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La sottrazione del segreto aziendale alla luce del decreto correttivo n. 131/2010

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Facoltà di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

LA SOTTRAZIONE DEL SEGRETO AZIENDALE

ALLA LUCE DEL DECRETO CORRETTIVO

N. 131/2010

Candidato Marinella Cecchettini

Relatore Prof. Ilaria Kutufà

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Ad Albertina e a Giorgio a cui devo la vita e la conoscenza dell'amore incondizionato.

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INDICE

INTRODUZIONE...5

L'INDEBITA APPROPRIAZIONE DEL SEGRETO AZIENDALE ALTRUI...9

1Correttezza professionale e potenzialità dannosa: gli orientamenti dottrinali...9

2Fattispecie...19

3Oggetto del segreto aziendale...22

NORMATIVA: EVOLUZIONE STORICA...34

1Convenzione di Parigi del 1883 e art. 2598 c.c. a confronto ...34

2La nozione di segreto aziendale nei TRIPs...36

3Art. 6 bis: tutela “relativa” del segreto aziendale...42

4Le informazioni segrete nel codice della proprietà industriale ...50

MISURE DI PROTEZIONE DEL SEGRETO AZIENDALE...61

1Misure endoaziendali ed esoaziendali...61

2Accordi di riservatezza...63

2.1Limiti all'obbligo di riservatezza...69

3Il contratto di know how...72

3.1Contratto di licenza di know how...78

4Obbligo di fedeltà del lavoratore dipendente...82

4.1Orientamenti giurisprudenziali...84

4.2Orientamenti dottrinali...87

4.3Diritto al segreto e diritto di difesa a confronto, alla luce delle pronunce giurisprudenziali...88

5Il patto di non concorrenza...92

6Distinzione fra nozioni personali del lavoratore e segreti aziendali...99

6.1Notizie soggettive ed oggettive...100

6.2Pronunce giurisprudenziali...105

6.3Informazioni aziendali inviolabili e background del lavoratore: linea di confine...109

PROFILI PROCESSUALI...115

1Tutela reale o tertium genus?...115

2Misure cautelari: l'inibitoria...121

3(Segue): Descrizione e sequestro...131

3.1Il riformato art. 129 c.p.i...137

4Provvedimenti definitivi...143

4.1L'inibitoria...143

4.2Gli opportuni provvedimenti...146

4.3Il risarcimento del danno...148

5Tutela penale del segreto aziendale. Cenni...157

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INTRODUZIONE

Il presente lavoro ha l'obiettivo di individuare le zone di luce e di ombra inerenti alla fattispecie della sottrazione del segreto aziendale, in virtù dell'evoluzione normativa che ha subito nel corso degli anni. Il tema della tutela giuridica delle informazioni segrete può considerarsi un “classico” nell'ambito degli studi di diritto industriale ed è ormai presente da molti anni nel panorama dottrinale e giurisprudenziale italiano. Può affermarsi che il know how, traendo nuova linfa dalle recenti (ci si riferisce all'introduzione del Codice della Proprietà Industriale nel 2005) o recentissime (si fa riferimento alla novella del 2010) modifiche normative, proponga oggi temi di rinnovata attualità, anche in considerazione della mutata ed accresciuta sensibilità di imprese e giuristi, in relazione all'esigenza di tutelare i risultati dell'innovazione e di esplorare le aree di intersezione tra tutela monopolistica e libera concorrenza, tra diritti dell'impresa e diritti individuali.

In tempi di libera concorrenza e globalizzazione dei mercati, la protezione del segreto aziendale riveste sempre più un ruolo strategico per l'impresa. Dal processo produttivo di un oggetto alla sua commercializzazione è lunga la serie delle informazioni non brevettabili, sia per scelta che per impossibilità. Tali

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informazioni, che possono essere tecniche o aziendali, rappresentano un grande valore economico ed un indubbio vantaggio competitivo per l'imprenditore che ne sia in possesso. Ogni impresa detiene dei segreti che sono stati sviluppati durante l'attività imprenditoriale, ma accade non di rado che tali segreti vengano divulgati, prima che ci si renda conto della loro importanza. Spesso le informazioni riservate vengono diffuse in modo improprio o involontario all'interno dell'azienda stessa e ciò ne facilita una diffusione anche all'esterno dell'azienda medesima. Questa considerazione deve portare a definire delle regole di controllo da adottare anche all'interno dell'azienda. L'interesse a mantenere segreto l'insegnamento innovativo sul come ottenere un risultato utile è evidente: finché la condizione di segretezza persiste, gli interessi individuali alla remunerazione del lavoro e delle risorse investite nell'innovazione sono al riparo dalla concorrenza. Il segreto genera un monopolio di fatto che assicura al monopolista la percezione di un profitto differenziale, rispetto a quello conseguibile in regime di concorrenza; un monopolio potenzialmente perpetuo. Benché il segreto, in assenza di regole, sia sufficiente ad appagare gli interessi individuali, si tratta pur sempre di una situazione irrimediabilmente precaria, che può venir meno non solo a causa di comportamenti

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comunemente riprovati (come la divulgazione da parte del dipendente infedele), ma anche per effetto di attività del tutto lecite (come il reverse engineering). Da qui sorge l'onere da parte di soggetti al cui legittimo controllo le informazioni sono soggette di adottare misure di protezione. Le misure da predisporre devono essere dirette sia verso l'interno (personale aziendale), sia verso l'esterno (clienti, fornitori, terzi in generale). In ragione di ciò, diviene necessario affrontare il problema relativo a quando un'informazione possa ritenersi segreto aziendale, sì che l'appropriazione di essa sia concorrenzialmente illecita e, successivamente, distinguere fra nozioni personali del lavoratore (nozioni che costituiscono il suo background tecnico, formatosi durante l'esperienza lavorativa) e nozione di segreto aziendale. Tale problema verrà affrontato fin dalle prime pagine del seguente elaborato.

La tesi è così strutturata:

• Nel primo capitolo, verrà affrontato il problema inerente alla definizione della nozione di segreto aziendale, attraverso la collocazione sistematica della fattispecie. • Nel secondo capitolo, verranno analizzati i requisiti che i

segreti aziendali devono possedere, per essere ritenuti tali, attraverso le normative che si sono succedute.

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ogni impresa deve predisporre per la protezione dei propri segreti aziendali, in conformità al dettato normativo, di cui all'art. 98 c.p.i.

• Nel quarto capitolo, verranno messi in luce gli strumenti processuali, a cui il titolare delle informazioni segrete può ricorrere, quando subisce un'indebita appropriazione dei propri segreti aziendali.

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CAPITOLO PRIMO

L'INDEBITA APPROPRIAZIONE DEL SEGRETO

AZIENDALE ALTRUI

Sommario: 1. Correttezza professionale e potenzialità dannosa: gli orientamenti dottrinali - 2. Fattispecie - 3. Oggetto del segreto aziendale

1 Correttezza professionale e potenzialità dannosa:

gli orientamenti dottrinali

Il presente lavoro ha lo scopo di definire e di approfondire i contorni della fattispecie dello spionaggio industriale, attraverso l'individuazione della nozione di segreto aziendale e degli strumenti di tutela, volti a proteggerlo. Per una migliore comprensione da parte del lettore, è doveroso individuare, fin da subito, la collocazione della fattispecie all'interno del nostro ordinamento.

Lo spionaggio industriale rientra fra gli atti di concorrenza sleale, disciplinati dall'art. 2598 c.c., norma che ci consente di circoscrivere l'ambito di illiceità della condotta.

