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Cultura scientifica degli antichi

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Academic year: 2021

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(1)

Mariano Malavolta

mariano.malavolta@uniroma2.it

Scienza e tecnica

nel mondo

grecoromano

Appunti dalle lezioni

Libreria UniversItalia

Via di Passolombardo, 421

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Sommario

Premessa. – 1. Storia, historia,.

Le connessioni fra indagine storica e

“metodo” scientifico. – 2. Nozioni di

cronologia. – 3. La parabola del mondo

antico: pòleis greche, stati ellenistici

ed ecumene romana. – 4. La nascita

del pensiero scientifico: esordi della

cosmologia e della matematica nel

periodo arcaico (dai poemi omerici agli

inizi del V secolo a.C.). – 5. Il periodo

classico e l’egemonia culturale di

Atene (480-323 a.C.). – 6. L’exploit

della scienza greca nell’età ellenistica

(323-31 a.C.). – 7. Scienza greca e

mondo romano. Decadenza di

Alessandria e sua rinascita in età

romana imperiale. – 8. Il declino della

scienza antica nelle compilazioni degli

enciclopedisti latini. – 9. Tecnologia e

società antica. Nota bibliografica.

-Repertorio prosopografico.

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Premessa.

Il mito della knowledge economy ha portato in primo piano, anche nel mondo

della formazione accademica, la

fondamentale esigenza della “condivisione di un modello di gestione della conoscenza”: questo concetto - così espresso con una formula che sembra quasi volutamente congegnata in modo da precluderne la comprensione - viene inteso dagli economisti nel senso che “la competitività di un’azienda è data soprattutto dalla competenza di ciascuno [un cultore del bello stile avrebbe magari preferito scrivere, forse fraintentendo, “da una inattesa sinergia delle competenze dei singoli”] e quanto più questa è dispersa e condivisa, tanto maggiore è il valore aggiunto che ne deriva”. Ma vediamo di meglio chiarire, con l’aiuto dell’autrice dello scritto or ora citato1, gli scopi di

questa nuova metodologia formativa: “In

questo contesto, la componente

immateriale del patrimonio aziendale, rappresentata dal capitale intellettuale nelle sue espressioni formali ed informali, comunque legati alla conoscenza, tende a divenire per tutte le aziende il fattore strategico primario per la produzione diretta di valore, o indiretta, attraverso il

1 FLAVIA ANGELINI, Ingegneria, nuove frontiere della

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patrimonio tangibile. Oggi la differenza non la fanno più le strutture, la catena di distribuzione, la materialità della presenza dell’azienda [o anche nell’azienda?], ma la gestione del processo per arrivare alla produzione”. La conseguenza di tutto ciò, in termini di strategia formativa, è efficacemente sintetizzata nell’apertura dell’articolo: “Una laurea in ingegneria, non importa quale specializzazione, può aprire anzi spalancare le porte del futuro, garantire un lavoro assicurato e una carriera promettente. Succedeva così fino a poco tempo fa. Ma oggi sembra non essere più così. Le nuove frontiere della tecnologia e del marketing richiedono anche una preparazione umanistico-economica: addio ingegnere tutto numeri, tavole e centimetro”.

Cercheremo ancora, nel seguito di queste pagine, di immaginare cosa avrebbe potuto pensare il buon Aristotele della

knowledge economy: ci pare di poter

anticipare, senza tema di smentita da parte sua, che dall’alto delle sfere celesti del meritato iperuranio egli sogguardi con una certa sufficienza, mista a fastidio, questo procedere meschino della new economy (null’altro che mezzucci per far soldi, a conti fatti) e la relativa elaborazione di una

knowledge economy che nel nuovo ordinamento degli studi si propone di “insidiare” il moderno sistema “tolemaico” del sapere scientifico, gerarchicamente

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costruito con notevole sforzo teoretico nel secolo scorso; quei confini del cosmo infinito, che l’umanità aveva da sempre immaginato con fantasia creativa e quindi indagato con sempre più sottile intelligenza, egli non potrebbe che commiserarli, vedendoli ormai coartati nel microcosmo ergastolare dell’azienda (ma Aristotele la chiamerebbe, con maggior

vigore icastico, “bottega”) e

definitivamente sottomessi alle leggi volgari del profitto. Senza dunque insistere in quest’ottica di aristocratico disprezzo ci limiteremo, per il momento, a notare che la materia che ci proponiamo di esplorare in

queste nostre conversazioni è

sufficientemente dispersa e condivisa e distante rispetto ai contenuti degli altri insegnamenti impartiti nel Corso di Informatica, e tale da giustificare ampiamente il nostro modesto tentativo di rivolgere lo sguardo all’indietro, e non allo ieri né all’altro ieri, ma oltre l’abisso dei millenni, sullo scenario di una umanità che ha lasciato di sé soltanto reliquie consunte dal tempo.

Il mondo antico o, più precisamente con riguardo alla materia del corso che svolgeremo, il mondo grecoromano e dunque l’antichità classica, rappresenta un primo tentativo di affermazione di progettualità globale nella vita degli umani, che fino alle soglie della storia si era trascinata senza apprezzabili progressi

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per centinaia di migliaia di anni. Questo primo affermarsi della “civiltà” incominciò a trovare la sua definitiva espressione nel pensiero elaborato dai Greci in un momento felice di prodigioso exploit dell’intellettualità degli uomini, che costituì il seme ancor vivo ed operante nella nostra cultura occidentale, come mostrano l’origine greca di tutto il lessico scientifico e la sua perdurante vitalità ed attualità: si è notato che soltanto in Grecia la coscienza teoretica poté sorgere in forma indipendente, così come è vero che solo nella lingua greca2 i concetti

scientifici poterono svilupparsi dalla lingua in modo organico ed in piena autoctonia. Tutti gli altri idiomi, a partire dal latino, si nutrirono obbligatoriamente per questo bisogno del greco prendendolo in prestito, trascrivendolo o traducendolo e in ogni caso dipendendone.

Altrettanto vero è che il miracolo greco, che almeno in origine aveva interessato una parte tutto sommato assai ridotta dell’ecumene, difficilmente sarebbe sopravvissuto alla grande crisi della civiltà classica se quei fermenti originari non fossero stati assimilati stabilmente e all’infinito replicati nel canone “classicistico” dalla egemone cultura romana e italica, ciò che ne rese possibile

2 BRUNO SNELL, La formazione dei concetti scientifici

nella lingua greca, in “La cultura greca e le origini del

pensiero contemporaneo”. Torino [Einaudi] 1968, pp. 313-334.

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la sopravvivenza dopo la buia notte dell’evo medio.

Anche l’evento epocale della fine del mondo antico e il ripiombare dell’umanità in condizioni pericolosamente simili a quelle della preistoria devono farci riflettere – se ad essi si guarda come ad un primo sostanziale fallimento del tentativo di civilizzazione dell’ecumene – nel momento in cui il “nostro” mondo e la nostra umanità, quella del terzo millennio appena iniziato, imboccano speditamente la strada obbligata della globalizzazione: un’esperienza già vissuta dagli antichi a partire dall’età di Augusto, artefice di quel cosmo ordinato secondo i dettami della pax

Romana che fu l’ecumene antica, e che nel

periodo compreso fra il suo regno e quello degli Antonini ebbe modo di celebrare i suoi fastigi, per essere poi inghiottito tutto intero da tumultuosi movimenti migratorii di genti ‘barbare’, che lasciarono dietro di sé un mucchio di rovine (pur imponenti), e null’altro che lo

scheletro delle gigantesche

“infrastrutture” della grandezza di Roma; da allora la parte più preziosa dell’eredità residua dell’antico splendore dormì a lungo, per parecchi secoli, annidata nei fogli di cartapecora che i monaci benedettini e gli eruditi arabi andavano ricoprendo di una minuta scrittura che affidava al fragile presidio della pergamena l’inestimabile valore del codice

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genetico della civiltà divenuto in seguito il seme della rinascenza.

