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Leptis Magna in età islamica: fonti scritte e archeologiche

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Academic year: 2021

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Enrico Cirelli

Leptis Magna in età islamica: fonti scritte e archeologiche

[A stampa in “Archeologia Medievale”, XXIII (2001), pp. 423-440 © dell’autore - Distribuito in formato

digitale da “Reti Medievali”, www.retimedievali.it].

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Enrico Cirelli

LEPTIS MAGNA IN ETÀ ISLAMICA: FONTI SCRITTE E ARCHEOLOGICHE

1. PRIMA DELL’INVASIONE

Le indagini archeologiche che hanno interessato Leptis Magna a partire dal periodo di colonizzazione italiana si sono concentrate, generalmente, sulle fasi monumentali di età romana e, seppure con minore attenzione su quelle di età giustinianea, lasciando praticamente inesplorati i perio-di successivi che segnano la decadenza e l’abbandono del-l’insediamento. Il processo storico del passaggio dall’età bi-zantina a quella islamica è pertanto difficilmente ricostrui-bile attraverso l’ausilio esclusivo delle testimonianze archeo-logiche, a causa dell’asportazione sistematica delle deposi-zioni e delle strutture murarie che si erano sovrapposte ai resti monumentali della città antica.

Alcune fonti storiche del periodo della conquista islami-ca sono state consultate dai diversi studiosi che si sono inte-ressati del fenomeno e a causa del silenzio di tali fonti han-no ritenuto la città abbandonata o destrutturata, in un pe-riodo anteriore al massimo sforzo di espansione dell’impe-ro musulmano. Una attenta confutazione di tali fonti e la consultazione di altre testimonianze di epoca posteriore di-mostreranno almeno sul piano della ricostruzione storica che l’abbandono della città è un fenomeno molto più lento di quanto si supponesse e determinato solo parzialmente da fenomeni naturali. La crisi della città non deve essere riferi-ta alla conquisriferi-ta araba, come è sriferi-tato accerriferi-tato in diversi al-tri casi nel Maghreb 1. Il tessuto urbano di Leptis subisce infatti considerevoli cambiamenti già in età tardo antica. In area forense e nel porto vengono installate presse olearie e alcuni monumenti pubblici vengono occupati da strutture deperibili e da abitazioni modeste (Fig. 1). Procopio testi-monia questo fenomeno descrivendo gran parte degli edifi-ci, esterni all’area che sarà cinta di mura dalle maestranze giustinianee, insabbiati e crollati, e la città in gran parte ab-bandonata 2. Per la realizzazione del nuovo circuito murario e per l’edificazione degli edifici ecclesiastici appartenenti all’establishment bizantino, vengono riutilizzati blocchi ap-partenenti a numerosi elementi pubblici non ultimo l’Arco quadrifronte Severiano (Fig. 2).

La conquista islamica in Africa del Nord, è stato del re-sto dimostrato, tende generalmente a sovrapporsi alle cul-ture preesistenti senza creare fratcul-ture e senza accelerare il processo di disgregazione del sistema urbano antico 3. Il modello di città che si era imposto tra il IV ed il VI secolo non solo continua ma si amplifica con fenomeni di nuove fondazioni. Tale evidenza è stata più volte presentata per tutte le città della Cirenaica e per Sirte e Tripoli, che come noto prende il posto di Leptis nel primato economico e po-litico della regione. Una tappa verso questo processo di al-lontanamento dell’autorità centrale può essere segnata dal riassetto dato dall’Imperatore Maurizio alle province afri-cane con l’istituzione dell’esarcato di Cartagine, sul finire del VI secolo. Probabilmente in questo momento decade il ducato della Tripolitania, la cui sede era stata fissata a Leptis per volontà espressa di Giustiniano 4. All’esarca di Cartagi-ne, menzionato per la prima volta nel 591, viene affidato il

controllo politico e militare dei possedimenti nordafricani, organizzati come luogotenenze militari 5.

I rapporti dell’autorità bizantina con le popolazioni berbere circostanti intorno alla metà del VI e agli inizi del VII secolo, prima dell’invasione islamica, sono caratterizza-ti da forcaratterizza-ti contrascaratterizza-ti. Secondo una tradizione più volte ripor-tata, Leptis cade in rovina proprio a causa di tale conflitto. Il funzionario imperiale, il dux Sergius, secondo Procopio di Cesarea avrebbe fatto assassinare ottanta notabili libici ve-nuti a trattare la pace nel 544 6.

2. LA CONQUISTA ARABA

Successivamente al trattato del 544 non sono testimo-niati dalla letteratura archeologica avvenimenti di rilievo, e le fonti della conquista non elencano Leptis Magna nel glo-rioso cammino di conquista del Maghreb. L’assenza di rife-rimenti all’occupazione di Lebda contrasta effettivamente con il racconto minuzioso della presa di Tripoli. Se questo fatto può forse segnalare lo spostamento della sede ammini-strativa più ad ovest non bisogna lasciarsi condizionare da tale argomento (una prova ex silentio) per concludere che Leptis fosse in quel periodo abbandonata, o trasformata, nella prima età islamica, in villaggio costiero, così come segnala-no i geografi arabi posteriori al 1000. Un documento della prima metà del VII secolo, questa volta di tradizione cristia-na, le assegna la dignità di città. Si tratta di una testimonian-za immediatamente precedente, se non contemporanea, alle prime invasioni arabe, da cui deriva il Thrònos alexandrìnos, che elenca per la Tripolitania quattro sedi episcopali la pri-ma delle quali sarebbe Leptìs Megàle 7. Le altre sedi indicate sono Oea, Sabraton e Terepiton, probabilmente una corru-zione di Gerbiton (Gerba).

Non è possibile stabilire un legame automatico tra la vi-talità e l’importanza di una città e il suo utilizzo come sede episcopale, senza considerare che le fonti sono decisamente insufficienti a questo proposito. Esistono d’altro canto alcu-ni esempi di vescovati che sopravvivono alla scomparsa del-le città. È il caso di Copia Thurii in Calabria, abbandonata pochi anni prima del conflitto greco-gotico 8. La città viene sostituita da un froùrion, citato più tardi da Procopio in una diversa sede, sulla sponda opposta del Crati 9, il cui vescova-to è documentavescova-to fino alla fine del VII secolo 10. A questo proposito un elemento chiarificatore lo fornisce Andrea Giardina quando afferma che «se per un verso il perpetrarsi dell’autorità civica, indipendentemente dalla sua natura, può essere inteso come una permanenza degna di rilievo, per altro verso la sostituzione dei vescovi ai magistrati appare come la dissoluzione dei caratteri fondamentali della città antica» 11.

