoltre caratterizzata da scarsi accorpamenti. I

beni sono frazionati: si possiedono più facilmente stanze o botteghe disseminate in palazzi diver-si. E ancora una volta la differenza è grande rispetto alla gestione della proprietà delle istituzioni e degli ordini religiosi che invece vede concentrazioni molto importanti.

Insomma, abbiamo a che fare con un mercato immobiliare che è controllato essenzialmente dalle istituzioni caritative e dagli ordini religiosi. Al di là di questo ambito, la proprietà è nelle mani di poche famiglie aristocratiche. Verso gli anni ’80 del XVIII secolo queste ne detengono ancora il 37,6%47.

Tale situazione non è affatto eccezionale, e anzi, secondo alcuni storici, è molto comune almeno a una buona parte delle città dell’Italia moderna. Michela Barbot, analizzando i dati riguardanti la piena proprietà nelle città di Venezia, Milano, Firenze e Torino, osserva che «loin d’être les royaumes de la pleine propriété immobilière, les villes italiennes des XVIe-XVIIIe siècles se

pré-44 Casanova, Censimento cit., p. 17. La proprietà di quelle 1.366 case appartiene a 1.024 persone, 974 laici

e 50 enti religiosi. Tra i laici, 843 ne possiedono una sola, 131 ne posseggono due o più; le restanti 127 sono possedute da 50 enti.

45 Cfr. i dati riportati da Sirchia, Proprietà cit., R. Curto, Da un’idea convenzionale di valore al valore di

rendimento: estimi e significati della proprietà urbana tra Settecento e Ottocento a Torino, in «Storia urba-na», 71, 1995, pp. 67-87

46 Cfr. ibidem e Sirchia, Proprietà cit., ove si sottolinea come, ancora nel 1801, l’11,8% del reddito

immobi-liare complessivo di Torino risulti percepito da soggetti istituzionali (di cui il 7% ospedali) che amministra-no o possiedoamministra-no gli immobili di più alto reddito.

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sentent plutôt comme des univers remplis de “quasi-propriétaires”, locataires et sous-locataires, de tout niveau social et de toute espèce juridique»48. In effetti la percentuale della popolazione

che vive in appartamenti di proprietà è molto ridotta, intorno al 5-7% a Venezia, Milano, Torino, al 20% a Firenze. Ed è importante notare, con Jean-François Chauvard49, che questa divisione tra

proprietari e affittuari non riproduce la distinzione tra ricchi (pochi) e poveri (molti). Il patrizia-to veneziano – così come la nobiltà patrizia-torinese – si divide ugualmente nelle due categorie, così come il resto della popolazione. E questo è il caso di un gran numero di città europee50.

Torniamo a Torino. Che la proprietà sia concentrata nelle mani di poche famiglie nobili e so-prattutto delle istituzioni caritative è confermato dai dati riguardanti l’Ospedale di Carità, di cui Motta diventa tanto famigliare. Lo stato dei suoi redditi a inizio Settecento lo mostra eloquente-mente: gli affitti costituiscono una delle principali voci di entrata, seconda soltanto ai censi accesi sulla città di Torino.

Stato dei redditi fissi dell’Ospedale, 1717 (Fonte: AOC, Ordinati, c. 125 dati in lire); fitti: 20.562 e rotti (16.250 del ghetto)

fitti cascine 2.700 censi Torino 25.415 censi comunità 608 tassi 1.641 censi partic. 1.766 crediti partic. 2.526 Monti San Giov. 1.658 Monti di Fede 623 Legati perpetui 451 Beni in Savoia 200 Fitto telai calz. 128 Tasso Carmagnola 197

+ reddito della cascina delle Maddalene della vigna e dei boschi di Villaretto lire 1.000 circa

Questa concentrazione dei beni immobiliari nelle mani delle istituzioni caritative (o dei conventi 48 M. Barbot, La résidence comme appartenance. Les catégories juridiques de l’inclusion sociale dans les

villes italiennes sous l’Ancien Régime, in «Histoire urbaine», 36, 2013, pp. 29-48.