La norma si apre con l'individuazione di tre fattispecie tipiche nominate, contenute all'interno dei primi due numeri dell'articolo, e cioè gli atti di confusione, gli atti di denigrazione e gli atti per appropriazione di pregi, e prosegue con una fattispecie generale di chiusura, contenuta nel terzo numero, la quale stabilisce che compie atti di concorrenza sleale chiunque “si vale direttamente

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o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda”. La previsione di tale clausola generale come strumento per considerare illeciti comportamenti che, a rigore, non possono essere sussunti sotto le fattispecie della denigrazione, della confusione e dell'appropriazione di pregi è stata una scelta felice del legislatore. Nel 1942, infatti, non si poteva ancora immaginare a quale effettiva deriva patologica la concorrenza potesse portare, quindi a quali stratagemmi l'imprenditore particolarmente spregiudicato sarebbe potuto ricorrere, per eludere il rischio di ricadere nel divieto di concorrenza sleale1. La norma di chiusura è stata, perciò,

importante, in quanto ha consentito di colpire e di sanzionare condotte sleali, anche se non espressamente riconducibili alla fattispecie della confusione, della denigrazione, dell'appropriazione di pregi.

Dalla lettura dell'art. 2598, n. 3, c.c. emergono due importanti concetti che necessitano di essere esplicitati. Si tratta della potenzialità dannosa e della non conformità ai principi di correttezza professionale.

La potenzialità dannosa è la capacità di un comportamento di provocare un danno ad un concorrente, nell'esercizio dell'attività

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di impresa. Non è richiesta la prova dell'effettiva realizzazione del danno, ma il danno deve essere prevedibile, capace di realizzarsi, ma non già realizzato. Si potrebbe replicare che qualsiasi operazione di impresa, rispetto al concorrente, è potenzialmente dannosa. Questo è vero, se ci riferiamo al danno inteso come sviamento di clientela, in quanto è evidente che ogni imprenditore cerchi di produrre il bene migliore, per accaparrarsi la fetta di clientela maggiore, a discapito delle imprese concorrenti. Ciò è assolutamente un intento lecito, leale e meritevole di tutela, positivo per il consumatore stesso. Gli imprenditori, infatti, sono incentivati a migliorarsi nella produzione, utilizzando tecniche e mezzi di ultima generazione, al fine di creare prodotti di alta qualità e accattivanti per il consumatore, così da essere scelti da quest'ultimo nel mare magnum dei prodotti offerti dal mercato.

La dannosità di cui si tratta deve concernere “l'altrui azienda”. Questa espressione potrebbe far pensare alla nozione di azienda enunciata dall'art. 2555 c.c., vale a dire al complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa. Tuttavia, un'interpretazione che limitasse la dannosità rilevante a quella che concerne i beni costituenti l'azienda sarebbe assurdamente limitativa2 ed è, perciò, pacifico che ci si debba

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riferire a qualsiasi danno economico che colpisca l'impresa del concorrente, vale a dire l'imprenditore in ogni aspetto della sua specifica attività. La dannosità rilevante, dunque, potrà concernere sia gli elementi organizzativi interni dell'impresa e, più in generale, la sua sfera di segretezza, sia la sua immagine esterna, la sua proiezione sul mercato, sia la sua clientela.

L'idoneità al danno deve consistere in una concreta probabilità di ingerenza dannosa, spesso manifestantesi in uno sviamento di clientela e, secondo diversi giudici, all'altrui pericolo deve corrispondere un proprio probabile vantaggio3. Se, invece, lo

sviamento di clientela altrui è fine a se stesso, come mezzo per danneggiare altri senza ritrarne alcun vantaggio, diretto od indiretto, per sé o per altro concorrente del danneggiato, potrà riconoscersi a chi subisce il pregiudizio l'azione di danno extracontrattuale, di cui all'art. 2043 c.c., laddove ne ricorrano gli estremi. Non si potrà riconoscere l'azione contro la concorrenza sleale ex art. 2598 c.c., in quanto è un'azione tipica a tutela di un determinato bene: la clientela come elemento dell'azienda4.

Ha lo scopo di impedire che nella libera lotta economica fra imprenditori vengano usati da uno dei concorrenti, in danno di un altro o di altri, mezzi e modi di lotta sleali e, come tali, non

3 Vd. App. Milano, 20 Giugno 1961, in Giust. Civ., 1962, I, 390; App. Milano, 16 Febbraio 1960, in Mon. Trib., 1960, 133.

4 Cfr. GHIDINI, LIBERTINI, Trattato di diritto commerciale e di diritto

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riconoscibili come leciti dall'ordinamento giuridico.

L'idoneità al danno resterà di regola esclusa, se le concrete modalità dell'atto siano tali da escludere ogni ragionevole probabilità di effetti dannosi5.

Dato che si parla di idoneità al danno e non della sua effettiva realizzazione, è lecito chiedersi in che modo un atto, che concretamente non abbia provocato un danno, possa considerarsi idoneo a provocarlo. La risposta diventa agevole, se si considera che l'attività di concorrenza ha normalmente una dimensione temporale, vale a dire che solitamente presenta una continuità nel tempo o è costituita da una ripetizione di atti. Si avrà potenzialità dannosa senza danno attuale quando, ad esempio, si tratti di attività concorrenziale continuata che, dal punto di vista quantitativo, non abbia ancora raggiunto una dimensione sufficiente ad incidere negativamente sul concorrente. Un altro esempio si avrà nell'ipotesi del tentativo, cioè nel caso in cui, per definizione, essendo appunto rimasta l'attività allo stadio di tentativo, un danno non si sia provocato, ma ci si trovi ugualmente in una situazione di potenzialità dannosa, per la probabilità che il tentativo venga reiterato6.

La potenzialità dannosa del tentativo stesso andrà, poi, valutata ex ante, cioè prescindendo dalla mancata riuscita di esso.

5 Cfr. G. RESTA, Diritti esclusivi e nuovi beni immateriali, 304 s. 6 Cfr. VANZETTI, DI CATALDO, op. cit., 33.

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La potenzialità dannosa dell'art. 2598 c.c. è una potenzialità dannosa qualificata, nel senso che non è semplicemente un affermarsi sul mercato come imprenditore che produce un bene preferibile rispetto a quello del concorrente, ma è una potenzialità che si realizza, attraverso mezzi che non manifestano solo l'intento di primeggiare, ma quello di annientare il concorrente, attraverso strumenti scorretti. Si passa, dunque, dall'indagine sull'intento a quella sul mezzo utilizzato e questo ci consente di creare un collegamento tra il requisito della potenzialità dannosa e quello della non conformità ai principi di correttezza professionale.

La correttezza professionale è una terminologia ambigua, in quanto è lo stesso principio di correttezza ad essere ambiguo, dal momento che sembra implicare delle valutazioni soggettive. La correttezza è un concetto vago e sta all'interprete cercare di oggettivizzarlo. In questo senso, sia la giurisprudenza che la dottrina si sono affannate nel cercare di capire quale potesse essere l'elemento fondante per ritenere corretto il comportamento di un concorrente rispetto ad un altro7.

In un primo momento, si è cercato di parlare di correttezza secondo la morale imprenditoriale, come se esistesse un catalogo immaginario di doveri, che il buon imprenditore deve

7 Cfr. G. FLORIDIA, in AA. VV., Diritto industriale. Proprietà intellettuale e

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rispettare, per non promuovere una concorrenza selvaggia verso un altro, in rapporto di concorrenzialità con lui. Chi ha sostenuto questa interpretazione ha affermato che, se il legislatore parla di correttezza professionale, indica quella non dell'uomo di strada, ma quella che ci si aspetta da un soggetto che opera professionalmente e, dunque, la morale degli imprenditori8. Non esiste, di fatto, una morale imprenditoriale. Le

categorie professionali, quando vogliono imporsi dei codici etici, li formalizzano. Basti pensare ai codici deontologici. Per quanto concerne la categoria imprenditoriale, non esiste un codice deontologico degli imprenditori.