Sono veramente scarsi gli elementi per poter affermare che un vescovo abbia svolto le funzioni dell’autorità civica di Leptis negli anni anteriori la conquista islamica. È proba-bile che la città nel periodo della conquista fosse ancora pre-sieduta da una guarnigione bizantina, così come è stato di-mostrato per altri insediamenti della Tunisia, ad esempio Junca, Thenae, Ruspina, Hadrumetum, Thisdrus, Autenti, Sufetula, Thelepte e Gafsa (Fig. 3). Al-Bakri ne cita sola-mente una o due, in primis Sufetula perchè vi si rifugiò il patrizio Gregorio, l’esarca africano ribelle 12 e l’armata che lo difendeva e forse perché vi ebbe luogo lo scontro decisi-vo 13.

Per affermare l’assenza di un insediamento di qualche rilevanza nel VII secolo sulle rovine di Leptis Magna è stato

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spesso usato come argomento probante il fatto che sarebbe stato impensabile, per gli Arabi, lasciarsi alle spalle un avam-posto bizantino, se avesse costituito un pericolo reale, pri-ma di occupare Tripoli e Sabratha 14. È una osservazione dif-ficilmente contestabile se si considera l’avanzata araba del primo decennio come una offensiva programmatica. Biso-gna tuttavia considerare che le incursioni dell’esercito mu-sulmano non si configurano inizialmente come delle occu-pazioni stanziali. Molto probabilmente gli Arabi delle pri-me conquiste passavano sotto le mura delle città pri-meglio di-fese schivandone le guarnigioni, per altro troppo deboli per tentare un contrattacco; dovettero evitare allo stesso tempo i centri più popolosi, in cui gli abitanti avrebbero imbracciato le armi in difesa15. Ad esempio dopo il saccheggio di Sufetula nel 647, durante il quale trovò la morte Gregorio, una volta ottenuto un ricco tributo, gli Arabi si ritirarono 16.

Prima ancora della conquista di Alessandria, Barqa cad-de senza resistenza sotto l’influenza araba nel 643, grazie ad una piccola spedizione di Amr ibn al-‘As. La vera conquista della Tripolitania comincia tuttavia nel 662 con Oqbah ibn Nafi, nipote di Amr e guida delle precedenti scorrerie oltre la Sirte, lungo la costa fino a Tripoli e nell’interno fino al Fezzan (Zuìla) 17.

Tale evidenza è confermata da una cronaca copta del Vescovo Giovanni di Nikiou 18. Questa riferisce della con-quista di Barqa del 642 come di una scorreria al termine della quale gli Arabi e gli Egiziani fanno ritorno nelle loro terre di origine. La fonte tiene a precisare che la maggior parte del contingente offensivo era inoltre di origine copta: «Amr mandò le genti di questo paese [dell’Egitto] contro gli abitanti della Pentapoli bizantina, comandati dal prefetto Abulyanos, i quali si arroccano a Teucra» (Dushera) 19.

Una seconda spedizione ebbe luogo nel 644-645. Ne abbiamo notizia da un passaggio della Storia del Patriarcato della Chiesa Copta, attribuita generalmente al Vescovo Severus di Ashmunein (X secolo) 20 Il passaggio in questione in realtà riprende una cronaca precedente compilata dal-l’Abate Giorgio, Arcidiacono e Secretarius del Patriarca Si-mone (689-701). Secondo questa notizia, in sintesi, Amr ibn al-‘As organizzò con il Dux Sanutius una spedizione navale in Pentapolis per prenderne possesso e per fare rapidamente ritorno. Dovette dunque avvenire prima che le truppe bi-zantine riprendessero possesso di Alessandria nel 645. La cronaca araba non ne parla in questi termini.

Il Dux Sanutius, presumibilmente lo stesso menzionato da Giovanni di Nikiou, fu scelto come governatore della provincia di Al-Rif nel Basso Egitto 21 dai nuovi conquista-tori. Aveva rivestito con ogni probabilità un ruolo ammini-strativo di rilievo anche sotto il governo bizantino 22. Si trat-ta probabilmente di un monofisitrat-ta perseguitrat-tato dagli orto-dossi come ci dimostra la sua intimità con il Patriarca Beniamino, che prega per lui il giorno della sua partenza per Barqa.

Le operazioni di conquista della Cirenaica sono dunque molto più complesse di quanto mostrino le fonti ufficiali arabe, e non possono prescindere da un supporto indigeno copto, se non addirittura dell’appoggio dei dissidenti monofisiti in disaccordo con le imposizioni religiose del governo centrale di Costantinopoli.

Tali vicende possono essersi ripetute in occasione del-l’avanzata araba in Tripolitania, sebbene non si abbia noti-zia in questo caso di spedizioni navali. Secondo Romanelli nel 663-664 (43 a. E.) Lebda è indicata come meta di una scorreria diretta dallo stesso Amr ibn al-As, governatore

del-l’Egitto, da suo nipote Oqbah ibn Nafi e da Sharik ibn Sumayy 23.

Non abbiamo testimonianze dirette del passaggio di po-tere all’interno della città e del suo territorio. È necessario, ciò nondimeno, riportare l’attenzione su un passo abbon-dantemente citato di Idrîsî, forse l’unica fonte araba che documenta l’esistenza di Leptis nel VII secolo; scrive, infat-ti, le seguenti parole: «In altri tempi [Lebda] era stata una città florida e molto popolosa; ma gli Arabi erano venuti ad accamparsi sul suo territorio, si appropriarono delle truppe e allarmarono a tal punto gli spiriti che [i Bizantini] furono costretti ad abbandonare la città» 24. In questo caso Idrîsî, che utilizza una testimonianza di età aghlabide, con l’espres-sione «si appropriarono delle truppe», sembra voler ricor-dare l’impiego di milizie berbere per forzare il blocco rono delle città, così come era avvenuto con l’utilizzo dei ma-rinai copti, in occasione della presa di Barqa. Bisogna inol-tre considerare che con la conquista araba il governo bizan-tino si ritenne per certi versi liberato da un pericolo mag-giore che poteva nascere dal consolidamento delle posizioni dell’antimperatore Gregorio all’interno dell’esarcato norda-fricano 25.

L’ETÀAGHLABIDE (IX SEC.): UNACITTÀINESISTENTE?

Bisogna fare un salto di due secoli per avere altre testimo-nianze storiche. In quel momento la città è parte dei possedi-menti aghlabidi della Tripolitania. I confini dell’emirato sono noti grazie alla linea di resistenza costruita da Ibrahim I e dai suoi successori contro le aggressioni berbere, tulunidi e “maghrebine”. Il limes occidentale è costituito dal mare oltre il massiccio dei Kutama, ovvero la piccola Kabiylia, passa ad ovest di Sétif, comprendendo Arba (Msila) 26, ultimo possedi-mento aghlabide da quel versante 27. Poco più a Est il confine comprende Tobna, capoluogo dello Zab e prosegue inglo-bando Biskra e Tahuda, restringendosi verso la costa in una fascia che tende ad ampliarsi verso sud in corrispondenza con il paese dei Nefusa, per concludersi quattro “parasanghe”, ad ovest di Barqa28, una distanza compresa tra i 23.760 e i 25.200 km 29, in corrispondenza con il territorio di Teucra, nella Pentàpoli (Fig. 3). Nel corso del IX secolo verrà annes-sa anche la Sicilia e parte della Calabria fino al Crati. In effetti Lebda era l’ultimo possedimento di rilievo verso Est, e il più distante avamposto orientale contro l’Egitto 30.

