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Il problema dell'altro nell'universalismo occidentale: per un'epistemologia geo-filosofica dell'alterità

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Primo capitolo.

I. ARCHEOLOGIA DI UN CONCETTO IN DIVENIRE

Un edificio grigio e pesante di soli trentaquattro piani. Sopra l'entrata principale le parole: "Centro di incubazione e di condizionamento di Londra Centrale" e in uno stemma il motto dello Stato Mondiale: "Comunità, Identità, Stabilità". ALDOUS HUXLEY, Il mondo nuovo

Concedere a tutti, ma in modo puramente formale, la prerogativa dell’”umanità” significa escludere da essa, in nome dell’umanismo, tutti coloro cui sono stati negati i mezzi di realizzarla. PIERRE BOURDIEU, Meditazioni pascaliane.

Nell’epoca della cosiddetta globalizzazione, nell’epoca in cui alcuni hanno interesse a parlarne e a celebrarne i benefici, l’eterogeneità delle società umane, le ineguaglianze sociali ed economiche non sono mai state tanto gravi e spettacolari (poiché lo spettacolo è in effetti più facilmente “globalizzabile”) in tutta la storia umana. JACQUES DERRIDA, Autoimmunità, suicidi reali e simbolici

I. Universalizzare la storia

[…] È naturale pensare che il piccolo popolo nuovo, ignorante, grossolano che non aveva mai conosciuto le arti, abbia copiato, nei limiti delle sue capacità, la nazione più antica, fiorente e industriosa. Questo principio dobbiamo applicare sempre nel giudicare la Giudea, la Biscaglia, la Cornovaglia, Bergamo, patria di Arlecchino, ecc.: è ovvio che la trionfante Roma non abbia copiato niente dalla Biscaglia, dalla Cornovaglia o da Bergamo; e bisogna essere o emeriti ignoranti o grandi bricconi per dire che gli Ebrei siano stati i maestri dei Greci1.

Questo è quanto scriveva Voltaire alla voce, Abramo, nel suo Dizionario Filosofico. Il philosophe per eccellenza non regge alla tentazione di universalizzare, monopolizzare e naturalizzare la storia. Inciampa in quell’atteggiamento che lo porta a posizionarsi dalla parte dell’esperto, dell’interprete di un altro campo linguistico e quindi della storia dell’altro. Questa condotta non possiamo certo

1 Voltaire, Dizionario Filosofico, volume 1, voce: Abramo, dal testo a cura di Raymond Naves, Rizzoli Editore, Milano 1979, p. 51.

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dichiararla morta, essa è infatti rannicchiata nella mente dell’uomo contemporaneo, ed in particolare dell’uomo moderno occidentale. Ad ogni modo, questo passo mette bene in evidenza quella che è, ed è sempre stata, una peculiarità dell’universalismo: la battaglia per la conquista della Storia. Infatti, se è vero, com’è vero, che «tutti gli uomini generalmente tendono a concepire gli altri esseri come simili a loro stessi, ed a trasferire in ogni oggetto le qualità più familiari, più intimamente presenti alla loro coscienza»2, significa che l’uomo nel suo intimo è portato a sopprimere il peso determinante dell’altro, a incorporare le differenze traducendole nel suo linguaggio e nel suo particolare modo di essere nel mondo. Si comprende bene, che divenire il protagonista della storia significa esserne anche lo scrittore, il mecenate, e dunque automaticamente, il protettore dell’altro. Significa praticamente, sentirsi autorizzati ad andare in un altro continente e rappresentare quel luogo come si crede giusto che sia. Così come è accaduto con l’Oriente, penetrato da una leggerezza mistificatrice che lo vede «tutto appiattito», nel quale «tutto si somiglia» ma allo stesso tempo «profondamente simile all’Occidente» perché alla fine dei conti si è sempre figli della medesima famiglia umana. Le disuguaglianze non importano, esse «sono poca cosa a confronto della profonda unità dell’idealismo»3 e, questo idealismo, è ben rappresentato da un immagine che

ha una lunga tradizione: il globo. È significativo infatti, come molti imperatori e principi avessero come simbolo del loro potere un globo nella mano. Un simbolo che ha attraversato i millenni e che ha rinnovato la sua semantica fino ai nostri giorni. Il termine globus infatti è stato utilizzato in un primo tempo nel lessico militare – secondo l’Encyclopèdie di Diderot e D’Alembert – per designare l’ordine circolare nel quale si disponeva la legione romana quando era circondata dal nemico4.

All’inizio del III secolo, l’imperatore Caracalla adottò il globo come simbolo dell’impero, riprendendo quello che già Senofane di Colofone aveva proposto ai greci come il simbolo più perfetto ed eterno della divinità. Ripresa infine dai re barbari, la figura del globo fu poi adottata dai

2 D. Hume, Storia naturale della religione, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 60.

3 Questa espressione e quelle precedenti sono tratte da un testo di Roland Barthes, Continente perduto, in Miti d’oggi, cit., pp. 160-162.

4 Qui è già interessante porre una prima riflessione. Il globus era una «disposizione», «un’ordine circolare» di una parte delle forze in gioco che si disponevano in maniera “globale” per difendersi dall’altro, dal nemico.

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principi cristiani, i quali sovrapposero su di essa l’immagine della croce (il globo crucigero). Bisognerà aspettare il XV secolo per vedere il primo, seppur rudimentale, mappamondo. Questo, diventerà simbolo del sapere-potere solo all’inizio del secolo successivo5. In particolare il 1522 rappresenta una data cruciale. È l’anno in cui le navi di Magellano fanno ritorno dalla prima circumnavigazione del globo terrestre, In questo periodo, secondo lo storico e geografo del mapping Jerry Brotton, si afferma nella coscienza moderna il globalismo come spazialità6. La rappresentazione terrestre sarà d’ora in poi una questione di potere nei rapporti tra gli Stati. Lo sottolinea benissimo Sloterijk:

«Nell’epoca del suo dominio il globo terrestre non solo è stato lo strumento guida per il nuovo modo omogeneizzante di determinare la posizione; non solo diventa uno strumento irrinunciabile per la visione del mondo nelle mani di tutti coloro che, nel mondo antico e nelle sue dépendances, si sono impadroniti del potere e della conoscenza. Esso stabilisce anche il protocollo, per mezzo di costanti aggiornamenti delle carte, dell’offensiva permanente delle scoperte, delle conquiste, delle annessioni e delle attribuzioni di nomi con cui gli europei, nella loro avanzata per terra e per mare, si fanno una solida posizione nell’esterno universale»7.