Si è, quindi, cercato di superare questa prima tesi, attraverso l'adozione di una concezione economica del principio della correttezza. Si è, dunque, ritenuto corretto professionalmente ciò che nell'economia di mercato è plausibile che possa essere compiuto, per esercitare un'attività di impresa9. Anche questo

tentativo è naufragato, in quanto l'oggettivizzazione è più formale che sostanziale. E' presente, infatti, una certa soggettivizzazione, dato che in taluni periodi storici troveremo

8 Per questa impostazione, vd. FERRARI, Il soggetto attivo dell'atto di

concorrenza sleale, in Riv. Dir. Ind., 1957, 146; FRANCESCHELLI, L'elemento temporale nella concorrenza parassitaria, in Riv. Dir. Ind.,

1983, 29; GHIDINI, La concorrenza sleale, 214.

9 Per questa impostazione, JAEGER, Valutazione comparativa di interessi

e concorrenza sleale, in Riv. Dir. Ind., 1970, I, 97; LIBERTINI, Lezioni di diritto industriale, 1531; SANTAGATA, Concorrenza sleale e interessi protetti, 171 ss.

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un tipo di concorrenza spregiudicata, in talaltri, in cui sia stata adottata una politica proibizionista o protezionistica, un tipo di condotta più morigerata. Nei periodi di crisi, ad esempio, vi è un abbassamento del livello di guardia, in quanto, pur di far sopravvivere la propria attività di impresa alla crisi, si potrebbe arrivare a giustificare un comportamento oggettivamente spregiudicato. Anche rivolgersi al concetto più economico, legato alla prassi di quelle che sono le condotte degli operatori di mercato è un'operazione che porta a variabili soggettive, che tengono conto del sostrato sociale, politico, culturale del momento. Se ci leghiamo alla prassi e guardiamo cosa oggi nell'economia realmente accade, inevitabilmente dovremmo fare una distinzione tra ciò che è corretto nel periodo di non crisi e ciò che è corretto, con una soglia più alta di tollerabilità, nei periodi di crisi.

La terza soluzione adottata dalla dottrina più recente è l'agganciamento del principio di correttezza professionale alla morale corrente, quindi alla morale dell'uomo di strada, legata alla sensibilità del cittadino, ossia la morale del consumatore10.

Il consumatore viene visto come l'arbitro della lotta concorrenziale tra gli imprenditori e, in quanto arbitro, è il suo metro di valutazione a ritenere corretta o meno la condotta

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posta in essere dall'imprenditore.

Bisogna dire che anche la morale corrente è destinata a cambiare con i tempi, per cui non si può dire che un processo di oggettivizzazione della nozione si sia davvero realizzato, però si può dire che questa è la chiave di lettura che scontenta meno. Dunque, se è vero che il metro di valutazione da utilizzare è quello del consumatore, è anche vero che il consumatore non è il soggetto protetto dalla tutela sulla concorrenza sleale. Ci si deve calare sì nella posizione del consumatore, ma con una precisazione e cioè di considerare la figura del consumatore medio, quindi del consumatore non del tutto sprovveduto, di media diligenza, di media accortezza, di media prudenza. Ciò significa che non si deve arrivare a valutare la liceità o meno dell'operazione posta in essere, vestendo i panni di un soggetto che non ragioni minimamente, che non azioni un minimo di valutazione sintetica sul comportamento dell'imprenditore concorrente11.

La definizione del principio di correttezza professionale ha interessato da sempre gli studiosi, i quali non hanno, invece, mostrato lo stesso interesse all'approfondimento dell'altro parametro, quello dell'idoneità a danneggiare l'altrui azienda. Probabilmente la particolare attenzione della dottrina al tema

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della correttezza professionale ed alla definizione di tale formula è causata dall'opinione comune, secondo cui tutta la disciplina della concorrenza sleale sembra basata sulla lealtà della concorrenza. Per questo motivo, ci si chiede se anche per le altre fattispecie tipicamente previste sia indispensabile valutare la non conformità alla correttezza professionale, al fine di determinare la qualificazione della slealtà dell'atto. Tutta la normativa della concorrenza sleale pare ispirata al criterio della correttezza professionale. La disciplina, infatti, colpisce quegli atti che, per le modalità con cui vengono posti in essere, si traducono in una valutazione dei principi di libertà di concorrenza accolti dal legislatore e, in generale, in una violazione della lealtà della concorrenza, lealtà che si ripercuote nel mercato come vantaggio per la collettività a che le regole del gioco concorrenziale non siano falsate12.

Nelle fattispecie tipiche di concorrenza sleale, gli elementi oggettivi della difformità ai principi della correttezza professionale e della potenzialità dannosa sono dati per scontato e dunque il compito dell'interprete è più semplice. Se, infatti, le figure tipiche si verificano nel modo previsto dalla norma, l'atto di confusione, di denigrazione, di appropriazione di pregi è sicuramente un atto di concorrenza sleale, in quanto vi è

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già stata una valutazione ex ante della potenzialità dannosa, della non conformità ai principi di correttezza professionale. Il legislatore, con il n. 3 dell'art. 2598 c.c., ha inteso aggiungere una clausola di chiusura, che va ad affiancarsi alle ipotesi tipiche di concorrenza sleale e nella quale è possibile poi ricondurre le fattispecie atipiche che, però, si sono venute a tipizzare negli anni. Tra queste rientra la fattispecie dello spionaggio industriale, oggetto del presente lavoro.

2 Fattispecie

Lo spionaggio industriale, espressione atecnica per indicare la sottrazione dei segreti aziendali, consiste in un comportamento attivo, volto ad appropriarsi dei segreti aziendali altrui, con mezzi illeciti. Tale fattispecie può essere realizzata direttamente dal concorrente, o dal concorrente tramite un intermediario, come un dipendente, che venga indotto a violare il suo obbligo di fedeltà, o tramite chi abbia fatto parte dell'azienda, oppure, ed è questa la formula più subdola, attraverso la c.d. talpa. La talpa è il dipendente infedele che si fa assumere artificiosamente dal concorrente, per poter trasmettere le informazioni segretate all'imprenditore di riferimento, alle cui dipendenze, in realtà, si trova13.

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Delicato è il problema di stabilire quando un'informazione possa ritenersi “segreto aziendale”, sì che l'appropriazione di essa sia concorrenzialmente illecita. La Suprema Corte14 ha esteso la

nozione di informazione “tutelata” alle “notizie che, pur senza essere dei veri e propri segreti, l'impresa concorrente non abbia messo, né ritenga di mettere, a disposizione del pubblico”.

Sorge un problema, nel caso in cui l'informazione venga rivelata da un ex dipendente, che l'abbia legittimamente acquisita nello svolgimento della sua attività lavorativa, presso l'ex datore di lavoro. In questo caso, l'esigenza di tutelare il segreto aziendale si scontra con il principio, secondo cui l'ex dipendente ed il suo eventuale nuovo datore di lavoro possono legittimamente utilizzare le esperienze e le cognizioni tecniche e di mercato acquisite dal primo, nell'esercizio delle sue precedenti mansioni. Conseguentemente, per dare luogo allo spionaggio industriale, le informazioni utilizzate dovranno presentare una forte caratterizzazione di segretezza. In merito, si può tenere in considerazione un principio consolidato in giurisprudenza, secondo il quale “le capacità professionali che il dipendente abbia acquisito o migliorato nel corso del pregresso rapporto di lavoro costituiscono un suo esclusivo patrimonio professionale liberamente utilizzabile, mentre le conoscenze specifiche

privatistiche, 343.

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attinenti all'ambito riservato dell'altrui impresa permangono riservate e inutilizzabili, in virtù delle regole di correttezza”15.

Sul piano della disciplina sostanziale, la previgente disciplina è stata scomposta in due articoli volti a delimitare, il primo, l'oggetto della tutela, il secondo la portata della tutela. Si tratta degli articoli 98 e 99 del Codice di Proprietà Industriale. Tali norme, le quali verranno approfondite in seguito, chiariscono, senza dubbio, cosa debba considerarsi segreto tutelato, ma non escludono che possa, in determinate circostanze, continuare a considerarsi illecita l'appropriazione di notizie, anche meno qualificate in termini di segretezza, secondo l'orientamento della Suprema Corte, come sopra ricordato16.