Molti storici ed esperti di diritto islamico contempora-nei allo svolgimento degli avvenimenti che stiamo trattando hanno scritto una immane messe di opere di notevole im-portanza per gli studiosi e i geografi del Maghreb che furo-no in grado di consultarli 31. Quelli che ne trassero il mag-gior numero di informazioni furono probabilmente al-Bakri (m 1092) 32 e Ibn al-Atir (m 1233) 33.

Una importante attestazione di epoca altomedievale con-ferisce all’insediamento leptitano una connotazione urbana di un certo rilievo, se si tiene conto che nel IX secolo conti-nuò ad essere sede di «amministrazione ecclesiastica» 34. Lebda è infatti nominata chiaramente nella lista di Leone il Saggio insieme ad Oea e probabilmente a Sabratha se si può correggere in tal modo To Sèbon 35.

Nello stesso periodo viene sancito il trattato di pace tra il principato berbero-kharigita dei rustamidi e l’Emiro aghlabide ‘Abd Allah I. Si tratta di un armistizio concluso a Tripoli nell’812 che lascia la sovranità della città alla dina-stia aghlabide e l’entroterra ai Berberi. Non sappiamo quan-to quesquan-to trattaquan-to venne rispettaquan-to, per il silenzio delle

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fon-ti. Appare certo, tuttavia, da alcuni indizi che esse lasciano trapelare, che gli aghlabidi considerassero ancora l’entro-terra come loro legittimo dominio. Inoltre le tensioni tra kharigismo ed emirato, filoabbaside e sunnita, non sembra-no essere state raffreddate dal trattato. Usembra-no degli eventi bel-lici che riguardano questa lotta tra Berberi e governo centrale interessa da vicino Lebda, che si configura, nell’occasione, come città fedele all’autorità aghlabide. Secondo Ibn al-Atir, infatti, le truppe del governatore di Tripoli, ‘Abd Allah b. Muhammad b. al-Aghlab, fratello dell’emiro Abu Ibrahim Ahmad (856-863) furono sbaragliate dai Berberi banu Luhan nell’859. Si tratta di una importante fazione dei Berberi Hawara, insediata, come vedremo meglio di seguito, a est della Tripolitania, nel territorio leptitano. Il motivo dello scontro ricalca il leitmotiv del conflitto arabo-berbero di questi primi secoli. I Luhan si rifiutarono di pagare la decima e le altre imposte legali, considerandosi molto più forti mili-tarmente. Dopo la sconfitta il governatore aghlabide ripiega su Lebda, di cui rinforza le difese 36. Risulta molto difficile verificare archeologicamente questo intervento, anche se le strutture del tracciato bizantino sono facilmente ricono-scibili dall’abbondante uso di una particolare malta che impiega come inerte un tritume di conchiglie, facilmente identificabile. Una attenta ricognizione del tracciato mura-rio è stata del resto effettuata da Ward Perkins e Goodchild negli anni ’50. L’unica variazione di tale circuito è ricollega-bile secondo gli autori a una seconda fase bizantina (Fig. 4). La tentazione di ricollegare tale intervento all’opera di Abu Ibrahim Ahmad è molto forte, ma non dimostrabile allo sta-to attuale delle nostre ricerche 37. Alcune evidenze di inter-venti successivi sono state comunque individuate, come ve-dremo di seguito.

Delaporte, Cancelliere del Consolato di Francia a Tripo-li nel secondo quarto del XIX secolo, individua nella pianu-ra meridionale di Lebda diverse torri collegate da muri, quasi rasi al suolo, che secondo la sua opinione, in base alla tecni-ca costruttiva, possono essere messe in relazione con la cin-ta della città araba 38. Le strutture cui fa riferimento non sono più visibili e non risulta facile comprendere se Delaporte le abbia confuse con le mura bizantine. In ogni caso è possi-bile che l’intervento di restauro di ‘Abd Allah fosse limitato al ripristino di alcune torri senza interferire troppo sull’as-setto originario. Anche a Bengazi-Berenike, del resto, il muro difensivo romano e bizantino fu riutilizzato durante l’occu-pazione islamica, con l’aggiunta di una sola torre circolare 39. Un intervento di restauro della cinta muraria è documen-tato anche per Tripoli. Sappiamo che la città, quando venne presa da ‘Amr ibn al-‘As nel 643, era difesa da mura, parte delle quali furono distrutte 40. Alla fine del periodo omayyade la città fu nuovamente fortificata 41. Per quel che riguarda Lebda, una importante anomalia del circuito murario è sta-ta in parte segnalasta-ta da Goodchild e Ward Perkins, in corri-spondenza della piazza antistante il ninfeo Severiano, dove si trovava probabilmente una porta di ingresso, demolita in un momento non precisabile posteriore all’invasione islami-ca, forse a causa di un’alluvione del uadi Lebda (Fig. 5). Nell’area sono ancora visibili alcune strutture in fondazio-ne che riutilizzano colonfondazio-ne romafondazio-ne, fondazio-nell’estremità orien-tale della Palestra delle Terme dedicate ad Adriano. Si trat-ta probabilmente di ambienti destinati al corpo di guardia a difesa della porta. Non è presente, in questo caso, la malta che caratterizza l’intervento bizantino ed è possibile ricollegarne la costruzione al primo periodo islamico, come suggeriscono i due studiosi inglesi 42. Una seconda

impor-tante testimonianza a questo riguardo è fornita dalla de-scrizione dello scavo della porta di ingresso del recinto giu-stinianeo, in prossimità del Foro Vecchio (Fig. 6). Gli scavi vi furono condotti nel 1925 da Bartoccini 43. Si tratta di una delle più imponenti realizzazioni del circuito murario bizantino, attraversata dal principale asse viario della cit-tà. È affiancata da due torri rettangolari accessibili esclusi-vamente dalla parte interna dell’insediamento. La costru-zione è paragonabile alla porta di Salomone a Theveste 44 e all’ingresso del forte di Madaura 45. Prima degli scavi di Bartoccini l’apertura del portale era tamponata con grandi blocchi di pietra. La parte superiore era organizzata in fi-lari ben disposti e costruita con blocchi squadrati. La parte inferiore era invece meno curata. Secondo Goodchild e Ward Perkins anche la chiusura dell’ingresso può essere attribuita all’intervento bizantino e può essersi verificata poco tempo dopo la costruzione della porta 46. La datazio-ne di questo intervento non è basata in realtà su alcuna pro-va scientifica, e può essere certamente messo in relazione alle fonti storiografiche di età aghlabide. La tamponatura è stata asportata nel corso degli scavi del ’25. Insieme ad essa inoltre è stato completamente demolito un insieme di co-struzioni grossolane, di prima età islamica, localizzate al-l’interno della cinta muraria, impostate direttamente sull’asse viario principale e adagiate sulla parte bassa del recinto giu-stinianeo.