A queste problematiche noi ci rivolgiamo – come già i nostri progenitori greci – utilizzando quella categoria della ‘storia’ che fu senza dubbio fra le più geniali loro creazioni, ed è piuttosto di questa categoria della “storia” (intesa come matrice caratterizzante ed originaria della nostra civiltà) che parleremo nel corso delle nostre conversazioni, cercando di superare una plurisecolare barriera eretta fra scienze esatte e scienze umane e di rintracciare la comune radice di quell’insopprimibile istinto che spinse l’uomo greco a indagare la memoria del passato non meno che gli arcani della natura: delineare un pur elementare disegno dello sviluppo delle conoscenze scientifiche dell’uomo antico (e dei suoi metodi di indagine) sarà preliminare indispensabile all’ulteriore tentativo di chiarire nel concreto l’incidenza dell’uso di alcune tecniche (drenaggio e captazione delle acque, tecnica edilizia, agrimensura) sulla vita degli umani. È ovvio, del resto, che una storia della scienza propriamente detta (ossia un puntuale e sia pur conciso approccio epistemologico ai singoli saperi scientifici) sia da considerare materia assai più complessa, che non potrà mai non soltanto essere trattata, ma nemmeno accennata con qualche profitto in un corso di cultura generale.

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1.

Storia, historia,



: le

connessioni fra indagine storica e

“metodo” scientifico.

Cominciamo dunque a chiarire il concetto di storia osservando che questo vocabolo anche nella nostra lingua italiana si presenta in contesti diversi, anche di linguaggio corrente, con più di un significato: di una qualsiasi banale vicenda da raccontare si può dire che è “una lunga storia”, con allusione alla concatenazione di fatti correlati fra loro in maniera complessa, e allo stesso modo una relazione di qualsiasi tipo (non necessariamente amorosa) può essere definita “una storia”, mentre l’espressione “fare storie” può alludere a reticenze, spiegazioni o motivazioni complicate, per lo più pretestuosamente addotte. La storia insomma è una cosa da spiegare e da capire, con un prima, un dopo, azioni e reazioni dei protagonisti e, magari, rivelazioni illuminanti di retroscena ignoti agli stessi protagonisti.

C’è poi la storia che si studia sui libri, che è quella che qui ci interessa, e che è stata anch’essa accomunata nel giudizio di personaggi anche importanti, ancorché non

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specialisti, al significato corrente, illustrato sopra, di “insieme di frottole” o “chiacchiere”: così nello spicciativo giudizio di Henry Ford, il re americano dell’automobile “la storia è più o meno -un fuorviante sproloquio3 (bunk). Essa è

tradizione. Noi non abbiamo bisogno di tradizione: noi vogliamo vivere nel presente, e la sola storia che valga qualcosa è la storia che noi costruiamo giorno per giorno”4. D’altra parte, qualche

anno dopo aver detto quest’idiozia, lo stesso Ford riscattò in parte questa sua americana vocazione alla stupidità promuovendo la fondazione di un museo dell’automobile, nel quale il visitatore potesse seguire le linee evolutive della produzione dei veicoli a quattro ruote, documentata dai modelli realizzati nei pochi decenni precedenti. Non meno interessante l’etimologia della voce gergale bunk (abbreviazione di bunkum), che nello slang americano indica appunto una fandonia, e trae la sua origine dal discorso che tal Felix Walker, delegato della contea di Buncombe (North Carolina) volle fare a tutti i costi il 25 febbraio del

3 Questa traduzione di bunk forse un po’ lambiccata

-cerca di rendere il valore pregnante dello slang : la vuota chiacchiera della storia, insomma, non è solo inutile, ma anche disonesta e imbastita con l’intento di imbrogliare chi ascolta.

4 History is more or less bunk. It's tradition. We don't

want tradition. We want to live in the present and the only history that is worth a tinker's damn is the history we make today.

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1820 nella House of Rapresentatives a Washington (nel corso di una lunga ed estenuante sessione), sol perché il testo ne fosse pubblicato dai giornali e mostrasse agli elettori della sua contea che egli era membro attivo del Congresso: “I shall not

be speaking to the House - egli avrebbe

dichiarato - but to Buncombe” e da quel momento la voce bunkum, ossia il nome della suddetta contea, così storpiato dall’uso, divenne sinonimo di ogni “nonsensical language ”, e si diffuse al punto di produrre una forma abbreviata

bunk , di uso comune.

Assai più complessa e di ben altro spessore si presenta, ovviamente, l’indagine che possiamo imbastire sul vocabolo “storia”, che così si denomina dal derivato di una parola latina (historia) imprestata alla lingua volgare (‘istòria’, poi ‘storia’), nella quale l’accento cade sulla o perché la i dell’iato ia è una vocale breve, e dunque la legge della prosodia latina fa ritrarre l’accento sulla terzultima. A sua volta il latino historia è trascrizione o, meglio, traslitterazione (nelle lettere dell’alfabeto latino) di una parola greca,  nella quale si deve notare lo spirito aspro sullo iota iniziale, che indica l’aspirata, e che si conserva nella h iniziale del latino historia.

Intanto è significativo (si devono notare questi particolari apparentemente ovvii, visto che la storia è fatta di queste cose, e

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con questo metodo) che i Romani o Latini che dir si voglia, per dare un nome alla storia siano stati costretti a scegliere una parola greca, ossia straniera: è evidente che la cultura romana, allorché nel terzo secolo a.C. i Romani cominciarono a parlare di storia, non aveva ancora elaborato un vocabolo adatto a definire nella lingua latina un’attività teoretica così complessa.

Tornando al greco  che significa correntemente indagine, ricerca, è da ricordare che l’origine di questo vocabolo è assai antica, e si riconnette al vocabolo  (= colui che sa, che conosce le leggi), che è presente già nel nucleo originario dei poemi omerici, nel libro 18° dell’Iliade; i glottologi lo fanno derivare dal tema vid di oida e orao [“vedo”]: dunque è histor “colui che sa” e che sa “per aver visto” o, come vedremo, “per aver investigato su ciò che non ha visto”, dal momento che il significato corrente di

historeo è “indago”.

Il luogo omerico di cui abbiamo parlato è la descrizione (che poi diventerà archetipo di un genere letterario, l’èkphrasis) delle scene istoriate5, ossia

incise col bulino o a sbalzo dal dio Efesto (il Vulcano dei Romani), che è un bravissimo fabbro, sullo scudo che lo

5 Questo è un altro significato del vocabolo storia,

derivato anch’esso dal latino volgare (i)storia, che significa “raffigurazione di un fatto”: dunque ‘istoriare’ = ‘decorare con una scena figurata’.

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stesso Efesto fabbrica per volere della divina Teti, che dello scudo fa dono al figlio Achille (nato da Peleo e da Teti), che ne è rimasto sprovvisto per avere imprestato le sue armi all’amico Patroclo, ucciso in combattimento da Ettore.