Nel nuovo quadro normativo, il titolare della situazione protetta è il soggetto che detiene le informazioni sotto il suo legittimo controllo e non è specificamente identificato dal legislatore in un concorrente. La violazione dei segreti aziendali che presentano i requisiti indicati dall'art. 98 c.p.i. “non è più qualificabile come atto di concorrenza sleale, ma realizza la lesione di una situazione giuridica soggettiva”17. Da ciò, ogni atto di

utilizzazione delle esperienze aziendali protette, non consentito dal titolare legittimo, costituisce illecito. La qualifica dei segreti

15 Cass. 20 Marzo 1991, n. 3011, in GADI, 1991, 2597. 16 Cfr. VANZETTI, DI CATALDO, op. cit., 120.

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aziendali, come diritti di proprietà industriale, ha come importante conseguenza anche quella di estendere ad essi tutto l'apparato degli strumenti di tutela giurisdizionale, disciplinati nel Capo III del Codice di Proprietà Industriale.

Scorrendo le precedenti sezioni del Capo II, in riferimento agli altri diritti di proprietà industriale, la disciplina delle informazioni aziendali appare claudicante, in quanto manca un'esplicita indicazione dei criteri di valutazione della violazione del segreto18. Tale mancanza assume un peso maggiore se si

considera che, oltre alle informazioni tecniche, sono protette anche le informazioni commerciali. Esse ricomprendono tutti i dati necessari o utili allo svolgimento delle funzioni commerciali, per cui, in primis, la vendita, la promozione e la pianificazione finanziaria e di prodotto. I precedenti giurisprudenziali sono giunti ad includervi liste di clienti o di fornitori, tecniche gestionali, regole finanziarie, tecniche e modalità di fissazione dei prezzi19.

3 Oggetto del segreto aziendale

Per gli economisti20, è di valore e va protetto tutto quel bagaglio

di conoscenze che dà vantaggio a chi lo possiede e che i

18 Cfr. RESTA, op. cit., 296. 19 Vd. FRIGNANI, op. cit., 339.

20 In particolare, vd. E. KITCH, The Law and Economics of Rights in

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concorrenti vorrebbero conoscere, per poterlo utilizzare. Gli economisti parlano di informazioni o di conoscenze, distinguendo tra quelle relative a tecnologie produttive (o segreti in senso stretto), oppure a conoscenze organizzative, distributive o commerciali. Tali conoscenze sono il frutto di studi, di ricerche, di applicazioni, di prove e di controprove, oppure sono il risultato di anni di attività, di collegamenti, di esperienze, di relazioni umane. Il loro sviluppo richiede un investimento aziendale e l'incentivo a tali investimenti è dato dalla loro redditività o vantaggio sui concorrenti, che sussisterà, finché si riesce a proteggere la riservatezza delle conoscenze dagli sforzi dei concorrenti di venirne in possesso21.

Con l'emanazione del Codice della Proprietà Industriale (d. lgs. 10 Febbraio 2005, n. 30), la disciplina dei segreti aziendali è stata affidata agli articoli 98 e 99 c.p.i. L'art. 98 c.p.i., rubricato come “oggetto della tutela” stabilisce:

“Costituiscono oggetto di tutela le informazioni aziendali e le esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali, soggette al legittimo controllo del detentore, ove tali informazioni:

a) siano segrete, nel senso che non siano nel loro insieme, o nella precisa configurazione e combinazione dei loro

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elementi, generalmente note o facilmente accessibili agli esperti ed agli operatori del settore;

b) abbiano valore economico, in quanto segrete;

c) siano sottoposte, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete.

Costituiscono altresì oggetto di protezione i dati relativi a prove o altri dati segreti la cui elaborazione comporti un considerevole impegno ed alla cui presentazione sia subordinata l'autorizzazione dell'immissione in commercio di prodotti chimici, farmaceutici o agricoli implicanti l'uso di nuove sostanze chimiche”.

Si deve trattare di informazioni che riguardano attività economiche, produttive o distributive o anche quelle finanziarie e relative all'organizzazione. La definizione della legge coincide con la nozione generalmente accolta di know how22, il quale

consiste in una serie di informazioni riservate, necessarie o utili per condurre adeguatamente un processo produttivo o distributivo o organizzativo, il cui valore economico è dato dal risparmio realizzato con la sua utilizzazione. Le singole

22 L'espressione di know how, che può senz'altro ritenersi consacrata, ormai da qualche decennio, nella prassi del diritto industriale e commerciale internazionale, è, tuttavia, ad oggi, priva di traduzione letterale nella lingua italiana. Pur avendo, infatti, trovato piena cittadinanza giuridica nel nostro ordinamento, grazie all'intervento del legislatore comunitario, la traduzione letterale di “saper come fare” è pressoché inutilizzata.

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informazioni che fanno parte del know how sono molto spesso di dominio pubblico, tuttavia il valore del know how è dato dalla loro combinazione. Effettuata l'operazione A, il know how suggerisce l'operazione B1, anziché la B, e dopo di questa la C2, anziché la C e così via. La scelta tra le varianti identifica la soluzione preferita tra un numero amplissimo di possibilità. Ne deriva un concetto molto ampio di informazioni segrete, per cui, per accedere alla tutela, non è necessario che ogni singola componente del know how sia integralmente sconosciuta23. Le

informazioni segrete, tutelate dalla vigente normativa, secondo alcuni, consisterebbero nei dati tecnici oggettivamente idonei a rimanere sconosciuti ai terzi non vincolati al segreto e che rivestano un rilievo oggettivo ed assumano importanza nell'ambito dell'attività del datore di lavoro, mentre, secondo altri, l'obbligo di segretezza sarebbe violato ogni qual volta vengano rivelate o utilizzate le informazioni che il datore di lavoro aveva considerato segrete, al momento dell'assunzione del dipendente. Si fa riferimento a quelle informazioni individuate ex ante come segrete e non destinate ad appartenere al patrimonio professionale del dipendente assunto. L'accesso alla tutela è consentito se vengono contemporaneamente soddisfatti i tre requisiti menzionati

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all'interno dell'art. 98, I co., c.p.i.: i) segretezza; ii) valore economico; iii) protezione attraverso adeguate misure di segretazione.

Per quanto concerne il primo requisito, non si richiede una segretezza assoluta. E' sufficiente che l'acquisizione delle informazioni, quando possibile, avvenga attraverso sforzi non indifferenti e superiori, rispetto a quelli che si effettuerebbero con un'accurata ricerca in letteratura. Occorre che esse siano state accumulate con un lavoro individuale, non reperibile con una semplice consultazione, un lavoro intellettuale di progettazione individuale. Per “informazione”, peraltro, devono intendersi non già le conoscenze in astratto, quanto piuttosto le “conoscenze formate” e cioè dati o nozioni organizzati, in modo tale da poter essere utilizzati in ambito aziendale o trasferiti a terzi24. Le nozioni che formano il know how non devono essere

alla portata cognitiva dell'operatore medio del settore di riferimento, ma è sufficiente che l'esperto del ramo possa arrivare, solo con analogo dispendio di tempo, di prove e di risorse, al risultato migliorativo o perfettivo in cui si sostanzia il know how. Dalla segretezza delle informazioni dipende il valore economico-commerciale delle stesse, essendo palese che un'informazione facilmente accessibile non richieda sforzi

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economici per essere appresa dai terzi25.

Il segreto è tutelabile solo se trae valore economico dalla sua stessa segretezza. Questo accade quando, per effetto della segretezza, lo sfruttamento dell'informazione pone l'impresa in una posizione privilegiata, rispetto alle imprese concorrenti che non possiedono la stessa informazione. La posizione privilegiata è ovviamente di natura concorrenziale e si risolve nella possibilità di acquisire e mantenere una quota di mercato che, altrimenti, potrebbe essere acquisita dai concorrenti. La segretezza delle informazioni va interpretata in maniera relativa anche con riferimento al requisito del valore economico, nel senso che, per esigenze aziendali, è consentito comunicare a determinati terzi, vincolati dalla confidenzialità, le informazioni segrete che, non per questo, sfuggono alla tutela normativa26.

