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La gentamicina intratimpanica nella Malattia di Meniere: valutazione della risposta a lungo termine di due modalita di somministrazione.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Tesi di Specializzazione in

Otorinolaringoiatria

La gentamicina intratimpanica nella malattia

di Menière: valutazione della risposta

terapeutica a breve e lungo termine di due

modalità di somministrazione

Candidato:

Dott. Niccolò Cerchiai

Relatore:

Chiar.mo Prof. Augusto Pietro Casani

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..dedicata

al mio

nonno Ivano,

visto che tutta la vita

in fondo è un’opera d’arte

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Introduzione

La Malattia di Menière (MdM) viene definita come un’affezione idiopatica dell’orecchio interno, più frequentemente monolaterale, il cui meccanismo patogenetico è rappresentato dall’idrope endolinfatico (IE) da cui deriva una sintomatologia caratterizzata da ipoacusia (inizialmente fluttuante), acufeni, sensazione di ovattamento auricolare (fullness e autofonia), cui si associano episodi ricorrenti di vertigine rotatoria accompagnata da intensi fenomeni neurovegetativi.

Il termine “sindrome” è invece riservato ai pochissimi casi nei quali sia possibile identificare un’eziologia certa.

Nel 1861 Prospero Menière1 fu il primo a descrivere una serie di pazienti affetti

da ipoacusia, acufeni e vertigini interpretando questi sintomi come conseguenza di una patologia del sistema cocleovestibolare e non espressione di “congestione cerebrale apoplettiforme” come ritenuto fino allora. In seguito fu Guild2 nel 1927 a dimostrare nella cavia l’esistenza di un

flusso longitudinale dell’endolinfa verso il sacco endolinfatico (SE) al punto che Portmann3 (1927), riferendosi alla MdM, coniò il termine di “glaucoma

dell’orecchio”.

La conferma definitiva della correlazione tra IE e MdM si deve a Hallpike e Cairns4 in Gran Bretagna e a Yamakawa5 in Giappone che nel 1938

evidenziarono i tipici segni dell’idrope (dilatazione del sacculo e distensione della membrana di Reissner) nelle ossa temporali di due pazienti deceduti a seguito di complicanze insorte dopo una neurectomia vestibolare eseguita proprio per trattare questa patologia, interpretandoli come la conseguenza di una eccessiva produzione di endolinfa e/o di una alterazione del proprio contenuto ionico. L’incremento dei valori pressori giustificherebbe le manifestazioni cliniche poiché provocherebbe una sorta di “asfissia dei recettori cocleovestibolari”.

Epidemiologia

Solo nel 1995 il Commitee ad hoc della American Academy of Otolaryngology-Head & Neck Surgery (AAO-HNS)6 ha stabilito delle linee

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guida per la diagnosi di MdM (Tabella 1); prima di questa data una accurata descrizione dei valori di prevalenza ed incidenza di questa affezione risulta estremamente difficoltosa a causa e delle diverse metodologie di selezione dei pazienti e della mancanza di criteri diagnostici e di stadiazione definiti e condivisi.

MdM certa MdM confermata dall’esame istopatologico

MdM definita

Due o più episodi di vertigine di almeno 20 minuti, ipoacusia documentata con l’esame audiometrico in almeno un episodio, acufeni e fullness

MdM probabile

Un episodio tipico di vertigine, ipoacusia documentata con l’audiogramma in almeno un’occasione, acufeni o fullness

MdM possibile

Episodi vertiginosi senza documentata ipoacusia neurosensoriale, fluttuante o fissa con disequilibrio ma senza episodi tipici

Tabella 1 Linee guida di classificazione della MdM secondo il Commitee ad hoc della American Academy of Otolaryngology-Head & Neck Surgery.

Attualmente si ritiene corretto un valore di prevalenza intorno a 190/100.000 soggetti anche se i risultati sono estremamente variabili a seconda delle casistiche. Anche il rapporto d’incidenza uomo/donna non è tutt’ora ben definito anche se sembra essere a favore del sesso femminile. All’opposto esiste un accordo pressoché unanime sul ritenere la MdM una patologia della mezza età; l’età di esordio appare perlopiù intorno alla quarta decade di vita. Un aspetto epidemiologico ancor più controverso è costituito dal possibile coinvolgimento bilaterale dell’orecchio interno (OI) sia all’esordio che nella naturale evoluzione della malattia. In letteratura sono riportate percentuali variabili dal 2 al 78%7; l’estrema eterogeneità di questo dato

dipende anche da cosa s’intende per coinvolgimento bilaterale, dato che sono stati riscontrati frequentemente nell’orecchio controlaterale anomalie uditive senza tuttavia la comparsa di una sintomatologia menierica conclamata8.

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Sebbene la maggior parte dei casi di MdM siano considerati sporadici, si ritiene che dal 5 al 15% dei pazienti sia affetto da una forma familiare di questa patologia, a modalità di trasmissione di tipo autosomico dominante con incompleta penetranza e peculiarità cliniche quali una maggior incidenza nel sesso femminile ed una più spiccata intensità delle crisi9.

Patogenesi

Il principale aspetto istopatologico della MdM è rappresentato da un incremento di volume dell’endolinfa associato ad una dilatazione dell’intero sistema endolinfatico (Figura 1) con prevalenza del dotto cocleare e del sacculo, che presenta pareti molto meno spesse rispetto a quelle dell’utricolo10.

Figura 1 1) MdM (idrope lieve). Si nota una piccola dilatazione del dotto endolinfatico; 2) MdM (idrope moderato). Si osserva una dilatazione modesta del dotto cocleare; 3) MdM (idrope severo). Il dotto coleare è dilatato a tal punto da occupare completamente la scala vestibolare. La membrana di Reissner non è chiaramente distinguibile poiché adagiata sul tetto della scala vestibolare; 4) MdM avanzata. La membrana di Reissner appare rotta.

Tuttavia, è doveroso precisare che IE non è sinonimo di MdM: è dimostrata la presenza di segni istopatologici di idrope in ossa temporali di soggetti che in vita mai hanno evidenziato sintomi clinici compatibili con MdM11. La

dilatazione del sacculo può determinarne un’estroflessione nel canale semicircolare laterale ed un contatto anomalo con la superficie interna della platina della staffa definito “vestibolo-fibrosi”12, aspetto che può giustificare il

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Tipico è il prolasso verso la scala vestibolare della membrana di Reissner con frequente rottura della stessa da cui una commistione tra endolinfa e perilinfa con una grave alterazione della loro composizione ionica. Con tecniche di microscopia più avanzate si è evidenziata una perdita specifica di cellule ciliate vestibolari di tipo II13. Nelle fasi avanzate della malattia si osservano

anomalie fino all’atrofia delle cellule sensoriali e di sostegno dell’organo del Corti e delle strutture vestibolari, in associazione con analoga atrofia delle fibre nervose14. Di frequente riscontro una marcata atrofia della stria

vascolare ed anomalie del sistema di drenaggio dell’endolinfa15. Non è stata

dimostrata in vivo una correlazione tra livello di idrope ed entità del danno cocleare16.

L’importanza del flusso longitudinale dell’endolinfa, basato sulle osservazioni di Guild2 è stata ridimensionata. Secondo la più recente teoria del flusso

radiale invece17, è piuttosto un’anomalia del trasporto ionico il fattore

principale che conduce ad un aumento del volume endolinfatico. Secondo questa ipotesi sarebbe la stria vascolare a provvedere localmente al riassorbimento dell’endolinfa in presenza di un suo aumento volumetrico; il flusso endolinfatico in senso longitudinale (verso il SE) avverrebbe solo in casi di grande incremento volumetrico dell’endolinfa. L’osservazione di come, dopo ablazione del SE, l’incremento della pressione perilinfatica sia in realtà modesto e la composizione endolinfatica rimanga costante, conferma quest’affermazione18.

In ogni caso l’incremento pressorio causa la rottura della membrana di Reissner e determina un’intossicazione da K+ della perilinfa tale da causare

una paralisi delle cellule ciliate. La risoluzione dell’idrope favorisce in seguito la riparazione delle membrane e il ritorno a una normale omeostasi dell’OI. Il ripetersi delle crisi idropiche e delle rotture delle membrane comporta un progressivo deterioramento della funzione cocleo-vestibolare per l’insorgenza di lesioni irreversibili delle strutture dell’OI.