Omero, come per comodità chiameremo l’anonimo o gli anonimi poeti dell’Iliade, si mostra in questo caso orgoglioso del grado di civiltà raggiunto dal suo popolo e coglie il pretesto di questa descrizione dello scudo per immaginare rappresentate, in un contesto figurato, le occasioni più caratteristiche della vita civile della immaginaria comunità: una delle situazioni che meglio si prestano ad essere scelte per comporre questa specie di sintesi figurata della civiltà coeva è una questione giudiziaria: un processo, si direbbe oggi, che si svolge presso un tribunale, dinanzi al quale i cittadini della immaginaria città assistono ad una lite per il mancato pagamento di una somma che è dovuta, come risarcimento ai familiari di un ucciso, da un omicida, ciò che sta ad indicare l’avvenuto superamento del primitivo istituto della vendetta personale secondo la legge dell’occhio per occhio, dente per dente, superstite ancora ai nostri giorni, come abbiamo potuto constatare dal

reportage televisivo andato in onda nell’autunno 2001, che ha mostrato lo sgozzamento in diretta di un omicida, operato direttamente dalla madre

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dell’ucciso sul colpevole, consegnatole legato mani e piedi dal tribunale islamico dello stato dei Talebani. Anche ai tempi della città immaginaria descritta nello scudo, in effetti, è ben verosimile che l’omicida non cadesse ancora sotto sanzioni di stato, ma fosse soggetto soltanto alla vendetta “privata” dei parenti del morto: ma nel contesto culturale

presentato da Omero, già

irrimediabilmente “contaminato” da

fermenti evolutivi anticipatori della futura “civiltà”, poteva altresì accadere che i

danneggiati dall’omicidio avessero

convenienza a sanare la controversia mediante un compenso di beni, che offriva un’alternativa incruenta al primitivo rituale della faida o legge del taglione, che in ambiente romano è documentata ancora (talio) nella lex duodecim tabularum del 451-450 a.C.

Ma vediamo cos’è esattamente questa ‘storia’ raffigurata sullo scudo, leggendo la traduzione italiana del Monti:

D’altra parte nel foro una gran turba convenir si vedea. Quivi contesa

era insorta fra due che d’un ucciso piativano la multa. Un la mercède già pagata asserìa; l’altro negava. Finir davanti a un arbitro la lite

chiedeano entrambi, e i testimon produrre.

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del popolo fremente, e i banditori sedavano il tumulto. In sacro circo sedeansi i padri su polìte pietre, e dalla mano degli araldi preso

il suo scettro ciascun, con questo in pugno

sorgeano, e l’uno dopo l’altro in piedi lor sentenza dicean. Doppio talento d’auro è nel mezzo da largirsi a quello che più diritta sua ragion dimostri. [vv. 690-706]

Dunque, di fronte alle pretese di uno dei familiari dell’ucciso, che reclama il risarcimento, l’omicida (a sua volta attorniato dai suoi familiari) oppone di aver già provveduto al pagamento della multa, e dunque si origina la lite fra due partiti i quali alla fine decidono di rivolgersi ad un “arbitro” che dirima la controversa questione, ossia, nel testo greco (501): [epì

hìstori pèirar elèsthai]; ed ecco entrare in

ballo questa primigenia quanto enigmatica figura di histor.

Il discorso che abbiamo in mente di fare sulla “storia” di questo vocabolo non può ovviamente prescindere da una accurata analisi delle sue occorrenze nella più antica letteratura del popolo greco6. Oltre

6 L’indagine è stata affrontata più d’una volta, ma basterà

qui rinviare alle pagine scritte su questo argomento da C. DEL GRANDE, Nascita della . Prolusione al corso

di Letteratura greca pronunciata nell’Università di Bologna il 16 febbraio 1949. Napoli [Ricciardi] 1952, pp.

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che nel diciottesimo libro dell’Iliade il vocabolo histor ricorre anche nel libro ventitreesimo del poema, nella rapsodia sui giochi funebri in onore del defunto Patroclo. Anche in questi versi vediamo delinearsi una disputa - rinforzata da una scommessa - fra due “tifosi” di opposte fazioni che assistono alla gara delle bighe:

Nel circo assisi intanto i prenci achei

stavansi attenti ad osservar da lungi i volanti cavalli che nel campo

sollevavan la polve. Idomeneo

re de’ Cretesi gli avvisò primiero, che fuor del circo si sedea sublime a una vedetta. E di lontano audita del primo auriga, che venìa, la voce, lo conobbe, e distinse il precorrente destrier che tutto sauro in fronte avea bianca una macchia, tonda come luna. Rizzossi in piedi e disse: O degli Achei prenci amici, m’inganno, o ravvisate quei cavalli voi pure? Altri mi sembrano da quei di prima, ed altro il condottiero. Le puledre che dianzi eran davanti

forse sofferto han qualche sconcio. Al certo

girar primiere le vid’io la meta;

or come che pel campo il guardo io volga,

più non le scorgo. O che scappar di mano

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all’auriga le briglie, o ch’ei non seppe rattenerne la foga, e non fe’ netto

il giro della meta. Ei forse quivi

cadde, e infranse la biga e le cavalle devïar furïose. Or voi pur anco

alzatevi e guardate: io non discerno abbastanza, ma parmi esser quel primo l’ètolo prence argivo Dïomède.

Che vai tu vaneggiando? Aspro riprese

Aiace d’Oïleo. Quelle che miri

da lungi a noi volar son le puledre. Più non sei giovinetto, o Idomenèo:

la vista hai corta, e ciance assai, né il farne

molte t’è bello ov’altri è più prestante. Quelle davanti son, qual pria, d’Eumèlo le puledre, e ne regge esso le briglie. E a lui cruccioso de’ Cretesi il sire: Malèdico rissoso, in questo solo

fra noi valente; ed ultimo nel resto, villano Aiace, deponiam su via

un tripode e un lebète, e Agamennòne

giudichi e dica che corsier sian primi,

e pagando il saprai. [vv. 583-625] Il signore di Creta, Idomeneo, è in disaccordo con un altro dei capi, Aiace Oileo, su chi è in testa, ed è da costui schernito e chiede quindi che fra loro due sia Agamennone, anche per la sua autorevolezza di comandante in capo degli Achei, a fare da histor (v. 486).

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Dunque, già in Omero le valenze del vocabolo si presentano con sfumature diverse (come mostra un elementare confronto fra i due contesti narrativi) per le quali nel seguito della sua evoluzione la lingua greca principiò a distinguere, dentro il generico concetto di “giudice”, fra il significato di “uomo capace di indagine” (kritès) e quello di “custode e conoscitore delle leggi” (dicastès o

thesmothetès). Per l’histor omerico i più

autorevoli lessici giudicano unanimemente che esso sia formato dalla radice [leggi: vid] di orào e di òida (= “ho visto”, e quindi, “so”), radice indoeuropea conservata nel verbo latino video (= “io vedo”); quanto al significato si registra -negli stessi lessici - una oscillazione fra “colui che sa” (perché ha visto: una traduzione che aderisce all’etimologia) e “giudice” (traduzione desunta dai contesti dei luoghi citati). Agamennone, nel secondo dei due contesti, può fare da

histor fra Idomemeo e Aiace “perché

conosce meglio degli altri i cavalli dei concorrenti, perché ha una buona vista a scorgere i segni a distanza, e soprattutto perché, moderatore supremo dell’esercito, è l’unico ad avere posizione preminente tra due eroi, capi di schiere anch’essi”. Nella scena dello scudo di Achille, invece, histor è colui che sa di costumanze e leggi e contemporaneamente è capace di inquisire sulla verità di un fatto tra versioni

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contraddittorie e diverse, e dunque uno che sa un mestiere, una disciplina di cui altri discute, e la sa al punto da essere buon giudice di quello che sia il vero, anche se questo vero è da individuare fra pareri e testimonianze contrastanti.