È molto probabile che nel IX secolo la città occupasse approssimativamente l’area in cui era esteso l’insediamento di età bizantina, ovvero i quartieri del porto e quelli che gravitano intorno al Foro Vecchio, al Foro Severiano e alla Via Colonnata (Figg. 1 e 4) Si tratta di un insediamento che raggiunge, con queste caratteristiche, un massimo di 44 et-tari, un terzo circa dell’estensione della città racchiusa dal circuito difensivo di IV secolo 47. Alcune testimonianze a supporto di questa ipotesi sono fornite dagli scavi effettuati nel porto e nelle aree adiacenti. Gli scavi dell’équipe fran-cese nell’area del porto di Lebda, non ancora pubblicati, hanno messo di nuovo in luce l’evidenza di una considere-vole presenza araba, che conferma i dati presentati da Bar-toccini negli anni ’50. In particolare sono da ricordare evi-denze nel lato est. Secondo la descrizione dell’archeologo italiano «come nelle altre parti del porto, la banchina orien-tale, dopo il periodo bizantino continuò ad essere abitato da popolazioni arabe». Nel corso delle sue indagini, mira-te soprattutto a riportare alla luce la facies romana, furono rinvenute numerose tracce di abitazioni «raffazzonate con materiale architettonico e particolarmente con rocchi di colonne ed elementi di trabeazione del colonnato» 48. Co-struzioni dello stesso periodo sono state rinvenute, anche in prossimità del Foro Vecchio, sempre realizzate con ma-teriale di risulta, tra cui nuclei interni di laterizio prove-nienti dalle strutture del centro monumentale. Caratteri-stica comune di queste strutture è l’assenza di malta. Le pietre sono per lo più legate da argilla impastata con sab-bia. Non hanno generalmente fondazioni e poggiano diret-tamente sulle deposizioni accumulate sulla pavimentazione antica (spesse circa 1,5 m) 49.

Un muro che può essere riferito a tale periodo è stato anche rinvenuto nel corso di alcuni sondaggi effettuati dal-l’Università di Messina, sul lato orientale della Basilica nel Foro Vecchio 50. Nella parte centrale del molo, addossati al centro dei magazzini, sopra uno strato di sabbia spesso circa 3 metri, direttamente sul piano di calpestio della banchina sono stati inoltre trovati resti di un frantoio per olive, anche

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in questo caso attribuibili al periodo arabo 51.

Di estrema importanza per la datazione di queste strutture sono gli scavi condotti da Enrica Fiandra nel Tempio Flavio. Nella parte centrale del Tempio, nel “corridoio dell’edificio” sono stati individuati i resti di una fornace, “a forma di vescica 52”, insieme ad una vasta area di attività di produzione cerami-ca (Fig. 7). Inizialmente queste strutture erano state datate al V secolo 53 e la produzione della fornace ad età bizantina54. Lo studio del materiale, costituito da una intera infornata di anfore e di brocche con versatoio, acrome, deformate dalla cottura, ha permesso di spostare la datazione all’età aghlabide, datazione sostenuta oltre che dal riconoscimento dei tipi ceramici (Fig. 8), anche dal rinvenimento di una moneta di IX secolo al di sotto della volta sud orientale del tempio 55. A conforto di questa datazione è possibile addur-re l’assenza di suini tra gli animali qualificati come “avanzi di pasto”, rinvenuti in associazione agli strati della bottega ceramica. Il maiale è rappresentato da 4 frammenti sola-mente, concentrati nel sito B, che potrebbe per altro risalire ad un periodo anteriore 56.

L’unione di questi due impianti produttivi, il frantoio per olive e la fornace di anfore localizzate in entrambe i casi sulle banchine del porto, permette di avanzare delle ipotesi per semplice induzione. In primo luogo l’utilizzo, almeno parziale, del porto severiano ancora nel IX secolo; inoltre, una capacità produttiva non solo di autosufficienza econo-mica dell’insediamento leptitano in età aghlabide. Le anfore prodotte a Lebda sono state infatti rinvenute anche nel gol-fo di Sirte a Medina Sultan 57 e sono visibili nelle vetrine del Museo dell’area adiacente il sito archeologico. Si tratta di un contenitore con orlo a collarino e fondo a bottone, che trova dei confronti con alcuni contenitori simili rinvenuti nell’isola di Jerba 58, a Nabeul nella Tunisia settentrionale 59, a Castrum Perti in Liguria 60, e a Roma nella Crypta Balbi 61 anche se le dimensioni di questi ultimi sono maggiori di quelle riscontrate per gli esemplari leptitani. In realtà non appar-tengono agli stessi ambiti produttivi. Gli impasti degli esem-plari nordafricani analizzati in Tunisia e in Libia sono dissi-mili tra loro. Indicano tuttavia una tipologia largamente af-fermata tra il VII e il IX secolo. Alcune anfore della stessa famiglia ma di diverso ambito produttivo vengono fabbrica-te nello sfabbrica-tesso periodo in Italia centro-meridionale, nella fascia litoranea tirrenica da Napoli a Terracina 62, diffuse nel sud della penisola 63 e in Sicilia (Mazara del Vallo, Palermo, Cefalù) 64. Alcune fornaci da mettere in relazione con questa produzione sono state rinvenute nel castrum di Miseno e a Ischia65. Altre testimonianze di questo tipo di contenitore, in tal caso di provenienza locale, provengono dagli scavi di Guidi in prossimità delle banchine portuali, associate a mo-nete “di età araba” 66.

Il “villaggio” arabo si estendeva fino all’estremità orien-tale del porto, nelle vicinanze del Tempio di Giove Dolicheno, dove si nota anche la continuità d’uso di una grande cisterna romana 67. Occupava molto probabilmente la stessa estensione raggiunta in età bizantina, anche se in-torno all’XI secolo l’area occidentale del Foro Vecchio, al-l’interno delle mura giustinianee, era certamente un’area non edificata; lo dimostra l’installazione di un cimitero, riporta-to alla luce a causa del dilavamenriporta-to di alcuni depositi strati-grafici, lasciati integri nel corso degli sbancamenti dei gran-di scavi gran-di età coloniale e posteriore 68 (Fig. 9). Sono state individuate sette sepolture a cassa, costituite da lastre di are-naria e calcare, deposte all’interno di strati posteriori alla distruzione e alla rasatura delle strutture del Foro Vecchio.

Si trovano ad una quota compresa tra i 90 cm e 1,5 m sopra tali rasature e a circa 2,5 m sopra la pavimentazione del Foro.