Un’alterazione dei meccanismi di trasporto attivo può indurre un’anomalia del contenuto ionico dell’endolinfa da cui deriverebbe un richiamo di liquidi nello spazio endolinfatico e quindi l’insorgenza dell’idrope.

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Le aquaporine, adeguatamente rappresentate anche nell’OI19, così come

alcuni ormoni (ADH, aldosterone)20, possono svolgere un ruolo di rilievo nella

regolazione dell’equilibrio idro-elettrolitico dell’OI. Un recente studio ha dimostrato che il SE di pazienti menierici esprime alti livelli di recettore di tipo 2 per l’ADH21. Un incremento dei suddetti ormoni, causato da stress o alterazioni

dietetiche, potrebbe quindi rappresentare un fattore scatenante la crisi menierica.

Se dal punto di vista fisiopatologico il meccanismo con cui la malattia si manifesta sembra in gran parte chiarito, non sono state ancora individuate le cause dell’IE, che in base alle diverse eziologie, può essere classificato in:

embriopatico, generalmente secondario alla displasia tipo Mondini; – acquisito, laddove sia possibile identificare con precisione la causa del danno a carico dell’OI, ad esempio virale (come accade nel Delayed

Endolymphatic Hydrops, DEH), batterica, luetica o post-traumatica;

idiopatico laddove non sia riconoscibile un fattore eziopatogenetico noto; a tale proposito sono state avanzate molte ipotesi, nessuna delle quali realmente convincente e scientificamente provata.

Dal momento che l’idrope è stato documentato non solo in tutte le ossa temporali di pazienti menierici ma anche in soggetti asintomatici, è ipotizzabile che l’idrope di per sé non generi il quadro clinico della MdM, ma che uno o più fattori debbano intervenire a produrre il quadro istopatologico e la relativa sintomatologia11. L’ipotesi di un’eziologia immunologica della

MdM, in particolare delle forme bilaterali, si basa sulla scoperta della immunocompetenza del SE22 che appare capace di processare antigeni e

produrre anticorpi dando origine ad una risposta immune che può condurre all’IE23. Nel siero di pazienti menierici è stata inoltre riscontrata la presenza di

alti livelli di complessi immuni circolanti24. Nel 50% dei pazienti affetti da MdM

bilaterale è stata riscontrata la presenza di un anticorpo contro la heat shock

protein-70, già correlata con la presenza di una attività autoimmunitaria

dell’OI25. Anche un elevato livello di anticorpi antifosfolipidi è stato correlato

con la MdM bilaterale26: la loro azione trombogenica potrebbe indurre

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deriverebbe l’IE. Attualmente tuttavia, dal momento che queste osservazioni e ipotesi non hanno avuto conferme, non esistono test specifici che possano permettere di indicare un’origine autoimmune della MdM e l’unica modalità per verificare tale ipotesi è basata sulla positiva risposta alla terapia steroidea e/o immunosoppressiva.

Il riscontro di un’elevata prevalenza di emicrania, rispetto ai controlli, nei pazienti affetti da MdM ha indotto a ipotizzare una stretta associazione tra queste due patologie27 forse in virtù di una comune eziologia vascolare

ischemica. Nei pazienti in cui i due quadri clinici sono associati, la MdM insorge in età più precoce, più frequentemente può essere bilaterale e nel 40% dei casi si associa a una familiarità positiva per vertigini ricorrenti contro un 2% riscontrato nei pazienti menierici non emicranici28.

Quadro clinico

La malattia di Menière è caratterizzata da episodi ricorrenti di vertigine rotatoria della durata generalmente superiore ai 20 minuti (e minore di 24 ore) associati a ipoacusia neurosensoriale fluttuante, inizialmente prevalente sui toni gravi, nonché ad acufeni e a sensazione di ovattamento auricolare. Questi sintomi possono non essere presenti contemporaneamente specie nelle fasi iniziali della malattia laddove l’associazione ipoacusia- vertigine si rileva solo nel 50% dei casi, mentre un 19% dei pazienti manifesta solo vertigine e un 26% solo ipoacusia29. Le cosiddette varianti cocleari e

vestibolari della MdM non sono quindi altro che particolari modalità di esordio della malattia non essendo mai stati dimostrati casi di idrope selettivo. Per questo, nel sospetto di MdM, uno stretto follow-up è fondamentale poiché solo l’evidenza di una documentata ipoacusia in associazione con la crisi vertiginosa può portare alla diagnosi, resa difficile nella fase iniziale dal ritorno alla norma della funzione uditiva e vestibolare. Nella fase iniziale le crisi vertiginose sono piuttosto violente e di più lunga durata (anche se di rado superano le 24 ore per poi lasciare una sensazione di instabilità che permane per alcuni giorni) ma isolate per poi divenire un po’ più frequenti ma di intensità e durata minore nella fase florida della malattia. In fase avanzata di solito si assiste alla scomparsa pressoché totale degli attacchi acuti che

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lasciano il posto ad una sensazione subcontinua di instabilità spesso associata a brevi episodi di lateropulsione (da non confondere con le crisi otolitiche di Tumarkin). Gli episodi possono presentarsi con intensità diversa ad intervalli estremamente variabili, tanto che l’andamento fluttuante della sintomatologia è certamente uno dei principali aspetti della malattia. Accanto a periodi piuttosto lunghi di apparente remissione della malattia, possono seguire momenti in cui le crisi assumono carattere ricorrente tipo

cluster: in generale le crisi vertiginose, indubbiamente il sintomo più

invalidante, tendono a ridursi fino a scomparire spontaneamente dopo 8 anni dall’esordio nel 71% dei casi30.

Altri importanti sintomi uditivi sono rappresentati dall’iperacusia, dalla diploacusia, dall’acufene e dall’autofonia. L’iperacusia tende ad accentuarsi con l’evoluzione della malattia ed è l’espressione soggettiva del fenomeno del recruitment particolarmente accentuato nella MdM in virtù del prevalente danno a carico delle cellule ciliate esterne. L’ipersensibilità ai suoni spesso assume un carattere invalidante può portare ad una vera e propria fonofobia. La diplacusia, che consiste nella percezione di diversa altezza tonale di uno stesso suono, si riscontra spesso nei pazienti menierici ed esprime anch’essa la lesione a carico delle cellule ciliate esterne da cui deriva la perdita dei fini meccanismi di tuning della membrana basilare: le cellule ciliate residue rispondono ad un più ampio raggio di frequenze. L’acufene raramente si presenta come sintomo iniziale (meno del 5%), di solito non ha carattere pulsante e la sua intensità è variabile: tipico è l’incremento o la comparsa sotto forma di forte frastuono a precedere l’attacco acuto. Ha durante la storia naturale della MdM un carattere di solito intermittente (talora in parallelo con le fluttuazioni uditive). Diviene poi costante ed assume tonalità acuta nelle fasi avanzate.

L’autofonia compare spesso al momento dell’attacco e di solito tende a regredire con la progressione della malattia.

La Figura 2 riassume la diversa progressione dei sintomi del paziente menierico nel corso della malattia.

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Figura 2 Esempio della progressione della sintomatologia in un paziente affetto da malattia di Menière..

Riguardo ai fattori scatenanti, esiste un’ampia letteratura in proposito, senza che vi sia accordo sulla reale rilevanza di alcuni di essi. Ci sembra interessante la definizione coniata da Rauch31 di “orecchio fragile”: nella MdM i

meccanismi di omeostasi che controllano la produzione e il riassorbimento dell’endolinfa (e la relativa composizione ionica) non sarebbero ugualmente efficienti che nel soggetto sano nel compensare ogni variazione interna o esterna (ambientale). L’“orecchio fragile” del paziente menierico diviene pertanto suscettibile a una miriade di fattori (stress, alterazione del ritmo sonno-veglia, variazioni dietetiche, variazioni ormonali, allergie ecc.), ognuno dei quali potrebbe rappresentare il trigger dell’attacco acuto. Ad esempio è ben nota la possibilità di un’esacerbazione premestruale della MdM.

Da non trascurare è infine la valutazione dell’assetto psicologico nell’ambito del quadro clinico della MdM. La qualità di vita di questi pazienti è fortemente compromessa ed è ampiamente documentata l’elevata incidenza nei menierici di fenomeni depressivi di entità direttamente proporzionale al numero delle crisi vertiginose32.