Giudice e conoscitore è anche l’histor menzionato da Esiodo7, che istruendo i suoi

sceltissimi lettori sulle qualità dei singoli giorni del mese dice che ogni “grande ventesima” nasce un uomo che possa essere histor, ossia un giudice fornito di tutti i requisiti: saggio, prudente, accorto, equilibrato, onesto; in un verso di Sofocle, invece, a proposito della morte di suo padre, Elettra (v. 850) afferma di essere

histor, anzi, yperhistor, ossia una che ha

visto con i propri occhi come sono andate le cose, e dunque il termine scende al significato più umile di testimone oculare, che sa perché ha visto: una accezione che resta anche nel linguaggio giuridico di età romana, come mostra un’iscrizione di Tespie nella quale, per giunta, il vocabolo è attestato nella presunta forma originaria

8.

7 In ESIODO, Le opere e i giorni, (composto fra VIII e VII

secolo), al v. 792 sg. leggiamo:  (= “Grande è il ventesimo [scil. giorno del mese]! Al suo culmine potrai generare un bel maschio, ed esso sarà di mente molto accorta). Curioso il riscontro con il 21 maggio, sacro a Giano agonio nel calendario romano.

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Ma il confronto più illuminante ai fini del nostro discorso sul nesso originario fra indagine storica e metodo scientifico è offerto da un frammento di Eraclito (avremo modo di parlare di lui ancora più avanti), nel quale il vocabolo appare mostrando per intero la “pregnanza” del suo valore, allorché si afferma che “di ben molte cose conviene che siano indagatori (historas) gli uomini che professano filosofia”. Si è notato, a questo riguardo, che “chi conosce la dizione di Eraclito e sa come egli ritenesse che la ossia

l’avere imparato molte cose, non fa

(ossia non fa “mente”, non fa “intelletto”, non fa vera scienza, insomma), comprende bene come egli intendesse qui histor, oltre che con il significato spicciolo di “colui che sa”, anche con quello più specifico di “ricercatore”, e non tanto di leggi umane, come era per l’histor di Omero e di Esiodo, quanto delle forme e delle leggi della vita fenomenica, per giungere ad un assoluto da mirare come verità: histor è dunque, per Eraclito, chi ricerca, chi indaga ciò di cui si può giungere alla scienza. Ed è questa infatti, nella maggioranza dei casi, la valenza semantica originaria dei derivati di histor, ossia del verbo  e del

sostantivo ; il verbo si presenta con

il significato di cercare di sapere, indagare, inquisire, e nella forma 

è documentato nel Prometeo di Eschilo (v. 956) con il significato di “chiedere per

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sapere”, analogo a quello del latino

quaero, per il quale è da confrontare il quaistor o quaestor paricidas della lingua

latina arcaica, che designa il magistrato che indaga sull’omicidio di un cittadino (il

paricidium, e non semplice homicidium,

che non sempre è considerato reato). Il vocabolo , al suo primo apparire,

significa dunque “ricerca per giungere a qualcosa” che sia possibile conoscere, a vantaggio e a frutto di patrimonio comune del sapere, e anche in questa forma di sostantivo ricorre in un frammento dello stesso Eraclito, conservato da una citazione di Diogene Laerzio9: “Pitagora

(figlio) di Mnesarco più di tutti gli uomini curò l’ , e avendo fatto una scelta di

queste esposizioni (cioè delle , gli

scritti composti prima di lui) creò la propria sapienza, erudizione, possesso di mezzi a fini malvagi”. Dal momento che la tradizione è concorde nel non attribuire a Pitagora interessi che noi oggi diremmo “storici”, è chiaro che il fisico Eraclito intendeva riferirsi ad una ricerca nel campo dei medesimi problemi che assillavano le menti degli altri “presocratici”, con la stessa accezione che - del resto - ritroviamo nel Fedone platonico, dove Socrate ne parla in modo negativo, quasi come di una malattia infantile di quel genio che poi si sarebbe evoluto verso la vera speculazione

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filosofica: “Vedi, Cebete, quand’ero giovane io mi sentivo trasportato in modo straordinario verso quella scienza che indaga sui misteri della natura, quella che

chiamano storia naturale

(). Oh! Sapere le cause di

ciascuna cosa! Sapere il perché ciascuna cosa viene alla vita, perché si dissolve, perché esiste. Quante volte mi sentivo tutto sconvolto, quando cercavo la risoluzione di problemi come questi: non è forse vero che quando un misterioso processo, che par di putrefazione, interviene nel caldo e nel freddo, taluni affermano che allora appunto i viventi prendono tutti insieme consistenza e forma? Oppure è forse il sangue l’elemento che consente il pensiero all’uomo? L’aria, forse? Il fuoco? Oppure nessuno di questi elementi, e invece il cervello è suscettivo di produrre le sensazioni dell’udito, della vista, dell’odorato? Da queste sensazioni proviene il ricordo (), l’ opinione (;

e a sua volta dal ricordo e dall’opinione, resi tranquilli e profondi, si viene formando, appunto con questo processo, la scienza ()10”.

Da questo significato originario di storia come “storia naturale”, quale doveva essere magistralmente illustrato nell’opera di Anassagora (che di fatti è citato subito dopo da Socrate nel prosieguo delle sue argomentazioni in risposta a Cebete) e

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ancora superstite nella locuzione italiana a motivo della fortuna del titolo della

Naturalis historia di Plinio, si passò poi al

significato divenuto predominante di storia quale oggi l’intendiamo, attestato già nel proemio delle Storie di Erodoto: “Questa è la esposizione della historìa di Erodoto di Turi, perché di quanto è avvenuto da parte degli uomini il ricordo col tempo non svanisca, né rimangano senza gloria le opere grandi e meravigliose compiute dai Greci e dai barbari”. In questa “esposizione di ciò che si sa” fatta da Erodoto la materia è chiaramente storica (le gesta dei Greci e dei barbari), ma il metodo d’indagine è quello già affinato e sperimentato nelle scuole filosofiche della Ionia ed in quelle italiche della Magna Grecia: un metodo maturato in un contesto di grecità di frontiera che, senza negare il divino, sceglieva però di non fermarsi al racconto tradizionale e indiscriminato del mito e lo sottoponeva al vaglio della ragione.