Un’immagine, quella del globo, che attraverso i secoli cambia continuamente la sua interfaccia ma mantiene il medesimo potere. Infatti, ritroveremo il globo negli Stati Uniti come simbolo della modernità. Lo ritroveremo in particolare negli anni Trenta del secolo scorso, mobile, in alluminio, della misura di dodici piedi e del peso di due tonnellate issato sulla sommità del grattacielo del “New York News”, diventato uno dei punti di riferimento dell’orizzonte modernista newyorkese8.

Sempre nello stesso periodo vedremo quel globo, stavolta leggerissimo, fatto volteggiare nell’aria dalle mani del Grande dittatore (famoso film di Charlie Chaplin). E oggi quello stesso globo è diventato impercettibile, rappresentante la sfera finanziaria. Unico settore in fase di realizzazione del tanto agognato universal-capitalismo. D’altronde, come suggerisce Mattelart nell’introduzione

5 Cfr. A. Mattelart, Storia dell’utopia planetaria. Dalla città profetica alla società globale, Giulio Einaudi editore, Torino 2003, pp, 13-14.

6 Vedi J. Brotton, Terrestrial Globalism: Mapping the Globe in Early Modern Europe, in Mappings, a cura di D. Cosgrove, Reaktion Books, London 1999, 71-89.

7 P. Sloterdijk, Sfere II. Globi, Macrosferologia, cit., p. 759.

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al suo saggio sulla Storia dell’utopia planetaria, «il mercato ha buone probabilità di riuscire là dove sono falliti i grandi imperi e le religioni fondatrici: unire tutti gli esseri umani in una comunità globale». Da queste prime considerazione emerge chiaramente come «la storia non si limita a smuovere i sedimenti del passato: la storia è la rappresentazione istituzionalizzata del passato»9.

Una rappresentazione spesso e volentieri istituzionalizzata dalla categoria dell’universale. Diviene allora necessario, prima di intraprendere il nostro discorso e scendere nel merito della questione, domandarci se possa esistere una storia universale. A tal proposito potremmo tentare una risposta, o meglio, porre una riflessione, servendoci di uno dei massimi studiosi di storia e storiografia: Arnaldo Momigliano. L’idea di una storia universale infatti non è per niente nuova, e tantomeno una idea chiara. Scrive Arnaldo Momigliano:

Presa letteralmente l’idea di storia universale rasenta l’assurdità. […] Tuttavia nella tradizione dello scrivere storia, sia greca che ebraica, il bisogno di narrare l’intera storia dall’inizio alla fine è stato evidente e la storia universale è diventata uno degli elementi più problematici della nostra duplice eredità greca ed ebraica10.

Momigliano continua la sua analisi facendo riferimento in particolare a Le opere e i giorni di Esiodo e al Libro di Daniele. Due modi di fare storia secondo il succedersi di età; attraverso uno schema che può essere biologico-stadiale, “metallico” o di un crescendo storico che va verso il progresso. Dopo una serie di esempi e passaggi storici, l’autore giunge a quello che è un vero esempio «in forma piena» di storia universale: Polibio, che ebbe come proposito proprio quello di «scrivere una storia generale» (ta katholou graphein) 5,33. Chiaramente la storia continua e molte, da Polibio in poi, saranno le storie universali che si svilupperanno ma già con Diodoro Siculo, Pompeo Trogo, Nicolao di Damasco e Timagene abbiamo una prima «resistenza ad una visione della storia del mondo che era una implicita, o anche esplicita, glorificazione di Roma. [Questi autori infatti,] diedero un posto di grande rilievo alle antiche civiltà dell’oriente e della Grecia, e

9 I. Chambers, Sulla soglia del mondo. L’altrove dell’Occidente, Meltemi editore, Roma 2003, p. 53.

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sottolinearono la relativa barbarie dei Romani o la loro recente conversione ai costumi greci»11. Dall’eredità greco-romana Momigliano passa a quella ebraica giungendo a quella particolare filosofia della storia sviluppata nel secondo capitolo della prima parte del Libro di Daniele. Il celebre racconto del succedersi degli imperi che a quanto pare sembra provenire, in parte, dal mondo greco. Ora, al di là delle conclusioni storiografiche a cui giunge l’autore, quello che a noi interessa è l’uso che viene fatto di queste storie universali. Il Libro di Daniele, ad esempio, «trasforma un sommario greco sugli imperi mondiali in un programma per la preparazione dell’età messianica»12. Già in queste prime e lontane testimonianze possiamo cogliere due atteggiamenti; innanzitutto ci troviamo dinanzi ai primi esempi di universalizzazione messi in atto nella storia e quindi, dinanzi alla tendenza ad universalizzare la storia, con aggiunta di relativo monopolio, che vedrà il suo massimo splendore proprio in occidente. Come fa notare infatti Nathan Wachtel nella prefazione al suo La vision des vaincus, la storiografia occidentale ha eletto l’Europa a centro di riferimento in rapporto al quale costruire la storia dell’umanità13.

Verso lo stesso orizzonte, con strumenti differenti, sembra viaggiare un altro notevole studioso: Reinhart Koselleck. Nel suo libro, Futuro passato, l’autore mostra, attraverso le testimonianze di uomini politici, filosofi, storici, teologi, poeti e anche attraverso le stesse immagini, i dipinti, i lessici, i proverbi etc., come siano state rielaborate, in una situazione concreta, le esperienze del passato e di conseguenza, le attese, le speranze e le previsioni per il futuro. Scrive Koselleck: «il problema che costantemente si indaga è quello relativo al modo in cui, in un certo presente, le dimensioni temporali del passato e del futuro siano state rapportate l’una all’altra»14. Lo stesso

concetto moderno di storia, ci dice Koselleck in un altro saggio, come contenuto semantico e come area, sembra nascere nell’ultimo trentennio del XVIII secolo. In questo periodo si giunge infatti alla «formazione del singolare collettivo, che salda insieme in un concetto comune la somma delle

11 Id., p. 41.

12 Id., p. 47.

13 Cfr. N. Wachtel, La vision des vaincus. Les Indiens du Pérou devant la Conquête espagnole (1530 – 1570), Préface, Gallimard, Paris 1971.

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singole parti»15. D’altronde lo stesso Momigliano concludeva il suo saggio, Sulle origini della storia universale, affermando che «ciò che è notevole è il vigore e lo spirito di indipendenza con il quale gli Ebrei ribaltarono completamente idee greche»16. Dunque, «vigore», «spirito di indipendenza» e «ribaltamento delle idee». Un gioco destinato a ripetersi nei secoli visto che «l’industria della storia universale non sembra dare segni di crisi»17.