Varianti della malattia di Menière

Nel 1919 Lermoyez descrisse una particolare presentazione delle crisi vertiginose della MdM nella quale il recupero dell’ipoacusia e la scomparsa

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dell’acufene coincidono con l’insorgenza della vertigine (le vertige qui fait

entendre) ed ipotizzò che alla base di questa condizione vi fosse un processo

ischemico a carico dell’OI tanto che si è parlato di “fenomeno di Raynaud” del labirinto33.

Le crisi otolitiche di Tumarkin, presenti nel 2-6% dei pazienti menierici, si caratterizzano per un’improvvisa perdita del tono posturale senza segni prodromici, da cui deriva una caduta a terra del soggetto con possibili gravi conseguenze di tipo traumatico, in assenza di perdita di coscienza e/o di sintomi di tipo neurologico34. Spesso il paziente descrive l’episodio come se

avesse avvertito una violenta forza esterna, una spinta che lo ha gettato a terra. L’episodio critico ha una durata non superiore alle poche decine di secondi, generalmente si realizza in pazienti con forma avanzate di MdM ed appare con maggior frequenza nei pazienti con malattia insorta dopo la sesta decade. Si ritiene che il fattore scatenante sia rappresentato da una grave deformazione meccanica delle strutture maculari del sacculo e dell’utricolo con rottura delle membrane, indotta da un’improvvisa ed intensa variazione della pressione endolinfatica. Sebbene queste crisi mostrino la tendenza a risolversi spontaneamente in pochi mesi, in virtù del loro carattere fortemente invalidante, si pone spesso l’indicazione a trattamenti con ablazione chimica o neurectomia vestibolare.

L’idrope endolinfatico ritardato (DEH) è una condizione patologica caratterizzata da crisi vertiginose ricorrenti e/o ipoacusia fluttuante indotte da IE a carico di uno dei 2 orecchi, in soggetti con un pregresso grave danno neurosensoriale cocleare monolaterale non progressivo35. Quest’ultimo

rappresenta l’evento precoce, causato da un’infezione virale/batterica oppure da un evento traumatico, che viene poi seguito, con una latenza che va da pochi anni fino a molti decenni, da un evento tardivo caratterizzato da sintomi tipici dell’IE o nell’orecchio ipsilaterale (DEH ispilaterale), con crisi vertiginose che non si accompagneranno all’ipoacusia fluttuante data l’assenza di funzione cocleare, o, più frequentemente, nell’orecchio controlaterale (DEH controlaterale), con un quadro clinico caratterizzato da crisi di vertigine ricorrente associate ad ipoacusia fluttuante.

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Si può ipotizzare che nel corso dell’evento precoce l’insulto virale abbia provocato, oltre che la grave ipoacusia neurosensoriale monolaterale, anche un danno subclinico a carico dei meccanismi di produzione e di riassorbimento dell’endolinfa che, aggravandosi con il tempo, può indurre l’insorgenza di IE36. Il DEH potrebbe essere anche la conseguenza di un

meccanismo autoimmunitario scatenato dalla liberazione di antigeni dell’OI durante l’evento precoce37.

Semeiotica audiologica

L’ipoacusia neurosensoriale della MdM rappresenta uno degli elementi cardine ai fini diagnostici. Pur con notevoli variazioni interindividuali, all’inizio l’ipoacusia si presenta frequentemente con un prevalente interessamento sui toni gravi (curva audiometrica in salita) (Figura 3a), per poi colpire i toni acuti (aspetto a V rovesciata) (Figura 3b) ed infine assumere un aspetto pantonale (Figura 3c)38.

Figura 3 (A-D) Tipologia di curva audiometrica nelle diverse fasi evolutive della malattia di Menière.

Raramente in fase avanzata si assiste ad una anacusia forse perché il danno istopatologico interessa solo parzialmente le cellule ciliate interne o per una maggiore protezione offerta dalle terminazioni nervose a calice presenti nelle

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cellule ciliate di tipo I nei confronti dell’intossicazione da potassio (Figura 3d). Sulla base dell’entità dell’ipoacusia (calcolata sulla media delle frequenze 0.5, 1, 2, 3 KHz, pure tone audiometry, PTA) è stata anche proposta una stadiazione della MdM (Tabella 2).

PT

A

Stadio

I II III IV

≤25 26 - 40 41 - 70 >70

Tabella 2 Stadi della MdM secondo i valori della Pure Tone Audiometry (PTA).

La fluttuazione, intesa come variazione di almeno 10 dB del valore di soglia, è elemento distintivo dell’ipoacusia della MdM, specialmente nelle fasi iniziali laddove il calo uditivo può frequentemente risolversi del tutto. Nella maggioranza dei pazienti l’ipoacusia tende a stabilizzarsi mediamente dopo 5 anni dall’esordio della sintomatologia assumendo un aspetto pantonale senza più fluttuazioni.

La discriminazione vocale rimane buona soprattutto nelle fasi iniziali, tende poi a deteriorarsi in associazione con il progressivo incremento dei fenomeni di distorsione sopraliminare (recruitment) con alterazione della soglia di percezione e di massima discriminazione; il fenomeno del roll-over si riscontra nel 20% dei casi.

L’esame impedenzometrico mostra un timpanogramma di tipo A e, almeno nelle fasi più avanzate, il riflesso stapediale presenta un test di Metz positivo a conferma del fenomeno del recruitment. I potenziali evocati uditivi sono generalmente normali, mentre le otoemissioni acustiche trovano nell’ipoacusia il loro principale limite diagnostico: sono spesso assenti, in particolare nell’evoluzione della malattia39. Se il paziente presenta

un’ipoacusia maggiore di 30-40 dB ad una certa frequenza, le otoemissioni saranno assenti confermando l’origine cocleare del deficit uditivo. Un indicatore precoce di coinvolgimento bilaterale potrebbe essere rappresentato da una ridotta ampiezza delle otoemissioni nell’orecchio controlaterale a quello patologico.

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L’elettrococleografia (EcoG) è stata ampiamente utilizzata allo scopo di confermare la diagnosi di MdM, anche se allo stato attuale non sembra un test da raccomandare per la valutazione routinaria dei pazienti con MdM “possibile”. Recenti studi sperimentali hanno infatti dimostrato che l’incremento del rapporto tra il potenziale di sommazione ed il potenziale di azione, ritenuto diagnostico di malattia, non appare correlabile alla presenza dell’IE40 né può essere considerato un segno specifico della MdM essendo

presente anche nella fistola perilinfatica e nella deiscenza del canale semicircolare superiore.

Semeiotica vestibolare

I risultati dei test vestibolari, interpretati nel contesto del quadro audiometrico e del quadro sintomatologico, aiutano indubbiamente a sviluppare un profilo clinico strumentale che può portare alla diagnosi di MdM.

L’elemento caratteristico è rappresentato dall’insorgenza irregolarmente ricorrente di crisi di vera vertigine rotatoria la cui valutazione obiettiva permette di evidenziare un nistagmo orizzontale periferico che nella fase iniziale delle crisi può essere diretto verso il lato patologico (nistagmo irritativo). Quest’ultimo, di non facile osservazione a meno che il paziente non venga studiato al momento dell’insorgenza della crisi, viene sostituito entro pochi minuti da un analogo nistagmo spontaneo diretto verso il lato sano (nistagmo deficitario). Il primo è espressione di una momentanea eccitazione del recettore vestibolare indotta dall’incremento del K+ nella perilinfa, che

determina successivamente l’inibizione cellulare per un blocco del rilascio dei neuromediatori da cui consegue il nistagmo deficitario. Alla fine della crisi con il ritorno alla normalità della funzione vestibolare, il nistagmo può tornare a battere verso il lato leso (recovery nystagmus).

Alla stregua di quanto accade per la perdita uditiva, nelle fasi iniziali lo studio della funzionalità vestibolare può risultare nella norma: solo con il ripetersi delle crisi compare un deficit labirintico al bilancio vestibolare calorico (BVC) la cui entità aumenta con l’evoluzione della malattia fino ad una areflessia vestibolare tipica delle fasi avanzate. Poiché l’idrope colpisce più tardivamente le strutture canalari è naturale non osservare spesso una

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correlazione tra deficit calorico e stadio della malattia, così come accade per l’udito.

L’head impulse test (HIT) si trova alterato in percentuali nettamente minori rispetto al test calorico. Questo reperto potrebbe indica- re che nella MdM ci può essere una sostanziale conservazione della funzionalità dei canali semicircolari tenendo presente che i due test saggiano il sistema utilizzando valori frequenziali estremamente diversi41. Piuttosto l’HIT (così come l’ice water

test) sembra un ottimo indicatore dell’efficacia del trattamento ablativo

eseguito con aminoglicosidi intratimpanici42. Irrilevanti le informazioni

ricavabili dai test rotatori e dalla posturografia.