Occorre, inoltre, approntare adeguate misure di protezione, contro violazioni che possono essere ragionevolmente previste e combattute. Ciò richiede, sia una protezione fisica, assicurata da sistemi di sicurezza adeguati, sia una protezione giuridica, assicurata da un'informazione adeguata, data ai terzi che vengono in contatto con le informazioni, sul carattere riservato e sulla determinazione di mantenerlo, e da impegni di segretezza.

25 Cfr. A. CAMUSSO, in AA. VV., La riforma del codice della proprietà

industriale, 272 ss.

(28)

Un'indicazione chiara proviene dalla giurisprudenza che ha, ad esempio, rilevato come la “precisa cura adottata dall'azienda nella rubricazione e classificazione dei documenti e nelle disposizioni impartite ai propri dipendenti”27 costituisse elemento

a sostegno della segretezza. E' opportuno distinguere tra misure “endoaziendali”, caratterizzate dal fatto di far nascere ed esaurire i propri effetti all'interno dell'autorizzazione aziendale, e misure “esoaziendali”, che, invece, pur nascendo all'interno dell'impresa, sono destinate ad estrinsecarsi all'esterno dell'organizzazione imprenditoriale, per lo più attraverso il coinvolgimento di soggetti terzi autonomi ed esterni, rispetto all'impresa che detiene le informazioni segrete. Al contempo, le misure sono sia elemento costitutivo della fattispecie, sia strumento primo di tutela concreta, rispetto ad ipotesi di indebita appropriazione da parte di terzi. Il requisito della ragionevolezza impone di valutare l'adeguatezza di tali misure in rapporto alle attività dell'impresa, alle sue dimensioni, al contenuto concreto delle informazioni di cui si chiede tutela28.

La norma, al secondo comma, tutela le compilazioni di dati necessari per ottenere autorizzazioni alla immissione in

27 Trib. Milano, 31 Marzo 2004, in GADI, 2004, 4734, in merito all'utilizzo di differenti codifiche sulla documentazione aziendale, al fine di predeterminarne il grado di riservatezza o di segretezza.

28 Cfr. A. CAMUSSO, in AA. VV., La tutela del know how. Diritto industriale,

(29)

commercio (per prodotti medicinali, chimici, veterinari, etc.) e non crea un diritto assoluto, che protegge i dati in ogni caso, indipendentemente dalle modalità del comportamento di chi ne abusa. Sia nel primo che nel secondo comma, occorre una condotta scorretta di chi acquisisce il dato riservato o la compilazione di dati. Affinché le informazioni segrete siano tutelabili, la norma richiede che le stesse siano il risultato di un “considerevole impegno” e che siano relative a prodotti chimici, farmaceutici o agricoli “implicanti l'uso di nuove sostanze chimiche”29. Questa formulazione non apporta chiarezza agli

aspetti “incerti” della vigente normativa. Non viene esplicitato se l'impegno debba essere di carattere esclusivamente economico o se debbano essere valutati anche altri aspetti, di carattere soggettivo ed inoltre non apporta un contributo di chiarezza neppure per quanto concerne l'impiego di nuove sostanze chimiche, atteso che, aderendo all'interpretazione restrittiva di tale requisito, dovrebbe negarsi la protezione dei dati relativi a prodotti derivanti non da sostanze nuove, ma dalla nuova combinazione di sostanze già note.

L'art. 99 c.p.i., come recentemente modificato dal d. lgs. 131/2010 (c.d. decreto correttivo), stabilisce:

“Ferma la disciplina della concorrenza sleale, il legittimo

(30)

detentore delle informazioni e delle esperienze aziendali di cui all'art. 98, ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di acquisire, rivelare a terzi od utilizzare, in modo abusivo, tali informazioni ed esperienze, salvo il caso in cui esse siano state conseguite in modo indipendente dal terzo”.

La formulazione dell'art. 99 c.p.i. sembra sia stata “suggerita dall'esigenza sistematica di sganciare la protezione delle informazioni riservate dalla repressione della concorrenza sleale e dal parametro di valutazione degli atti di concorrenza sleale”30.

La disposizione, però, nulla dice a proposito di quali condizioni debbano sussistere, affinché la rivelazione, l'acquisizione, l'utilizzazione delle informazioni siano illecite. Per stabilirlo, è conveniente considerare che la tutela del segreto è rivolta innanzi tutto nei confronti di coloro che hanno ricevuto legittimamente le informazioni e sono vincolati, per contratto o per legge, a non rivelarle a terzi e che la tutela nei confronti dei terzi presuppone, o che le informazioni siano state illegittimamente rivelate, da parte di chi era vincolato al segreto, o che il terzo si sia procurato le informazioni con comportamenti di per sé illegittimi. In primo luogo, l'art. 99 implica il divieto, per chi sia entrato, confidenzialmente, a conoscenza delle informazioni aventi i requisiti dell'art. 98, di rivelarle a terzi.

30 P. AUTERI, “Tutela dei segreti di impresa”, in Relazione dell'assemblea

(31)

In secondo luogo, l'art. 99 vieta ai terzi non vincolati da obblighi di riservatezza di procurarsi informazioni protette, ai sensi dell'art. 98, con comportamenti di per sé illeciti, in quanto in contrasto con altre disposizioni o principi di legge, come lo sono gli atti di spionaggio. La questione, volta a stabilire se le informazioni segrete siano proteggibili anche nei confronti di chi le abbia ricevute in buona fede, è stata esaminata dall'Aippi (Associazione Internazionale per la Protezione della Proprietà Intellettuale) ed è stata oggetto di una risoluzione.

In tale risoluzione l'Aippi ha affermato il principio, secondo cui “l'utilizzazione o la divulgazione di un segreto commerciale da parte di un terzo che lo ha ottenuto in buona fede non costituisce atto di concorrenza sleale”, pur ammettendo che, fino a quando le informazioni non siano state divulgate, chi ne abbia il controllo possa pretendere che il terzo non le divulghi e non le utilizzi ulteriormente, ma solo se l'acquisizione o utilizzazione non abbia richiesto da parte sua investimenti importanti31.

La qualificazione del comportamento sanzionato (“in modo abusivo”) e la clausola di salvezza rispetto alla detenzione delle informazioni segrete, da parte di altro soggetto che vi sia pervenuto in modo indipendente, muovono entrambi nella direzione di porre dei limiti all'ampiezza del diritto. Benché la

(32)

giurisprudenza non abbia avuto modo di pronunciarsi su casi concreti, si può ritenere che non siano sanzionabili atti di utilizzo di informazioni segrete, se è provato che quelle conoscenze sono state raggiunte in via del tutto autonoma ed indipendente. L'esempio più immediato è quello delle soluzioni tecniche che possano essere oggetto di studio, ed essere quindi replicate, tramite una procedura di reverse engineering32, cioè della

possibilità di risalire dall'analisi dei prodotti alla loro composizione e al procedimento adottato per la loro fabbricazione. In questo modo, è pressoché impossibile mantenere il segreto tecnologico che riguarda il prodotto stesso, una volta che questo sia stato immesso sul mercato.

Le principali caratteristiche che il reverse engineering deve possedere sono: l'universalità, l'accessibilità, la riproducibilità. Deve, infatti, potersi applicare ad ogni tipo di prodotto appartenente ad una determinata classe (elettronica, meccanica, etc.). Deve essere, poi, accessibile, intendendo con questo termine non solo la difficoltà di impiego, ma anche i costi del suo esercizio. A nulla vale un reverse engineering, le cui spese superino il reale beneficio apportato. L'applicazione dello stesso deve, infine, essere riproducibile e perciò non

32 Il termine anglosassone è di ampia diffusione nella prassi industriale e può essere tradotto con la locuzione “ricostruzione a ritroso”.