Ora, con quanto asserito poc’anzi non si vuole giungere ad una critica semplicistica e banale di questo particolare modo di fare storia; anche perché servirebbe almeno un'altra tesi di laurea per raccogliere e discutere gli argomenti. Allo stesso modo, non si vuole fare una storiografia del concetto di storia universale; non è il tema di questo lavoro e non compete a chi scrive. L’appunto storiografico fatto attraverso Momigliano e Koselleck è servito da incipit per evidenziare la natura ondulatoria e problematica di questo modo di presentare la storia come un’unità coerente. In aggiunta, queste prime osservazioni e questi primi esempi vogliono essere un rudimentale tentativo dimostrativo di come la storia e la stessa storiografia, spesso, siano frutto di trasposizioni semantiche che possono arrivare, proiettandosi in un’attesa del tempo futuro, a mutare persino il senso del passato. Per questo diviene fondamentale «disseppellire le logiche storiche e politiche di una storia globale. [E allo stesso tempo] rendere riflessiva la conoscenza dei processi transculturali e, di conseguenza, rompere con la naturalizzazione delle gerarchie geoculturali»18. Insomma, non si può pensare di imbrigliare e immobilizzare la Storia. Questa infatti, è conoscenza del cambiamento19. Come infatti si potrebbe pensare di avere una visione statica, monolitica e

universale della storia? «Sarebbe interminabile una lista di grandi eventi storici dipendenti da relazioni interculturali»20. Certamente è anche vero che lo studioso nel momento in cui si trova ad

15 Cfr. R. Koselleck, Storia. La formazione del concetto moderno, traduzione e cura di Rosanna Lista, Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna, CLUEB 2009, p. 27. Koselleck in quest’opera mostra in maniera dettagliata la trasformazione, il passaggio e l’assorbimento della Historie (come conoscenza, narrazione e scienza della storia) nella Geschichte (come evento o connessione di eventi).

16 Id., p. 49. 17 Id., p. 25.

18 V. Baldi, Appartenenze sconosciute, cit., p.34.

19 Cfr. A. Momigliano, Storicismo rivisitato, in Sui fondamenti della storia antica, Einaudi, Torino 1984.

20 «Ma è interessante citarne alcuni: l’assimilazione di costumi indú da parte dei conquistatori ariani che invasero il subcontinente indiano; l’utilizzazione, nell’antichità, dell’alfabeto cuneiforme da parte dei tutti i popoli della

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analizzare la storia scopre di essere in una sorta di stato schizofrenico in quanto è condannato a dire la storicità e la relatività di un discorso che aspira all’universalità. Ma, paradossalmente, è proprio sottoponendo alla prova della storicizzazione più radicale, distruggendo l’illusione del fondamento e mostrando l’arbitrarietà dell’origine che si può strappare dall’arbitrio e dalla relativizzazione la storia21. È in questo modo che si può sfuggire a quella tentazione manichea di dividere la storia tra «noi» e «loro», di creare un confine netto che fondamentalmente ci orienta e ci rassicura. È rendendo, per cosi dire, la storia politeista che si può eludere la pericolosità della semplificazione della storia che, se da una parte è necessaria alla mente umana per organizzare il reale, dall’altra diventa patologica nel momento in cui fa prevalere sul bisogno di conoscenza il bisogno di sicurezza. È facilmente intuibile che questo meccanismo poietico e semantico dell’uso della storia diventa un mezzo potentissimo di riproduzione del dominio che, come sottolinea Iacono, a lungo andare conduce ad una condizione di voluta minorità. Ecco allora quanto sia fondamentale non ridurre la complessità della storia a opposizioni semplici22. Se non altro, come fa notare Bourdieu, perché l’emergenza della ragione è legata alle condizioni storiche «e ogni rappresentazione fondata sull’oblio o il deliberato occultamento di queste condizioni […] tende a legittimare il più ingiustificabile dei monopoli, cioè il monopolio dell’universale»23.

II. Il dispositivo dell’universalismo: un inclusione esclusiva

Dopo aver lanciato il sassolino della filosofia nel mare continuamente agitato della storia possiamo inoltrarci nell’analisi storico-filosofica del concetto di universalismo, cercando di riprendere il nucleo centrale della nostra riflessione. Partiamo dunque dalle parole di Etienne Balibar:

Mesopotamia che si mescolavano in grandi città cosmopolite come Ur e Uruk; il meticciaggio di tratti micenei, scienze mesopotamiche, alfabeto fenicio e arte egizia che diede origine alla cultura greca classica e alla cultura occidentale».Hermanno Vianna, Il mistero del Samba. Contaminazioni e fantasmi dell’autenticità, Costa & Nolan, Genova 1998, p. 148.

21 Cfr. P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1998, p.99. 22 A. M. Iacono, Storia verità e finzione, Manifestolibri, Roma 2006, pp., 20-23.

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L’universalismo dell’ideologia dominante si radica dunque a un livello molto più profondo dell’espansione mondiale del capitale e anche della necessità di procurare a tutti i «quadri» di questa espansione regole d’azione comuni: si radica nella necessità di costruire un «mondo» ideologico comune agli sfruttatori e agli sfruttati, nonostante il loro antagonismo. […] Ciò vuol dire che ogni dominio di classe deve essere formulato nell’linguaggio dell’universale24.

Questi «quadri» di cui parla Balibar, facendo riferimento a Wallerstein, questa necessità di costruire un universo comune dal punto di vista simbolico, culturale ed economico è un’idea che trova i suoi primi e migliori antenati nel XVI secolo, in particolare a partire dal momento in cui l’umanità ha appreso l’esistenza di un quarto continente e assimilato l’idea della sfericità della terra. È questo il periodo nel quale cominciano a svilupparsi le grandi Utopie, i grandi progetti, i grandi scambi commerciali e, più tardi, le grandi visioni di «pace universale» e di «ragione universale». Ma paradossalmente, o forse, poco paradossalmente, è anche questo il periodo dello sterminio di intere popolazioni sotto il timbro di «guerra giusta», di conversioni forzate, di bolle papali che riconoscono lo statuto di esseri umani ad altri esseri umani25, di jus communicationis e jus

commercii che rappresenteranno il giustificativo per eccellenza di depauperazione dell’altro. Insomma, c’è una sorta di strana coabitazione degli opposti nell’universalismo; una contraddizione di fondo sembra essere il suo tratto caratteristico. Ad esempio, riguardo la conquista del Nuovo Mondo è interessante notare come nell’atteggiamento universalista spagnolo del XVI secolo ci sia stata una vera e propria meditazione, un vero e proprio quadro di leggi regolavano i rapporti con i dominati. Furono organizzati pubblici dibattiti per decidere l’atteggiamento da adottare nei confronti delle popolazioni amerinde. Il tutto abbinato ad una brutalità spaventosa che portò all’eliminazione corporale dei nativi. Ma la vera contraddittorietà, se non assurdità, risiede nel fatto che tutto ciò ebbe come cornice proprio gli ideali dell’umanesimo26. Gli intellettuali del rinascimento pensavano che più progrediva la scienza più regrediva la barbarie; evidentemente non

24 E. Balibar – E. Wallerstein, Razza nazione classe. Le identità ambigue, Edizioni Associate Editrice Internazionale, seconda edizione, Roma 1996, Prefazione di Eienne Balibar.