Nella parte esterna dell’abitato si dovevano essere instal-lati, nei monumenti antichi abbandonati, piccoli raggruppa-menti di abitazioni rurali, per lo sfruttamento e il controllo del territorio. Delaporte segnala nei dintorni del Circo la presenza di alcune case arabe e di una moschea e in corri-spondenza del marabutto di Sidi Saleh, vicino all’Anfitea-tro, una costruzione quadrata di tipo moresca 69. Testimo-nianze di una fase di occupazione tardiva delle aree com-prese nel tessuto della città antica, esternamente alla cinta muraria di età bizantina, sono state rinvenute anche nel Mer-cato e nel Chalcidicum, dal Dipartimento delle Antichità di Leptis Magna, in collaborazione con Missioni archeologi-che italiane. Si tratta soprattutto di monete aghlabidi e fatimidi, nonché di ceramiche invetriate e dipinte di X-XI secolo (Fig. 10), paragonabili ad alcuni esemplari rinvenuti ad Ajdabiyah e Medina Sultan associate a monete di al-Hakim (996-1021 d.C.) 70. Non è possibile dire con certezza se que-sti materiali possano essere messi in relazione con «i muri di rozza fattura, costruiti con materiali di risulta» rinvenuti e asportati nel corso degli scavi di Giacomo Guidi negli anni 1929 e 1930 71. Secondo il Soprintendente si trattava di in-stallazioni di età tarda, eseguite quando l’edificio del Mer-cato era stato riadattato ad abitazione privata. Furono indi-viduate scale e muri divisori nella Tholos e intorno alle altre strutture del monumento romano, “dove le murature tarde rendevano complesso lo scavo”, così da formare un piccolo villaggio 72.

Il paesaggio suburbano, secondo i risultati delle recenti ricognizioni 73, dopo una netta flessione in età tardo romana e bizantina, viene occupato nella prima età islamica con maggiore densità, a testimonianza di una rinascita economi-ca signifieconomi-cativa 74.

Un avamposto molto importante nel tracciato murario bizantino è costituito dal Foro Severiano. Per consentirne lo sfruttamento a scopo difensivo le aperture che si trovavano sul lato occidentale furono tamponate 75, e sul suo percorso esterno furono posizionate alcune torri. Una di esse è stata demolita dagli scavi di Bartoccini nel 1958 per consentire il transito sulla strada limitanea del Foro 76. Durante gli scavi degli anni venti furono asportati dall’interno del Foro Severiano numerosi muri all’interno dei quali erano inca-strati “pezzi di fregio e tronchi di colonne del porticato in-terno”, circondati da segni di devastazioni violente e all’in-terno di spessi strati di cenere e di carbone, che anche se-condo l’archeologo potevano appartenere ad un periodo posteriore all’abbandono della città da parte dei Bizantini 77. 4. 880: LA BATTAGLIA DI LEBDA

La relazione tra le evidenze stratigrafiche citate, tutte in ogni caso da verificare, e un episodio che si è verificato, secondo alcune fonti storiche, nell’ultimo quarto del IX se-colo, è una suggestione che difficilmente possiamo eludere. Nell’878 Ahmad b. Tulun, signore dell’Egitto, confidando nelle sue forze e cercando di sfruttare la debolezza del califfato, paralizzato dalla rivolta degli Zanj e da alcune lot-te inlot-testine che opponevano al Mu’tamid a suo fralot-tello il generalissimo al-Muwaffaq, lascia l’Egitto verso Tarso per andare a difendere in Asia Minore i confini dell’Islam mi-nacciati dalle pressioni bizantine; progettava probabilmen-te di impadronirsi anche della Siria. Il suo probabilmen-tentativo

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inizial-mente si configurò come una passeggiata militare, ma in se-guito le difficoltà al confine lo spinsero a ritornare sui suoi passi. Il governo della provincia fu nel frattempo lasciato nelle mani di suo figlio al-‘Abbas che depredò il tesoro pub-blico e al ritorno del padre cercò di fuggire verso l’Ifriqiya per non subire la sua punizione 78.

Il Tulunide contava soprattutto sulla debolezza dell’emi-ro ifriqyiano in carica, Ibrahim II b. al-Aghlab, impegnato a sedare conflitti interni. Nell’879 lascia Barqa 79, decidendo di mettere la maggiore distanza possibile tra sé e suo padre, e cerca di approfittare del fattore sorpresa; disponeva di 800 cavalieri e di 10.000 soldati sudanesi prelevati dall’armata di suo padre, trasportati da 5000 cammelli. Naturalmente per invadere l’Ifriqiya questi effettivi apparivano insufficienti, ma il principe disponeva di molto denaro per reclutare sul cammino Berberi dissidenti e avversari politici dell’emiro. Una volta ritenute sufficienti le truppe, rinforzate da qual-che manipolo di indigeni, invitò Ibrahim II a lasciargli il governo, così come, secondo quanto affermava, aveva per altro stabilito il Califfo al-Mu’tamid in persona. Nel frat-tempo si lanciò alla conquista di Lebda. L’emiro aghlabide rispose all’attacco cercando di reclutare il massimo degli effettivi. In un primo momento inviò 1600 cavalieri, sotto il comando i Ahmad b. Qurhub. Una volta arrivato a Tripoli, il generale aghlabide si mise in cammino per Lebda già rag-giunta dal figlio di Ahmed ben Tulun. Lo scontro ebbe luo-go 15 miglia ad est della città, secondo Ibn Idari 80, a Wardasa 81 secondo una precisazione fatta da al-Nuwayri 82. Bisogna sottolineare che nella località di Wardasa, nel territorio leptitano, avvenne, nel 144 dell’Egira (760-761 d.C.), una delle moltissime battaglie tra Berberi, comandati da Ibn-l-Khattab e l’esercito califfale sotto la guida di Ibn al-Ash’ath, che ne uscì vincitore. La località citata dalle fonti è ancora oggi ricordata da un toponimo situato sul uadi Ca’am a una distanza corrispondente a quella dichiarata da Ibn Idari (Fig. 11). Anche in questo caso la vittoria permette a chi la ottie-ne di dirigersi liberamente verso Tripoli. Dobbiamo dunque pensare che il territorio leptitano costituisse l’ultima difesa contro gli aggressori provenienti da est.

Al-Abbas avanza con 800 cavalieri e 5000 fanti, seguiti a distanza da altrettanti cammelli che portano ciascuno uno stendardo. Presi alla sprovvista e credendo di avere a che fare con l’avanguardia di una grandissima armata, Ahmad ben Qurhub dopo una piccola scaramuccia ripiega verso Tripoli. In queste condizioni il Governatore di Lebda prefe-risce arrendersi. Esce dalla sua fortezza, accompagnato dai notabili della città e si prepara ad accogliere al-Abbas. Que-sti risponde a tali disposizioni amichevoli “crudelmente”. Ordina il saccheggio della città. Gli abitanti, che non se l’aspettavano affatto, furono sorpresi e sconfitti. Gli uomini furono passati per le armi, le donne violentate e ridotte in schiavitù. Questi fatti dovettero aver luogo agli inizi del 267 H (12 Agosto-880\31 Luglio 881) 83.

A proposito di questo scontro è importante ricordare una testimonianza del protagonista che si esalta attraverso que-sti versi:

«Se tu chiedi di me e chi son io, Io sono il leone fortissimo e gagliardo. La mia stirpe è la famiglia Tulun E niuno può vantare più nobiltà di me Se tu avessi veduto il mio impeto a Lebda

Quando picchiavo colla spada e la morte era d’attorno Avresti veduto cosa, per cui

Sarò ricordato nei racconti e nelle storie» 84.