Un valido contributo diagnostico viene all’opposto offerto dallo studio dei

potenziali evocati vestibolari miogenici cervicali (cVEMPs) la cui sensibilità per

la valutazione della funzione sacculare è paragonabile a quella del test calorico per la funzione del canale semicircolare laterale.

I pattern di risposta sono estremamente variabili43: i cVEMPs possono essere

assenti, di ampiezza ridotta o con va- lori di latenza aumentati, mentre in altri casi si può assistere ad un incremento dell’ampiezza dal lato colpito, espressione della dilatazione sacculare che, venendo a contatto con la platina, potrebbe rinforzare la sensibilità del sacculo ai suoni. Un reperto più indicativo è il notevole incremento nei pazienti menierici dei valori di soglia a tutte le frequenze, con uno shift della frequency tuning (frequenza ottimale di stimolo) verso i 1000 Hz (valore normale intorno ai 500 Hz); tale reperto, chiara espressione della distensione sacculare, si riscontra, seppure in modo minore, anche nell’orecchio normale e potrebbe risultare da un’alterata interazione binaurale del riflesso otolito-cervicale come anche essere segno di una potenziale deriva idropica bilaterale44. I più elevati valori di shift frequenziale si

riscontrano nei pazienti con crisi otolitica di Tumarkin. I cVEMPs possono avere anche un ruolo nel valutare gli effetti della terapia con gentamicina e nell’identificazione precoce di evoluzione bilaterale della malattia: fino al 27% dei pazienti con MdM monolaterale presentano anomalie dei cVEMPs nell’orecchio sano con aspetti intermedi tra orecchio normale e orecchio patologico45. Alterazioni della tuning curve sono state riscontrate anche

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utilizzando i VEMPs oculari (oVEMPs) che non sono tuttavia in grado di fornire chiare indicazioni diagnostiche46.

Altre indagini strumentali

Lo studio radiologico dell’osso temporale di pazienti menierici allo scopo di evidenziare anomalie specifiche di questa patologia non ha fornito alcun dato utile ai fini diagnostici. Tuttavia uno studio con risonanza magnetica deve essere eseguito in tutti i pazienti con sospetta MdM allo scopo di escludere lesioni che coinvolgono l’VIII nervo cranico (generalmente il neurinoma dell’acustico) o patologie del sistema nervoso centrale (SNC) (es. sclerosi multipla).

Laddove la sintomatologia tipica compare in età infantile o in giovani adulti sarà inoltre necessario ricorrere ad uno studio TC ad alta risoluzione dell’OI allo scopo di escludere la presenza di anomalie congenite quali l’acquedotto vestibolare largo o quadri di incompleto sviluppo delle strutture labirintiche compatibili con una displasia tipo Mondini. Con la stessa indagine sarà inoltre possibile escludere anche fenomeni di deiscenza del canale semicircolare superiore o laterale.

Recentemente con tecniche di risonanza magnetica 3 Tesla è stato possibile visualizzare direttamente l’IE in pazienti menierici a seguito di somministrazione intratimpanica di gadolinio la cui distribuzione preferenziale nella perilinfa permette di misurare l’area occupata dall’endolinfa idropica rispetto al totale fornendo in tal modo anche dati quantitativi sul grado di idrope47.

Questa innovativa metodica ha permesso di dimostrare che l’idrope tende a divenire sempre maggiore con il progredire della malattia, confermandone in tal modo il carattere progressivamente degenerativo. L’esecuzione di test sierologici e immunologici in pazienti con sospetta MdM può essere utile per evidenziare una forma luetica48 ed escludere la presenza di fenomeni

autoimmuni a carico dell’OI. A dispetto dell’entusiasmo suscitato negli anni novanta dall’ipotesi immunologica della MdM, attualmente non disponiamo di test specifici per poter porre questa diagnosi eziologica e al fine di individuare un possibile coinvolgimento del sistema immunitario, è indicato eseguire una limitata batteria di esami che comprende49: emocromo, VES,

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PCR, ricerca anticorpi antinucleari (la cui presenza sembra piuttosto elevata in soggetti con MdM bilaterale), ricerca anticorpi antifosfolipidi.

Cenni di terapia conservativa

I sintomi tipici della malattia possono essere trattati come prima linea utilizzando modifiche dello stile di vita e accorgimenti dietetici. In particolar modo una diminuzione di fonti di stress sembra avere un’influenza positiva sull’andamento delle crisi. Il consiglio è quello di mantenere una dieta iposodica ed iperidrica. In realtà sembrano essere i bruschi picchi di concentrazione plasmatica di sodio ad incrementare il rischio di sbilanciamento produzione-assorbimento dell’endolinfa, motivo per cui molti clinici consigliano di associare ad una dieta iperidrica ed iposodica degli integratori alimentari idro-salini.

Anche l’utilizzo di farmaci somministrati oralmente rientra nella terapia conservativa di prima linea; la betaistina è uno dei principi attivi più utilizzati nella terapia a lungo termine della MdM50, 51 ma anche i diuretici, soprattutto

di tipo tiazidico, sono largamente impiegati.

La Terapia Chirurgica Ablativa

Il fallimento del trattamento di prima linea nel ridurre il numero e l’intensità delle crisi suggerisce la possibilità di utilizzare trattamenti di tipo ablativo.

Labirintectomia

Questa procedura, che consiste nella rimozione chirurgica per via transmastoidea del neuroepitelio cocleo-vestibolare, rappresenta un efficace trattamento per la MdM con percentuali superiori al 95% di completo controllo delle vertigini, laddove il paziente abbia una perdita uditiva sub-totale52. La presenza pressoché costante di un marcato

disequilibrio nel periodo postoperatorio rende necessaria il rapido avvio di un adeguato programma di riabilitazione vestibolare.

Neurectomia Vestibolare:

Rispetto alla labirintectomia, la neurectomia vestibolare consente un ottimale controllo della vertigine con il vantaggio di preservare l’udito nei casi in cui la

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residua funzione cocleare sia sufficiente per una buona discriminazione vocale. Presenta tuttavia lo svantaggio di essere gravata da un maggior numero di complicanze. Diverse sono le tecniche utilizzate:

– approccio attraverso la fossa cranica media53, estremamente

efficace nel controllo della vertigine ma complesso ed associato ad un elevato rischio di danni al labirinto, al nervo faciale ed al SNC;

– approccio retrolabirintico per via transmastoidea54 che presenta un

minor rischio di complicanze (eccetto un 10% di rischio di fistola liquorale) ma meno efficace nel controllo della vertigine, forse perché la sezione del nervo avviene nel condotto uditivo interno prima della sua divisione dal ramo cocleare;

– approccio per via retromastoidea (suboccipitale)55: permette una

ottimale visualizzazione del nervo vestibolare da cui deriva un controllo sostanziale o completo della vertigine nel 85-95% dei pazienti con complicanze piuttosto rare. Una variante di questa tecnica da cui deriva un minor tasso di complicanze endocraniche, permette di sezionare il nervo vestibolare nel suo decorso dentro il condotto uditivo interno attraverso una sua apertura56.

La terapia Intratimpanica

Nelle ultime due decadi si è assistito ad un progressivo interesse verso questo tipo di trattamento che consente di applicare direttamente all’OI una quantità di farmaco di gran lunga superiore rispetto alla somministrazione sistemica, evitando peraltro potenziali effetti tossici associati a quest’ultima via. Allo stato attuale delle conoscenze non è possibile stabilire con esattezza la quantità di farmaco che giunge effettivamente all’OI, dato che il suo passaggio attraverso la finestra rotonda dipende da molti fattori: peso molecolare e idrosolubilità della molecola, grado di permeabilità della membrana della finestra rotonda, tempo di persistenza del farmaco nell’orecchio medio ecc. Per la MdM attualmente vengono utilizzati due tipi di farmaci: steroidi e aminoglicosidi (principalmente gentamicina).

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Corticosteroidi Intratimpanici

I principali effetti degli steroidi nell’OI sono riconducibili all’azione antiinfiammatoria-immunosoppressiva e all’interferenza sull’omeostasi ionica. Gli effetti sono indubbiamente maggiori a seguito di somministrazione intratimpanica in virtù delle elevate concentrazioni localmente raggiunte, di gran lunga superiori rispetto a quelle ottenute attraverso la somministrazione per via sistemica57, in assenza peraltro di effetti collaterali spesso presenti in

quest’ultimo caso.