25 Mi riferisco alla Bolla Veritas Ipsa del 1537 di Paolo III che ebbe un ruolo fondamentale nello stabilire il rapporto

con le popolazioni amerinde. Nella suddetta Bolla Paolo III si prefiggeva di scomunicare “prefatos Indos quomodolibet in servitutem redigere aut eos bonis suis spoliare. Nel testo era anche contenuta la seguente espressione, destinata a rimanere scolpita nei secoli: «Indos veros homines esse».

26 Cfr., M. Lewis Hanke e Augustin Millares Carlos, Cuerpo de documentos del siglo XVI sobre los derechos de Espana en las Indias y las Filipinas, Fondo de Cultura Económica, Ciudad de Mexico 1943.

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è stato cosi e non lo è tutt’ora. La Storia lo ha smentito più volte e continua a farlo. Anzi, è paradossale che proprio il periodo che vide il fiorire dell’arte, l’esplosione della scienza e la centralità dell’uomo nella creazione, diventasse anche il periodo dello «scatenamento dell’inumano». Ora, se fare filosofia significa anche fermarsi a riflettere, allora sorge obbligata un’osservazione: non stiamo vivendo oggi, da un punto di vista antropologico, un periodo simile? O meglio, oggi il mondo si è ristretto, la scienza ha compiuto passi da gigante ed è divenuta un oracolo incontestabile, la questione della razza puzza di stantio, i problemi climatici ci mostrano quanto piccola sia questa terra, la potenza delle immagini ci offre una visione complessiva del mondo. Tutto è divenuto più vicino, tutto è collegato, tutto è diventato più veloce. Eppure sembra essere in atto un grande cortocircuito. Paradossalmente la grande famiglia umana, nonostante abiti in un’unica casa, è diventata estranea a se stessa, i membri che la compongono non si riconoscono più. Forse in tutta questa velocità qualcosa è andato perduto. Per dirla con Paul Virilio: «quando si attraversa l’Atlantico in tre ore si inquina la natura dell’atlantico. Non dico che è male. Dico che si perde qualcosa». E la tragedia è che «non si può distinguere tra l’inquinamento delle sostanze e l’inquinamento delle distanze»27. Ciò significa, volente o nolente, che l’universalità ha un prezzo. E

il prezzo è proprio la perdita della sostanzialità del reale; la smaterializzazione della materia, la virtualità dei rapporti, l’inconsistenza dell’essere parlante che si è perso nel chiacchiericcio generale ed è divenuto sempre più parlato dalle grandi voci universali che, o urlano e coprono la moltitudine delle voci, o ne interpretano pacatamente la volontà. Ed è proprio nella copertura di queste voci e nella ermeneutica messa in atto dai colossi del mercato che inizia la repressione, il livellamento; quando l’umanità invece di essere dia-logica, o meglio, plurivoca, diviene mono-logica. Siamo nell’epoca del monoteismo che non ha nulla a che fare con Dio. Ma certamente ha a che fare col mercato. Oggi, «la parola d’ordine che regola la nuova logica dell’impresa è “integrazione” […] il locale, il nazionale, l’internazionale non sono più settori compartimentati, ma

27 P. Virilio, Lessico Virilio. L’accelerazione della conoscenza, a cura di S. Cacciari e U. Fadini, Felici editore, Ghezzano 2012 pp. 119-120.

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segmenti interattivi»28. C’è un gioco perverso tra micro e macro. Segmentazione e globalizzazione sono due facce della stessa medaglia. Si frammenta per globalizzare, per mappare, per tracciare quella che sarà una cartografia socio-economico-culturale. E ciò che c’è di più beffardo e che oggi possiamo tranquillamente affermare che il mercato è relazionale. È il mercato che si è assurto a creatore della storia, a curatore dei rapporti, e si occupa soprattutto di stabilire il contenuto dei concetti, di ogni tipo, ma in particolare di quelli giuridico-politici. Uno dei drammi contemporanei infatti è proprio questo. Dalla metà degli anni Ottanta si assiste ad una vera e propria «deregolazione degli universi concettuali». Stiamo assistendo ad una vera e propria «a-topia sociale» delle parole29 è in atto una «corsa agli Universali della comunicazione per determinare una

forma mercificata del concetto»30. Illuminante a tal proposito è il saggio scritto nel 1991 da Gilles Deleuze e Felix Guattari nel quale i due autori, tra le altre cose, mostrano come l’orizzonte del concetto sia stato preso d’assalto da una serie di «rivali» e, dopo aver stilato una lista, i due filosofi affermano che «il fondo della vergogna fu raggiunto quando l’informatica, il marketing, il design, la pubblicità, tutte le discipline della comunicazione si impadronirono della parola stessa “concetto” e dissero: è affar nostro, siamo noi i creativi, noi siamo i “concettualizzatori”! […] Ecco che il concetto è diventato l’insieme delle presentazioni di un prodotto e l’evento, a sua volta, l’esposizione che mette in scena le diverse presentazioni […] È certamente doloroso apprendere che “Concetto” designa una società di servizi e di ingegneria informatica»31. La filosofia dunque deve

riappropriarsi della sua peculiarità che consiste proprio nella creazione di concetti e lo deve fare nel problema stesso, nel suo divenire, nel suo movimento, affinché il pensiero possa sfuggire al macchinismo delle società di controllo che si servono proprio di concetti squisitamente filosofici e pedagogici per farsi scudo. Dunque dinanzi a questo potere «complesso, volatile e interattivo»32 la ricomparsa di concetti come razza, nazione, classe altro non sono che frutto di questa

28 Cfr. A. Mattelart, Storia dell’utopia planetaria. Dalla città profetica alla società globale, cit., p. 390. 29 Id. p. 387.

30 G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la filosofia, cit., pp. XVI-XVII. 31 Id. p. XVI-XVII.

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decontestualizzazione dell’essere che si ritrova “gettato” in un contesto generalizzato nel quale i rapporti sembrano essere sempre più smagnetizzati. Siamo dinanzi al prodotto finale del disgregamento progressivo della solidarietà storica, economica e sociale che s’incarnava in associazionismo spontaneo o nella famiglia e in istituzioni simili.