Da tutto quel che abbiamo detto risulta chiaro che historìa fu in un primo momento ricerca razionale pertinente ai problemi dell’essere e del divenire, e solo in un secondo momento ricerca, fatta con un siffatto metodo, portata sui fatti che più propriamente chiamiamo storici; mentre la notizia secondo cui ancor prima di Erodoto fu Ecateo di Mileto a comporre in prosa una historìa induce a ritenere non usurpata

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la fama di “padre della storia” che egli contese ad Erodoto già nell’antica letteratura dossografica: come Pitagora, portando un suo metodo di ricerca e di discriminazione intuitiva sulle syngraphài esistenti di argomento religioso e filosofico (non necessariamente tutte in lingua greca) aveva formato una sua scienza (chiamata filosofia, e non semplicemente

sophia), così Ecateo, applicando alle syngraphài di materia narrativa il medesimo metodo, o un altro più o meno simile, aveva stabilito una sua versione personale della storia primitiva dell’Ellade, e questo suo metodo si era a tal punto sposato a quella materia che il vocabolo

historìa (che ancora in Eraclito, come

abbiamo visto, designava il metodo, e non la materia) in breve passò a significare quel che noi diciamo racconto storico o anche storia nell’accezione comune. Quello che in seguito distinguerà la storia dalla scienza sarà “l’emergere di un paradigma scientifico imperniato sulla fisica galileiana” e sul rigore “nell’impiego della matematica e del metodo sperimentale, che

implicavano rispettivamente la

quantificazione e la reiterabilità dei fenomeni”, mentre la prospettiva individualizzante delle discipline basate sul paradigma indiziario (tali, oltre alla storia, la medicina) “escludeva per definizione la reiterabilità del fenomeno ed ammetteva la quantificazione solo con funzioni

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ausiliarie”. Si presenta di particolare

interesse, a questo riguardo,

l’osservazione di Carlo Ginzburg11 (l’autore

del contributo che stiamo citando) che una conferma di questa divergenza si ebbe nel corso del XVII secolo, allorché “l’innesto dei metodi dell’antiquaria sul tronco della storiografia portò indirettamente alla luce le lontane origini indiziarie di

quest’ultima”: origini, possiamo

aggiungere, delle quali l’uomo antico fu ben consapevole, individuando come precipua funzione della storia la trattazione della “materia non sottoposta a regole metodiche”12.

Dunque, nella funzione specifica (non ancora scissa dal complesso articolarsi della teoresi) che abbiamo vista affidata all’histor omerico, che deve ricostruire dopo attente ricerche un frammento del passato noto solo ai protagonisti (uno dei quali, con ogni evidenza, mente) e che egli

11 C. GINZBURG, Spie. Radici di un paradigma indiziario , in

“il segno dei tre. Holmes, Dupin, Peirce” a cura di UMBERO ECO e THOMAS A. SEBEOK. Milano [Bompiani]

1983, p. 111.

12 Così affermava TAURISCO (discepolo di CRATETE DI

MALLO) citato da Sesto Empirico, medico e filosofo

scettico, appartenente alla scuola medica empirica, nel trattato Contro i matematici 1, 249:   . Poco più avanti, si ribadisce la concordia dei teorici: Cfr. S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico, I, Bari 1965, p.

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deve in qualche modo “vedere” (ossia ricreare, ricostruire) servendosi degli indizi di cui può venire a conoscenza (per il mezzo della escussione dei testi e di indagini su altre fonti): in questa funzione, si diceva, viene in qualche modo definito in

nuce, in un testo antichissimo, il compito

che sarebbe stato dello storico, al quale si richiede, ora come ai tempi di Tucidide o Tacito o Machiavelli, una facoltà che è almeno in parte divinatoria, come ribadito dalla teoria humboldtiana del “dono degli annodamenti” (di Verknupfungsgabe parlò infatti Karl Wilhelm von Humboldt [1767-1835]), e, più di recente, nelle citate pagine di Carlo Ginzburg, alle quali si rinvia, e nelle quali si parla di “abduzione”, “intuizione bassa” (facoltà posseduta per eccellenza dal sesso femminile), il lavoro dello storico si trova ad essere sempre più accostato a quello di un giudice, o di un poliziotto indagatore (un detective come Holmes), che cercano il colpevole, o di un medico che cerca la causa, a volte nascostissima, di uno stato di infermità distinto da particolari sintomi, o viene accostato a quello dello scienziato che fa una importante scoperta scientifica (si pensi alle leggi gravitazionali intuite da Isaac Newton o all’esistenza delle onde radio, svelata dal nostro Marconi), o di un cacciatore che insegue una preda sulla base dei segni che questa lascia sul terreno. Anche qui l’intuizione “bassa”

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gioca un ruolo predominante: per tutte queste situazioni è infatti indispensabile una buona dose di ‘sensitività’ che si potrebbe dire animalesca (si pensi, nell’ambito dell’analogia del cacciatore, all’abitudine degli animali di occultare i propri escrementi a scopo difensivo, già prima che contro i cacciatori, contro altri animali predatori); una facoltà insomma che affonda le sue radici, così come la distinzione fra i sessi, ad un’epoca assai antecedente all’evoluzione della dell’homo

sapiens e all’elaborazione della logica

deduttiva aristotelica.

Vale la pena di aggiungere, a chiusura delle poche pagine che abbiamo dedicato ad un tema così affascinante e complesso (la nascita del sapere critico) che quella originaria fiducia che il popolo dello scudo di Achille accordava alla maestosa persona dell’histor venne a poco a poco scemando,

insieme con l’autorevolezza del

personaggio e col dissolversi dei valori aristocratici dell’antica società. La sicurezza di giudizio del venerando veggente fu ben presto inficiata dai calcoli di giurie corrotte da denaro o divenne sicurezza impunita ed arrogante del potere, naturalmente nemica e diffidente nei confronti di ogni occhio scrutatore. Così già Platone esprimeva la convinzione che nei processi “retori e avvocati fanno credere ciò che vogliono” ai membri delle giurie, ed aggiunge (quasi a commento

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dell’ingenuità di quella antica fiducia): “oppure pensi che esistano maestri così abili che mentre un po’ d’acqua scorre giù dalla clessidra, riescano ad insegnare il vero svolgimento dei fatti a chi non ha visto con i suoi occhi la persona che è stata derubata [ = mentre è stata derubata] di denaro o ha subito qualche altra violenza?”13. Viene in mente, dopo un salto

di quasi 25 secoli, la memorabile battuta del film Anni di piombo della von Trotta: la protagonista (impersonata dall’attrice Jutta Lampe), redattrice di un settimanale di grande diffusione, vive traumaticamente la morte recente di sua sorella, una terrorista affiliata alla Rote Armee Fraktion (Barbara Sukova) arrestata dalla polizia e, secondo la versione ufficiale, impiccatasi in carcere. Dopo una appassionata quanto minuziosa indagine la giornalista giunge alla conclusione, documentata da un insieme di prove, che sua sorella non si è suicidata, ma è stata strangolata in cella, e si rivolge al capo redattore del suo giornale, chiedendogli di pubblicare quel corposo dossier diligentemente elaborato, proponendolo come uno scoop. Ma l’idea viene bocciata dal direttore della rivista, che bonariamente rimprovera la giovane per la fatica che ha sprecato a mettere insieme quel lavoro dedicato ad un fatto, accaduto qualche anno prima, in un

13 Teeteto, 201 a-c.; considerazioni sul metodo dell’historia anche

(31)

passato che egli considera, dal suo punto di vista, remoto. Queste cose, egli osserva, non hanno lo smalto dell’attualità, non vanno bene per un settimanale che vende centinaia di migliaia di copie, e inoltre lo scritto ha una estensione spropositata (più di 60 cartelle, se ben ricordo) e può andar bene tutt’al più per “la pattumiera della storia”14.