49 J.-F. Chauvard, La circulation des biens à Venise. Stratégies patrimoniales et marché immobilier

(1600-1750), Roma 2005, pp. 55 sg.

50 Su Rouen nel XVIII secolo cfr. J.-P. Bardet, Rouen et les Rouennais aux XVIIe e XVIIIe siècles, Paris 1983.

Per Parigi si veda D. Roche, Le peuple de Paris. Essai sur la culture populair au XVIIIe siècle, Paris 1981. G.

Béaur, La circulation des immeubles urbains dans la longue durée: le marché chartrain entre 1740 et 1860, in Les mouvements longs des marchés immobiliers ruraux et urbains en Europe (XVIe-XIXe siècles), a cura di

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e ordini religiosi) interroga indirettamente le scelte delle persone comuni: non si vuole comprare casa a Torino in questi decenni, oppure comprare una casa è una operazione difficile, e se è così, perché e in che senso?

Molti indizi vanno nella direzione della seconda ipotesi: acquistare un’abitazione sembra una operazione tutt’altro che semplice, anche per chi possiede denaro, come emerge da ricerche che non si sono accontentate di disegnare la distribuzione della proprietà, ma ne hanno ricostruito i processi di acquisizione. Non fu facile per esempio, qualche decennio dopo gli avvenimenti dei quali ci stiamo occupando, per la prestigiosa famiglia dei banchieri Donaudi, tra le più ricche della Torino della metà del secolo, cui l’acquisto di una casa in città costò mesi e mesi di contrat-tazioni51. Comprare un’abitazione era operazione complicata, e spesso anche economicamente

insidiosa52. Non era raro che l’acquisto e poi il conveniente mantenimento di una casa portassero

al fallimento53.

Queste vicende, in realtà, non devono stupirci: la casa non è un bene qualunque, che possa essere scambiato con facilità. Con la terra (che molto di più ha attirato l’attenzione degli storici), essa condivide il fatto di essere oggetto di una particolare preoccupazione. La sua circolazione è osta-colata, piuttosto che promossa, e nelle situazioni più diverse molte istituzioni sono create esatta-mente allo scopo di proteggere le proprietà immobiliari da una libera circolazione. Sappiamo che «il diritto trattava la terra con una attenzione tutta particolare», ed erano molti gli istituti giuridici creati al fine di “proteggerla” dal mercato, e non solo negli stati italiani. In Francia questa funzione veniva assolta ad esempio dalla norma del «retrait lignager», «droit qui possédait une personne d’intervenir dans la vente d’un bien immobilier, en se substituant à l’acheteur dans la transaction déjà réalisée, au nom de la parenté qui l’unissait au vendeur»54. Il diritto riconosceva che il bene

fondiario non era libero di passare di mano e di circolare liberamente: la proprietà era ben lontano dall’essere concepita come l’espressione di scambi liberi e individualizzati. Leggi e norme proteg-gevano questi beni da una troppo libera circolazione. Si trattava di una risposta a domande sociali di controllo e regolamentazione degli scambi dentro e fuori le famiglie55.

51 Le vicende della famiglia Donaudi sono state ricostruite nella bella ricerca di G. Monestarolo,

Nego-zianti e imprenditori nel Piemonte d’Antico Regime. La cultura economica di Ignazio Donaudi delle Mallere (1744-1795), Firenze 2006.

52 Su progetti immobiliari difficili: C. Casanova, Un banchiere milanese del ’700. Antonio Gnudi, in

«L’Ar-chiginnasio», LXXXVIII, 1993, pp. 216-246.

53 È il caso, appunto, della famiglia Ricca. Un bell’esempio è descritto da R. Bizzochi, In famiglia: storie di

interessi e affetti nell’Italia moderna, Bari 2001, pp. 107-111.

54 B. Derouet, Parenté et marché foncier à l’époque moderne: une réinterprétation, in «Annales, Histoire,

Sciences Sociales», 56, 2, pp. 337-368, cit. p. 339. Di questo stesso autore cfr. inoltre Territoire et parenté. Pour une mise en perspective de la communauté rurale et des formes de reproduction familiale, in «Annales, Histoire, Sciences Sociales», 50, 3, 1995, pp. 645-686.