L’essere umano inevitabilmente inventa e reinventa il quotidiano mettendo in atto pratiche metonimiche. L’altro, per usare un linguaggio sociologico, è corpo socializzato ma è anche storia fatta corpo e «l’idea di una comunità di razza fa la sua comparsa quando le frontiere della parentela si dissolvono a livello dei clan, di comunità di vicinato e, per lo meno teoricamente, di classe sociale, per essere riportate immaginariamente alla soglia di nazionalità: quando nulla impedisce l’alleanza con un qualsiasi “concittadino” e, anzi, quando questa alleanza appare al contrario la sola “normale”, “naturale”»33. In sostanza, ciò che le teorie e le pratiche universaliste annullano o

dissimulano è il fatto che si possa prescindere dal proprio Universum, e di conseguenza che ogni individuo è caratterizzato dalla propria storia, dalla classe a cui appartiene, dalla comunità particolare nella quale vive, della società nella quale prende parte come individuo. Avere il senso della storia è avere il senso del limite. Vale a dire comprendere che la nostra stessa mente ragiona delimitando, tracciando confini, definendo ciò che ci circonda. Kant ha mostrato più volte che conoscere è giudicare. Giudicare è delimitare come suggerisce l’etimologia della parola tedesca Ur-teil cioè tagliare. Dunque non bisogna lasciarsi trarre in inganno dalla facile logica del “tutto è uguale e tutti uguali”, o da slogan che decantano superficialmente la grande fratellanza universale. È necessario, oggi in particolare, imparare a distinguere e distinguendo comprendere che «noi non viviamo in un Universum bensì in un Multiversum; che questo Multiversum non è affatto il calmo regno del pluralismo e della tolleranza, bensì il combinarsi, ma anche lo scontrarsi, di noccioli duri del pensiero e dell’azione, della conoscenza e della manipolazione. Il Multiversum, come ha osservato Ernst Bloch, riguarda la pluralità dei tempi storici, la loro non simultaneità; riguarda il rifiuto della “Temporale-feticista idea di progresso”. È il luogo, o meglio sono i luoghi in cui i

33 E. Balibar – E. Wallerstein, Razza nazione classe. Le identità ambigue, Edizioni Associate Editrice Internazionale, seconda edizione, Roma 1996, p. 133.

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soggetti costruiscono i loro mondi e cercano di comunicarli. E dove ogni comunicazione non si esaurisce nell’atto, ma viene interpretata, cioè entra a far parte del mondo di un altro alle condizioni che la dogana di questo mondo impone. […] Ma il soggetto non può rappresentarsi un Multiversum, se non come un Universum. […] Un Multiversum è pensabile, ma non rappresentabile. Noi siamo capaci di rappresentare solo per Universa, e solo dentro il nostro Universum vediamo e neghiamo l’Universum dell’altro. E così per l’altro»34. Quello che manca è una presa di coscienza di far parte

di un habitat ben preciso con le sue peculiarità e i suoi limiti. C’è una pretesa inglobante che sta erodendo il singolare. Ciascuno è nessuno, e questo ciascuno ha bisogno di reinventarsi ma, venendo meno quei luoghi personali di incarnazione l’individuo è portato a ritrarsi in associazioni di idee fumose che in qualche modo lo reincarnano nel reale. È qui il nodo gordiano: la riduzione del soggetto a «nuda vita»35 privato della sua identità sociopolitica. Siamo dinanzi a una frattura impercettibile tra quello che è l’oikos – sostanzialmente la vita domestica, dove si amministrano e si governano le faccende economiche e biologiche della vita – e la polis, il luogo della vita politica dove l’uomo s’incontra e si scontra con l’altro, mettendo in gioco la sua persona. È questo dunque ciò che rende aristotelicamente parlando, “umana” una vita: il linguaggio, la storia, la tradizione, la politica, la socialità etc. Lo stesso Finley, nel suo La democrazia degli antichi e dei moderni sottolinea come il «senso comunitario, rafforzato dalla religione di stato, dai miti e dalle tradizioni, fu l’elemento essenziale del successo prammatico della democrazia ateniese»36. In una sola parola, fu la koinoìa37 la chiave vincente. Se dunque si riduce l’uomo al minimo, alla sua “semplice”

esistenza biologica cosa resta? Un essere nudo, che tuttavia sarà rivestito di diritti universali. E ciò

34 A. Iacono, L’evento e l’osservatore. Ricerche sulla storicità della conoscenza, Pierluigi Lubrina Editore, Bergamo 1987, pp. 31-32.

35 W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, Saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, Giulio Einaudi Editore, Torino 2014, p.29. Benjamin usa questa espressione enigmatica che sarà ripresa e sviluppata da G. Agamben nel suo Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995.

36 M. Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni, Mondadori, Milano 1992, p 29. In questo saggio Finley conduce il lettore nella quotidianità della politica ateniese facendo un continuo confronto con quella che è la realtà contemporanea. A partire da ciò Finley conduce una critica serrata alle politiche “democratiche” contemporanee, o meglio, all’interpretazione che le classi politiche hanno dato della democrazia. Finley mette in mostra la concezione elitista che è andata formandosi nel mondo moderno e allo stesso tempo l’apatia del demos nei confronti della politica stessa che diviene funzionale al mantenimento delle élites.

37 Dal verbo greco κοινωνέω (koinonè, aver parte, partecipare). Questa parola indica un intimo legame, la relazione fraterna fra gli uomini. In chiave giuridico-sociologica sottolinea la partecipazione e la corresponsabilità in un’azione.

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che risulterà ancora più paradossale sarà il fatto che l’uomo venga “privato” dei diritti umani proprio nel momento in cui è ridotto a un essere umano “in generale”. Ecco compiuto il grande scarto. Questi diritti saranno solo dei panni da offrire ai deboli, ai poveri, spogliati della loro identità sociopolitica e, per di più, saranno proprio quei diritti “donati” ad autorizzare un intervento nelle varie parti del mondo. Carl Schmitt già nel 1932 aveva sottolineato come ogni espansione di potere ha bisogno di un principio di legittimità, di una determinata giustificazione, «di tutto un inventario di concetti e formule giuridiche, di modi di dire, di frasi ad effetto»38 oltre che all’aspetto ideologico e spirituale che ogni attività dell’uomo reca in se. Per secoli ci si è nascosti dietro i diritti, dietro quello ius gentium che ha permesso la razzia di intere popolazioni. La “semplice” conquista non poteva più funzionare, diventava troppo eclatante e problematica e allora il dominio si è insinuato negli accordi formulati giuridicamente; attraverso forme di protezione, di non intervento, di non intromissione, e così via. Riferendosi alla Società Ginevrina delle Nazioni Carl Schmitt scrive: «Per essa il fatto è giuridicamente sempre nel migliore ordine e lo resterà sempre. Sono poi possibili crudeli rappresaglie, cannoneggiamenti che uccidono uomini, persino lotte e battaglie sanguinose: tutto questo non è guerra in senso giuridico, e la pace, che l’umanità straziata aspetta con nostalgia, le è concessa da lungo tempo; essa non se ne è accorta, mancando di acume giuridico»39. Insomma è sempre un componente del gioco che definisce, interpreta e applica. Così come in passato anche oggi si tratta di proteggere la vita dell’altro, la libertà e, cosa più straordinaria: di riconoscerlo. E se anticamente si divideva il mondo in base alla distinzione fra popoli cristiani e non cristiani, in un secondo momento tra civilizzati, non civilizzati e semicivilizzati, oggi si è giunti finalmente ad una divisione più democratica: lo si divide fra creditori e debitori. E certamente questa divisione è più pacifica ma corrompe l’uomo non meno della guerra40. A maggior ragione quando si tenta di instaurare un’antitesi «economico contro politico» cercando di far passare l’economico come non politico come un “pacifico” scambio