Nei vari studi effettuati sulla terapia steroidea intratimpanica della MdM è stato utilizzato prevalentemente il metilprednisolone (MPS), la cui scelta si basava sull’evidenza che in studi su animali da laboratorio la concentrazione del suddetto farmaco a livello endolinfatico era molto elevata58. Una

reinterpretazione dei risultati ha tuttavia evidenziato che è il desametazone (DMZ) il farmaco di scelta in virtù di un più rapido raggiungimento di elevate concentrazioni a livello della stria vascolare e dei tessuti circostanti. È noto che gli steroidi agiscono a livello intracellulare. Pertanto trovare alti livelli di MPS nell’endolinfa indica un basso livello intracellulare, per cui l’efficacia del DMZ è sicuramente maggiore. Inoltre il DMZ sembra incrementare il livello di acquaporina nell’orecchio interno, in particolare nel SE e nelle aree circostanti gli spazi endolinfatici, favorendo la capacità dell’acqua di attraversare le membrane. Un ulteriore effetto del DMZ pare riconducibile ad un’azione vasodilatatoria, che comporterebbe effetti favorevoli sul flusso ematico cocleare, aspetto già osservato nella cavia a seguito dell’applicazione diretta del farmaco sulla finestra rotonda59. Riguardo

all’efficacia del cortisone intratimpanico nella MdM, i risultati della letteratura sono discordanti e non facilmente comparabili tra loro vista la notevole diversità in termini di tipo e dosaggio di steroide usato, protocollo di applicazione, tempi di follow-up ecc…).

Un trial prospettico ha riportato una buona percentuale di controllo delle crisi vertiginose utilizzando DMZ (12 mg/ml) con ripetute serie di trattamento, tanto che gli Autori propongono una sorta di titration protocol ipotizzando che lo

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steroide intratimpanico induca una temporanea remissione della sintomatologia60; al ripresentarsi delle crisi il paziente può quindi essere

sottoposto nuovamente al trattamento allo scopo di accelerare la naturale spontanea remissione della malattia. All’opposto un recente studio comparativo tra DMZ e gentamicina a basso dosaggio nel trattamento della MdM porta a conclusioni opposte: pur in assenza di effetti collaterali di rilievo, lo steroide ha evidenziato una scarsa efficacia nel controllo della vertigine61.

Aminoglicosidi Intratimpanici

Quando il trattamento conservativo di prima linea (restrizione sodica, aumentato apporto idrico, modifiche dello stile di vita e farmaci orali) non riesce a ridurre il numero e l’intensità delle crisi, è raccomandato programmare una terapia di tipo ablativo. L’introduzione della gentamicina intratimpanica (GI) ha ridotto in maniera significativa il numero di procedure chirurgiche invasive con ottimi risultati sul controllo delle crisi; per tal motive la sua popolarità nel trattamento della MdM è progressivamente cresciuta nel corso delle ultime 3 decadi61-64.

Com’è noto gli antibiotici aminoglicosidici posseggono un’ attività tossica nei confronti delle strutture recettoriali dell’orecchio interno. In particolare, la streptomicina e la gentamicina mostrano un maggior livello di vestibolotossicità rispetto al danno cocleare. Anche l’azione tossica sulle dark

cells (cellule secretorie capaci di regolare la produzione dell’endolinfa)

potrebbe contribuire a ridurre l’idrope presente nella MdM65.

Shucknecht fu il primo ad utilizzare l’effetto ototossico della streptomicina allo scopo di ottenere una ablazione vestibolare ma con rilevanti effetti lesivi a carico della funzione uditiva66. Il razionale dell’utilizzo degli aminoglicosidi si

basa sull’assunto che il compenso vestibolare si realizza molto meglio nel caso di un deficit labirintico totale o subtotale stabile piuttosto che fluttuante. Naturalmente la terapia ablativa deve avere come scopo la riduzione o scomparsa delle crisi vertiginose assieme alla conservazione dell’udito: per questo è indicata solo nelle forme monolaterali di MdM che non abbiano risposto positivamente alla terapia medica e laddove sia già presente un

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significativo danno cocleare. Le procedure ablative sarebbero sconsigliate nel paziente anziano per le potenziali difficoltà di compenso del deficit labirintico. Attualmente la gentamicina è considerata il farmaco di scelta per il trattamento ablativo farmacologico della MdM. Dalle prime esperienze degli anni ’80 in Europa67 e degli anni ’90 in USA68, sono stati numerosissimi i

contributi scientifici e clinici tanto che ad oggi disponiamo di dati di follow-up ben superiori ai 5 anni. Numerosi sono i protocolli utilizzati per la somministrazione di GI:

– somministrazione continua attraverso una minipompa posizionata chirurgicamente in prossimità della finestra rotonda;

– dosi multiple giornaliere (es. 3 al giorno per 4 giorni consecutivi) (shotgun protocol);

– dosi settimanali attraverso l’iniezione diretta o un tubo di ventilazione per 3 o 4 settimane consecutive;

– dosi somministrate ad intervalli regolari fino alla comparsa di segni clinici di ipofunzione vestibolare unilaterale (titration protocol);

– singola dose da ripetere solo se persistono o ricompaiono le crisi di vertigine (low dose protocol).

Il grande vantaggio dell’ablazione labirintica con gentamicina si basa sul carattere minimamente invasivo della procedura e sulla dimostrazione che non è necessario raggiungere una totale distruzione delle strutture neurosensoriali del vestibolo per ottenere l’effetto terapeutico desiderato69. In

effetti, l’attenuazione della funzione labirintica ottenuta con la gentamicina è indubbiamente minore rispetto a quella conseguente a labirintectomia o neurectomia vestibolare41. Specie se vengono utilizzati bassi dosaggi, la

gentamicina mostra una tossicità selettiva per le cellule ciliate di I tipo; la conservazione dell’attività sinaptica delle cellule di tipo II può mantenere una residua attività afferente del nervo vestibolare che potrebbe rivelarsi utile per favorire i meccanismi di compenso centrale41. Dalle prime esperienze

terapeutiche si è assistito ad una progressiva riduzione del numero e della frequenza delle iniezioni che, pur garantendo un buon controllo della vertigine, assicura un basso rischio di danno cocleare. Dall’altro lato non

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dobbiamo dimenticare che la risposta clinica al trattamento con GI può risultare estremamente variabile, in primo luogo poiché non è possibile conoscere la reale quantità di farmaco che raggiunge l’OI e secondariamente in virtù di una particolare suscettibilità al danno geneticamente determinata.

Razionale dello Studio

La maggioranza degli studi riguardanti l’efficacia della GI è basata su un punteggio dato dal controllo del sintomo vertigine, basato sulle line guida del Commitee ad hoc della AAO-HNS6: vengono distinte 6 classi dalla A alla F

dove A è un controllo ottimale delle crisi vertiginose e F rappresenta il fallimento della terapia. Questo approccio in realtà non è applicabile se vogliamo determinare I risultati a lungo termine di una terapia ablativa, in quanto prevede un limite arbitrario a 24 mesi del follow-up. Ciò si scontra con una realtà clinica in cui le possibili (e relativamente frequenti) recidive dopo GI necessitano di multiple sessioni (rounds) di trattamento sia entro che dopo i 2 anni di follow-up. Un’analisi basata sulle curve di sopravvivenza tipo Kaplan-Meier fornisce un metodo eccellente per determinare il successo o il fallimento della GI quando una sintomatologia vertiginosa recidivante richiede nuovi cicli di trattamento.

Nella nostra esperienza clinica abbiamo inizialmente usato una dose relativamente alta di GI a partire dagli anni 2000 in cui vennero trattati i primi casi. Gli obiettivi di questo studio sono:

1. comparare i risultati di due regimi di trattamento con GI a 24

mesi:

a. protocollo ad alto dosaggio, o High-Dose (HD)

b. protocollo a basso dosaggio, on demand o Low-Dose (LD) 2. valutare la necessità e l’efficacia di un eventuale ri-trattamento

(protocollo HD vs LD) dopo recidiva di crisi vertiginose con un follow-up più lungo (maggiore di 48 mesi) usando il metodo statistico delle curve di sopravvivenza secondo Kaplan-Meier.