55 Nell’Inghilterra dell’Età Moderna, ci hanno mostrato di recente alcune ricerche di grande interesse, una

pluralità di norme era stata creata allo scopo di ostacolarne la circolazione. L’ “equity of redemption” era un corpo legale creato all’inizio dell’Età Moderna proprio per ridurre la possibilità che i proprietari potessero perdere le proprietà che avevano ipotecato in cambio di un prestito; o che avevano dato in garanzia a causa

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Non tutto circola in queste società, come ci hanno mostrato di recente molte ricerche; l’identi-ficazione della famiglia e della parentela con la proprietà (Familia id est substantia secondo la formulazione dei post-glossatori) connota alcuni beni come destinati alla trasmissione, piuttosto che al mercato, e ritaglia quindi all’interno di essi delle aree di indisponibilità56.

«L’indisponi-bilité, comprise comme non -recours au marché dans la circulation de ces types de biens, ca-ractérise ou meme définit un mode particulier de possession fondée sur des genres de biens qui sont investis d’une valeur identitaire spécifique et distintive»57. Gli istituti del fedecommesso e le

istituzioni di primogeniture, come è noto, rispondevano a questa volontà di sottrarre al mercato beni che si volevano tramandare, attraverso cui non era solo la ricchezza a essere trasmessa ma il nome e il casato58.

Non era solo la terra ad essere protetta e immobilizzata. Le case in città erano oggetto di una analoga preoccupazione e, anch’esse, sollecitarono la nascita o almeno l’intervento di molte isti-tuzioni. Sappiamo che spesso i fedecommessi erano istituiti anche su case e palazzi e che interi corpi giuridici erano stati edificati al fine di sottrarre i beni all’arena dello scambio. In Piemonte, una delle principali funzioni del Senato è la protezione dei beni dotali che avviene attraverso una netta separazione di questi dal patrimonio del marito e dalla sua ingerenza. Eppure, di fronte alla minaccia dell’alienazione della casa per far fronte a rovesci economici di una famiglia, il tribuna-le acconsentiva, tribuna-legittimandola con il suo intervento, alla rinuncia a questi beni pronunciata (più o meno volontariamente) dalle donne. Il loro patrimonio è sacrificato così alla conservazione di un bene che è trattato con una cautela tutta particolare.

Oggetto di tanta cautela non è solo la ricchezza rappresentata da questi beni, ma sono anche i diritti che in essi sono incorporati. La casa non è solo simbolo del benessere e del prestigio rag-giunto (sebbene questi elementi siano importantissimi). In una concezione della cittadinanza in cui la residenza continuativa è criterio e garanzia dell’appartenenza, la casa è al tempo stesso prova e simbolo della stabilità e della condivisione di interessi all’interno dello spazio urbano e questi aspetti costituiscono evidentemente componenti essenziali del suo valore.

Ma c’è di più: nella casa sono incorporati diritti ancora più concreti, anche se a noi più nascosti. di debiti (il fatto che questo istituto sia stato abolito solo nel 1914 interroga proprio l’effettiva esistenza del “libero mercato” anche in età contemporanea): D. Sugarman, R. Warrington, Land law, citizenship, and the invention of ‘Englishness’. The strange world of the equity of redemption, in Early Modern Conception of Property, a cura di J. Brewer, S. Staves Routledge, London-New York 1996, pp. 111-143.

56 Il riferimento classico è A. Weiner, Inalienabile Possessions: the Paradox of Keeping-While-Giving,

Ber-keley 1992.

57 R. Descimon, Don de transmission, indisponibilité et constitution des lignages au sein de la bourgeoisie

parisienne du XVIIe siècle, in «Hypothèeses», 2006, pp. 413-422, la cit. si trova a p. 413; E. Haddad,

Fonda-tion et ruine d’une maison. Histoire sociale des comtes de Belin (1582-1706), Limoges 2009; Chauvard, La circulation des biens cit. Si vedano inoltre gli interventi in «Quaderni Storici», 88, 1, aprile 1995 (n. mono-grafico su «Dritti di proprietà»).