38 C. Schmitt, Forme dell’imperialismo moderno, in Posizioni e concetti, in lotta con Weimar-Ginevra-Versailles, 1923-1939, a cura di Antonio Caracciolo, Giuffrè Editore, Milano 2007, p. 267.

39 Id. p. 289. 40 Ibidem.

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dovuto. Un chiaro esempio di questo meccanismo lo abbiamo nel Forum mondiale dell’economia (WEF) nel quale, i promotori, non si stancarono di ripetere che la loro iniziativa non persegue scopi “di lucro” ed è “apolitica”41. Gli slogan delle multinazionali parlano chiaro: «For the Benefit of

Mankind» o «Itt at the Service of Men and Nations». Si cerca dunque di estraniarsi quanto più possibile dal contesto politico che, ancora per poco, richiama ad una posizione da adottare e si cerca di assumere quanto più possibile concetti generali che restano aperti. Quello che bisogna dunque fare è passare dagli idealismi agli ideali concreti. Smascherare le logiche di dominio e di livellamento che si nascondono dietro l’elasticità di concetti universali e dietro il diritto internazionale. Non intervenire su territori altri in nome di qualche idealismo ma mettere in moto un atteggiamento che cerchi di tirare fuori da quel determinato ambiente, da quella storia particolare, i diritti, e una volta fatto lasciarli crescere nell’ambiente dal quale sono scaturiti. Insomma comportarsi un po’ come lo sciamano di Lévi-Strauss che «fornisce alla sua ammalata un linguaggio nel quale possono esprimersi immediatamente certi stati non formulati, e altrimenti non formulabili»42, in definitiva, provocare lo sbloccamento di un processo che è fisiologico. Tuttavia,

credo sia inutile continuare a mostrare l’etnocentrismo dei diritti umani, penso invece che sia interessante capirne «l’efficacia simbolica»43, cioè l’efficacia reale della funzione simbolica che si esercita negli uomini. Dunque, invece di denunciare la ormai convenzionale natura occidentale dei diritti è molto più interessante mostrare il modo «attraverso il quale qualcosa che originariamente apparteneva all’edificio ideologico imposto dai colonizzatori improvvisamente viene fatto proprio dai suoi schiavi come mezzo per articolare le loro rivendicazioni “autentiche”»44. Per dirla in maniera ancora più precisa, come ha finemente osservato Michel de Certeau ne L’invenzione del quotidiano, mostrare come «a una produzione razionalizzata, espansionista e al tempo stesso centralizzata, chiassosa e spettacolare, ne corrisponde un’altra, definita “consumo”: un’attività astuta, dispersa, che però s’insinua ovunque, silenziosa e quasi invisibile, poiché non si segnala con

41 A. Mattelart, Storia dell’utopia planetaria. Dalla città profetica alla società globale, cit., p. 392.

42 Vedi C. Lévi-Strauss, L’efficacia simbolica, in Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 2009, pp. 210-229. 43 Id. p.222.

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prodotti propri, ma attraverso i modi di usare quelli imposti da un ordine economico dominante»45. Diviene importante e, allo stesso tempo interessante, notare la potenza poietica che si dissemina negli spazi che vengono definiti dalla produzione. La produzione è fabbricata negli interstizi della fabbricazione messa in atto dai dominanti. «Il quotidiano si inventa attraverso mille forme di bracconaggio» afferma de Certeau. L’altro non è mai un elemento passivo e totalmente disciplinabile ma è parte di un rapporto plurale spesso incoerente.

Molto tempo fa si è studiato, ad esempio, quale equivoco minasse dall’interno “il successo” dei colonizzatori spagnoli fra le etnie indiane: sottomessi e persino consenzienti, spesso questi indios trasformavano le azioni rituali, le rappresentazioni o le leggi loro imposte in qualcosa di diverso da ciò che i conquistatori credevano di ottenere attraverso di esse; le sovvertivano non già respingendole o cambiandole, bensì usandole a loro modo per fini e in funzione di riferimenti estranei al sistema al quale non potevano sottrarsi. Erano insomma altri, sia pure all’interno della colonizzazione che li “assimilava” esteriormente; il loro uso dell’ordine dominante riusciva a farsi gioco del suo potere, in mancanza di mezzi per respingerlo; gli sfuggivano senza sottrarvisi. La forza della loro differenza derivava dai modi di consumo46.

È questo l’aspetto fondamentale su cui bisogna concentrarsi oggi. Una questione troppo trascurata ma soprattutto molto sottovalutata e che non smette di produrre i suoi frutti che possono essere, a seconda delle situazioni, pericolosi o meno. Certo, questo scarto tra produttore e consumatore può essere visto come uno spiraglio di luce per sfuggire alle pratiche omogeneizzanti di domino ma se non sufficientemente indagato e compreso può sfuggire di mano e portare a creazioni di sistemi fondamentalisti. I tipici esempi, infatti, possono essere i fondamentalismi contemporanei o l’islamismo moderno. Tutti movimenti che sono spesso partiti da un’assimilazione e dunque da una rielaborazione e una riscrittura di idee e concetti portati dal colonizzatore di turno. Il marxismo, ad esempio, resta una delle ideologie più riscritte, in modo particolare in medio oriente. Un esempio fra tutti di reiscrizione fu il «martirio di Kerbala»47, che un tempo poteva essere praticato solo da uomini superiori come gli imam, ma venne, nel 1979, a ridosso della rivoluzione iraniana “democratizzato” attraverso il pensiero del filosofo e sociologo Ali Shariati. È interessante notare

45 M. de Curteau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2001, p.7 46 Ibidem.

47 Riferito al martirio di Hussein, secondogenito di Ali, che si era immolato a Kerbala nel 680 d.C. per non cadere in mano agli Ommiadi.