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Materiali e Metodi

Lo studio è stato condotto in maniera retrospettiva presso l’Unità Operativa di Otorinolaringoiatria 1° Universitaria dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, nel periodo di tempo compreso fra Gennaio 2000 e Gennaio 2008. Tutti i pazienti inclusi nello studio risultavano affetti da MdM unilaterale “definita” (sulle basi dei criteri diagnostici del Commitee ad hoc della AAO-HNS6).

Tutti i soggetti erano stati trattati precedentemente con terapia conservativa (diuretici, betaistina e dieta iposodica/iperidrica) per un tempo minimo di 6 mesi prima di essere ammessi al trattamento con GI.

Dopo una dettagliata spiegazione della procedura, con particolare riferimento ad eventuali complicanze ed effetti collaterali, era stato ottenuto un consenso informato scritto.

Le due procedure di somministrazione intratimpanica di gentamicina seguivano un protocollo standardizzato:

HD: ai pazienti venivano somministrate un totale di 6 iniezioni di gentamicina (2 ml di gentamicina solfato, 40 mg/ml, diluita con 1 ml di soluzione di bicarbonato di sodio in modo da ottenere una soluzione a PH 6,4 con una concentrazione di farmaco pari a 27,6 mg/ml. La sessione di 2 iniezioni al giorno era ripetuta altre 2 volte dopo un intervallo di 3 giorni.

LD: il protocollo a basso dosaggio consisteva in una sola iniezione di un preparato analogo a quello utilizzato nel protocollo HD; l’iniezione era seguita da un attento follow-up clinico della durata di 2 settimane volto a determinare efficacia ed effetti collaterali del trattamento. Se 1 o più “bedside” test (principalmente nistagmo spontaneo e HIT) indicavano una riduzione della funzione vestibolare il trattamento era considerato effettivo; altrimenti una seconda iniezione veniva effettuata entro 20 gg dalla prima.

L’utilizzo del protocollo HD è stato progressivamente ridotto dopo l’introduzione dal 2003 del protocollo LD (Figura 4).

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Figura 4 Numero di pazienti trattati negli anni con protocollo ad alto dosaggio (HD) e a basso dosaggio (LD). Possiamo osservare come il protocollo HD sia stato usato dal 2000 ma anche come il numero delle procedure si sia ridotto progressivamente con l’introduzione del protocollo LD nel 2003.

Prima di iniziare il trattamento ablativo tutti i pazienti erano stati sottoposti ad una valutazione otoneurologica completa, caratterizzata da:

• Esame obiettivo otoneurologico (“bedside” tests):

o Studio dei movimenti oculari e ricerca del nistagmo spontaneo ed evocato

o Head shaking test (HST)

o HIT

• Bilancio vestibolare calorico (BVC) con calcolo delle preponderanze labirintica e direzionale

• Esame audiometrico tonale con calcolo del PTA

• Esame audiometrico vocale con calcolo dello Speech Discrimination Score (SDS)

• Impedenzometria

I risultati del trattamento sono stati espressi in termini di Functional Level Score (FLS) e controllo del sintomo vertigine, calcolato in accordo con le linee guida del Commitee ad hoc della AAO-HNSdel 1995 (classi dalla A alla F)6.

In classe A sono inclusi i pazienti che hanno ottenuto un controllo completo del sintomo vertigine; in classe B coloro che hanno ottenuto un controllo sostanziale. La classe F è classificata come fallimento del trattamento.

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La compromissione della funzionalità uditiva è stata valutata tramite calcolo del Pure Tone Audiometry (PTA), corrispondente alla media della soglia in decibel HTL sulle frequenze 0,5, 1, 2 e 3 KHz, e tramite audiometria vocale (Speech Discrimination Score, SDS)

Ciascuna misurazione è stata ottenuta immediatamente prima del trattamento e durante le visite di controllo regolarmente portate a termine a 1 e 12 mesi (e successivamente annualmente).

I disturbi dell’equilibrio post-trattamento sono stati valutati come segue:

• Normale: il paziente è in grado di mantenere la posizione “tandem Romberg” per 3 secondi a occhi aperti

• Lieve: il paziente non è in grado di mantenere la posizione “tandem Romberg” per 3 secondi a occhi aperti

• Moderato: il paziente non è in grado di mantenere la posizione di Romberg per 3 secondi a occhi aperti

• Severo: il paziente non è in grado di mantenersi in piedi senza aiuto.

Sessioni ripetute di GI HD or GI LD sono state somministrate in pazienti che sono andati incontro a ulteriori e ricorrenti episodi di vertigine acuta. La durata del follow-up è stata da un minimo di 48 mesi a 12 anni (media tempo di follow-up pari a 108,7 mesi per il gruppo HD e 87,2 mesi per il gruppo LD.

Analisi Statistica

Abbiamo utilizzato test statistici per confrontare i cambiamenti rispetto alla linea basale (situazione pre-trattamento) e riscontrate alle visite di follow-up tra i 2 gruppi. Questi test hanno incluso paired/unpaired Student’s t-test, ANOVA per la differenza dei valori medi, Mann-Whitney U and Wilcoxon per variabili separate, Chi-Quadro per differenza in conteggio e frequenza. Abbiamo impiegato il test Kolmogorov-Smirnov per accertare la normalità dei dati. Il metodo “time-to-event” (analogo alle curve di sopravvivenza) secondo Kaplan-Meier è stato usato per quantificare il numero di pazienti che ha richiesto sessioni ulteriori di trattamento con GI e per generare curve longitudinali. Il concetto di “fallimento” si riferisce alla necessità di una ulteriore sessione di trattamento con GI o alla necessità di ricorrere alla

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terapia chirurgica qualora una ulteriore terapia con GI non si dimostri efficace. La significatività statistica tra le curve rappresentanti i differenti gruppi è stata determinata usando il test di Breslow. Un valore di p (p-value) minore di 0,05 è stato considerato come statisticamente significativo. I dati sono presentati come media ± deviazione standard (SD). Le analisi sono state effettuate mediante il software SPSS (versione 21, IBM Corp, Armonk, NY, USA)

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Risultati

Dal momento in cui lo studio è stato chiuso (Gennaio 2013), siamo stati in grado di analizzare i dati clinici di 77 pazienti: 35 (21 femmine, 14 maschi, età media 50,4 anni, SD 10,4 anni) trattati con GI HD e 42 (24 femmine, 18 maschi, età media 48,5 anni, SD 9,6 anni) trattati con GI LD.

Abbiamo escluso dall’analisi statistica di FLS, PTA e SDS un paziente appartenente al gruppo LD che è stato classificato come fallimento dopo soltanto un anno di follow-up per essere ricorso alla neurectomia vestibolare; il paziente è stato comunque considerato nel calcolo dei pazienti con sintomatologia controllata o meno a 24 mesi e a lungo termine.

Per quanto riguarda il gruppo LD, 24 pazienti hanno ricevuto un’iniezione e 18 due iniezioni.

La media di decorso della MdM è stata di 16,3 mesi (SD 4,14 mesi) e 15,8 mesi (SD4,10 mesi) dal momento dell’esordio dei sintomi per i gruppi HD e LD rispettivamente.

Figura 5 Numero di pazienti appartenenti ai due gruppi appartenenti a ciascuna classe di vertigine dopo 2 anni di follow-up. High Dose (HD): alto dosaggio; Low Dose (LD): basso dosaggio. HD a 2 anni di follow-up: completo controllo della vertigine (classe A) in 28 pz (80%), sostanziale (classe B) in 5 (14%). LD a 2 anni di follow-up: 30 pazienti con completo (classe A)(71%) e 8 pz (19%) con sostanziale (classe B) controllo della vertigine.

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Nel gruppo HD, a due anni di follow-up, un completo controllo della vertigine (classe A) è stato ottenuto in 28 pazienti (80%) mentre un controllo sostanziale (classe B) in 5 (14%). Nel gruppo LD 30 pazienti (71%) hanno ottenuto un crontrollo completo (classe A) mentre 8 (19%) un controllo sostanziale (classe B) (Figura 5).

A 2 anni di follow-up, nel gruppo HD, il FLS ha dimostrato un miglioramento fino al livello 1 o 2 in 22 (63%) e 8 (23%) pazienti rispettivamente. Nel gruppo LD il livello 1 è stato raggiunto in 26 (63%) pazienti e il livello 2 in 11 (27%). I risultati non hanno mostrato fra i due gruppi differenze statisticamente significative (p=0,67).