58 La letteratura intorno ai fedecommessi è molto ampia. Per gli stati sabaudi cfr. in particolare C. Bonzo,

Dalla volontà privata alla volontà del principe. Aspetti del fedecommesso nel Piemonte sabaudo settecentesco, Torino 2007; molto utile M. Piccialuti, L’immortalità de’ beni. Fedecommessi e primogeniture a Roma nei secoli XVII e XVIII, Roma 1999.

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Per “vederli” dobbiamo ancora una volta seguire tracce indirette. Nel corso del Seicento i docu-menti conservati nell’Archivio del Comune della città di Torino ci dicono come veniva realizzata la distribuzione dei carichi dei “graziosi donativi” che la città era chiamata, con regolarità, ad elargire al Duca (una scelta di difesa da imposizioni forse meno ingenti ma più regolari). Si tratta di moduli in parte stampati che venivano distribuiti ai proprietari delle abitazioni, membri per-lopiù di antiche famiglie nobiliari il cui casato aveva dato il nome del cantone tutto intero. I fogli avrebbero dovuto essere riempiti con la loro calligrafia con i nomi degli affittuari e l’ammontare del denaro versato da ciascuno di essi. Di fatto, ogni documento conserva solo la traccia della cifra che il cantone nella sua interezza si era impegnato a versare; il che significa che il prelievo è stato realizzato in solidum, e che i proprietari hanno provveduto loro stessi alla distribuzione tra i diversi capi di casa59. In altri termini, i proprietari non sono solo i percettori del donativo,

ma sono coloro che contrattano la distribuzione delle somme tra i diversi particolari. Sono ga-ranti e al tempo stesso sono costruttori della stratificazione sociale. Non sono stati conservati documenti analoghi per il XVIII secolo; sappiamo però che non erano cambiati forme e modi della distribuzione dei donativi, il che ci autorizza a pensare che il ruolo dei padroni di casa si sia conservato nel tempo. D’altra parte, altri indizi di una pluralità di diritti che confluiscono nella figura del proprietario vengono da più parti. È ai proprietari della case – prima ancora che ai genitori dei bambini – che si rivolgono le richieste di registrazione dei nuovi nati o dei decessi a fine Cinquecento60; e ancora, ad essi si rivolgono in particolare i funzionari del Fisco nel corso di

tutta l’Età Moderna, perché denuncino la morte degli stranieri, i cui beni possono ricadere sotto il dominio del re. La figura del proprietario è così investita di prerogative, responsabilità, diritti; essa ha un posto specifico nella scena economica e politica della città.

Non stupisce, in questo senso, che la circolazione delle case sia tutt’altro che libera, frutto di scelte individuali dettate da considerazioni essenzialmente economiche. La casa è un bene da cui non ci si vuole separare e che si cerca di difendere. Allo status di proprietario non è facile rinun-ciare. La rarità della condizione proprietaria a Torino e in tante città di Ancien Régime riflette bene questo stato di cose.

Alla luce di tali considerazioni, è difficile pensare che la proprietà di un’abitazione possa essere stata una condizione per avere accesso alla piena cittadinanza. L’acquisto di una casa doveva essere la realizzazione di un percorso, piuttosto che il suo inizio; il compimento di un inserimen-to sociale piutinserimen-tosinserimen-to che la sua premessa. Insomma, piutinserimen-tosinserimen-to che la condizione di accesso alla cittadinanza, la proprietà immobiliare doveva rappresentare la prova della sua realizzazione; del riconoscimento sociale del diritto di godere delle prerogative cui essa dava accesso; infine e non in ultimo, del diritto di prendere parte al “banchetto urbano”, di appropriandosi di una parte delle risorse locali.