(33)

condizionato dal fattore umano e dai materiali utilizzati33.

(34)

CAPITOLO SECONDO

NORMATIVA: EVOLUZIONE STORICA

Sommario: 1. Convenzione di Parigi del 1883 e art. 2598 c.c. a confronto - 2. La nozione di segreto aziendale nei TRIPs - 3. Art. 6 bis: tutela “relativa” del segreto aziendale – 4. Le informazioni segrete nel codice della proprietà industriale

1 Convenzione di Parigi del 1883 e art. 2598 c.c. a

confronto

Nell'ambito della materia della proprietà industriale, sforzi di omogeneizzazione e di regolamentazione della disciplina si sono registrati fin dal XIX secolo34.

Doveroso è, anzitutto, il riferimento alla Convenzione d'Unione di Parigi per la protezione della proprietà industriale del 1883, poi oggetto di innumerevoli aggiornamenti ed integrazioni. In particolare, la revisione dell'Aja nel 1925 ha portato all'inserimento dell'art. 10 bis35 sulla concorrenza sleale, il quale

34 Cfr. M. BONA, in AA. VV., La tutela del know how. Diritto industriale, del

lavoro, penale e responsabilità civile, 5 s.

35 Art. 10 bis (Concorrenza sleale)

1) I Paesi dell'Unione sono tenuti ad assicurare ai cittadini dei Paesi dell'Unione una protezione effettiva contro la concorrenza sleale. 2) Costituisce un atto di concorrenza sleale ogni atto di concorrenza

contrario agli usi onesti in materia industriale o commerciale. 3) Dovranno particolarmente essere vietati:

a) tutti i fatti di natura tale da ingenerare confusione, qualunque ne sia il mezzo, con lo stabilimento, i prodotti o l'attività industriale o commerciale di un concorrente;

b) le asserzioni false, nell'esercizio del commercio, tali da discreditare lo stabilimento, i prodotti o l'attività industriale o commerciale di un concorrente;

c) le indicazioni o asserzioni il cui uso, nell'esercizio del commercio, possa trarre in errore il pubblico sulla natura, il modo di

fabbricazione, le caratteristiche, l'attitudine all'uso o la quantità delle merci.

(35)

prevede l'impegno degli Stati ad assicurare protezione effettiva, rispetto ad alcuni comportamenti contrari agli usi onesti in materia industriale o commerciale. L'art. 10 bis è stata l'unica disciplina in materia di concorrenza sleale, fino al 1942, anno dell'entrata in vigore del Codice Civile Italiano. A distanza di quasi vent'anni, il nostro legislatore prendeva in considerazione il problema legato a questa materia, attraverso l'art. 2598 c.c., norma sostanzialmente inspirata all'articolo della Convenzione. Nonostante la differente dizione, in quanto, nella Convenzione, si parla di “usi onesti”, mentre nel Codice Civile di “correttezza professionale”, le due definizioni si riferiscono entrambe al medesimo comportamento36. L'art. 10 bis è tuttora in vigore,

anche se si discute del suo residuo ambito di applicazione, a seguito dell'introduzione dell'art. 2598 c.c. Dalla loro contemporanea vigenza potremmo pensare che la disciplina della concorrenza sleale in Italia abbia come necessaria conseguenza il loro coordinamento e la loro reciproca integrazione, ma non è così. Né la dottrina, né la giurisprudenza, infatti, si sono mai occupate dell'art. 10 bis, applicando ed interpretando per la concorrenza sleale solo ed esclusivamente l'art. 2598 c.c. Questo perché le due discipline si somigliano molto e, nella parte in cui si differenziano, la nostra

36 Cfr. M. C. BALDINI, in AA. VV., La riforma del codice della proprietà

(36)

normativa codicistica è sempre stata ritenuta più severa rispetto alla Convenzione, che, all'art. 10 bis, realizza la tutela minima contro la concorrenza sleale.

2 La nozione di segreto aziendale nei TRIPs

La disciplina delle informazioni segrete, la cui indebita apprensione ed utilizzazione veniva fatta rientrare nel generale disposto dell'art. 10 bis CUP, per avere un espresso riconoscimento, deve attendere un lungo e laborioso periodo di gestazione politico-normativa, che ha dato i suoi frutti nella disciplina dell'accordo TRIPs (The Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights), ossia l'accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale37. La

sezione settima di tale accordo è dedicata alla protezione delle informazioni segrete, disciplinate dall'art. 39, il quale dopo aver fatto riferimento, nel primo comma, all'art. 10-bis della Convenzione di Unione di Parigi del 1967, al secondo comma, stabilisce:

“Le persone fisiche e giuridiche hanno la facoltà di vietare che, salvo proprio consenso, le informazioni sottoposte al loro

37 E' un trattato internazionale, promosso dall'Organizzazione Mondiale del Commercio, più conosciuta come WTO. L'accordo è stato ufficializzato dal GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), a conclusione dell'incontro avvenuto a Marrakech nel 1994, al termine del negoziato Uruguay Round.

(37)

legittimo controllo siano rivelate a terzi oppure acquisite o utilizzate da parte di terzi in un modo contrario a leali pratiche commerciali nella misura in cui tali informazioni:

a) siano segrete nel senso che non sono, nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi, generalmente note o facilmente accessibili a persone che normalmente si occupano del tipo di informazioni in questione;

b) abbiano valore commerciale in quanto segrete;

c) siano state sottoposte, da parte della persona al cui legittimo controllo sono soggette, a misure adeguate nel caso in questione intese a mantenerle segrete”.

Rispetto a tali informazioni, l'art. 39, al secondo comma, pone un limite a specifiche condotte di terzi (rivelazione, acquisizione, utilizzo) in un modo contrario a leali pratiche commerciali, con ciò specificando l'obbligo generale già rinvenibile nell'art. 10 bis CUP e richiamato espressamente dal primo comma.

La disposizione in esame obbliga gli Stati aderenti a tutelare le informazioni che abbiano i requisiti indicati sia nei confronti dei soggetti che le abbiano ricevute, sotto vincolo di segreto, sia nei confronti dei terzi.

L'art. 39 dell'accordo TRIPs trae origine dal diritto anglosassone, stante l'analoga terminologia adottata rispetto allo UNIFORM

(38)

TRADE SECRETS ACT (U.T.S.A.) americano del 197938,

secondo il quale la tutela delle informazioni richiede che le stesse vengano: “sottoposte, da parte della persona al cui legittimo controllo sono soggette, a misure adeguate, nel caso in questione, intese a mantenerle segrete”. Tuttavia, mentre lo U.T.S.A. americano sancisce delle specifiche misure inibitorie e sanzionatorie, per la violazione delle informazioni segrete, l'articolo 39 dell'accordo TRIPs tace in proposito. L'art. 39 è stato oggetto di molteplici contestazioni39. Molti Stati, infatti,

hanno avversato la possibilità di inserire i segreti industriali nel novero dei diritti di proprietà intellettuale. In particolare è stata mostrata avversione all'introduzione dell'art. 39 dai Paesi in via di sviluppo, a motivo della conseguente maggiore difficoltà ed onerosità dell'accesso alle informazioni di carattere tecnologico, segnatamente nei settori di principale interesse per questi Stati: agricolo e farmaceutico.

Rilevante questione è appurare se la norma convenzionale abbia inteso creare un nuovo diritto di proprietà intellettuale, ovvero garantisca alle informazioni segrete una diversa tutela. Pare che il richiamo operato dall'art. 39, I comma, all'art. 10 bis

38 Lo UNIFORM TRADE SECRETS ACT (UTSA), pubblicato dalla Commissione di diritto uniforme (ULC) nel 1979 e modificato nel 1985, è stato un atto uniforme promulgato nel tentativo di fornire un quadro giuridico, per una migliore tutela dei segreti commerciali per l'industria in tutti i cinquanta Stati degli Stai Uniti d'America.