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come quest’ultimo, influenzato da intellettuali del calibro di Sartre e Fanon, seppe mettere insieme religione e marxismo tanto da far diventare la religione uno strumento di lotta di classe. Per di più, dopo la sua morte, le sue idee vennero nuovamente riutilizzare e reiscritte. C’è ne sono molti altri di esempi simili. Alcuni partiti fondamentalisti islamici, ad esempio, sono stati creati da uomini che dopo aver studiato o vissuto in occidente per brevi periodi hanno deciso, una volta tornati nei loro paesi d’origine, di dare vita a questi movimenti. Lo stesso attuale medio oriente si può definire una pericolosa miscela di paradigmi di stampo occidentale prontamente riscritti e reinterpretati. Insomma questo bracconaggio di significati e significanti merita molta attenzione perché può essere – e la storia lo sta dimostrando – una amalgama molto pericolosa.

Questo breve inciso sulla distanza, sul concetto e sui diritti è servito a mostrare come «molte professioni di fede universalistiche o molte prescrizioni universali sono il semplice prodotto

dell’universalizzazione del caso particolare»48. E, cosa fondamentale, come «questa

universalizzazione puramente teorica conduce a un universalismo fittizio quando non sia accompagnata da alcun riferimento alle condizioni economiche e sociali rimosse dell’accesso all’universale. […] Concedere a tutti, ma in modo puramente formale, la prerogativa dell’”umanità” significa escludere da essa, in nome dell’umanesimo, tutti coloro cui sono stati negati i mezzi di realizzarla»49. Ed è proprio di questo “umanesimo” che ora voglio parlare.

III. La grande famiglia degli uomini*

«Nel giugno1995, il presidente della Repubblica Ceca – Václav Havel – rivolse ai laureandi dell’università di Harvard un discorso che aveva per oggetto il diffondersi della nuova civiltà globale nel mondo. Questa civiltà – egli disse – è:

48 P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, cit., p. 71.

* Il titolo di questo paragrafo riprende quello di un saggio di Roland Barthes, La grande famiglia degli uomini, in Miti d’oggi, cit., pp. 172-174.

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straordinariamente recente, inedita e fragile. […] In sostanza, questa nuova epidermide unica di civiltà mondiale non fa che coprire o celare l’immensa varietà delle culture, dei popoli, dei mondi religiosi, delle tradizioni storiche e degli atteggiamenti storicamente formatisi, i quali in un certo senso vengono a trovarsi tutti «al di sotto» di essa50.

Una civiltà globale, osservò, sarebbe indegna del proprio nome, se non potesse rendere giustizia “all’unicità di differenti sfere di cultura e civiltà”. La nuova civiltà globale doveva intendersi “come una civiltà multiculturale e multipolare”»51. Queste parole ci riportano direttamente a quello che un

grande studioso francese sottolineava in un suo scritto. Stiamo parlando di Roland Barthes che nel 1957 scrive un breve, ma illuminante saggio su, La Grande Famiglia degli Uomini. Nella sua analisi lo studioso francese partendo da una mostra fotografica, allestita per mostrare l’universalità delle esperienze umane fondamentali, giunge a presentare il meccanismo con il quale viene creato il mito della Grande Famiglia degli Uomini. «Eccoci – scrive l’autore – subito rinviati a quel mito ambiguo della “comunità” umana, il cui alibi alimenta tutta una parte del nostro umanesimo»52.

Questo mito ha due fasi: in un primo tempo si evidenziano le differenze tra gli uomini, si mostrano le discrepanze morfologiche, le diversità delle attività umane, l’esotismo dell’altro e via dicendo. Con un’espressione di Barthes, «si babelizza a piacere l’immagine del mondo». Poi, in un secondo momento, quasi come per magia, da questo pluralismo si estrae l’unità. E tutte le differenze sono convogliate nel fondo di natura umana comune a tutti gli uomini. Si costituisce così “l’essenza umana” che andrà a caratterizzare il nostro rassicurante umanesimo sentimentale che ci tratterrà alla superfice impedendoci di «penetrare in quella zona ulteriore di comportamenti umani dove l’alienazione storica introduce quelle differenze che qui chiameremo semplicemente “ingiustizie”»53.

Ogni umanesimo classico postula che raschiando un po’ la storia degli uomini, la relatività delle loro istituzioni, o la diversità superficiale della loro pelle (ma perché non domandare ai genitori di Emmet Till, il giovane negro assassinato dai bianchi, che cosa pensano, loro, della Grande

50 V. Havel, A Conscience Slumbers in Us All, discorso pronunciato in occasione della cerimonia del conferimento delle lauree presso la Harvard University, 8 giugno 1995, Ctk National News Wire. Ora in Seyla Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale, il Mulino, Bologna 2005, p. 7.

51 Ibidem.

52 R. Barthes, La grande famiglia degli uomini, in Miti d’oggi, cit., p. 172. 53 Id. 173.

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Famiglia degli Uomini), si arriva molto presto al tufo profondo di una natura umana universale54.

Quel «loro» è la parola chiave di tutto il periodo, Barthes la ferma tra due virgole. Il punto infatti è proprio questo: domandare a loro. E quel «loro» sta per tutti gli «Altri» che sono stati interpretati dal tipico atteggiamento universalistico della conversazione ermeneutica tipicamente occidentale. È chiaro, nessuno ha intenzione di metterlo in dubbio, i fatti universali come la nascita, la morte, il lavoro etc., esistono, «ma se si toglie loro la storia non c’è più niente da dire, un commento diventa puramente tautologico»55. Affinché un fatto parli questo deve essere inserito in un contesto, in un discorso. O, meglio ancora, bisogna grattare la natura perché è lì che soggiace il mito della «condizione» umana che custodisce in sé l’antica mistificazione del «collocare la natura al fondo della storia»56 Tutto ciò deve far riflettere sul mito della grande famiglia degli uomini o sull’ambivalenza dell’umanesimo che – nelle parole di Sartre – «non era che un’ideologia bugiarda, la squisita giustificazione del saccheggio»57, il contraltare del razzismo. Sono dinamiche che

paradossalmente si servono dell’inclusione per escludere. Proprio come accadde in Algeria durante l’occupazione francese dove l’intenzione latente, profondamente contraddittoria, della politica coloniale era: «disintegrare o integrare, disintegrare per integrare, o integrare per disintegrare»58.