Mi pare che un altro elemento, che considero essenziale, conforti questa interpretazione. Esso riguarda la caratteristica della proprietà in una società di Ancien Régime: il fatto che essa sia 59 Archivio del Comune di Torino, Ordinati, 1616, c.c. 73 sg. Sullo status giuridico del proprietario si vedano

i contributi in «Quaderni Storici», 113, 2/2003 («Proprietari e inquilini»).

60 Rubrica “Delle Prove”, in G.B. Borelli, Editti antichi e nuovi de’ Sovrani Principi della Real Casa di

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spesso stratificata, si componga cioè di una pluralità di diritti che rinviano a forme proprieta-rie diverse, spesso compresenti e ugualmente legittime; la titolarità, l’uso, la famigliarità ecc.61

Anche nel caso di Gerolamo Motta, la sua abitazione si compone di stanze distribuite in un immobile che ci appare come una proprietà frammentata, su cui inoltre gravano diritti diversi, di affitto, di passaggio, d’uso, ipotecari ecc. Spesso, ciò che chiamiamo “mercato degli immobili” è un mercato senza scambio o meglio senza trasferimento di proprietà; come nel caso di Motta, sono i diritti sugli immobili ad essere oggetto di transazione e a circolare, mentre la titolarità del bene è molto più stabile. Ma questa stratificazione di diritti ha una conseguenza importante: ogni atto di trasferimento di proprietà richiede la concertazione di tutti gli “aventi diritto”; richiede quindi conoscenze e autorità che possano nutrire capacità di mediazione. Prerogative che rinvia-no merinvia-no a qualità personali che a competenze suscitate da un solido radicamento locale. Ancora una volta, il postulato dell’accesso al mercato immobiliare come condizione dell’acquisizione della cittadinanza appare debolissimo: acquisto e vendita richiedono competenze e radicamento locali. Sono requisiti questi ultimi, non ricompense di un investimento economico.

Come è possibile allora a un nuovo arrivato, o a una persona mobile sul territorio, inscriversi in questo mercato? Come acquistare beni in una condizione di relativa deprivazione di legami, in un tessuto non segnato dalla fiducia?

Il percorso seguito da Gerolamo Motta può aiutare a porci in modo concreto queste domande. Rivediamo brevemente in quale direzione si erano indirizzate le sue scelte. Abbiamo visto Motta muoversi in modo particolare su questo terreno e acquisire, attraverso l’accensione di crediti, alcuni diritti su diverse proprietà immobiliari: la bottega del Signor De Abbate e, poco dopo, le stanze di sua abitazione, oltre ad altri locali dello stesso immobile. Abbiamo anche visto che que-ste operazioni finanziarie non sembravano avere come obiettivo l’acquisizione di beni (nessuno dei due figurerà tra le sue piene proprietà). Si tratta piuttosto di scelte finanziarie che mirano a far entrare Motta in una comunità di creditori che diventeranno presenze ricorrenti negli atti notarili che lo riguardano o nell’ambito dell’Ospedale. Il turco di Anatolia Gerolamo Motta è entrato così di diritto in una piccola comunità di prestatori, tutti relativamente agiati, per la gran parte saldamente radicati in città. Questo dato merita almeno una riflessione: mentre la storiografia sul mercato dei beni immobili ha assunto come unità di analisi la diade acquirente / venditore (interrogandosi spesso in modo sottile sul rapporto eventuale tra prezzo fissato per lo scambio e distanza sociale dei contraenti), mi pare invece che l’analisi vada ampliata da questa coppia all’intera rete sociale degli “aventi diritto”, che deve essere considerata nella sua interezza se si vuole comprendere il senso delle operazioni economiche. Ci torneremo.

Motta reitererà questa scelta in modo spettacolare nel corso del tempo sia con la partecipazione 61 Oltre alle opere di Grossi, per quanto concerne gli immobili urbani, si veda Le sol et l’immeuble. Les

formes dissociées de propriété immobilière dans les villes de France et d’Italie (XIIe-XIXe siècle), a cura di O.