(39)

della CUP porti ad escludere l'accoglibilità della prima ipotesi, considerato anche che la ratio della norma convenzionale è dichiaratamente quella di “assicurare un'efficace protezione contro la concorrenza sleale”40. L'art. 39, II comma, infatti, limita

espressamente la tutela agli atti di violazione del segreto commessi “in modo contrario a leali pratiche commerciali” ed analogo requisito compare nella norma del terzo comma, relativa ad informazioni concernenti prodotti chimici, farmaceutici ed agricoli implicanti l'uso di nuove sostanze chimiche, cui viene garantita tutela soltanto contro “sleali usi commerciali”. In assenza di slealtà degli atti di violazione dunque, contrariamente a quanto avviene per i diritti di proprietà intellettuale, alle informazioni segrete non viene garantita tutela. A conclusioni diverse non può giungersi per l'ordinamento italiano, in base al fatto che il legislatore, anziché approntare per la materia in questione una normativa autonoma, ovvero inserire, come sarebbe apparso preferibile, le relative norme del codice civile, all'interno del capo relativo alla “tutela della concorrenza”, abbia attuato il precetto convenzionale, mediante l'inserimento dell'art. 6 bis.

L'art. 39 è frutto di un compromesso tra la tendenza protezionistica degli Stati Uniti, intenzionati ad ottenere una

40 Vd. FRIGNANI, voce “Segreti d'impresa”, in Digesto delle discipline

(40)

tutela del segreto opponibile anche ai terzi che avessero ricevuto in buona fede le informazioni illecitamente sottratte, e la posizione più cauta della Comunità Europea41. Si assiste, da un

lato, all'inserimento della tutela delle informazioni aziendali nell'alveo della tutela della concorrenza sleale, con la conseguenza che la responsabilità si estende solo ai soggetti che, a vario titolo, abbiano preso parte a condotte “contrarie alle pratiche commerciali”. Dall'altra parte, per quanto attiene l'estensione della responsabilità a coloro che non abbiano preso parte a tali pratiche, la nota ufficiale all'art. 39 TRIPs (la numero 10) stabilisce: <<ai fini di questa disposizione “modo contrario a leali pratiche commerciali” significa quanto meno pratiche quali la violazione di contratto, abuso di fiducia e induzione alla violazione, e comprende l'acquisizione di informazioni segrete, da parte di terzi che sapevano, o sono stati gravemente negligenti nel non sapere, che l'acquisizione implicava tali pratiche >>. La tutela del segreto non si estende, quindi, a soggetti che, incolpevolmente abbiano ignorato la provenienza illecita delle informazioni42. Le disposizioni TRIPs

rappresentano, per gli Stati aderenti all'accordo, un quadro di riferimento tendenzialmente inderogabile in peius, proprio perché l'art. 39 prevede l'obbligo da parte degli Stati di

41 Cfr. RESTA, op. cit., 294.

(41)

implementare adeguate regole interne di protezione delle informazioni segrete.

La tutela del segreto in Italia è stata sfavorita dalla considerazione che buona parte dei dati tecnologici riservati siano suscettibili di entrare a far parte della sapienza professionale dei dipendenti e dei collaboratori dell'impresa, con la possibilità per essi di acquisirli, alla stessa stregua di una dote personale da poter negoziare nel passaggio dal vecchio al nuovo datore di lavoro concorrente, disposto, ovviamente, a riconoscere una remunerazione differenziale in funzione dell'acquisizione del segreto e dell'azzeramento del vantaggio competitivo collegato a tale segreto, in capo all'imprenditore concorrente. Entrambi questi profili di accentuata debolezza della tutela concorrenziale del segreto sono venuti meno per effetto dell'introduzione nella Legge Invenzioni della norma dell'art. 6 bis che disciplinava l'ipotesi dell'abuso del segreto come fatto lesivo del diritto alla lealtà della concorrenza43.

(42)

3 Art. 6 bis: tutela “relativa” del segreto aziendale

Il legislatore ha dato attuazione all'art. 39, introducendo nella Legge Italiana sulle Invenzioni (R.D. 1127/1939) l'art. 6 bis (oggi abrogato), attraverso il decreto legislativo n. 198 del 19 Marzo 1996. In particolare, l'art. 14 di tale decreto dispone:

“Dopo l'art. 6 del regio decreto 29/06/1939, n. 1127 e successive modificazioni, è inserito il seguente:

Art. 6 bis – 1. Fermo il disposto dell'art. 2598 n. 3 del codice civile, costituisce atto di concorrenza sleale la rivelazione a terzi oppure l'acquisizione o utilizzazione da parte di terzi in modo contrario alla correttezza professionale di informazioni aziendali ivi comprese le informazioni commerciali soggette al legittimo controllo di un concorrente ove tali informazioni:

a) siano segrete, nel senso che non siano nel loro insieme, o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi, generalmente note o facilmente accessibili agli esperti ed agli operatori del settore;

b) abbiano valore economico in quanto segrete;

c) siano sottoposte, da parte delle persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete.

(43)

oppure l'acquisizione o utilizzazione da parte di terzi in modo contrario alla correttezza professionale di dati relativi a prove o di altri dati segreti la cui elaborazione comporti un considerevole impegno, e alla cui presentazione sia subordinata l'autorizzazione dell'immissione in commercio di prodotti chimici, farmaceutici o agricoli implicanti l'uso di nuove sostanze chimiche”.

Interpretata in conformità all'art. 39 dell'accordo TRIPs, anche tale disposizione tutelava le informazioni che avessero i requisiti stabiliti sia nei confronti dei soggetti vincolati al segreto, sia nei confronti dei concorrenti. In questo modo, si risolveva la vexata quaestio dell'individuazione delle informazioni che i prestatori di lavoro sono tenuti a mantenere riservate, anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro44. L'art. 6 bis, come anche

l'art. 39, consentiva a chi controlla legittimamente le informazioni di vietarne l'acquisizione e l'utilizzazione da parte dei concorrenti, solo se ciò avveniva in modo contrario alla correttezza professionale. In questo modo, non viene garantita tutela erga omnes, ma soltanto contro coloro che abbiano rivelato od utilizzato le informazioni “in modo contrario alla correttezza professionale”. Il legislatore italiano ha, dunque, accolto, come la norma convenzionale, il modello di tutela

44 Vd. P. AUTERI, “Tutela dei segreti di impresa”, in Relazione

(44)

“relativa” del segreto di impresa. Si può anche osservare che il legislatore, qualificando come “aziendali” le informazioni tutelate, abbia riconosciuto nell'impresa quel carattere di elemento essenziale e qualificante della categoria dei segreti. Un ulteriore problema sistematico è rappresentato dall'interpretazione del requisito della contrarietà alla correttezza professionale degli atti di violazione del segreto. A meno di non ritenere tale requisito del tutto pleonastico, pare che esso debba riferirsi in modo particolare alla necessaria sussistenza dell'elemento soggettivo della fattispecie in capo sia a chi riveli il segreto, sia ai terzi che da questi acquisiscano o utilizzino le informazioni tutelate, elemento consistente nella conoscenza che questi soggetti devono avere del loro carattere di segreto. Potrebbe, dunque, non sussistere alcuna violazione, se costoro avessero agito in buona fede, ovvero ignorando il carattere segreto delle informazioni45. Questa conclusione è avvalorata

dal testo dell'art. 39, I comma, dell'accordo TRIPs, che attribuisce al titolare del segreto la facoltà di vietare che le informazioni oggetto dello stesso “siano rivelate a terzi oppure acquisite o utilizzate da parte di terzi in un modo contrario a leali pratiche commerciali”. Pare che la “contrarietà a leali pratiche commerciali” (ovvero, nel testo italiano, alla “correttezza

(45)

professionale”) non possa che consistere nella consapevolezza di ledere un segreto e, di conseguenza, un diritto altrui.