I superstiti, in maggioranza Berberi, si rifugiano presso i loro parenti dell’interno. Molti chiesero aiuto al più poten-te capo berbero della regione, l’ibadita Ilyas b. Mansur al-Nafusi 85. Questi doveva senza dubbio sentirsi indignato dalle atrocità commesse dall’esercito di al-Abbas a Lebda, ma le ragioni del suo intervento furono più probabilmente di ca-rattere strategico. Effettivamente l’avventura tulunide mi-nacciava direttamente i territori di sua influenza. L’assedio di Tripoli durò quaranta giorni circa 86 e furono certamente impiegate armi ossidionali. La situazione fu sbloccata dal-l’intervento di 12.000 guerrieri berberi Nefusa da un lato e da un esercito aghlabide guidato da Balag, un “liberto” del-l’emiro 87. Al-Abbas prese parte personalmente alla battaglia che fu persa duramente. Il tesoro personale del tulunide ven-ne completamente predato. Solo i Berberi secondo Ibn ‘Idari non presero parte alla spartizione del bottino 88, appagati dalla vittoria schiacciante e dalla dimostrazione di forza nei confronti del governo aghlabide e del califfato ‘abbaside.

La battaglia di Lebda è testimoniata anche da Ibn Haldun, che nel capitolo dedicato agli aghlabidi, relativo al regno di Ibrahim II scrive testualmente: «negli anni della sua reggen-za si verifica la ribellione di ‘al-Abbas b. Ahmad b. Tulun, che nel 265 (H), si mette in marcia e cerca di invadere l’Ifriqiyia, impadronendosi di Barqa, comandata da Muhammad ben Qurhub, il generale di Ibn al-Aghlab. In seguito si impadronisce di Lebda e mette sotto assedio Tri-poli 89». Il figlio di Ahmad ben Tulun fu imprigionato l’anno successivo e risparmiato in cambio del supplizio di dover giustiziare con le proprie mani i suoi compagni d’armi 90.

Non siamo in grado di stabilire quali danni abbia provo-cato la conquista di Lebda da parte dell’esercito egiziano. La conquista di una città, ad ogni modo, solo in casi ecce-zionali comporta, nel mondo antico, la sua distruzione tota-le e l’abbandono definitivo. È probabitota-le che in questa occa-sione sia venuta meno la presocca-sione dell’emirato aghlabide sul territorio abitato e difeso dai Berberi.

5. L’ETÀ FATIMIDE (X SEC.): FRAMMENTAZIONE DELL’HABITAT

La descrizione di al-Bakri, fondata sulla testimonianza di Mohammed ben Yusuf che scrive nel X secolo dimostra una debole posizione degli occupanti arabi. Lebda doveva appa-rire come uno dei molti villaggi fortificati distribuiti nel ter-ritorio 91, che caratterizzavano il paesaggio secondo uno sche-ma affersche-mato anche nella Sicilia contemporanea, negli abi-tati ad esempio di Iato, Entella e Calatrasi e in altre aree di influenza berbera come l’Andalusia 92. Il termine con cui viene indicata Lebda, traducibile con castello, contrasta infatti fortemente con quelli con cui al-Bakri definisce Cherous e Tripoli. Secondo la sua testimonianza, infatti, «Il castello di Lebda, situato tra queste due città (Cherous e Tripoli), è di costruzione antica, in pietre e calce. Nei dintorni ci sono molti bei monumenti dei tempi antichi e molte rovine. Il castello è abitato da un manipolo di circa mille cavalieri ara-bi che sono sempre in guerra con i Berberi del vicinato. Po-trebbero mettere insieme più di ventimila guerrieri, tra fanti e cavalieri, e nonostante ciò si lasciano dominare dagli Ara-bi» 93. Il numero di effettivi indicato dalla fonte dimostra comunque una certa vitalità dell’insediamento. Nonostante il rammarico dello scrittore, un presidio di 1000 cavalieri, considerato il “seguito” e i serventes di cui aveva ogni singo-lo cavaliere ziride, le donne e i bambini, non deve essere sottovalutato. Dobbiamo considerare che secondo la

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tradi-zione, infatti, ‘Amr Ibn al-’As diede inizio all’invasione del-l’Egitto con 4000 cavalieri 94.

Grazie a numerose testimonianze storiche siamo perfet-tamente in grado di riconoscere anche i gruppi berberi in-stallati nel territorio leptitano. Preziosa ad esempio l’infor-mazione di Ibn al-Atir: “I Berberi Lewata si stabilirono nel territorio di Barqa, che chiamavano anche Ant’aboulous (Pen-tapoli); gli Hawara si installarono nella città di Lebda” 95.

Nella prima parte del X secolo, sotto il governo degli emiri fatimidi, Lebda è descritta come «una fortezza costie-ra, paragonabile ad un agglomerato urbano» 96. Un passo di Ibn Hawqal ci informa che, «in quel tempo» (950-980 d.C.), correva attraverso la città-fortezza un cordone doganale per le merci e per gli animali che andavano e venivano da Sirte al Governatore di Tripoli 97.

Il secolo XI è generalmente considerato un periodo di grave crisi economica. Gli studiosi di tale fenomeno si sono spesso divisi sulle ragioni di tale crisi. Inizialmente d’accor-do con Ibn Haldun, G. Marçais ritiene che la rovina della Tripolitania e dell’Ifriqiya, più in generale, siano da imputa-re all’invasione Hilaniana. Secondo la sua opinione inoltimputa-re «di tutta questa parte orientale della Berberia, il paese che soffrì maggiormente questa invasione fu la regione di Barqa, Ptolemais, e la regione di Tripoli» 98. Una seconda possibilità è il mutamento delle direttrici commerciali trans-sahariane, dai terminali tradizionali, a partire dall’età punica fino ai primi secoli dopo la conquista islamica, si sarebbero sposta-ti univocamente verso i porsposta-ti egiziani, dove risiede nel X secolo la corte fatimide 99.

Anche secondo Ch. A. Julien 100 la Tripolitania e l’Ifriqiya subirono innumerevoli disastri, a causa dell’invasione Hilaliana. Gravi disgrazie subirono in particolar modo l’agri-coltura e le campagne, ma anche i porti furono devastati. Resistono solamente alcune città fortificate come Lebda, ovvero unite con dei patti ai Berberi, come Awjala, a sud di Barqa, che gli Arabi conservarono per il commercio 101.