Faron, E. Hubert, Roma 1995. Scrive Jacques Chiffoleau nelle Conclusioni, che «depuis ce fameux article 544 du Code civil invoquant le droit de jouir et de disposer des choses de la manière la plus absolue», è sem-brata affermarsi l’onnipresenza della figura del proprietario, e questo «a en effet fait perdre de vue aux histo-riens les formes plus complexes, feuilletés, emboitées, concurrentes ou complémentaires de l’usage», p. 309.

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alla gestione delle due abbazie del Principe Eugenio sia attraverso la miriade di investimenti nell’Ospedale di Carità. La prima “operazione” è dichiaratamente dominata dall’importanza delle relazioni cui dà accesso. Abbiamo appena visto Motta impegnarsi nell’impresa di sgravare della sua parte di affitto colui che era divenuto socio nell’impresa, il conte del Carretto62.

Ma è analoga anche la seconda scelta di Motta, quella che riguarda il suo spettacolare investi-mento nell’Ospedale di Carità. Come abbiamo ricordato, i prestiti gli consentono di entrare, anche in questo caso, in une rete sociale tra le più prestigiose in città, fatta di decurioni del Mu-nicipio, di funzionari diretti rappresentanti del re, di grandi mercanti. L’ingresso nell’istituzione apre le porte a universi sociali che, possiamo pensare, sarebbe difficile raggiungere altrimenti. Fare credito si rivela un modo efficace per acquistarne agli occhi dei “cittadini”.

Tuttavia, questi aspetti relazionali, che credo essenziali, non esauriscono le ragioni dell’attac-camento di Motta verso l’Ospedale e dell’assiduità dei suoi investimenti. Ce ne sono altre, che ci rimandano al ruolo giocato dalla proprietà e dalle istituzioni nei processi di inserimento e di integrazione in città. Torniamo al rapporto di Motta con la proprietà immobiliare e soprattutto al modo in cui realizza il progetto di acquisto della sua casa. Sappiamo che decide di vincolare la propria iniziativa all’Ospedale di Carità. La casa che egli stesso fa costruire è all’inizio confusa entro un’impresa più vasta (il forno destinato ai poveri) e si giustifica attraverso di essa. Dell’a-bitazione egli si riserva il solo usufrutto, mentre fa dono del titolo di proprietà all’Ospedale. In questo caso l’operazione è evidentemente una tappa in un processo di acquisizione del bene, perché molti anni più tardi, al momento della sua morte, quella stessa casa figura a pieno titolo nel patrimonio personale di Gerolamo Motta. La scelta si inscrive, come abbiamo visto, in un contesto di grande famigliarità intrattenuta da Motta con l’Ospedale.

Questo percorso è tutt’altro che originale: nel corso di questi anni molti fili unirono “stranieri” come Motta a istituzioni urbane, e queste ebbero uno spazio di spicco nel percorso di integrazio-ne in città di numerosi individui. Cerchiamo di capire come e perché.

5. Istituzioni e “stranieri”

Proviamo a considerare più da vicino le ragioni della grande attrazione esercitata, soprattutto a partire dall’inizio del secolo, dall’Ospedale di Carità e da altre istituzioni caritative urbane. Un primo dato intanto va sottolineato: la contingenza della crescita dei donativi corrisponde non solo a un momento critico della battaglia tra le élites, ma anche a un momento di particolare crescita delle industrie e dei commerci, che si accompagna all’intensificarsi di movimenti di per-sone e cose attraverso la città63. L’Ospedale attrae dall’inizio del secolo investimenti di persone

62 AST, Sez. Riunite, Insinuazione Torino, 1703, l. 4, c. 525, Affittamento di Aleramo del Carretto dei

Marche-si di Gorzegno a Gio Batta Borello, Gerolamo Motta, con D. AlesMarche-sio Cerva (28 agosto 1702).

63 Si vedano i dati demografici presentati in Storia di Torino, IV, La città tra crisi e ripresa cit.; e soprattutto

in D. Balani, Sviluppo demografico e trasformazioni sociali nel Settecento, in Storia di Torino, V, Dalla città razionale alla crisi dello Stato d’Antico Regime (1730-1798), Torino 2002, pp. 625-688.

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