La questione solleva delicati problemi, in relazione, da una parte, al grado di intensità delle misure di tutela del segreto da adottarsi da parte di chi ne abbia “il legittimo controllo”, e dall'altra, del grado di diligenza che debba richiedersi ai terzi nell'accettare l'esistenza del carattere segreto di determinate informazioni prima di rivelarle ad altri, ovvero di utilizzarle46.

L'art. 14 del d. lgs. 198/1996 subordina la garanzia della tutela delle informazioni segrete alla sussistenza di alcuni requisiti. In ordine all'oggetto delle informazioni, la norma si riferisce genericamente alle informazioni aziendali, ivi comprese quelle commerciali. Il riferimento ulteriore alle informazioni commerciali, non presente nel testo della norma convenzionale, è stato inserito dal legislatore, al fine di eliminare ogni dubbio circa la proteggibilità delle informazioni non tecniche. Circa la titolarità soggettiva del diritto, la norma italiana garantisce protezione alle informazioni soggette al legittimo controllo di un concorrente, previsione assente nell'art. 39 dell'accordo TRIPs, il quale attribuisce, invece, genericamente il diritto al segreto alle persone fisiche o giuridiche che hanno il legittimo controllo sulle informazioni. Questa discrasia potrebbe dare adito a problemi

(46)

interpretativi, qualora la divulgazione delle informazioni avvenga a danno di un soggetto che non possa qualificarsi “concorrente” di colui che la operi. La scelta del legislatore italiano può spiegarsi con una preoccupazione di coerenza sistematica interna della norma , dato che quest'ultima qualifica le violazioni del segreto come “atti di concorrenza sleale”, e dunque come comportamenti che possono considerarsi rilevanti soltanto dove posti in essere dal concorrente, preoccupazione che non ha influenzato invece la normativa internazionale. Il dubbio interpretativo può ritenersi mitigato dall'orientamento pacifico in giurisprudenza , secondo il quale, qualora un terzo partecipi ad un'attività di concorrenza sleale, ne risponderà in solido con l'imprenditore che ne abbia tratto vantaggio, anche se egli non è un concorrente della parte lesa, o neppure un imprenditore. Relativamente a cosa debba intendersi per informazioni segrete, il primo comma lett. a) dell'art. 6 bis precisa che il carattere della segretezza sussiste qualora le informazioni non siano, nel loro insieme, o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi, generalmente note o facilmente accessibili agli operatori del settore. Sul punto, il legislatore ha recepito quasi testualmente quanto disposto dalla corrispondente prescrizione dell'art. 3947. Anche per quanto concerne la lett. b) dell'art. 6 bis,

47 Unica sensibile divergenza è rappresentata dalla sostituzione del riferimento alle “persone che normalmente si occupano del tipo di

(47)

si tratta della trascrizione quasi letterale della norma convenzionale48, così come avviene nel caso della lett. c) del

medesimo articolo. La norma esplicita peraltro un precetto di estrema importanza e cioè che chi abbia tenuto comportamenti commissivi od omissivi incompatibili con la volontà di mantenere segreta una determinata informazione che si trovi sotto il suo controllo non può avvalersi della tutela. Ciò può accadere, quando i destinatari legittimi dell'informazione segretata non vengono resi edotti del suo carattere segreto, ovvero l'informazione segreta sia stata comunicata ad un numero di persone assolutamente sproporzionato, rispetto alle esigenze di impresa.

Un elemento di novità è introdotto dal riferimento compiuto, all'interno della lettera c) dell'art. 6 bis, “alle persone al cui legittimo controllo” le informazioni sono soggette. Con tale espressione, il legislatore intende individuare i soggetti tenuti all'adozione di misure di garanzia della segretezza49. Se, con la

nozione di legittimo controllo, si vuole esprimere la disponibilità delle informazioni, e dunque la legittima facoltà di comunicarle a terzi, ciò comporta che tra tali soggetti rientrino anche coloro

informazioni in questione”, operato dall'accordo TRIPs, con quello agli “esperti e agli operatori del settore”, che pare, peraltro, irrilevante.

48 Il legislatore italiano ha sostituito peraltro all'attributo “commerciale”, riferito al “valore”, quello “economico.

(48)

che abbiano ricevuto le informazioni dal titolare dell'azienda, il quale, a sua volta, li abbia autorizzati a comunicare a terzi, a loro discrezione, per le esigenze dell' impresa. Si pensi al responsabile di un laboratorio, dipendente di un imprenditore, ovvero a questi legato da un diverso rapporto contrattuale, che diriga un'attività di ricerca a cui partecipino vari collaboratori, ai quali è autorizzato a comunicare alcuni risultati, in ipotesi, perché necessari alla prosecuzione del lavoro. In tal caso, anche questo soggetto sarà tenuto all'adozione di ragionevoli misure nei suoi rapporti con i terzi a cui comunica legittimamente le informazioni acquisite dal titolare. La stessa conclusione non si può avere, nel caso in cui il destinatario legittimo delle informazioni non sia autorizzato a comunicarle a terzi. Sarà, dunque, sufficiente che le ragionevoli misure siano state adottate da colui che ha comunicato il segreto, nei suoi rapporti con il destinatario, affinché la tutela possa essere garantita contro le violazioni da quest'ultimo commesse.

Questo articolo analizza principalmente due ipotesi di protezione50. La prima si riferisce al comportamento di terzi che,

con atti contrari alla correttezza professionale, vengono a conoscenza di informazioni di un'impresa, anche di tipo commerciale. Affinché ciò concretizzi un'ipotesi di concorrenza

(49)

sleale deve avere per oggetto informazioni segrete le quali non debbano essere generalmente note o facilmente desumibili da parte di un esperto del settore, debbano avere un valore economico e quindi essere un bene concorrenziale in quanto segrete, ed inoltre siano sottoposte ad una tutela, adeguata a mantenerle segrete, da parte di coloro che nell'impresa le gestiscono e ne sono responsabili.

La seconda ipotesi di concorrenza sleale si esplica con la rivelazione a terzi, con l'acquisizione o con l' utilizzazione di dati segreti. Perché si configuri un caso di concorrenza sleale, questi dati devono derivare da un notevole impegno di elaborazione oppure devono essere subordinati ad una specifica autorizzazione per l'immissione in commercio nel caso di prodotti chimici, farmaceutici o agricoli, implicanti l'uso di nuove sostanze chimiche. Si tratta, dunque, di sole informazioni tecniche. E' importante rilevare che la tutela viene garantita, ai sensi di tale norma, ad informazioni che, necessariamente, devono essere rivelate, appunto ai fini di ottenere l'autorizzazione amministrativa, al di fuori dell'ambito dell'impresa, o comunque al di fuori della sfera di controllo dell'imprenditore51. Quale contrappeso a questo ampliamento

della tutela, la norma in esame dispone tuttavia che questa sia

(50)

limitata alle sole informazioni elaborate con considerevole impegno e relative a prodotti che implichino l'uso di nuove sostanze chimiche. Si tratta di requisiti la cui applicazione potrebbe generare qualche incertezza. In particolare, potrebbe dubitarsi se il considerevole impegno debba valutarsi in base a parametri esclusivamente economici (entità degli investimenti affrontati per l'ottenimento dei dati), ovvero che il requisito dell'uso di nuove sostanze chimiche, restrittivamente interpretato, possa condurre all'esclusione della tutela, nel caso di prodotti, la cui originalità consista in una nuova combinazione di sostanze note.

4 Le informazioni segrete nel codice della proprietà

industriale

Nel 2005, il Codice della Proprietà Industriale ha abrogato l'art. 6 bis L.I. e ne ha trasfuso il contenuto nella settima sezione, intitolata “Informazioni segrete”, del Capo II, comprensiva degli articoli 98 e 99, rubricati, rispettivamente, “Oggetto della tutela” e “Tutela”.

Il contenuto dell'art. 6 bis è stato integralmente trasfuso, ma con una modificazione sostanziale relativa all'oggetto della tutela. Mentre, infatti, l'art. 6 bis disponeva che “costituisce atto di concorrenza sleale la rivelazione a terzi oppure l'acquisizione o

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