Sembra superfluo chiosare che nessuno di noi, ovviamente, ha nostalgia dei crimini terroristici della RAF (ma viviamo in tempi bastevolmente tristi a giustificare queste precisazioni): in ogni caso quest’immagine della pattumiera della storia conserva, indipendentemente dal contesto che ho richiamato, un potente valore icastico che mi è sembrato valesse la pena di di citare, ed è quasi inutile aggiungere come chi scrive condivida, tutto sommato, la durezza di quella spietata sentenza. Ogni società può misurare con esattezza l’avanzamento del suo stato di sfacelo dando una semplice occhiata al valore che viene comunemente assegnato alla ricerca della verità, oltre che alla scadente qualità (tale da meritare la pattumiera) del prodotto elaborato nel nome di quella ricerca.

(32)

2.

Elementi di cronologia.

Nel 1956 la RAI promosse una giornata di studio celebrativa del bimillenario delle idi di marzo del 44 a.C., giorno dell’uccisione di Gaio Giulio Cesare il dittatore. Il calcolo che aveva portato alla scelta di quella data era molto semplice:

1956 +

44 = 2000

Eppure, a celebrazione avvenuta, il solito guastafeste fece notare, con un certo clamore, che al 15 marzo del 1956 il bimillennio dalla morte di Cesare non era ancora compiuto. In effetti se facciamo lo stesso calcolo con un procedimento analitico accurato, vediamo che i nove mesi e mezzo intercorsi fra le idi di marzo e il 31 dicembre di quello stesso anno 44, sommati con i 43 anni intercorsi fra il capodanno del 43 e il 31 dicembre dell’anno uno a.C., e ancora sommati con i 1955 anni che hanno preceduto il 1956, e i due mesi e mezzo intercorsi fra il primo

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gennaio e il 15 marzo del 1956 abbiamo un totale (9,5 mesi + 43 anni + 1955 anni + 2,5 mesi) di 1999 anni. Dunque è ben vero che il bimillenario poté compiersi solo il 15 marzo 1957. Se ora utilizziamo un procedimento ugualmente elementare per calcolare la prima ricorrenza del millennio dall’incoronazione di Carlo Magno, avvenuta a Roma il giorno di Natale dell’800 d.C., otteniamo (800 + 1000 = 1800; oppure, che è lo stesso, 1800 – 1000 = 800) che il millennio si compì nel Natale del 1800, e allo stesso risultato perverremo applicando un calcolo analitico (5 giorni, gli ultimi, dell’800 d.C. + 999 anni trascorsi dal capodanno dell’801 d.C al 31 dicembre 1799 d.C. + 360 giorni fra il capodanno 1800 e il 25 dicembre dello stesso anno = 1000 anni).

La spiegazione ovvia di questa apparente incongruenza è che mentre il periodo trascorso fra l’800 e il 1800 contiene l’anno 1000, ossia un anno “zero” che fu l’ultimo del primo millennio d.C., nel calcolo del bimillenario di Cesare abbiamo a che fare con un millennio (il primo millennio a.C.) che non finì con un anno “zero”, ma con l’anno 1 a.C., nel quale il 31 dicembre fu contiguo al primo gennaio dell’anno 1 d.C. Dunque il millennio precedente, l’ultimo della serie a.C., fu

(vedremo perché) senza l’anno “0”

postulato dalla serie algebrica dei numeri che noi utilizziamo per far di conto

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seguendo il “principio posizionale”. In virtù di questo principio, che da quasi otto secoli applichiamo già da bambini, alle scuole elementari, facendo sottrazioni e addizioni di numeri incolonnati, i dieci segni numerali (1,2,3,4,5,6,7,8,9,0) ci permettono di rappresentare ogni numero intero mediante la convenzione che ogni segno o cifra indichi unità dei vari ordini (unità, decine, centinaia, migliaia etc.) a seconda della posizione che esso occupa nel numero. Questo metodo di calcolo fu in Occidente introdotto nella pratica ad opera di Leonardo Fibonacci, noto anche con il nome di Leonardo Bigollo, o Leonardo Pisano, mentre il suo cognome Fibonacci deve considerarsi derivato da una abbreviazione del suo patronimico: fi(lius)

Bonacii. Il padre di Leonardo, che si

chiamava appunto Bonacio, assegnato dalla sua patria (la repubblica di Pisa) alla dogana di Bugia presso Algeri, lo fece colà istruire “nell’abbaco detto degl’Hindi” ossia degli Indiani che, a detta degli Algerini maestri di Leonardo in quest’arte, erano stati i primi inventori di quel sistema. Leonardo si appassionò molto a questo sapere, al punto di indagare quanto in materia si studiava non solo in Provenza e in Sicilia, ma anche in Egitto e in Siria, luoghi che egli per ragioni di commercio dovette visitare, e dunque “abbracciando più strettamente il modo degl’Hindi e aggiungendo qualcosa del proprio

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pensiero, e qualcosa prendendo delle sottigliezze d’Euclide”, compose tutto ciò nel suo Liber abaci pubblicato nel 1202 e ampliato in una seconda edizione del 1228. Una rassegna anche breve dei meriti da ascrivere al Fibonacci per l’impulso che dalla sua opera di divulgazione venne alla conoscenza della matematica ci porterebbe lontano: ne abbiamo fatto cenno solo per introdurre questa breve trattazione intesa a fornire le coordinate indispensabili alla percezione delle differenze più o meno evidenti fra l’uso antico delle partizioni cronologiche e il nostro modo attuale di concepire il tempo e i calcoli di cronologia, nei quali dunque la serie degli anni avanti e dopo Cristo non va trattata come una serie algebrica, a meno di non introdurre un correttivo che ponga rimedio all’assenza dello zero.

L’acquisizione alla nostra cultura del concetto di “zero” e l’uso (nel calcolo) del “principio posizionale” risalgono dunque esattamente a otto secoli fa, ad un momento cioè in cui già si era affermata nella cultura europea una intuizione del tempo che si è definita “lineare”, indotta in primo luogo dal grande influsso esercitato dal cristianesimo sulla storia dell’umanità: un influsso che comportò una rilettura del passato ed una riconsiderazione dei tempi storici, che vennero ridistribuiti sui due versanti di uno spartiacque epocale

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provvidenziale della nascita del Cristo, considerato centrale e risolutivo ed assunto come punto d’inizio della nuova èra, che poi si sarebbe denominata èra cristiana o anche “èra volgare” con allusione al fatto che per lungo tempo, come vedremo, essa fu utilizzata comunemente dai cronisti e dagli storici, ma solo in età relativamente recente, ben dopo il Concilio di Trento, fu adottata dalle cancellerie nella redazione di documenti ufficiali.

Lo “stile moderno” attualmente in uso nel nostro calendario si distingue

propriamente come “stile della

Circoncisione”, che fa iniziare l’anno nel primo giorno di gennaio, il giorno in cui Gesù Cristo fu portato nel Tempio e circonciso secondo il rito giudaico. A lungo contrastato dalla Chiesa durante il Medio Evo, lo stile della Circoncisione finì per affermarsi verso la fine del XVI secolo, ed è riconoscibile nella formula introduttiva

A.D., ossia annus Domini, “anno del

Signore”, detto anche annus

circumcisionis; ma quest’ultima dizione è

poco usata, così come è ormai obsoleta, nel nostro uso quotidiano, la formula A.D., che invece viene ancora usata correntemente nelle nazioni di cultura anglosassone. Da noi si usa più comunemente, quando si vuole precisare l’attribuzione dell’anno all’èra volgare, la sigla d.C. (dopo Cristo).