Il PTA medio pre-trattamento è risultato essere 56,7 (SD 12,9) e 54,0 (SD 11,6) per i gruppi HD e LD rispettivamente; a 2 anni di follow-up il PTA medio è risultato essere 72,3 (SD 14,1) per i pazienti trattati con GI HD e 59,9 (SD, 11,4) per quelli trattati con GI LD. I risultati hanno dimostrato una differenza statisticamente significativa (in termini di minor aumento dei valori di PTA) fra i due metodi: i valori di p sono risultati rispettivamente 0,001, 0,001 and <0,001 a 1 mese, 1 anno and 2 anni (Figura 6).

Figura 6 Valori medi di PTA (pure tone audiometry) prima del trattamento per i 2 gruppi di studio e dopo ciascun intervallo di follow-up (p-value 0,001, 0,001 <0,001 rispettivamente a 1 mese, 1 anno e 2 anni. HD: alto dosaggio; LD: basso dosaggio.

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I valori medi di SDS sono risultati 65,7 (SD 12,7) e 67,3 (SD 16,4) per i gruppi HD LD rispettivamente; a 2 anni di follow-up, i valori sono cambiati in 55.4 (gruppo HD) e 62 (gruppo LD). Il deterioramento della funzione uditiva alla audiometria vocale (SDS) è risultato minore nel gruppo LD ma non statisticamente significativo in nessun intervallo di follow-up (Figura 7).

Figura 7 Valori riscontrati all’audiometria vocale in termini di speech discrimination score (SDS) prima del trattamento e dopo ciascun intervallo di follow-up (differenza di decremento non statisticamente significativa). HD: alto dosaggio; LD: basso dosaggio.

Dopo 2 anni, in accordo con i criteri della AAO-HNS, l’udito è risultato peggiore in 13 (38%) pazienti trattati con GI HD. Nel gruppo LD l’udito ha subito un rilevante peggioramento in 5 (12%) soggetti.

Ventidue (63%) pazienti trattati con GI HD hanno riferito un certo disequilibrio insorto dopo il trattamento: in 16 (46%) casi era lieve/moderato e non è durato più di 10 giorni, mentre in 6 (17%) pazienti era severo e con una durata maggiore di 1 mese richiedendo un ciclo di riabilitazione vestibolare.

Nel gruppo LD solo 10 (24%) pazienti hanno lamentato un disequilibrio (lieve/moderato) scomparso entro 10 giorni in tutti i casi.

L’analisi statistica riguardante l’insorgenza di disequilibrio post-trattamento ha mostrato una differenza statisticamente significativa fra i 2 gruppi (p<0,001).

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Il paziente perso al follow-up dopo appena un anno perché immediatamente ricorso alla chirurgia è stato incluso come fallimento nel controllo delle crisi dopo singola sessione, ma non nei calcoli effettuati a lungo termine in quanto imprevedibile per lui il risultato di una sessione aggiuntiva di trattamento con GI LD.

Il follow-up a lungo termine ha mostrato che 18 pazienti del gruppo LD, dopo un periodo libero da sintomatologia acuta che andava dai 16 ai 52 mesi (media 34,4 mesi), sono andati incontro a una recidiva degli attacchi di vertigine non responsivi a trattamento conservativo. Del gruppo HD, 10 pazienti hanno avuto nuovi attacchi acuti dopo un periodo libero da crisi che andava da 18 a 70 mesi (media 46,8 mesi). Tutti questi pazienti hanno subìto sessioni aggiuntive di GI utilizzando rispettivamente lo stesso protocollo della prima fase di trattamento.

Figura 8 Curva di Kaplan-Meier per il follow-up a lungo termine: pazienti appartenenti ai 2 gruppi in relazione al periodo in cui sono rimasti liberi da sintomatologia acuta. Nelle curve in basso lo step indica la necessità di ricorrere ad una sessione aggiuntiva di trattamento. Le curve superiori indicano la “sopravvivenza” per i 2 gruppi in cui ogni step indica il fallimento del successivo trattamento (GI) con la necessità di ricorrere ad un trattamento di tipo chirurgico. I segni verticali sulle curve in basso indicano l’ultima visita di follow-up.

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Dopo un periodo di follow-up di minimo 4 anni tutti i 18 pazienti (eccetto uno) ritrattati con cicli di GI LD erano liberi da sintomi (17 su 18, corrispondenti al 94,4% dei ritrattati; in totale 40 su 41 corrispondenti al 97,5%, vedi Figura 8 linee in alto), mentre con il protocollo GI-HD 4 pazienti su 10 (40% dei ri-trattati) hanno dovuto sottoporsi a terapia chirurgica ablativa per la persistenza di invalidanti episodi di vertigine a causa della mancata risposta alla nuova sessione di trattamento con GI (in 2 casi sono state documentate anche crisi otolitiche di Tumarkin34). I pazienti del gruppo HD liberi da sintomi al termine

del follow-up risultavano essere quindi 31 su 35, l’88,6% del totale, per un 11,4% costretto a ricorrere a terapia chirurgica (Figura 8).

Nella tabella sottostante sono riassunte le percentuali di controllo a lungo termine del sintomo vertigine e quelle di ricorso a sessioni di terapia aggiuntive con GI o chirurgia riscontrate nei due gruppi (Tabella 3).

Controllo dopo singola sessione Sottoposti a nuova sessione GI #(%tot) Fallimento nuova sessione GI con ricorso a chirurgia #(% ritrattati) Controllo a lungo termine (classe A-B) #(%) GI HD 25/35 (71) 10/35 (29) 4/10 (40) 31/35 (88,6) GI LD 24/42 (57) 18/41 (44) 1/18 (5,6) 40/41 (97,5)

Tabella 3 Riassunto dei principali risultati dello studio in termine di controllo del sintomo vertigine. Il paziente perso al follow-up dopo appena un anno è stato incluso come fallimento nel controllo dopo singola sessione, ma non nei calcoli effettuati a lungo termine in quanto imprevedibile per lui il risultato di una sessione aggiuntiva di trattamento con GI LD. GI: gentamicina intratimpanica; HD: alto dosaggio; LD: basso dosaggio.

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Discussione

In accordo con i criteri dell’AAO-HNS, la maggior parte degli studi riguardanti risultati in termini di successo (o insuccesso) terapeutico nella MdM utilizzano il limite arbitrario di 2 anni di follow. Tuttavia, l’esperienza clinica ci dice come le recidive di attacchi acuti di MdM dopo trattamento con GI siano in realtà estremamente comuni ed imprevedibili, rendendo il limite di follow-up a 24 mesi e le metodiche di analisi suddette non completamente idonee nel valutare modalità di trattamento che non hanno un limite di tempo definito come “fine della terapia”. Per questa ragione alcuni report recenti relativi al trattamento con GI nella MdM hanno documentato la ricorrenza degli attacchi di vertigine dopo un periodo di più di due anni dopo la fine del trattamento65, 70, 71; inoltre riportano l’utilità di adottare la curva di

sopravvivenza di Kaplan-Meier per monitorare i pazienti richiedenti un lungo periodo di follow-up71– 75.

Durante gli anni si è stabilito un trend verso l’impiego di un sempre minore quantitativo di gentamicina e di un maggior intervallo di tempo fra le iniezioni. La nostra unità operativa ha seguito questa tendenza soprattutto a partire dall’anno 2003, allo scopo principalmente di ridurre il rischio di perdita uditiva e di dizziness cronica persistente a seguito del trattamento.

Il presente studio compara retrospettivamente i risultati in termine di funzionalità uditiva e di controllo del sintomo vertigine in pazienti affetti da MdM unilaterale “definita” e sottoposti a due diversi regimi di trattamento intratimpanico a base di gentamicina.

Utilizzando I criteri della AAO-HNS6, a 2 anni di follow-up (24 mesi), abbiamo

riscontrato una percentuale simile in termini di pazienti in cui il sintomo vertigine era completamente (classe A) o sostanzialmente (classe B) controllato: questo valore era pari al 94% circa dei pazienti appartenenti al gruppo HD se comparato al 90% riscontrato nel gruppo LD.

D’altra parte l’incidenza di effetti collaterali, principalmente ipoacusia e disequilibrio post-trattamento differisce in maniera rilevante fra queste due tecniche, dimostrandosi significativamente più alta con il trattamento ad alta dose (GI HD). Una percentuale elevata (37%) di pazienti trattati con GI HD

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hanno mostrato un significativo peggioramento del loro udito in confronto con coloro che avevano ricevuto il basso dosaggio (GI LD).