Un meccanismo perverso che portò un livellamento corporale e spaziale tremendo. «Tutto è uguale ai loro occhi»59 affermava un contadino magrebino riferendosi ai colonizzatori francesi che avevano allineato ogni cosa. E spesso questo livellamento storico, corporale e territoriale si è celato e si cela proprio dietro la bandiera dell’integrazione e dell’azione umanitaria. Pierre Bourdieu lo dice benissimo nel suo Déracinement, scritto assieme ad Abdelmalek Sayad.

L’action “humanitaire” restait objectivement une arme de guerre, orientée vers le contrôle des populations. Ce n’est pas un hasard si le colonialisme a trouvé son ultime refuge idéologique

54 Ibidem. 55 Ibidem. 56 Ibidem.

57 Franz Fanon, I dannati della terra, Giulio Einaudi editore, Torino 1962, Prefazione di J.P. Sartre, p. 19.

58 P. Bourdieu – Abdelmalek Sayad, Le déracinement. La crise de l’agricolture traditionnelle en Algerie, Les Edition des Minuit, Paris 1964, p. 23.

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dans le propos intégrationniste: en effet, le conservatisme ségrégationniste et l’assimilationnisme ne s’opposent qu’en apparence. Dans un cas, on invoque les différences de fait pour nier l’identité de droit, dans l’autre cas, on nie les différences de fait au nom de l’identité en droit. Ou bien on accorde la dignité de l’homme, mais seulement au Français virtuel; ou bien on s’arrange pour la refuser, en invoquant l’originalité de la civilisation maghrébine, mais originalité toute négative, par défaut60.

Questa “azione umanitaria”, ha imprigionato l’altro nell’«imponente universalità della civilizzazione occidentale» e costui è caduto in mano ad altri uomini che non potevano concepire generosità più grande che accordargli il diritto di essere quello che deve essere61.

Questo non fa che confermare che «i requisiti di universalità o generalità si sono formati nel corso delle forme di vita umana in funzione dell’estensione illimitata in cui si voleva far valere una decisione»62, sempre già presa rispetto all’altro. Ecco l’importanza, quando si investiga una realtà, di non dimenticare la necessità di investigarne tanto la struttura in cui è disposta quanto gli schemi che usiamo per disporla. Un modo fondamentale per uscire fuori da questo «adamismo» è certamente quello di far passare l’altro dal luogo universale e astratto al luogo incarnato e definito. Così si può veramente percepire l’altro nel suo essere storia che cammina. Allo stesso tempo, insieme alla condotta etica, è l’atteggiamento epistemologico di base che deve mutare, infatti, dietro le proposizioni e le costruzioni poc’anzi descritte si cela una strategia teorica, tipica del pensiero occidentale, che mira a preservare dal pericolo dei paradossi di cui la realtà è portatrice. Aldo Gargani ha mostrato molto bene nel suo saggio, Il sapere senza fondamenti, come le strategie epistemologiche fondazionaliste siano sterili:

il “fondamento”, “l’essenza”, i “principi basici” non soddisfano funzioni cognitive, ma assolvono a differenti scopi che concernono le istituzioni sociali e culturali che disciplinano la nostra vita. Anziché istanze conoscitive, quei costrutti concettuali hanno rappresentato e tuttora rappresentano rituali epistemologici destinati a preservare l’assetto di irrevocabilità che è stato accordato ai valori di un certo tipo, e a limitare l’uso spregiudicato della comunicazione. In questo senso, “oggettuale”, “empirico”, “universale”, “particolare”, “essenziale” e simili non esprimono statuti reali inesorabili, ma riflettono i modelli decisionali ai quali gli uomini si sono storicamente consegnati nelle forme della loro vita63.

60 Id. p. 25.

61 Ibidem.

62 A. Gargani, Il sapere senza fondamenti. La condotta intellettuale come strutturazione dell’esperienza comune, cit., p.89.

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Ora, è evidente che non si vuole fare un elogio dell’irrazionale e del disordine e tanto meno negare la realtà, ma “semplicemente” constatare come, il tipo di schema concettuale fondazionalista-universale non regga alla prova dell’analisi logico-linguistica64. Come mostra lo stesso Gargani,

oltre a smascherare quelle funzioni storicamente formatesi di disciplinamento e di controllo della vita umana, diviene necessario mettere in discussione il modello oggettuale. Vale a dire quel modello grammaticale, «circondato da un alone feticistico», rispondente allo schema «oggetto-designazione» che va a produrre «apparenti tecniche di convalidazione e di legittimazione degli enunciati che consistono in un cerimoniale primitivo e superstizioso, in un’apparenza di un procedimento di conferma»65.

Le condizioni di significanza di un sistema o di un apparato categoriale non devono diventare funzioni di un dominio indipendente. È necessario riprendere in mano l’uso che viene fatto dei significati.

Tale discorso, traslato nel rapporto con l’altro, mostra come quest’ultimo venga “costruito” in anticipo attraverso la definizione di una teoria e la creazione di una grammatica, che andrà ad accordare l’accesso ad un particolare significato. Ecco allora che si “accede” all’altro previa acquisizione del sistema di riferimento oggettuale e delle norme precedentemente stabilite. Dunque, nel momento in cui ci si rapporta al mondo della vita è necessario porre particolare attenzione all’uso degli «apparati categoriali», degli «abiti concettuali», dei «moduli grammaticali» e dei «parametri di misurazione» differenti. È necessario tracciare «dall’interno» del nostro linguaggio i limiti.

Ora, volendo trarre una breve conclusione possiamo certamente asserire che se la poesia del singolo è andata sempre più scomparendo nella prosa dell’universale non si può di sicuro negare che esiste un discorso comune che ingloba i singoli discorsi. Certamente le esperienze umane non si riducono e non possono ridursi a semplice prosa universale. Bisogna «cozzare» incessantemente contro i

64 A. Gargani, Il sapere senza fondamenti. Prefazione. 65 Id. p. 47.

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limiti del linguaggio che sono anche i limiti teorici, contestuali e storici. Una logopedia dell’essere parlante funzionale a prevenire i discorsi distopici dovuti all’errato posizionamento del pensiero nel mondo della vita, potrà essere avviato solo divenendo coscienti che «il cambiamento del luogo modifica lo statuto del discorso»66; solo imparando a guardare dentro l’operato del nostro

linguaggio e dunque alla materia stessa di cui siamo fattura si potrà avviare un cambiamento. Tutto questo nella convinzione che il linguaggio non è semplicemente una realtà esterna con un carattere constatativo ma presenta un forte potere performativo. Bisogna uscire dall’idea di netta contrapposizione tra “dire” e “fare”. Il dire è anche un fare, o meglio, un creare. Insomma non dobbiamo dimenticare, parafrasando il titolo di un’opera di Gargani, che la condotta intellettuale struttura l’esperienza comune.

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