La maggior parte delle tribù arabe che si erano stabilite nel territorio dopo l’invasione appartenevano di nascita o per confederazione ai Banu Sulaym: in Cirenaica i Hayb e i loro confederati, i Rawaha, i Nacira e gli ‘Omayra; da Sirte a Tri-poli gli ‘Awf i Debbab e gli Zoghb. La maggior parte di tali tribù viveva in assoluta dipendenza. Avevano potuto resistere alla dominazione degli invasori le tribù autoctone che si era-no mischiate loro, a tal punto che si poteva dubitare della loro appartenenza agli Arabi oppure ai Berberi, ovvero quelli che, sufficientemente forti o favoriti da postazioni inaccessi-bili depredavano le famiglie della loro stessa razza. Ci riferia-mo ad esempio ai Mezata, ai Fezara di Ptolemais e in partico-lar modo agli Hawara della regione di Lebda. Secondo Idrîsî quest’ultima doveva ai suoi castelli e alla sua cittadella di non essere completamente desertificata 102. Alcuni Berberi Hawara vi avevano trovato rifugio 103; un mercato vi si riuniva e vi resisteva qualche ombra di industria 104 Nonostante l’invasio-ne hilaliana la regiol’invasio-ne leptitana rimal’invasio-ne, infatti, una delle più fertili della Tripolitania. Riportiamo di seguito la descrizione di Idrîsî. Sebbene sia, infatti, ampiamente ricordata, offre molti elementi di riflessione sulla natura dell’insediamento intor-no alla prima metà del XII secolo: «la città di Lebda è situa-ta a poca dissitua-tanza dal mare. In altri tempi era ssitua-tasitua-ta una città florida e molto popolosa; ma gli Arabi erano venuti ad ac-camparsi sul suo territorio, si appropriarono delle truppe e allarmarono a tal punto gli spiriti che furono costretti ad abbandonare la città. Non ne resta che due castelli conside-revoli dove alcuni Berberi della tribù Hawara hanno

stabili-to la loro dimora. Indipendentemente da questi castelli si vede ancora a Lebda un forte situato sul bordo del mare e occupato da artigiani; vi si tiene un mercato che è piuttosto frequentato. Il territorio di Lebda produce datteri e olive da cui ottiene nella stagione adatta abbondante raccolta d’olio» 105.

La fertilità del territorio di Lebda e il suo sfruttamento prevalentemente a uliveto è attestato anche dalla topono-mastica. Compresa, infatti, tra il mare e le alture della Msellata e limitata a est dal Uadi Lebda e a ovest dal Uadi Ganima, l’attuale territorio di Homs, viene chiamato con il termine el-Gaba, che significa, appunto Uliveto. Lo stesso nome della città, Homs, originariamente conosciuta come Leggata, deriva da Choms el-Gaba, dal fatto che i suoi abi-tanti pagavano la quinta (el-choms), un’imposta fissata dal-l’autorità ottomana sulla produzione della zona degli uliveti 106.

Deve essere a questo punto considerato il ritorno al ter-mine di città, precedentemente abbandonato da al-Bakri, anche se Idrîsî descrive un insediamento frazionato in alme-no tre nuclei fortificati e indipendenti tra loro. Il villaggio fortificato, così come viene presentato dalla fonte e come sottolineano i risultati delle ricognizioni svolte negli ultimi anni dalla Missione Archeologica dell’Università di Roma Tre, diretta da Luisa Musso, è una forma insediativa molto diffusa nel territorio leptitano in questa fase del suo svilup-po. Il “forte” sul bordo del mare intorno al porto è con tutta probabilità quanto resta della città giustinianea. Se la tenta-zione di identificare questo sito con la futura città di Homs è molto forte, non esiste tuttavia alcuna testimonianza in merito. Altre volte è stata proposta dalla letteratura archeo-logica, a partire da Pietro Romanelli 107, l’identificazione dei due castelli ricordati, con gli gsur di Ras el-Hammam e del Mergheb (Fig. 14), anche se le loro dimensioni sono molto limitate. Certamente fin dalla loro fondazione dovevano co-stituire un caposaldo delle difese della città, considerata la loro posizione strategica. Entrambe le fortificazioni cono-scono una importante frequentazione in età araba 108. Sul portale di Gasr Ras el-Hammam si trova una iscrizione de-dicatoria di Abd Allah, databile al 473/1080. La struttura del fortilizio è tuttavia paragonabile a quella del gasr di Ajdabiyah e al ribat di Susa in Tunisia, di età aghlabide 109. È possibile, nondimeno, in base ai rinvenimenti archeologici, che i due castelli ricordati da Idrîsî 110 vadano identificati ancora più vicino alla medina di Lebda, all’interno di mo-numenti pubblici abbandonati già in età bizantina che per le loro caratteristiche potevano essere facilmente fortificati, e che al contrario, a causa del loro abbandono, potevano co-stituire per gli attacchi alla città dei facili avamposti. Pensia-mo in particolar Pensia-modo al Teatro e forse al Circo. «I resti del Teatro, parzialmente insabbiati, formavano una sorta di al-tura che occludeva, a coloro che presidiavano le mura, la libera visuale dell’entroterra esposto alle scorrerie delle tri-bù berbere. In questo caso un minuscolo posto d’avviso, nella parte più alta rivolta a meridione avrebbe costituito un utile precauzione». Chiunque abbia avuto la possibilità di salire su una delle due torri laterali della porta bizantina sull’asse viario principale della città, potrebbe confermare questa osservazione sostenuta da G. Caputo 111 e dai curatori del materiale minore proveniente dallo scavo del Teatro 112.

Oltre al materiale di epoca bizantina studiato dagli auto-ri del contauto-ributo sopra citato, a testimonianza di una fre-quentazione in tale epoca del Teatro sono stati rinvenuti anche alcuni materiali di periodo arabo. Facciamo qui

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rife-rimento in particolare ad alcune lucerne113 e ad un fram-mento di giara, decorato da linee incise, sul quale sono stati incisi caratteri cufici 114.

Sul lato sinistro del Foro Severiano, a ovest della Via Colonnata, sono state rinvenute, inoltre, delle sepolture che hanno invaso la sede stradale limitanea meridionale del com-plesso monumentale. Bartoccini ipotizza in base alla pover-tà delle deposizioni e alla loro posizione stratigrafica – era-no scavate in uera-no strato di deposizione alluvionale accumu-lato sulla parete del Foro – una datazione molto tarda, «for-se anche di periodo islamico (XI «for-secolo)» 115. Non vi sono in ogni modo dati probanti, in proposito.

Una seconda area sepolcrale di notevole importanza è stata rinvenuta a nord della basilica severiana, all’interno dell’area non finita del progetto originario. La datazione di questa fa pensare ad un termine posteriore alla fine del VI secolo, probabilmente da collocare nel VII secolo, nel pri-mo periodo arabo. Una di esse conserva ancora l’epigrafe: B(onae) m(emoriae). Se/g(=c)undianu/s, binxit/ in pake an/ (n)os plus m/inus LXV./ Requiebit [in]/ pakke (Fig. 12).

Nell’Ifriqiya islamica, almeno fino all’XI secolo, esiste-vano comunità cristiane, che si serviesiste-vano ancora della lin-gua latina, almeno ai fini liturgici, e godevano di libertà di culto e di una certa autonomia, come testimoniano ad esem-pio l’area cimiteriale di en-Ngila, nei pressi di Suani beni Adem 116 e di Ain-Zara 117. Due iscrizioni cristiane contem-poranee provengono da Kairouan: una databile al 1019, è stata scoperta nel 1928. La seconda iscrizione scoperta nel 1961 è invece datata al 1027 118. Le due iscrizioni sono ca-ratterizzate da capitali latine con ductus sinuoso probabil-mente mediato dalle contemporanee iscrizioni cufiche.