(37)

Lo “stile della Circoncisione” fu

preceduto dallo stile detto

“dell’Annunciazione” o “dell’Incarnazione” con allusione all’annuncio fatto alla Vergine dall’angelo Gabriele dell’avvenuta incarnazione del Verbo: data della annunciazione, considerata durante il Medio Evo inizio dell’anno civile, era ritenuta il 25 marzo, ossia nove mesi esatti prima del giorno di Natale, e anche in coincidenza con l’equinozio di primavera. Ma anche in questo stile della Annunciazione si distinsero varii computi (fiorentino, pisano etc.) che comportavano non piccoli sfasamenti fra l’anno civile e l’anno “comune” (quello che, come già in età romana, iniziava il primo di gennaio e si chiudeva col trentun dicembre15).

Primo ad utilizzare il computo degli anni nella nuova èra volgare era stato

Dionigi il Piccolo (Dionysius

autodenominatosi per modestia exiguus), monaco originario della Scizia (una regione della Russia meridionale), ma che visse a lungo a Roma, dove fu assai apprezzata la sua attività di computista e canonista, e dove morì nel 526 o, secondo studi più recenti, nel 545 d.C., allorché l’impero romano d’Occidente era “caduto” (nel 476) da quasi ottanta anni, e sul trono d’Oriente sedeva (dal 527) l’imperatore

15 Bene illustrano la complessità del problema le tabelle

alle pp. 40-41 del Manuale di cronologia di MARCELLO

DEL PIAZZO, Roma 1969 (Fonti e studi del Corpus

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Giustiniano. Con la dichiarata intenzione di oscurare il computo cronologico maggiormente diffuso ai suoi tempi, basato sull’èra di Diocleziano (un imperatore pagano e per di più considerato impius et

persecutor) Dionigi approntò una tavola

cronologica che segnava la successione degli anni prendendo come punto di riferimento la nascita di Cristo, che egli fissò al 25 dicembre dell’anno 753 ab Urbe

condita, ossia “dalla fondazione di Roma”.

Il primo anno della nuova èra fu dunque l’anno 754 di Roma, dal momento che, nelle sequenza inaugurata da Dionigi, al 31 dicembre dell’anno 1 a.C. fece seguito immediatamente il primo gennaio dell’anno 1 d.C., né Dionigi poteva pensare – per i motivi sopra esposti – di inserire un “anno 0” fra gli anni contigui delle due ère.

La fortuna di cui il computo di Dionigi poté godere (quasi del tutto indisturbato) per più di 1400 anni ne ha ormai consacrato l’uso universale, e si è convenuto di non correggere quel calcolo da lui effettuato nel VI secolo anche dopo che se ne è accertata la consistente inesattezza: la effettiva data di nascita del Cristo pare infatti si debba collocare non nel 753, ma nel 747 o nel 748 di Roma, e dunque essa andrebbe “retrodatata” di 6 o 7 anni16. Un indizio ulteriore, questo, di

16 Si veda a questo riguardo già il contributo di E.

MILLOSEVICH, L’Èra Volgare, in “La Nuova Antologia”

1894, fasc. 21, pp. 134 e ancora, più recentemente, le conclusioni di G. F , Il problema cronologico della

(39)

come anche quella categoria del tempo (che siamo avvezzi a considerare inequivocabilmente scandita ab aeterno, in armonia con il moto dei corpi celesti) riveli tutta la fragilità delle umane costruzioni, ancora stimolandoci ad individuare con chiarezza l’intersezione dei vari sistemi cronologici, antichi e moderni, in corrispondenza del “luogo geometrico” a suo tempo indicato da Dionigi come spartiacque fra la nuova èra cristiana e la precedente, anche se questo significa addentrarsi un po’ in una problematica storica riservata in genere a specialisti, che solo l’avvento recente del terzo millennio ha reso effimeramente attuale.

Anche la nostra epoca, dotata dei più sofisticati strumenti di accertamento della realtà fisica, produce errori clamorosi, per i quali l’esistenza di istituzioni e specifiche competenze addette al calcolo del tempo non fa che aggiungere l’aggravante della malafede al diffondersi di timori “millenaristici” (lo spettro informatico del

millennium bug) o all’organizzazione

capillare dei piccoli inganni di migliaia di agenzie turistiche che in tutto il mondo, anticipando di un anno l’avvento del nuovo

millennio, hanno subdolamente

strumentalizzato l’analfabetismo di massa

alimentandone le più bislacche

interpretazioni e vendendo per ben due anni di seguito a prezzi maggiorati

(40)

soggiorni appositamente confezionati per un presunto cambio di millennio fra il 31 dicembre 1999 e 1 gennaio 2000, salvo poi a correggere l’errore per ripetere la stessa operazione in vista del “vero” passaggio dal secondo al terzo millennio, avvenuto nella notte fra il 31 dicembre 2000 e il 1 gennaio 2001.

Nell’ottica di un doveroso recupero delle nozioni elementari della cronologia storica, che ben si colloca a questo punto della nostra trattazione (di seguito alle pagine che abbiamo voluto dedicare alle origini greche del metodo critico d’indagine), devono dunque essere ben chiare le coordinate del nostro viaggio a ritroso nel tempo: un viaggio che è iniziato dal nostro presente, dal corrente anno 2004 dell’èra volgare, o era cristiana, che non soltanto è quella nella quale si sta svolgendo la nostra vita, ma che è anche il metro che utilizziamo nella nostra misurazione e dunque immediata percezione del passato storico.

All’altro capo del filo sottile che si è venuto tessendo nel corso dei millenni abbiamo individuato la mezzanotte fra il 31 dicembre dell’anno 1 a.C. e il primo gennaio dell’anno 1 d.C. Un punto fermo che fu segnato (in modo inesatto, come abbiamo visto) nel corso del sesto secolo d.C. Di questa invisibile sonda, subdolamente immessa nel loro tempo da un futuro per essi inesistente quanto

(41)

inimmaginabile, gli antichi nostri progenitori contemporanei di Augusto (o di Cristo, che aveva già i suoi 6 o 7 anni) nulla potevano sospettare, e tocca piuttosto a noi di “indagare” in quale contesto cronologico sia andato a ficcarsi il famigerato punto d’inizio della “nostra” èra, tenendo presente la nozione di “anno comune” cui per comodità faremo riferimento nei nostri calcoli; chiameremo infatti anno comune l’anno solare di 365 giorni (e ci faremo rientrare anche quello di 366, detto più correttamente “bistestile”) scandito naturalmente dal succedersi delle stagioni e con esse anche ben sincronizzato in armonia con equinozi e solstizi, almeno a partire dalla riforma giuliana del calendario, introdotta da Gaio Giulio Cesare il dittatore nel 46 a.C.; ma

potremo anche convenzionalmente

utilizzare questa denominazione di anno comune anche per gli anni antecedenti alla riforma giuliana, e immaginare che gli eventi datati ad anni precedenti il 46 a.C. siano collocabili nella serie degli anni comuni retroattivamente generati da quella riforma. La griglia degli anni comuni si rivela particolarmente comoda per la nostra semplificazione, perché essa si armonizza alla perfezione con il nostro stile cronologico detto “moderno” (o “della Circoncisione”, come abbiamo visto): possiamo anzi dire che lo stile moderno sia stato una specie di ritorno all’antico, una