Questi risultati concordano con quelli riportati nelle più recenti metanalisi, confermando che una dose minore di gentamicina diffusa all’orecchio interno permette di ottenere buoni risultati in termini di controllo della vertigine associate ad una significativa riduzione del rischio di danno uditivo da trattamento62, 63, 76. I dati che emergono dalle suddette metanalisi

evidenziano globalmente un controllo completo o sostanziale della vertigine in più del 90% dei pazienti in un periodo tra 2 e 5 anni di follow-up con una perdita uditiva, per lo più di modesta entità, nel 25% dei casi62, 63, 76.

Confrontando le diverse metodiche, il protocollo titration sembra quello che permette di ottenere un ottimo risultato in termini di riduzione delle crisi vertiginose in associazione con una bassa incidenza di danno uditivo, che è risultato più comune nei pazienti trattati con dosi multiple giornaliere. Tuttavia un recente report sembra indicare che anche il protocollo low-dose permette un controllo della vertigine in più del 90% dei pazienti con una percentuale molto ridotta (12,5%) di danno uditivo61.

Considerazioni simili possono essere fatte se prendiamo in considerazione il numero dei pazienti affetti da disturbi dell’equilibrio dopo il trattamento (dizziness cronica nella maggioranza dei casi): nessun caso è stato registrato nel gruppo LD mentre 6 pazienti del gruppo HD hanno riportato in questo senso disturbi capaci di interferire con le normali attività quotidiane e tali da richiedere specifico trattamento.

Il nostro studio ha mostrato che un controllo a lungo termine degli attacchi di vertigine può essere ottenuto anche con una singola sessione di trattamento in un 71% dei pazienti trattati con GI HD e in un 57% di pazienti trattati con GI LD. Con sessioni ripetute un controllo effettivo della vertigine può essere raggiunto nel 97,5% dei pazienti del gruppo HD mentre solo nell’88,6% di quelli trattati con GI HD.

Questi risultati offrono l’opportunità per fare qualche interessante considerazione. Primo, a dispetto della minor percentuale di pazienti senza recidive di crisi vertiginose usando una singola sessione di GI, ad un follow-up

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a lungo termine il protocollo LD permette di ottenere comunque buoni risultati in termini di riduzione degli attacchi di vertigine, con il vantaggio di una limitata percentuale di insorgenza di peggioramento dell’udito o di disequilibrio post-trattamento. Secondariamente, nel gruppo di pazienti trattati con GI HD, la lunghezza del periodo libero da sintomatologia acuta è risultato sì maggiore, ma, una volta presentatasi la necessità di trattare nuovamente questi pazienti con lo stesso schema, abbiamo osservato un numero relativamente più alto di pazienti privi di controllo sulle crisi; di conseguenza sembra maggiore la percentuale di pazienti HD rispetto agli LD che subiscono, a lungo termine, una mancata risposta ad una sessione aggiuntiva del medesimo protocollo GI.

La nostra esperienza sembra confermare la validità del recentemente proposto trattamento “on demand” con GI73. Il protocollo HD sembra infatti

garantire un maggior successo sul controllo delle crisi vertiginose ai 24 mesi di follow-up standard, ma al prezzo di un più alto tasso di danno uditivo e disequilibrio post-trattamento.

Quindi che tipo di regime di trattamento con GI dovremmo proporre ad un paziente affetto da MdM unilaterale “definita” e non responsiva a terapia conservativa?

Il protocollo LD ha dimostrato il grande vantaggio di causare effetti collaterali solo in una percentuale molto piccola di casi, ma garantisce meno possibilità di avere un controllo totale sulle crisi vertiginose con una sola sessione di trattamento. D’altra parte, nonostante il protocollo HD garantisca un periodo libero da sintomatologia maggiore, se osserviamo i pazienti dopo un lungo follow-up (maggiore di 4 anni) abbiamo riscontrato che una nuova sessione di trattamento fallisce in garantire un controllo sufficiente delle vertigini in un 40% dei pazienti.

Gli effetti di questi due tipi di trattamento sono in realtà molto diversi: lo scopo del protocollo HD è di indurre un danno severo alle cellule ciliate vestibolari77.

Studi sperimentali hanno dimostrato che la gentamicina è in grado di penetrare nelle cellule ciliate attraverso dei canali di trasduzione situati nelle stereociglia; successivamente il farmaco rimane legato a specifiche proteine

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(binding proteins) situate nel citoplasma apicale della cellula ciliata di tipo I78.

Solo incrementando la dose di gentamicina possiamo causare una saturazione di queste proteine e la diffusione della sostanza in tutto il citoplasma, dove causa la morte della cellula per induzione di enzimi proteolitici79.

Inoltre è ben dimostrato, sia in studi sperimentali sia clinici, che il periodo di tempo in cui si genera o una disfunzione della cellula ciliata o piuttosto una sua degenerazione, è strettamente correlato al quantitativo di farmaco presente a livello dell’osso temporale77, 79; e quindi, indirettamente, alla

quantità di farmaco che attraversa la finestra rotonda in seguito ad esempio ad una somministrazione intratimpanica.

La gentamicina rimane legata alle cellule ciliate per un tempo minimo di 3 settimane dopo una singola iniezione. L’incremento a più di 2-3 settimane dell’intervallo tra le due iniezioni riduce quindi la possibilità che l’accumulo del farmaco nell’organo del Corti aumenti l’effetto lesivo sulle cellule ciliate80

tale da indurre un danno severo di tipo apoptotico sulle cellule ciliate vestibolari e cocleari; inoltre a bassi dosaggi l’azione tossica della gentamicina sembra esplicarsi prevalentemente sulle dark cells risparmiando parzialmente le cellule sensoriali81.

Il protocollo LD sembra nella pratica clinica rispettare questi suggerimenti che ci vengono dai modelli sperimentali; ne consegue che il danno causato alle cellule ciliate da questo regime di trattamento è in realtà parziale e/o temporaneo.

Un risultato sorprendente derivato dalla nostra esperienza clinica è lo scarso risultato ottenuto in 4 dei 10 pazienti sottoposti a nuova sessione di trattamento con GI HD a causa della recidiva degli attacchi di vertigine. La risposta individuale alla GI si dimostra in realtà imprevedibile e dipendente da molte variabili (permeabilità delle finestre rotonda ed ovale, differente diffusione nei liquidi dell’orecchio interno, diverso meccanismo di danno alle cellule ciliate). La mancata risposta ad una nuova sessione di trattamento con GI potrebbe essere spiegata quindi sia da una ridotta permeabilità delle finestre dell’orecchio medio (esiti fibrotici, senescenza delle strutture), sia

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dall’instaurarsi di una sorta di “resistenza” al danno indotto dal farmaco all’interno delle cellule dell’orecchio interno (forse dovuto ad esempio ad un aumento di sintesi delle proteine leganti la gentamicina).

Questo studio presenta al momento molte limitazioni: in primis, considerandone la natura retrospettiva, non possiamo affermare in maniera decisa la superiorità di un regime di trattamento sull’altro. Secondariamente, c’è un’importante differenza in termini di durata del follow-up fra i 2 gruppi: il gruppo HD ha infatti un periodo di follow-up maggiore, visto che questa procedura era da noi la più praticata nei primi anni; valutando i pazienti dopo un periodo di tempo maggiore infatti è possibile che anche il decorso naturale della MdM possa aver avuto un’importante influenza. In più, l’introduzione di nuovi metodi d’indagine clinica (come il video-HIT) ci ha permesso di studiare i pazienti più recenti in maniera più completa dal punto di vista della loro funzione vestibolare pre e post-trattamento. Infine, il campione preso in esame non è abbastanza ampio da supportare una forte validazione esterna del nostro studio, specialmente riguardante l’efficacia di sessioni di trattamento aggiuntive con GI per recidiva di vertigine dopo lungo periodo di follow-up.

Figura

Tabella  1  Linee  guida  di  classificazione  della  MdM  secondo  il  Commitee  ad  hoc  della  American Academy of Otolaryngology-Head &amp; Neck Surgery
Figura  1 1)  MdM  (idrope  lieve).  Si  nota  una  piccola  dilatazione  del  dotto  endolinfatico;  2)  MdM  (idrope  moderato)
Figura 2 Esempio della progressione della sintomatologia in un paziente affetto da malattia  di Menière.
Figura 3  (A-D)  Tipologia di curva audiometrica nelle diverse fasi evolutive della malattia di  Menière
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