La presenza di comunità cristiane nella Tripolitania è te-stimoniata anche dalle fonti storiografiche arabe: al-Bakri, ad esempio, ricorda vicino a Tripoli la presenza di copti. Sono molto importanti, a questo proposito, anche le necro-poli di Sabratha, dove sono attestate sepolture fino ad oltre il secolo VIII, nell’area del Foro 119, ma questo oltrepassa i limiti gli obiettivi di questa ricerca.

6. EPILOGO: L’ABBANDONO DI LEBDA E LO SPOSTAMENTO DELL’ABITATO VERSO HOMS (XI SEC.)

I due secoli posteriori all’anno Mille sono caratterizzati da eventi traumatici che destrutturano completamente l’abi-tato, o meglio l’insieme di agglomerati fortificati descritti ancora nell’XI secolo da Idrîsî. Il porto di Leptis non è men-zionato, ad esempio, nel novero degli approdi compresi tra l’ultimo porto della Grande Sirte, l’attuale Ras Zagh, me-glio conosciuto come ras el-Borg 120 e Tripoli 121, nel mano-scritto “Lo compasso da navigare” composto tra il 1250 e il 1265.

Schech al-Abdari visitò Lebda pochi anni più tardi, ver-so la fine del XIII secolo (1289-1290), lungo il percorver-so che lo conduceva in pellegrinaggio a Mecca: «le rovine della cit-tà sono grandiose e doveva essere capitale di un regno flori-do, ma al presente è in completo abbandono e non contiene che una popolazione poco numerosa» 122.

Difficile dire quali siano state le ragioni del “completo abbandono” dell’insediamento, ma credo sia da escludere la possibilità che al-Abdari si riferisca ad una situazione simile a quella descritta da Idrîsî, anche se rispetto alla densità di età imperiale, un villaggio di mille cavalieri è certamente abitato da «una popolazione poco numerosa».

Lebda fu certamente interessata nel corso della sua sto-ria da diversi movimenti tellurici, segnalati anche attraverso gli scavi. Molto interessante a questo proposito la testimo-nianza di una tradizione orale ancora presente nel ricordo popolare, raccolta da Pietro Romanelli nel volume su Leptis Magna 123 e che riportiamo di seguito:

«Un giorno il governatore arabo di Lebda trovò, mentre mangiava, un lunghissimo capello nero tra i cibi. Colpito dalla sua bellezza e dalla sua lunghezza, giurò a Dio che avrebbe sposato colei cui il capello apparteneva, e, subito, diede ordine ai suoi servitori di percorrere tutto il paese alla ricerca della donna dal cui capo il capello era caduto. Più giorni durarono le ricerche e sempre vane, sino a che gli uomini del governatore le rivolsero alla casa stessa del loro Signore, e, con somma meraviglia e terrore scoprirono che il capello apparteneva alla sua figlia prediletta. Grande fu lo sgomento di questi cui si pose dinanzi il tragico dilem-ma di dilem-mancare al giuramento fatto o di celebrare le nozze incestuose: sembrò infine al Signore che meglio fosse per lui tener fede al giuramento, ma Dio che padre e figlia si macchiassero di così turpe vergogna e, nel mentre quello stava per entrare nella stanza, dove la figlia l’attendeva tre-mante, un violento terremoto fece crollare il palazzo e la città tutta intera».

Con maggiore probabilità determinò una forte riduzio-ne dell’insediamento il forte bradisismo che interessò la costa leptitana nei suoi ultimi secoli di vita. Questo feno-meno lo troviamo segnalato anche da un viaggiatore del XVII secolo, Al-Ayyashi, il quale ricorda di aver veduto alcune colonne completamente sommerse dalle acque 124. Lo stesso viaggiatore, trovando la città in totale abbando-no, ricorda una tradizione popolare secondo la quale gli abitanti di Leptis avrebbero cominciato ad emigrare quan-do le acque del uadi Ca’am, necessario per l’approvvigio-namento idrico della città, avessero iniziato a divenire sali-ne: «Ora (1662) le acque del uadi sono scarse e guaste».

Lo studio delle dinamiche economiche di una città non può essere dissociato dall’analisi del suo territorio e della sua campagna, soprattutto in una società la cui ricchezza è spesso, essenzialmente rurale. Lebda nel periodo iniziale del governo fatimide o piuttosto ziride non è più in grado di “raccogliere” ed esportare la stessa quantità di derrate ali-mentari, dal commercio trans-sahariano e dal suo territo-rio, che le hanno permesso ricchezza ed espansione demo-grafica in età romana. La ricognizione dell’ULVS (UNESCO Libyan Valleys Archaeological Survey) ha infatti testimonia-to il cambiamentestimonia-to di sfruttamentestimonia-to del territestimonia-torio che ha im-poverito le sue risorse ambientali e le dinamiche della deser-tificazione nel predeserto libico nel periodo compreso tra il X secolo e l’XI secolo 125. Le rotte commerciali sono dirotta-te più a ovest verso Tripoli, e più a est verso Il Cairo, causa e conseguenza al contempo della fine di Lebda come termi-nale di tali transazioni. Ancora verso la fine del regno di Iusuf Garamanli, nella prima metà del XIX secolo giunge-vano a Tripoli carovane dal Fezzàn e da Gadames, con cari-chi d’avorio, scari-chiavi, polvere d’oro, penne di struzzo, senna e allume provenienti dal Sudan, dalla Nigeria e dall’Africa equatoriale “francese”.

Tutte queste ragioni concorsero probabilmente all’ab-bandono della città antica, o meglio, della città racchiusa dalle mura giustinianee. In quel momento doveva essersi già costituito il piccolo villaggio di Leggata, il cui etimo di ori-gine araba suggerisce, fatalmente, la necessità di “raccoglie-re”, convogliare, le oramai modeste risorse del territorio.

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Leggata è sede di un mercato sub-regionale, nato certa-mente da qualche sobborgo agricolo di Leptis Magna, e si sviluppa nei pressi di una piccola insenatura naturale che permetteva l’approdo di navigli di transito verso Tripoli. L’insediamento si trovava immediatamente all’esterno del muro di cinta occidentale di Homs 126, la città che vi si sovrappose nel XVIII secolo divenendo il capoluogo di un sangiaccato turco 127. Sulle rovine della gloriosa città dei Severi, i pastori raccolti nelle proprie tende avrebbero pre-sto cominciato a raccontare di pietre incantate e di miste-riosi abitanti:«Il y a tout autour des masures de cette ville plusie(urs) arabes sous des tentes, quj en racontent quantité de fables, particulierm(en)t q(ue) les pierres sont enchantée, et q(u)’on ne saurait s’en servir po(ur) d’autre édifices…» 128.

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