(42)

restaurazione dell’antico anno civile dei Romani, i quali già duemila anni fa ne seguivano puntualmente le scadenze (annotate nei fasti, ossia nel calendario) nel disbrigo dei pubblici affari. Il sistema magistratuale romano sia durante l’età cosiddetta repubblicana (509-31 a.C., quando i magistrati erano i detentori effettivi del potere politico), sia durante l’età imperiale (31 a.C. – 476 d.C., quando essi divennero prima collaboratori del principe, poi suoi dignitari), era infatti imperniato sulla annualità delle cariche e il primo giorno di gennaio era il giorno in cui i magistrati, in primo luogo i due consoli (i sommi magistrati), entravano in carica, per poi uscirne alla fine dell’anno (questo in realtà avvenne solo in età repubblicana avanzata: nei primi tempi l’anno iniziava col mese di Marzo, ossia dopo il mese di febbraio e l’eventuale mese intercalare). Così per l’anno comune 1 a.C. sappiamo bene, da un gran numero di documenti sicuri, che i due consoli entrati in carica il primo gennaio furono Cosso Cornelio Lentulo e Lucio Calpurnio Pisone, e che furono questi due consoli a dare il loro nome all’anno nella documentazione ufficiale dello stato (a questo si allude quando si dice che i consoli ordinarii erano magistrati “eponimi”).

L’elenco delle coppie consolari di eponimi, i cui nomi vennero usati per esprimere la data, si è conservato quasi del

(43)

tutto integralmente per la lunghissima serie degli anni comuni compresi fra il 509 a.C. (= 245 a.u.c., data di avvento della cosiddetta repubblica, dopo la cacciata del re Tarquinio, allorché furono consoli Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino) fino all’anno 476 d.C. (l’anno della caduta dell’impero d’Occidente, corrispondente all’a. 1229 a.u.c.), ed ancora oltre: ultimo a ricordare nella sua titolatura la dignità consolare (ormai ridotta a irriconoscibile larva dell’antica funzione) fu, nel 613 d.C., l’imperatore d’Oriente Eraclio.

Nello stesso anno comune 1 a.C., il 21 aprile, si compiva l’anno 752° dalla fondazione di Roma, e iniziava dunque l’anno 753° dell’era ab urbe condita, che sarebbe giunto a termine il 20 aprile del successivo anno 1 d.C.: in questo senso va dunque inteso il conguaglio dato da Dionigi il Piccolo, che collocò la nascita di Cristo al 25 dicembre di questo anno.

Dei sistemi cronologici in uso al momento cruciale dell’inizio dell’èra cristiana non possiamo dar conto analiticamente: si tratta di un groviglio inestricabile di ère più o meno locali, il cui inizio era stabilito per lo più all’anno di fondazione delle singole città-stato. L’avvento dell’impero aveva complicato

ulteriormente questa complessità,

generando eventi che avevano dato luogo alla fondazione di nuove ère: tale, ad esempio, l’era aziaca (con inizio al primo

(44)

gennaio del 30 a.C., anno successivo a quello della battaglia di Azio e dunque della vittoria di Ottaviano su Antonio e Cleopatra), e tali le numerose ère provinciali dei vastissimi territori – future “nazioni” – che formavano le provincie dell’impero, nei quali gli atti pubblici venivano spesso datati, oltre che con l’anno di regno dell’imperatore e con quello della sua potestà tribunicia, anche con l’annus provinciae, fissato in corrispondenza del momento dell’avvenuta sottomissione al governo Roma. Ma almeno di due di queste ère (anno dell’Olimpiade e anno di Roma), divenute riferimenti cronografici di uso universale, vale la pena di parlare un po’ più diffusamente.

La prima celebrazione delle cosiddette Olimpiadi, ossia degli agòni panellenici che solennizzavano la festa in onore di Zeus, risale al 776 a.C. e si colloca dunque alle soglie dell’età storica, presentandosi come la più antica istituzione “civile” del mondo occidentale. La lingua greca distingue, a dire il vero, fra gli Olýmpia, ossia la ricorrenza vera e propria, con sacrificio, mercato e agòni o giochi, che solennizzavano la festa nel santuario di Olimpia (sorto non lontano dalla mitica città di Pisa nell’Elide), e la Olympiàs (Olimpiade), che era propriamente il ciclo di quattro anni esatti che intercorreva fra ogni celebrazione e la successiva. Nel computare gli anni secondo le Olimpiadi si

(45)

citava il numero dell’Olimpiade dopo aver specificato l’anno del ciclo, di modo che – tanto per fare un esempio – la prima Olimpiade, inaugurata nell’estate dell’anno 776, poté compiere il suo ciclo completo nell’estate del 772, dopo che furono trascorsi gli anni 775, 774 e 773 (anni

solidi, ossia nei quali non vi fu

celebrazione). La festa celebrata nell’estate dell’anno 772 diede inizio alla seconda Olimpiade, ossia al secondo ciclo di quattro anni, che a sua volta si sarebbe concluso con la festa celebrata nell’estate del 768. Con il nostro modo d’intendere diremmo insomma che l’Olimpiade è un quadriennio composto, nel caso – preso come esempio – della prima Olimpiade, da quattro periodi di durata annuale, ma non coincidenti con quello che abbiamo definito anno comune: il primo anno della prima Olimpiade iniziò con la celebrazione dell’estate 776 per finire con l’estate 775; il suo secondo anno comprese dunque il periodo fra l’estate del 775 e quella del 774; il terzo iniziò nell’estate del 774 per finire in quella del 773; il quarto ed ultimo anno della prima Olimpiade, iniziato nell’estate del 773, terminò nell’estate 772, alla vigilia della festa che avrebbe segnato l’inizio della seconda Olimpiade. Questa serie di numeri (776, 772, 768 etc.) indica che l’Olimpiade cadde in tutti gli anni a.C. divisibili per 4, fino agli a. 12, 8 e 4 a.C. Il 25 dicembre dell’anno 753 di

(46)

Roma si collocò nel quarto anno della 194a

Olimpiade (iniziato nell’estate dell’anno comune 1 a.C. e terminato nell’estate dell’anno comune 1 d.C.), che infatti è uno dei punti di riferimento calcolati da Dionigi per la nascita del Cristo. La celebrazione dell’Olimpiade, caduta nell’ anno comune 4 a.C., si ripeté (dopo che furono trascorsi i tre anni solidi 3, 2 e 1 a.C.) nell’estate dell’anno comune 1 d.C., e poi ancora nel 5, nel 9, nel 13, nel 17, nel 21 e in tutti gli anni dell’èra volgare la cui cifra, diminuita di un’unità, fosse divisibile per quattro. Un editto di Teodosio il Grande nel 394 proibì il proseguimento degli Olympia come di tutti gli altri giochi pagani: l’ultima edizione celebrata fu quella del 393 d.C., ossia la 291a edizione secondo i calcoli di

L. Ziehn17, e vale la pena di notare a

questo punto che la serie delle Olimpiadi moderne, iniziata nel 1896, non tenne conto del computo antico.

Fu in base al ciclo delle Olimpiadi che

Marco Terenzio Varrone stabilì a

posteriori, in modo non meno

approssimativo di Dionigi il Piccolo, l’anno della fondazione di Roma: evento registrato dai fasti in corrispondenza del 21 aprile (il giorno in cui veniva celebrata la ricorrenza), che Varrone indicò in quel 21 aprile che era caduto nel terzo anno della sesta Olimpiade, ossia all’anno olimpico iniziato nell’estate dell’anno

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